Linguistica generale appunti
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Linguistica generale appunti
LINGUISTICA GENERALE Appunti elaborati dagli studenti del corso della Prof. Vallini Cristina
19 ottobre 2010
Cos’è la Linguistica?
Inquadramento della disciplina
La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio e delle lingue. La linguistica è una disciplina descrittiva che deve spiegare, usando leggi generali, ciò che avviene quando si parla.
Obiettivi della linguistica
La linguistica non ha un compito unico, ne ha, anzi, diversi.
Si può dire che la linguistica mira a:
- specificare la natura del linguaggio ed in particolare a scoprire quali potenzialità esso conferisce all'uomo e che limitazioni gli impone;
- identificare in forma astratta le regole che i parlanti di una lingua applicano nel produrre e nel ricevere un messaggio linguistico;
- spiegare i cambiamenti che si attuano nel tempo nell'organizzazione e nella struttura delle lingue.
La linguistica è diventata una disciplina universitaria, cioè insegnata nelle università, agli inizi dell’Ottocento ed è stato un grande studioso tedesco, WILHELM VON HUMBOLDT, interessato, come anche il fratello Alexander, a tutto ciò che era lontano, esotico, diverso. Humboldt era un personaggio molto importante in Germania, tanto che partecipò al Congresso di Vienna come rappresentante del Re di Prussia. Tra le altre sue attività, quali essere un diplomatico e filosofo, egli fu un linguista e il fondatore dell’Università di Berlino, capitale della Prussia, dove viveva, e altresì fondatore della linguistica come disciplina universitaria, fino ad allora inesistente. Fonda, quindi, le basi della linguistica. Da allora la linguistica è stata insegnata e studiata nelle facoltà umanistiche in quanto scienza dell’uomo; tuttavia in anni più recenti l’attenzione si è spostata anche agli aspetti più materiali del corpo umano (mente/cervello). Tende ad essere superata, oggi, la distinzione ottocentesca fra due tipi di scienze ovvero:
SCIENZE DELLA NATURA
SCIENZE DELLO SPIRITO
Nell’Ottocento la linguistica è stata studiata soprattutto Germania, nei diversi stati in cui era allora divisa, complessivamente tutti all’avanguardia; ricordiamo difatti alcuni dei grandi “Lumi” tedeschi dell’ Ottocento quali il filosofo Hegel definito come “il principe dei filosofi ottocenteschi”.
Oggi le scienze linguistiche nell’ordinamento universitario italiano, appartengono ad uno dei settori scientifico disciplinari, che sono organizzazioni di discipline raggruppate per indicare un ambito di studi unitario. Le scienze del linguaggio appartengono al settore L-LIN/01 di cui la linguistica generale fa parte, precisamente nel settore GLOTTOLOGIA e LINGUISTICA; di questi fa parte la DECLARATORIA che qui si riporta:
declaratoria
Comprende gli studi teorici sul linguaggio, la storia del pensiero linguistico (che cosa hanno pensato i linguisti) e gli studi di linguistica storica (studio delle lingue che cambiano nella storia), con riferimento ai problemi del mutamento e alle metodologie della comparazione e della ricostruzione (comparare le lingue tra di loro e quando si trovano delle somiglianze si può procedere alla ricostruzione di una lingua più antica che è la madre delle lingue in questione); comprende inoltre lo studio della variazione linguistica, del plurilinguismo (più lingue parlate in una stessa zona e dagli stessi individui) e del contatto linguistico (come lingue vicine si influenzano l’un l’altra), delle tematiche sociolinguistiche ed etnolinguistiche. Include, nell'ambito delle metodologie applicative del linguaggio, lo studio degli aspetti fono-acustici (suoni), morfosintattici (grammatica) e lessicografici (parole) anche con applicazioni descrittive a lingue e dialetti, nonché la psicolinguistica, lo studio delle patologie linguistiche, delle interazioni tra linguistica e informatica e delle problematiche dell'educazione alla linguistica. Comprende altresì lo studio delle lingue di ambito baltico e della relativa filologia.
La Linguistica Generale comprende tutti questi oggetti di studio: nel corso si studieranno i FONDAMENTI DI LINGUISTICA
26 ottobre 2010
Etimologia
L’etimologia è la ricerca di una forma più antica che possa spiegare il significato della forma moderna.
L’etimologia è un’attività universalmente umana; è un’attività sulla lingua, cioè l’atto di interrogarsi sull’origine e sul perché delle parole.
L’etimologia arriva ad identificarsi generalmente con la Linguistica (e viceversa), tanto è vero che scritti di taglio etimologico si trovano in vari luoghi: es. i giornali parrocchiali di cui spesso si fanno etimologie dei nomi. L’etimologia ci illumina sul significato dei nomi, non solo di persona, ma anche di luoghi ( Esempio Napoli : dal greco neapolis, città nuova).
Nomi propri:
a volte l’etimologia è trasparente come nel caso del nome Pio (dal latino pius: devoto); in altri casi più complessa come nel caso di Antonio ( deriva dal nome della gens latina Antonia (Marcus Antonius), e non dal greco antos: fiore, come generalmente si crede). Continuando su questa linea e riprendendo il nome Marco risaliamo alle orgini, quindi al Latino e all’aggettivo marcus che veniva utilizzato per identificare un bambino che era nato robusto, o Lucius “luce”, per indicare un bambino nato la mattina presto, all’alba. Tutti questi sono esempi dii nomi propri, personali (“praenomen ”), quindi, possiamo dire, si riferivano all’aspetto e alla caratteristiche della nascita del bambino, tendenza persa nel tempo. Questo tipo di processo, però riguardava solo i bambini di sesso maschile poiché per le donne era previsto solo il nome della Gens a cui appartenevano, uno degli esempi più famosi è quello di Cornelia madre dei Gracchi, Cornelia è il nome della sua famiglia la notissima famiglia degli Scipioni (Scipione, a sua volta è un soprannome in quanto il padre di Cornelia si chiamava Lucius Cornelius Scipio Africanus ), nel caso in cui nella famiglia c’era più di una donna al nome identificativo della famiglia si aggiungeva il numero ordinale, si pensa che le donne in privato o comunque nell’ambito familiare avessero un nome ma quest’ultimo fosse segreto, probabilmente per superstizione, e fosse noto solo alla famiglia e poteva essere “svelato” al marito.
I cognomi=
in italiano spesso finiscono con –i :“Patronimici” (es. Mancini aveva sicuramente tra i suoi antenati un mancino quindi “figlio del mancino” ). In altri casi sono trasparenti e rivelano le circostanze della nascita: Esposito “un esposto alla pietà” identificava un bambino che era stato abbandonato, quindi esposto alla pietà di chi se ne prendeva cura. L’etimologia esprime le ragioni del perché ; esempi sono anche cognomi quali Passariello, Cardillo etc. con i quali i bambini venivano chiamati perché quando venivano trovati davano quel senso di tenerezza tipico degli uccellini. Siamo sempre sull’etimologia dei nomi che sono volutamente distintivi l’etimologia si occupa proprio di trovare un particolare collegamento fra il nome e una certa realtà. “L’Etimologia è un attività universalmente umana, è un’attività della lingua e sulla lingua ”. Ciascun parlante non si limita ad un usare una lingua, a parlare, ma si interroga sull’origine delle parole come diceva il grammatico latino Varrone, con la definizione di etimologia: la scienza che ricerca CUR (perché) ET UNDE (da dove) SINT VERBA; perché una parola è fatta così e da dove viene.”
Nella ricerca dell’etimologia ci troviamo di fronte al mutamento linguistico:
Un esempio può essere la perdita della consonante finale delle parole nella pronuncia, cadono le consonanti che spesso identificavano i casi e si perde la flessione Ogni qualvolta si va oltre la forma attuale della parola si parla di Riflessione Etimologica .Quando gli studiosi si apprestano a fare l’etimologia di una parola si trovano davanti a percorsi diversi e a volte difficili, un esempio comune di etimologia difficile e per la quale sono state proposte varie soluzioni, è proprio quello sull’
origine del nome Italia.
Già ai tempi di Augusto, primo imperatore romano, la nostra penisola veniva chiamata Italia.
Secondo Domenico Silvestri, il nome non designava tutta l’Italia, ma solo una piccola parte della Calabria, a sud dell’istmo fra il golfo di Squillace e quello di S. Eufemia.
“Italia” è un nome greco, infatti i Greci antichi navigavano per il Mediterraneo in cerca di terre fertili (formeranno, infatti, in Italia meridionale la Magna Grecia), ma puntavano all’Italia anche perchè in Italia vi erano miniere di metallo, in particolare in Calabria vi erano miniere di rame.
Dunque “Italia” significa propriamente “terra che brucia”, “terra delle fornaci metallurgiche”: aithalia, è anche il nome in greco di due isole con miniere di metalli e con fornaci metallurgiche: Lemno nell’Egeo settentrionale e Elba nel Tirreno settentrionale, isole abitate da popolazioni tirreniche di lingua etrusca!!
Etimologia di etimologia
La parola “etimologia” deriva dal greco “logia” è scienza e “etimos” significa vero, dunque “scienza della verità”.L’etimologia, infatti, si basa sul presupposto che per ogni parola c’è una sola verità; è anche vero, però, che è difficile constatare che per una sola parola vi sia una sola origine poiché anche se la parola in questione deriva da un’unica verità, questa verità si è persa nel tempo e la parola è stata ri-motivata.
Saussure e i Diversi ordini di Provenienza
La parola “etimologia” significa dunque “vero, autentico” e già Platone la utilizzava col significato di “valore autentico di una parola” o “forma inalterata della parola”.
Ma l’essenza della parola non è il contenuto, che è fortuito, ma è l’uso che se ne fa.
Secondo F. de Saussure Etimologia evoca, dunque, la provenienza della parola, ma vi sono due tipi di provenienza che si mescolano:
- La parola francese “chair” viene da “caro”, cioè “carne, questo tipo di provenienza passa attraverso il tempo, per cui in passato la parola “caro” aveva lo stesso significato della parola usata oggi “chair”, il che significa che vi è stato solo un cambiamento della forma, ma non del significato;
- La parola francese “labourer” (aprire il suolo con l’aratro: arare) viene da “laborare” cioè lavorare, dunque, nel tempo, all’atto di arare è stato conferito il significato di “lavoro per eccellenza”.
Questo tipo di provenienza passa sempre attraverso il tempo, cioè vi è stato un momento in cui il valore di una parola si confondeva con un altro, dunque, questo implica un cambiamento del significato e non della forma; - La parola francese “couver” viene da “cubare” che significava “star seduti”. Quindi in questo tipo di provenienza, che passa sempre attraverso il tempo, vi è un’alterazione combinata di forma e significato;
- Ma se noi diciamo che in francese “pommier” viene da “pomme” la derivazione è all’interno stesso della lingua francese, non è una relazione che attraversa il tempo, ma si instaura nello stesso tempo, cioè la spiegazione si trova nella lingua stessa.
Questo possiamo definirlo "rapporto di derivazione grammaticale”.
Secondo Saussure L’espressione viene da è ambigua, poiché può essere usata per quattro tipi di provenienza diversi che possono passare attraverso il tempo o instaurarsi nella lingua stessa.
Mutamento linguistico
Duemila anni fa’ si parlava il latino. L’italiano deriva dal latino: infatti tra queste due lingue vi è un’identità.Nel passaggio dal latino all’italiano non c’è stata una sostituzione, ma un mutamento linguistico. Il mutamento linguistico è la trasformazione a cui è soggetta una lingua nel tempo.
Per far sì che ciò avvenga c’è bisogno che:
- La lingua sia parlata (ad esempio una lingua come il latino che non è più parlata non può più mutare);
- Passi molto tempo (nel tempo una lingua può anche trasformarsi radicalmente, ad esempio il latino aveva le consonanti finali, ma per la loro debolezza nella pronuncia non erano frequentemente pronunciate ed essendo in pochi a scrivere ad un certo punto vengono completamente dimenticate).
Oggi le forme dell’italiano sono diventate immutabili e derivano principalmente dall’accusativo della declinazione latina, poiché era il caso più frequentemente usato.
28 ottobre 2010
Natura e società nella lingua
DANTE
Nella lezione precedente abbiamo definito l’etimologia come una operazione spontanea operata dall’uomo sul linguaggio; oggi una terzina dantesca ci permette di analizzare quella che è la distinzione tra le dimensioni naturale e sociale della lingua: si tratta di
Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
(Paradiso, XXVI, 130-132)
"E' un fatto naturale che l'uomo parli;
ma in un modo o in un altro, la natura permette
poi che voi facciate come più vi piace".
Quando si parla, si ha la sensazione che la produzione linguistica, cioè quello che si fa quando si parla, sia qualcosa di naturale;questo concetto di “naturale” è molto importante perché, è riferito alle varie funzioni che il nostro corpo ci permette di svolgere.
Dante fa spesso riferimento alla Lingua, difatti sapeva che con la sua opera poneva i fondamenti di una nuova lingua : “il Volgare ”. Egli utilizzava l’aggettivo volgare per distinguerlo dal Latino che allora si chiamava Gramatica. In questa terzina Dante definisce la lingua come la capacità di parlare, e sostiene che il parlare in un modo o in un altro è un fatto non naturale ma una scelta secondo quanto più piace, quanto è più conveniente; qui è distinto chiaramente la dimensione naturale della lingua da una dimensione non naturale, sociale, come dimostrato dal “voi” utilizzato nel testo.
Ogni uomo o donna che parli, ha la sensazione del carattere naturale di quest’operazione, perché nella formazione dell’essere umano il bambino acquisisce questa capacità con il tempo e questo ci sembra naturale. Lo stesso discorso si può fare sul “perché camminiamo”: lo riteniamo del tutto naturale. Il fatto che ci siano molte lingue indica una libertà, che è lasciata dalla natura, cioè, come dice Dante, la natura ci induce a parlare ma ci lascia liberi di scegliere il modo in cui parlare. Questi due aspetti della naturalità e della volontarietà sono molto importanti, essi pongono il perché?, noi parliamo in un modo o in un altro, chi ci ha indotto a questa scelta non naturale?
La Linguistica al bivio tra le scienze della natura e le scienze dello spirito,
secondo la classificazione ottocentesca, fatta in un’epoca in cui le scienze della natura ebbero una grandissima accelerazione grazie soprattutto alla teoria sull’evoluzione di Charles Darwin; quindi queste scienze si riconobbero in alcune leggi di natura che non ammettono eccezioni, e dal’altra parte le scienze dello spirito o, scienze dell’uomo non come essere naturale, ma come essere che è andato oltre la natura. Come per le scienze naturali, anche le scienze dell’uomo si serviranno di leggi ovviamente diverse da quelle naturali, perché saranno leggi che scaturiscono dal consenso, che potranno essere modificate. La distinzione tra la natura e ciò che più ci piace, “ci abbella” , è che in natura ci sono leggi inderogabili, mentre in quello che ci piace ci sono leggi in cui concordiamo. Anche il linguaggio umano, che si manifesta in lingue diverse, è governato da questo tipo di leggi.
Ritornando agli esempi precedenti e all’esempio del camminare, potremmo dire che questi movimenti siano dei riflessi e quindi naturali nel bambino, questi riflessi sono innati nel bambino ma crescendo li perde, li dimentica, però, è vero anche che se il bambino non è allevato da un altro essere umano, quindi da adulti che camminano su due piedi, eretti, riferimento ai casi in cui bambini fossero allevati da altri mammiferi, non impara a camminare. Quindi, ciò che ci sembra naturale può non esserlo, ma può essere il frutto di un’acculturazione antichissima, difatti la caratteristica che fa dell’uomo un uomo è proprio il fatto di camminare eretto e all’utilizzo maggiore del senso della vista tra tutti e cinque i sensi. Il camminare sembra così scontato e naturale ma in realtà non lo è, perché è il frutto di un evoluzione estremamente lunga che ha portato l’uomo ad avere particolari caratteristiche quali: all’essere onnivoro, alla maggiore fertilità della donna dal punto di vista sessuale, a difendersi meglio degli altri animali, dai predatori, a correre più velocemente, a perdere il pelo… insomma a diventare uomo, e non più un qualunque primate.
Bambini selvaggi
Se per favella intendiamo la capacità di parlare il messaggio di Dante è che mentre la capacità di parlare è naturale (ovvero universale e insita in ogni uomo fin dalla nascita), le modalità e le caratteristiche della lingua sono invece artificiali. Nella formazione dell’essere umano il parlare appare come una operazione naturale e spesso non si riflette sulla questione di libertà o volontarietà della lingua; proviamo a spiegare meglio questo concetto con un parallelismo tra parlare e camminare: sin dalla nascita il bambino è sottoposto alla verifica dei riflessi, ad esempio quelli del camminare o del tendere le mani in avanti. Ebbene, se non sono successivamente allevati da esseri umani i bambini non imparano a camminare in posizione eretta (si ricordino esempi di orfani allevati da lupi o animali, e si citi a questo proposito L'enfant sauvage (1969) di Truffault): questo perché ciò che sembra naturale è in realtà il frutto di una acculturazione tanto antica quanto determinante nella formazione umana. È così che da un punto di vista NATURALE ogni bambino ha in sé la capacità di parlare qualsiasi lingua, anche la più difficile, ma la selezione della lingua che effettivamente parlerà dipende dal gruppo linguistico al quale appartiene del tutto casualmente.
Parlare e la sua etimologia
Abbiamo fino ad ora discusso sulle modalità di apprendimento della lingua, ma cosa significa parlare? E a cosa si riferisce invece Dante quando usa il termine “favellare”? Se analizziamo queste parole in senso etimologico troveremo che
favella > fabula (lat.) ; parola > par(o)lare > parabula (parabola)
In entrambi i casi si fa riferimento ad un “raccontare storie”, al creare linguisticamente un racconto, e per questo possono essere definiti come atti volontari e culturali, tipici di una vita SOCIALE e caratterizzata da scambi di informazioni.
Gli aspetti naturale e sociale - artificiale continuano a coesistere anche nella parola stessa di lingua: esiste infatti una distinzione tra lingua come organo e lingua come sistema di segni (o sistema di parole)
Rousseau
Molti sono i letterati e linguisti che si sono interessati nel tempo al rapporto natura-cultura nella lingua.
Il grande filosofo svizzero Jean Jacques Rousseau operò una distinzione delle lingue secondo la loro essenza:
- lingue rappresentate dall’espressione aidez-moi (lingue del Nord)
- lingue rappresentante dall’espressione aimez-moi (lingue del Sud)
La lingua è da intendersi quindi come richiamo, ed è il richiamo canoro che Rousseau indica come punto di svolta nel passaggio dalla comunicazione gestuale alla fase del parlato all’interno dell’Essai sur l'origine des langues ( 1781).
Nel saggio Rousseau espone la sua teoria sull’origine della società: tutti gli uomini nascono e crescono all’interno di cellule familiari che compongono la società stessa. Questa prima fase è caratterizzata dall’autosufficienza: ogni bisogno primario è manifestato da gesti inequivocabili e vengono soddisfatti all’interno della cellula, senza interventi dall’esterno. Nella famiglia è perciò superflua la favella, e predomina la dimensione della gestualità. Il superamento di questa situazione avviene con il canto come arma di seduzione, all’origine sia della compassione verso l’altro sia della fase del parlato (racconto dell’incontro dei giovani “alle fontane”).
La dimensione “sociale” in Saussure (massa parlante/individuo)
Passiamo ora a Ferdinand de Saussure (1857-1913) , che all’interno del “Corso di linguistica generale” ( 1916 ) introduce la distinzione tra langue e parole. La langue ha la caratteristica di essere sociale: prevede infatti una massa parlante, un gruppo che si identifichi con essa e che la parli secondo convenzioni riconosciute ed accettate universalmente. La parole (≠ mot, vocabolo) è invece l’attività del parlare, la messa in atto della lingua da parte del singolo, dell’individuo. Riallacciandoci insomma a Dante, “opera naturale” è la lingua intesa come capacità (naturale) di parlare, mentre “secondo che v’abbella” indica l’attività individuale del parlare in relazione al gruppo sociale al quale appartiene.
Natura e cultura in Vico (i gesti prima della parola)
Interessato al rapporto natura – cultura fu anche Giambattista Vico : sua l’affermazione che le favelle e le lettere fossero nate allo stesso tempo, riferendosi con “lettere” ai segni non linguistici. Vico era dell’opinione che “i primi uomini sapevano significare non linguisticamente”: prima del parlare esiste già la lettera intesa come atto gestuale del corpo, che da solo descrive sentimenti, emozioni e volontà. L’uomo antico aveva così la capacità naturale di esprimersi con una lingua e allo stesso tempo di scrivere.
Natura e cultura presso i Greci
In conclusione diamo uno sguardo sul concetto di lingua per gli antichi Greci. Nel dialogo platonico del Cratilo i protagonisti Socrate, Cratilo ed Ermogene discutono sulla correttezza dei nomi; mentre Cratilo afferma che i nomi siano per natura (phúsis; dimensione naturale della lingua), ossia rispecchino realmente la realtà, Ermogene è dell’opinione che i nomi siano arbitrari, decisi dall’uso e dalla convenzione (nómos) stabilite dal Nomothete (nomothétes, dispensatore di leggi e quindi identificabile con la dimensione culturale della lingua).
2 novembre 2010
MUTAMENTO LINGUISTICO:
Nella lezione precedente abbiamo posto l’accento sul significato di etimologia e sul come, grazie ad essa, si possa risalire all’origine (unica) di una parola…
Questo a testimonianza del fatto che una lingua (se parlata) può subire una trasformazione nel tempo; trasformazione meglio conosciuta come MUTAMENTO LINGUISTICO.
Diacronia e sincronia
Secondo il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, la lingua può essere studiata secondo due punti di vista, il diacronico e il sincronico.
Il termine DIACRONIA(“dia”>”attraverso” e “cronia”>”dimensione del tempo”) indica lo studio e la valutazione dei fatti linguistici considerati secondo il loro divenire nel tempo ;il termine SINCRONIA(“sin”>”con”) invece considera le lingue in un dato momento, astraendo dalla loro evoluzione nel tempo…
Ai tempi di Saussure (’800), si erano studiate soprattutto le lingue antiche, secondo l’impulso del Romanticismo di cercare tutto quello che era antico lontano, esotico era stato privilegiato lo studio Diacronico poiché, quello Sincronico era considerato meno scientifico in quanto concepito come puro studio di grammatica normativa, mentre sembrava essere più scientifico interessante e nuovo, più universitario, lo studio della grammatica storica, ovvero come la grammatica delle diverse lingue si era trasformata nel tempo.
Mutamento nella pronunzia e nella grammatica
Un tipico esempio di grammatica storica è quello che parte dalla constatazione che in latino, già all’epoca del Latino classico ( testimonianza dei graffiti sui muri di Pompei, I secolo d.C.) le consonanti finali erano pronunziate in modo debole. Col tempo, però, questa pronuncia debole delle finali mutò nel non pronunciarle affatto con conseguente cambiamento della grammatica stessa, in quanto, la flessione, vale a dire le desinenze dei casi, compresi quelli delle persone verbali, si trovavano nell’ultima parte della parola es. lupum la cui “m” distingue il caso accusativo dal nominativo lupus, la pronuncia debolissima, quasi inesistente delle finali, porta al non poter più distinguere la funzione sintattica delle parole in base al caso, ma sarà necessario far ricorso a più cose: alle preposizioni. Così, ad esempio, quando cade la desinenza del genitivo, per esprimere dunque il complemento di specificazione, si farà uso della preposizione “de” secondo il passaggio di questo tipo : Templum de Marmore , tempio costruito dal marmo (dal latino de = a partire da, indica un movimento, una provenienza), questa idea, fatto/costruito a partire da, indicando il materiale da cui si parte per la costruzione del tempio, ed altri casi analoghi, fa si che questo “de” diventi indice di provenienza/appartenenza, quindi, usurpi le funzioni del genitivo, ovvero diventi l’espressione del genitivo. Viene a crearsi, dunque, una nuova grammatica del latino che, cerca di ricostituire la dipendenza delle parole della frase facendo a meno delle desinenze dei vari casi. Ne perviene che tutte le parole terminano allo stesso modo in tutti i casi (lupo). Questo è un chiaro esempio di Mutamento Grammaticale. Uno studio che consideri la grammatica nella sua evoluzione nel tempo è definito come studio Diacronico, ovvero, studio della grammatica storica, mentre uno studio che tende a spiegare il valore dei casi o delle preposizioni in latino viene denominata grammatica descrittiva, descrive la situazione in quel momento cioè Sincronia nella storia del Latino (classico) .
Differenza fra sincronia e diacronia
Lo studio sincronico si occupa di descrivere la situazione grammaticale di una lingua in un momento nella sua forma scritta.
A partire da osservazioni sui diversi valori dell’espressione vient de Saussure distinse il movimento nel tempo dal movimento all’interno dello stesso tempo. ( -> vedi lezione 28 Ottobre 2010 )
Uso linguistico e mutamento
Già Humboldt, con forte accezione filosofica, si preoccupò di chiarire il concetto di uso della lingua, alla base del suo divenire.
- rinvio all’Atlante, p. 153: definizione di Humboldt sull’uso della lingua.
Quale che sia il rigore con cui si è giunti ad analizzare le lingue nel loro organismo ( grammatica ), la cosa che alla fine dei conti decide del senso del loro divenire è e resta l’uso che se ne fa.
Una trasformazione è allo stesso tempo perdita e acquisizione: questo avvicina il linguaggio al progresso. L’uso di una lingua è sempre contemporaneo ad essa ( sincronia ), pur essendo all’origine del suo divenire ( diacronia ). Tale uso appartiene al parlante; Saussure parlava di massa parlante, ma con tale indicazione risulta forse meno evidente il carattere prettamente individuale della lingua.
La distinzione sullo studio Diacronico e Sincronico ha interessato molto Saussure, e su di essa insiste moltissimo; questa distinzione non riguarda la lingua perché essa non è né diacronica né sincronica, poiché l’importanza reale della lingua è che sia in uso, ma quest’uso è sempre in bilico fra la conservazione e la trasformazione
L’uso linguistico : il circuito della parole
È importante sottolineare che l’uso della lingua è sempre individuale. Quindi, riprendendo la distinzione fatta da Saussure riguardo a langue e parole si può affermare che la langue (ovvero il sistema di segni che forma il codice di un idioma) ha una carattere collettivo e istituzionale mentre la parole (ovvero l’atto linguistico del parlante) sia azione individuale e spontanea.
Tornando alla distinzione tra langue e parole accennata durante la lezione del 28 Ottobre, introduciamo la dialettica tra langue e parole. Non c’è nulla nella langue che non vi sia penetrato attraverso un atto di parole. Questo invita a riflettere su una fase di formazione della lingua: sono necessari atti di parole per poter iniziare a formare il proprio SISTEMA. Si viene così a creare un rinvio continuo tra langue e parole, che Saussure spiega con un modello della comunicazione linguistica, il “circuito della parole” : esso implica l’interazione tra due persone A e B
Trasformazione del suono in impulso nervoso
Riproduzione di immagini acustiche
orecchio
cervello
bocca
cervello
L’esposizione alla parole ha fatto sì che l’ascoltatore sia in grado di associare ad un concetto la corrispondente sequenza di suoni, che Saussure chiama “immagini acustiche”. Se e solo se B ha nel suo cervello la stessa associazione suono – concetto la comunicazione può riuscire; nel momento in cui i segno di A e B corrispondono il circuito si chiude. Il circuito tra parlante e ascoltatore è perciò un passaggio del concetto da un cervello all’altro per il tramite della realizzazione delle immagini acustiche per mezzo dell’apparato di fonazione e per il tramite dell’aria che porta i suoni all’orecchio.
Il mutamento linguistico non è perciò volontario, ma avviene a causa di disturbi nel segnale del circuito, ovvero la sua “parte esterna”; quindi si dice che è l’uso che determina il mutamento della lingua poiché è solo parlando che i disturbi avvengono.
Afasia
Langue e parole quindi risiedono prima di tutto nel cervello e sono alla base del repertorio di ciascun parlante. Cosa succede quindi nei casi di afasia? Due studiosi di metà ‘800, Pierre Paul Broca e Karl Wernicke si interessarono del problema. Broca scoprì che in presenza di lesioni cerebrali nella zona temporale anteriore sinistra l’individuo subisce la perdita della capacità di scegliere le parole da usare nei vari contesti; Wernicke scoprì poi che le lesioni nella zona temporale posteriore sinistra comportavano difficoltà nel parlare che si manifestavano in problemi nella costruzione delle frasi.
L’area di Broca è una parte dell'emisfero sinistro del cervello, localizzata nel piede della terza circonvoluzione frontale, le cui funzioni sono coinvolte nella elaborazione e comprensione del linguaggio. Un danno funzionale in quest'area (dovuto a ictus, ischemia, o altro) può provocare la cosiddetta afasia di Broca. I pazienti colpiti da tale afasia possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi con una struttura grammaticale complessa.
L’area di Wernicke è una parte dell'emisfero sinistro del cervello le cui funzioni sono coinvolte nella elaborazione e comprensione del linguaggio. Nei pazienti affetti dall'afasia di Wernicke il linguaggio parlato è scorrevole, ma il senso logico è mancante. Anche la comprensione del linguaggio appare compromessa
Mutamento linguistico e localizzazione cerebrale
Saussure afferma che l’attività del parlare ha sede nel cervello, poiché questo contiene sia la langue che la parole è lì che sono depositate tutte le impressioni che hanno dato origine al sistema ed è lì che sono prodotti gli impulsi che portano alla produzione della parola. Si tratta di concetti solo apparentemente ovvi: in particolare è notevole il termine “immagine acustica” che allude al ricordo della pronuncia della parola non come suono, ma come l’idea di quest’ultimo al suo interno. Il suono realizza l’immagina acustica.
Se A non riproduce perfettamente l’immagine acustica o se B non la interpreta perfettamente, A pensa di aver detto un qualcosa che non è, e viceversa B può aver capito qualcosa di sbagliato, quindi se nel percorso esterno del suono, dalla bocca all’orecchio, avviene un disturbo, emettiamo un segnale disturbato quest’ultimo è il fattore che determina il MUTAMENTO LINGUISTICO, di conseguenza l’uso determina il mutamento se non ci fosse uso non ci sarebbe mutamento (es. ROBINSON CRUSOE).
4 novembre 2010
LA PRODUZIONE DEL SUONO
APPARATO FONATORIO
L'apparato fonatorio è l'insieme delle strutture anatomiche che l'uomo utilizza per parlare.
Si noti che esso è formato principalmente da organi che svolgono principalmente altre funzioni, come quelle digerenti e respiratorie. Tali organi possono essere mobili o fissi. Sono organi mobili le labbra, la mandibola, la lingua e le pliche vocali (corde vocali): variando la posizione di questi ultimi, il parlante modifica il flusso dell'aria polmonare. Sono invece organi fissi i denti, gli alveoli, il palato duro e il palato molle (velo palatino). A questi si devono aggiungere gli organi da cui viene l'aria espiratoria, cioè i polmoni, la laringe e la faringe, e il naso, che partecipa alla produzione di suoni nasali. Nei neonati, la laringe è posta diversamente rispetto agli adulti poiché lo scopo primario è quello di favorire la nutrizione senza avere occlusioni e quindi soffocamento, lo stesso tipo di posizione, e cioè all’attacco della trachea, lo ritroviamo nelle scimmie e nei gatti. Dopo un circa 3 - 4 mesi la laringe cala e assume più o meno la posizione che avrà nell’età adulta. Procedendo verso l’uscita dell’aria quindi l’aria prodotta dai polmoni trova la laringe poi la faringe (retrobocca) .Nella faringe sono convogliate le cave nasali che collegano il naso con la laringe stessa, difatti possiamo respirare anche dal naso, qui troviamo un altro meccanismo che evita il soffocamento, che avviene tramite il velopendulo o ugola, che arretra e chiude le cavità nasali al momento della deglutizione, quando non viene chiuso il passaggio l’aria passa anche dal naso e crea suoni.
Diversi tipi di suoni
Proprio perché l’aria passa in diversi modi crea suoni diversi (viene trasformata in voce attraverso movimenti volontari dell’apparato di fonazione). I suoni si distinguono principalmente in sordi e sonori. Un suono è sonoro quando, al passaggio dell'aria, si attivano le corde vocali conferendo al suono stesso una caratteristica di periodicità, vale a dire che l'onda sonora che ne fuoriesce sarà armonica. Viceversa, un suono è sordo quando l'aria attraversa le corde vocali senza che esse entrino in funzione. I foni si producono quando si portano in contatto due organi mobili, o un organo mobile che si accosta a uno fisso. Essi si dividono in vocali o vocoidi e consonanti o contoidi. Le vocali sono sempre sonore, e nella loro produzione non interviene alcun ulteriore ostacolo all'interno della bocca: l'aria che produce una vocale, quindi, fa sì vibrare le corde vocali, ma non viene poi fermata dagli organi mobili; le particolari configurazioni delle vocali sono date solo dall'altezza che la lingua assume nel canale orale, e dalla posizione delle labbra. Le consonanti possono essere sia sorde che sonore; il meccanismo che le produce si basa sull'opposizione di un ostacolo che costringe l'aria a forzarlo, dando luogo così al particolare fono consonantico.
Diversi tipi di suoni: vocali
Le vocali sono quei foni che si articolano mediante la vibrazione delle corde vocali al passaggio dell'aria espirata. La loro particolare configurazione è data dalla diversa posizione della lingua all'interno della bocca, cioè dall'altezza, che può essere alta, medio-alta, medio-bassa o bassa, producendo le rispettive vocali; e dall'anteriorità: una vocale sarà anteriore (o palatale), centrale e posteriore (o velare) a seconda del punto del palato cui la lingua si avvicina. Si distinguono poi vocali labializzate o arrotondate e vocali non-labializzate o non-arrotondate a seconda della posizione delle labbra, cioè se queste sono protese in avanti (arrotondate) o distese. Infine, a ogni vocale così prodotta (che prende il nome di orale) può corrispondere anche una vocale nasale, quando cioè il velo palatino si abbassa in parte, permettendo il defluire dell'aria anche dal naso: la nasalità è data appunto dalla risonanza dell'aria nelle fosse nasali. La vocale di massima apertura è la “A” e
quelle di massima chiusura sono la “I” e la “U”, vocali medie sono la “E” e la “O”.
Diversi tipi di suoni: consonanti
Le consonanti sono quei foni nei quali l'aria è costretta e ostacolata nel suo passaggio nel canale orale, producendo un determinato suono. Perché si tratti di una consonante è necessario che il suono sia ottenuto mediante un restringimento degli organi della fonazione almeno uguale a quello necessario per eseguire una fricativa. In base all'ostacolo che l'aria incontra, le consonanti si distinguono per modo di articolazione; in base agli organi che determinano tale ostacolo, le consonanti si distinguono per luogo di articolazione. Inoltre una consonante può essere sia sonora sia non sonora (detta anche sorda), a seconda che le corde vocali si attivino (vibrino) o no al passaggio dell'aria. Si distinguono in orali, quando l’aria passa per la bocca, nasali quando l’aria passa per il naso, laringali, quando la chiusura avviene a livello della laringe, è occlusiva o momentanea quando viene generata mediante il blocco completo del flusso d'aria a livello della bocca, della faringe o della glottide, e il rilascio rapido di questo blocco. E’ Velare quando viene articolata accostando il dorso della lingua al velo del palato, in modo che l'aria, costretta dall'ostacolo, produca un rumore nella sua fuoriuscita. Viene denominata fricativa se il fono viene prodotto mediante un restringimento tra alcuni organi nella cavità orale, che si avvicinano senza tuttavia chiudersi completamente come nelle occlusive: l'aria continua a fuoriuscire, passando attraverso la stretta fessura formatasi e provocando in tal modo un rumore di frizione (soffio dentale), è una consonante continua, nel senso che può essere prolungabile a piacere, a differenza per esempio delle consonanti occlusive. L’articolazione che permette di produrre suoni è cosciente ma non automatica e permette così i tradurre i suoni. Le fricative sono numerose per il semplice motivo che per produrle si impiega un sforzo minore dato che, il parlante vuole produrre più suoni con meno fatica ed il ricevente vuole ricevere il messaggio limitando gli sforzi, permetto di produrre una pronunzia meno tesa e in corrispondenza delle occlusive di solito si trova una fricativa. Consonanti quali la “v” e la “f” vengono dette labiodentali in quanto i denti superiori si appoggiano sul labbro inferiore, vengono definite invece labiovelari quando l’articolazione velare è accompagnata dalla protrusione delle labbra: come nella pronunzia delle parole questo, guanto. Abbiamo inoltre le consonanti affricate che sono suoni doppi che si realizzano con una chiusura ad un certo punto della bocca che si apre poi nel medesimo luogo di articolazione, pronunciando una fricativa come la nelle parole ciondolo o giallo (affricate palatali) o nella pronunzia delle parole zio, o zona (affricate dentali). L’apparato di fonazione umano permette la realizzazione di moltissimi suoni diversi (Vedi tabella dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA).
4 novembre 2010
Coscienza linguistica
Il parlante (sia esso chi formula o chi ascolta il messaggio orale) non subisce passivamente la lingua, ma analizza continuamente il flusso sonoro al fine di riconoscere le parole che lo costituiscono e interpretarne il significato. Questa analisi inizia nel momento in cui il parlante si inserisce o viene inserito in un determinato contesto linguistico, e varia al variare del “sistema linguistico” o “sistema di segni linguistici” (termini coniati da Ferdinand de Saussure) condiviso con gli altri parlanti.
Segno linguistico e parola
Il segno linguistico è un’unità che combina tra loro un concetto e un’immagine acustica (il ricordo di una sequenza di suoni). Concetti e immagini acustiche sono inscindibili, l’uno non può essere senza l’altro. Possiamo generalmente identificare i segni linguistici con le parole, anche se ciò non risulta sempre vero. Una parola è un segno linguistico, ma non necessariamente viceversa.
Nell’affermare che un parlante condivide il sistema linguistico con la propria comunità, intendiamo che egli riesce a riconoscere e identificare all’interno della comunicazione le parole: la parola costituisce quindi l’unità linguistica universale. È proprio il riconoscimento di queste che implica la comprensione di una lingua.
I parlanti elaborano continuamente la lingua, sia nella produzione, sia nella ricezione. Le lingue presentano spesso elementi finalizzati proprio alla facilitazione di questo processo. Ne elenchiamo alcuni qui di seguito.
L’ACCENTO
L’accento precisa la realizzazione fonetica di una parola e consente di distinguere fra quelle con fonemi uguali. Ogni parola ne possiede uno, caso a parte per le enclitiche (parole che si appoggiano all’accento della parola precedente, es. il latino populusque) e per le proclitiche (parole che si appoggiano all’accento della parola successiva, ad es. gli articoli).
L’accento può essere assimilato agli spazi bianchi dello scritto ai fini dell’individuazione delle parole. Si parla a questo proposito di funzione culminativa, che riguarda cioè la possibilità di enumerazione delle unità, in quanto permette di numerare le parole all'interno di una frase.
IL TONO
Alcune lingue (ad esempio il Cinese), dette per l’appunto “lingue a toni”, si servono di questi ultimi per differenziare alcune parole.
COSTRIZIONI FONOTATTICHE
Si tratta di obblighi nella disposizione dei suoni: in diverse lingue, ad esempio, non è permesso l’inizio di una parola con determinate consonanti, in particolare delle consonanti occlusive nell’indiano Tamil.
COSTRIZIONI TONOTATTICHE
Esistono lingue che dettano obblighi di posizione dell’accento. Si parla in questo caso di funzione delimitativa, che riguarda cioè quei tratti fonologici che segnalano i confini tra parole (es. in francese tutte le parole sono accentate sull'ultima sillaba, permettendo così di decifrare la fine di una parola e l'inizio di quella successiva).
AUTOMATISMO
Ancora, alcune lingue sottolineano l’inizio o la fine della parola accentuando la modulazione della voce rispettivamente sulla prima o l’ultima sillaba, come nel caso del Giapponese. A queste, tuttavia, non si impongono costrizioni nell’uso dell’accento (il Giapponese è una lingua isotonica, non possiede cioè costrizioni tonotattiche).
ARMONIA VOCALICA
In diverse lingue agglutinanti (finlandese, turco ed altre ancora) si constata un ulteriore espediente: l’utilizzo, in ciascuna parola, di vocali dello stesso tipo, solo palatali (anteriori) o solo velari (posteriori). Le singole parole in questo modo si armonizzano al loro interno, e i confini che le dividono diventano così più marcati e più facilmente riconoscibili.
Es.: le vocali finlandesi possono essere suddivise in tre gruppi:
• vocali anteriori: ä ö y
• vocali posteriori: a o u
• vocali neutrali: e i
La regola dell'armonia vocalica prevede che in una stessa parola possano esserci o solo vocali anteriori o solo vocali posteriori.
Le vocali neutrali e ed i non sottostanno a questa regola, pertanto possono comparire sia in presenza di vocali anteriori che posteriori.
A tale regola sottostanno le desinenze, i suffissi e le particelle, con la conseguenza che, quando contengono a, o, u, hanno sempre una forma parallela con le corrispondenti vocali anteriori ä, ö, y:
suffissi:-ja / -jä, -tar / -tär, -ton / -tön, - sto / -stö, -tta- / -ttä, ecc. |
matkustaja |
kävelijä |
jumalatar |
ystävätär |
|
avuton |
syytön |
|
saaristo |
säännöstö |
|
erottaa |
herättää |
Anaslisi linguistica e linguaggio “articolato”
I parlanti, non si limitano allo scindere i discorsi in singole parole, ma analizzano costantemente, e in maniera attiva, la propria lingua. Analizzare una lingua, secondo la definizione di Saussure, consiste nel riconoscerne le parti. A questo proposito il linguista svizzero definisce la lingua “articolata” (dal latino articulus -> piccolo pezzo; dunque “fatta di parti”). La più importante di queste “parti” è, per l’appunto, la parola.
Analisi linguistica e analogia
Nell’analizzarla, al passare del tempo, i parlanti mutano la lingua attraverso processi per lo più razionali e di semplificazione. Si dice analogia la tendenza a regolarizzare una lingua.
Ne possono essere un chiaro esempio i processi di assimilazione di alcune parole ad altre che condividono una “forma” più diffusa. Chiariamo con un esempio: il termine latino sumus sembra cambiare radicalmente la sua forma nel corrispondente italiano “siamo”. La “u” si trasforma in “ia”; la stessa cosa non si può dire di termini come lupus, che conservano la stessa radice (lupo).
“Siamo” non è nient’altro che un esempio di forma analogica, ovvero basata sul modello di altre forme maggioritarie prese ad esempio per uniformare e regolarizzare la lingua (veniamo, torniamo, mangiamo, …) alle quali è stato deciso di assimilarla.
Analisi linguistica e risegmentazione morfologica
La risegmentazione è un fenomeno analogo. Oltre il flusso sonoro, nell’analisi i parlanti segmentano anche le parole. La parola hamburger, ad esempio, ha origini tedesche, e, segmentata in hamburg-er, significa letteralmente abitante di Amburgo, e veniva utilizzata per significare sinteticamente “polpetta tipica della città di Amburgo”. Con la diffusione del prodotto al di fuori dei confini tedeschi, e l’inevitabile contatto con la lingua inglese, la parola è stata segmentata diversamente: ham-burger, impropriamente tradotta come “polpetta di prosciutto”. Come sappiamo, gli hamburger non contengono tuttavia prosciutto, né la parola burger è in qualche modo assimilabile a “polpetta”. Essa è stata tuttavia evidentemente rimotivata, tanto da fungere da suffisso per altri composti quali cheese-burger e via dicendo.
Analisi linguistica e etimologia popolare
Quella della risegmentazione è una tendenza che riguarda soprattutto l’incontro con il lessico straniero. Qualcosa di molto simile successe infatti nel sud della Spagna, dove un promontorio fu soprannominato Gebel Tariq in onore di un generale arabo a seguito di un’invasione da lui guidata.
Tuttavia, per gli spagnoli quel nome non aveva nessun particolare significato, e, per il fenomeno della cosiddetta etimologia popolare, Tariq fu assimilato a “terra”, da cui il nome di Gibilterra.D’altronde, il monte Gebel, in Sicilia, con quest’accezione non significa altro che “monte monte”, inizialmente indicato solo come gebel dagli arabi, appunto.
Il fenomeno dell’etimologia popolare è un fenomeno universale. Il latino periculum ha mutato il suo significato originario di “prova, esperimento” in quello di “pericolo, rischio”, che si perpetua in tutte le lingue romanze, per influsso del latino perire (andare in rovina, perire); rispetto all'italiano vagabondo e al francese vagabond, lo spagnolo e il portoghese hanno vagamundo perché la parola è stata reinterpretata, per etimologia popolare, come vaga-mundo, cioè “giramondo”.
Il termine olandese stokvis indicante il pesce (vis) messo a seccare sulla legna (stok) è entrato in italiano modificandosi in "stoccafisso" e acquisendo con quel "-fisso" un'altra idea: quella dellacaratteristica rigidità del cibo messo a seccare.
Ancora un esempio: Il Mar Nero si chiamava in greco [póntos eúxeinos] (eú- "buono", xeinos "ospitale") quindi "che è ben disposto nei confronti dell'ospite". Ma già alcuni personaggi della letteratura greca, come Pindaro ed Euripide, sapevano trattarsi, all'epoca, di una neoformazione abbastanza recente, e che prima il termine era [póntos áxeinos] (á- "non", xeinos "ospitale") quindi “mare inospitale”. Questo nome, attraverso varie vicende, era giunto ai greci dai persiani, presso i quali axshaina voleva dire "nero". Essi tuttavia interpretarono il termine come áxeinos cioè "inospitale" e, sicuramente per scaramanzia, lo mutarono in eúxeinos cioè "ospitale" .
Jean-Jacques Rousseau (Ginevra, 1712 – Ermenonville, 1778) ; filosofo, scrittore e compositore svizzero. Tra i suoi numerosi romanzi e saggi si ricordano Émile, ou De l’Education ( 1762 ), Julie, ou la nouvelle Héloise ( 1761), Les Confessions ( del 1770 ma pubblicato postumo nel 1782 ) e l’ Essai sur l’origine des langues ( pubblicato postumo nel 1781 ).
Ferdinand de Saussure ( Ginevra, 1857 - Vufflens-le-Château 1913 ) ; linguista svizzero di fondamentale importanza nello sviluppo della disciplina della linguistica nel XX secolo. Il Cours de linguistique génèrale venne pubblicato postumo dai suoi studenti sulla base delle lezioni universitarie di Saussure in Ginevra.
Platone ( Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C. ); filosofo greco allievo di Socrate e maestro di Aristotele, tra i fondatori del pensiero filosofico occidentale. I Dialoghi rappresentano la quasi totalità della sua produzione letteraria e filosofica: il corpus ne conta 34, a cui si aggiungono un monologo ( Apologia di Socrate ) e un epistolario. Il Cratilo, dedicato ad argomenti di carattere semantico, fa parte dei cosiddetti dialoghi centrali o della maturità, successivi cioè all’apertura dell’Accademia ateniese nel 388 a.C.
Pierre Paul Broca ( 1824 –1880 ): fisico, anatomo e antropologo francese conosciuto soprattutto per i suoi studi sull’area di Broca, una regione del lobo frontale che ha preso il suo nome.
Carl Wernicke ( 1848 – 1905 ): fisico, anatomo, psichiatra e neuropatologo tedesco; poco dopo la pubblicazione da parte di Paul Broca sulle sue scoperte sui deficit del linguaggio causati da quella che ora è conosciuta come area di Broca, Wernicke iniziò il suo percorso di studi sugli effetti dei disturbi cerebrali sul linguaggio. Wernicke notò che non tutte le mancanze linguistiche erano il risultato di danni all’area di Broca. Scoprì invece che i danni al lobo temporale superiore posteriore sinistro causavano problemi nella comprensione delle parole. Questa regione ha preso il nome di area di Wernicke, e la sindrome associata è nota come afasia di Wernicke.
L’analisi linguistica manifestata dalla SCRITTURA
La parola è stata da sempre riconosciuta come l’unità linguistica, tanto che i segni di scrittura più antichi mai ritrovati sono proprio quelli che indicano le parole (logogramma). La tavoletta di Uruk (città sumera della Mesopotamia) ne mostra un chiaro esempio. La simbologia è divisa in caselle, al fine di separare i singoli segni linguistici, ognuno dei quali rappresenterebbe, per l’appunto, una parola.
- Parole e concetti
Menzione a parte meritano gli ideogrammi, segni grafici indici di concetti universali, validi indipendentemente dalle lingue (i logogrammi, invece, significano ognuno un preciso termine di una determinata lingua).
Molto spesso oggi sigle particolarmente diffuse (DNA, UNO, …) sono diventati veri e propri ideogrammi, riconosciuti al di là delle diverse lingue.
Sigle come ONU, invece, (chiara italianizzazione di UNO) costituiscono esempio di logogramma.
b) sillabe
La sillaba è un’unità sintagmatica, costituita da una vocale, ed eventualmente da una o più consonanti che la precedono, seguono, o entrambe le cose. Se la sillaba termina per consonante si definisce chiusa, viceversa aperta. La sillaba, come la parola, è anch’essa una produzione artificiale, frutto dell’articolazione vocale del parlante. Tutte le lingue possiedono sillabe, tutti i parlanti ne producono e le analizzano.
La sillaba è formata da tre elementi: un attacco, un nucleo e una coda. Possono costituire nucleo sillabico le vocali (nucleo vocalico), e, in alcune lingue, le consonanti sonoranti (liquide, come [r] e [l], o nasali, come [m] o [n]). Il nucleo si dice in questo secondo caso sonantico.
Analogamente ai logogrammi, i sillabogrammi sono segni grafici che rappresentano le sillabe, come nel caso (almeno parzialmente) della scrittura cuneiforme.
Tavoletta con cuneiforme babilonese (sillabico):
Esempi di sillabogrammi
Sillabe e parole sono dunque alla base di qualunque sistema linguistico, sono e sono sempre state sin dall’antichità considerate le unità alla base di ogni lingua.
11novembre 2010
L’analisi linguistica nella scrittura
Il parlante ha coscienza immediata delle sillabe che usa (perché facilmente pronunziabili), e delle parole (perché nell’immediato ricollegabili a un concetto e in quanto successioni di sillabe); ma non dei singoli suoni (le lettere dell’alfabeto, infatti, vengono denominate con una o due sillabe, e non pronunziate singolarmente; es. f [effe]).
Proprio per questa ragione, le prime forme di scrittura utilizzavano logogrammi che a loro volta, con un passaggio piuttosto immediato, vennero utilizzati anche come sillabogrammi nel momento in cui passavano dalla rappresentazione di una lingua con parole monosillabiche come il sumerico alla rappresentazione di lingue con parole monosillabiche (lingue semitiche, es. accadico, lingua di Babilonesi e Assiri).
- Suoni
L’alfabeto fonetico è una conquista recente.
Se da un lato popolazioni sedentarie quali i Sumeri e i loro eredi semitici in Mesopotamia non avevano necessità di semplificare la codifica della loro lingua (sillabario cuneiforme), i Fenici, notoriamente popolo di tradizioni mercantili, si scontrarono presto con la necessità di un metodo di scrittura pratico ed univoco.
Il loro alfabeto (il termine deriva dall’unione delle sue prime due lettere, ‘āleph e bēth) derivò dalla scelta di utilizzare gli acronimi di parole di uso comune, e di rappresentare queste lettere con simboli che descrivessero la parola stessa. (es. la prima lettera dell’alfabeto, ‘āleph, significa “bue” e il suo simbolo rappresenta appunto il cranio di quest’animale).
‘āleph (bue) il segno è poi progressivamente ruotato di 90° e 180°
ḥēth (staccionata)
ṭēth (ruota)
Il passaggio all’alfabeto fonetico realizzato dai Fenici non può tuttavia considerarsi completo: essi codificarono soltanto le consonanti.
A tal proposito bisognerà aspettare la diffusione del loro sistema nel Mediterraneo e il contatto con la civiltà greca, che codificò 7 vocali, i cui simboli erano già presenti nell’alfabeto fenicio, sebbene riferiti a consonanti.
Il concetto di alfabeto non è istintivo. Un bambino è propenso, piuttosto, a rappresentare gli aspetti della realtà esterna tramite disegni che hanno valore assimilabile ad ideogrammi.
L’insegnamento dell’alfabeto tuttora praticato nell’educazione infantile ricalca il meccanismo ideato dai fenici per l’identificazione delle lettere (pensiamo ai cartelli affissi negli asili che individuano le lettere dell’alfabeto in relazione a parole d’uso comune che inizino con quella lettera; es. Casa, Dado).
ALFABETO FONETICO INTERNAZIONALE(IPA)
L’alfabeto fonetico internazionale è un repertorio di segni usato per la rappresentazione dei suoni utilizzati in tutte le lingue del mondo. Molti dei suoi simboli sono presi dall'alfabeto latino o derivati da esso, alcuni sono presi dall'alfabeto greco, e altri sono apparentemente scorrelati da qualunque alfabeto. Lo sviluppo originale partì dai fonetisti inglesi e francesi sotto gli auspici dell'Associazione fonetica internazionale (IPA) fondata a Parigi nel 1886. L'alfabeto ha subito una serie di revisioni durante la sua storia (l'ultima delle quali risale al maggio del 2005) rese necessarie da scomparsa, scoperta e mutamento delle lingue. A parte l'aggiunta e la rimozione di simboli, le modifiche apportate all'alfabeto fonetico internazionale consistono soprattutto nel rinominare simboli e categorie o modificare l'insieme dei suoi caratteri.
La tabella è articolata secondo i modi (verticalmente; es. nasali, fricative, ecc.) e i luoghi (orizzontalmente; es. labiodentale, palatale, ecc.) di produzione dei suoni nell’apparato fonatorio.
Le consonanti fonetiche più numerose per modo sono le fricative, perché prodotte tenendo la bocca socchiusa; le consonanti più numerose per luogo sono quelle prodotte con l’ausilio dei denti, per la grande mobilità della punta della lingua. La produzione dei fonemi asseconda quindi la legge del minimo sforzo.
Le aree ombreggiate denotano articolazioni polmonari ritenute impossibili.
Dove i simboli appaiono a coppie, quello di destra rappresenta una consonante sonora.
simboli dell’alfabeto fonetico utilizzati dalla lingua italiana.
SUONI E FONEMI
Il concetto di fonema non dev’essere confuso con quello di suono. I fonemi sono i suoni utilizzati da una lingua per distinguere tra loro le parole (es. mano/nano); essi hanno dunque funzione distintiva.
Ogni parola è costituita dall’unione di un suono e di un concetto (detti rispettivamente significante e significato). Un fonema è un’unità distintiva del significante che serve a distinguere i significati. Coppie sul modello di mano/nano sono dette minime, e sono molto numerose in italiano.
Altri esempi : pane/cane; balla/palla; va/fa; pεsca/pesca.
Martedì 16 novembre 2010
Modello descrittivo strutturale o strutturalista introdotto da Saussure.
Differenza tra Suono (dimensione fisica) e Fonema (concezione mentale/dimensione psichica)
Mentre un’immagine acustica è un oggetto mentale, il suono è un oggetto fisico, prodotto, su impulso del cervello, dagli organi di fonazione. Il suono attraversa l’aria e produce onde sonore rilevate dagli spettrografi ( Atlante pg.48). Gli spettrografi misurano le modificazioni dell’aria esterne alla bocca che colpiscono il timpano e, attraverso il nervo acustico, trasmettono l’impulso al cervello che le trasforma in immagine acustica (ricordo del suono associato al concetto).
Nella terminologia di Saussure la coppia concetto/immagine acustica è ad un certo punto sostituita dalla coppia significante (immagine acustica), significato (concetto) .
Trubeckoj, fonemi, coppie minime
Il fonema è un suono funzionale la cui funzione è quella di distinguere il significato.
Lo studioso che ha formalizzato la nozione di fonema è il russo Trubeckoj (Atlante pg 131). Nato a Mosca nel 1890 , emigrato in Europa in occasione della rivoluzione bolscevica, si aggregò ad alcuni linguisti riuniti in un circolo linguistico a Praga. (Brano pg.123 Atlante)
L’immagine acustica è costituita da diversi fonemi che sostituiti gli uni agli altri determinano significato diverso, es. “mano” “nano”, i due suoni sono fonemi perché lo scambio determina significato diverso, definiamo così la coppia mano/nano una coppia minima. Altri esempi la “s” sorda e la “s” sonora: presento (presentire) /prezento (presentare) sono due fonemi diversi; idem per le “e” ( o le “o”) aperte e chiuse etc.
Il fonema come unità minima
La parola può essere divisa in unità minori e susseguenti , (es.cane – k..a.n.e), contrariamente il fonema (es. il fonema “k”) è un’unità fonologica impossibile da scomporre in unità più piccole. La parola ha una sua unità fonica, una forma/figura che riconosciamo (immagina acustica); questo riconoscere le figure implica una distinzione , riconoscere significa operare una distinzione, questo è possibile in quanto le singole figure si distinguono l’una dall’altra per determinate caratteristiche.
Tratti distintivi pertinenti e inventario dei fonemi. Le “varianti”
L’importante è che ci siano dei tratti distintivi (fonemi) che ci permettono di distinguere le parole riconosciute nella loro interezza. Ogni parola deve contenere un certo numero di fonemi disposti in un certo ordine, in modo da differenziarsi dalle altre parole, deve avere dei propri “segni distintivi La forma fonica “fonema”, è costituita da proprietà foniche pertinenti (presenza o assenza di tratti diversi che permette la distinzione) tutte le altre differenze si chiamano , invece, varianti o allofoni. Per determinare l’inventario dei fonemi di una lingua si cercano tutte le coppie minime che rivelano un’opposizione fonologia distintiva (due o più fonemi che si distinguono attraverso proprietà fonologiche pertinenti) es.nella serie delle serie delle dentali le coppie minime “dado”/”dato”; “tana”/”nana”; “fatto”/“fato”; “sale”/”tale”; “pazza”/”passa” ci rivelano i tratti pertinenti della sordità, sonorità, nasalità intensità, fricatività, e ci permettono inoltre di identificare l’articolazione affricata . Attraverso altre coppie si identificheranno altri tratti…In questa ricerca operiamo sempre identificando la base di comparazione e poi procedendo a riconoscere le variazioni pertinenti, capaci di distinguere i significati. Riassumendo il fonema è l’insieme delle proprietà fonologicamente pertinenti di una forma fonica.
Linguistica: scienza dei valori
Secondo Trubeckoj il fonema è un valore, e quindi in elemento del sistema linguistico come descritto da Saussure nel “Corso di linguistica generale” ( opera pubblicata postuma nel 1916 e redatta da due professori dell’università di Ginevra Bally e Sechehaye, che ha influenzato molti linguisti del ‘900, tra cui per l’appunto Trubeckoj).
Nozione centrale dell’opera di Saussure è il confronto fra Linguistica ed Economia, due scienze che si occupano di valori. cioè rapporti tra cose dissimili (es. salario , lavoro in economia). Il valore linguistico è dato dal rapporto tra significato e significante che sono dissimili pur appartenenti alla stessa dimensione (psichica).Così, secondo Truberckoj avviene per i suoni che funzionano perché diversi e opposti tra loro , cioè sono dissimili (Atlante pg 123).
18 novembre 2010
Test di autovalutazione
23 Novembre 2010
Le unità linguistiche: le parti della parola, i “morfemi”
La lingua è un sistema e come tale è costituito da unità. La parola, ad esempio, è l'unità linguistica più importante. Finora si sono analizzate le “parole” e i “fonemi”
I morfemi sono unità linguistiche presenti alla coscienza dei parlanti; non sono invenzioni dei linguisti. La radice di morfema (morf-) deriva dal greco e significa forma, mentre il suffisso (-ema) designa un'unità linguistica funzionale.Un morfema è libero se costituisce una parola autonoma (es. “tu”, “oggi”, che non possono essere scomposti morfologicamente). Al contrario un morfema non è libero, ma legato, se non possiede significato autonomo. La parola inglese dogs (“cani”), scomponibile morfologicamente in dog-s, appare composta da dog(morfema libero, che significa di per sé cane), e s(morfema legato). La parola è sempre costituita da un numero definito di morfemi.
La parola “studentesse” si analizza nei seguenti morfemi:
stud → si definisce radice della parola. La radice costituisce il morfema fondamentale della parola, e circoscrive l’area semantica in cui essa va collocata.
ent → si definisce suffisso della parola. I suffissi derivano il significato della parola da quello della radice, precisandolo progressivamente. Esso è scomponibile a sua volta in e-nt, dove e è la vocale tipica delle seconda coniugazione del verbo, e nt il suffisso dei participi presenti.
“ent”, quindi, analogamente a tutti i suffissi dei participi presenti, precisa che la parola indica un soggetto che compie l’azione della radice(in questo caso “una persona che studia”), così come “un perdente” è “una persona che perde”, “un parlante” è “una persona che parla”, e via dicendo.
ess → secondo suffisso. Una parola non contiene necessariamente un unico suffisso. In questo caso, il secondo suffisso specifica il genere femminile della parola, analogamente a parole come: presidentessa, professoressa, avvocatessa, ecc.
e → si definisce desinenza, indica generalmente la fine di una parola. In italiano identifica genere e numero della parola (nel nostro esempio femminile e plurale).
Quando identifichiamo la radice o il suffisso di una parola possiamo notare come questi morfemi non siano isolati, ma legati tra di loro mediante rapporti paradigmatici.
I morfemi sono spesso monosillabici, ma la loro suddivisione non corrisponde alla divisione in sillabe; infatti non tutte le sillabe sono morfemi e mentre le sillabe non hanno significato, i morfemi ne hanno e sono, dunque, dei segni.
I suffissi dello stesso tipo non hanno sempre lo stesso significato poiché il loro significato dipende dalla radice, ad esempio:
- Tavol-in-o = radice nominale -----> suffisso con valore diminutivo;
- Spazz-in-o = radice verbale ---------> suffisso che designa una professione, un'attività svolta da una persona.
La coscienza linguistica ci permette di analizzare le parole.
I bambini, sin da quando iniziano a parlare, sono consapevoli delle parole e dei morfemi, tendono a identificare le varie parti del discorso e delle parole e provano a modificarle secondo regole razionali di morfologia. Ciò risulta evidente quando incorrono in errori come questo: dovendo esprimere il termine “toilette”/twa’lɛt/ in prima persona, alcuni bambini dicono “mialet”, avendo identificato il morfema “tua” e avendolo “declinato” alla prima persona singolare. Un altro esempio: i bambini inglesi, quando si trovano ad esprimere per la prima volta il verbo andare (go) al passato, ignari delle irregolarità di questa voce, dicono “goed”(la forma corretta è went), accostando al verbo all’infinito il suffisso ed tipico della forma al passato dei verbi regolari inglesi.
La scomposizione in morfemi individua morfemi sillabici.
Vi è una grande differenza con l'inglese.
L'inglese ha perso le sue desinenze, quindi il suo vocabolario originario è formato perlopiù da monosillabi; le parole polisillabiche, invece, sono di origine francese (parliament), poiché l'inglese ha acquisito metà del suo vocabolario dai francesi, durante la loro dominazione.
Mentre l'inglese è,quindi, maggiormente formato da forme libere, l'italiano, come il francese, per la sua maggioranza di polisillabici, è costituito da forme legate.
Ad esempio:
- am-a-nt-e ----> forme legate
- dog ----> forma libera
Questa diversità nella forma della lingua fu chiamata da Wilhelm von Humboldt “diversità nella forma linguistica interna”, che costituisce la grammatica della lingua, cioè le sue peculiarità.
Esiste un rapporto tra morfologia e sintassi?
le lingue che hanno una ricca morfologia desinenziale possono presentare nella sintassi un ordine libero delle parole, poiché ogni parola ha anche un valore sintattico, come in latino.
L'inglese, invece, quasi privo di desinenze, non ha un ordine libero delle parole.
Maggiori sono le informazioni fornite dalle desinenze, maggiore è la possibilità di ordinare le parole in modo libero.
La morfologia è lo studio di tutte le variazioni formali delle parole che esprimono le più diverse categorie grammaticali. Rientrano nella morfologia i procedimenti di derivazione e di flessione e gli strumenti con cui essi sono espressi (apofonia, prefissi, suffissi, infissi, desinenze).
La derivazione è il procedimento formale che consiste nella determinazione del significato di una radice mediante l'aggiunta di un affisso (soprattutto suffissi o prefissi).
La flessione consiste nella determinazione dei rapporti sintattici di una parola mediante l'impiego delle desinenze (coniugazione, declinazione).
Teoria della doppia articolazione di André Martinet
La lingua è articolata secondo due livelli.
Qualsiasi enunciato linguistico è analizzabile in un numero limitato di monemi e questi, a loro volta, in un numero limitato di fonemi.
Nella prima articolazione si individuano dei simboli linguistici minimi che hanno significato, cioè i monemi; nella lingua vi è un numero definito di monemi, i quali possono essere combinati tra di loro per comunicare (mal-di-testa).
A volte corrispondono ad una parola, a volte ad un solo morfema.
(N.B. Il termine “monema” oggi è poco usato fuori della scuola francese, ed è sostituito da ‘morfema’ anche col significato di ‘forma linguistica minima’, cioè non scomponibile in forme significative più piccole).
Nella seconda articolazione identifichiamo unità linguistiche minime senza significato, ma solo con funzione distintiva, cioè i fonemi che, entrando in combinazione, costituiscono i significanti dei monemi.
Il monema è, quindi, un'unità linguistica scelta per comporre un significato più complesso.
A proposito di ciò possiamo parlare di economia linguistica:
la lingua è economica in quanto presenta piccoli segni che possono essere combinati tra di loro per esprimere concetti più complessi ed ampi, anziché presentare tantissimi segni, uno per ogni concetto.
La grammatica normativa
La grammatica normativa è la grammatica che descrive una lingua attraverso delle regole sull’uso delle parti del discorso ( verbi, i sostantivi, le declinazioni, ecc.).
I romani elaborarono le descrizioni grammaticali dei grammatici greci adattandole alla loro lingua. Il tipo linguistico del greco e del latino era considerato rispondente alle categorie del pensiero: nel XVII secolo questo pregiudizio fu ripreso nella grammatica cartesiana di Port-Royal, dal nome del luogo in cui nacque. Gli studiosi francesi, cartesiani, che la elaborarono designavano come universale la grammatica francese, descritta secondo le regole di quella latina.
La linguistica moderna nacque proprio in contrapposizione a tali pregiudizi. Nell' '800 si pone maggiore attenzione alla mutabilità delle grammatiche (come la perdita della flessione verbale e nominale); nel '900 si costituiscono modelli per la descrizione delle grammatiche che prescindono dai modelli delle grammatiche antiche
25 novembre 2010 (Occupazione)
MORFOLOGIA
Forme libere e legate
Morfema come FORMA MINIMA dotata di significato, portatore di un valore non necessariamente completo, che si risolve nella parola. La divisione dei morfemi in “liberi” e “legati” è proposta come principio descrittivo da Leonard Bloomfield, che si è fatto in ciò guidare dalla struttura della lingua inglese (vedi sopra).
La nozione di morfema può essere estesa dalla linguistica alla semiotica (la scienza che studia i sistemi di segni non linguistici) . Ad esempio: l'individuazione dei morfemi all'interno di un sistema come quello delle carte da gioco. Il valore complessivo della carta è dato da due morfemi: carta = “numero”+”seme” (7 di picche…).
La differenza fra la parola e la carta è che nella parola (segno linguistico) la disposizione dei morfemi è lineare, nella carta no.
La doppia articolazione manifesta il principio di "economia": l'articolazione in morfemi è un'economia di segni che si ripresentano in combinazioni diverse;
Variazione dei morfemi: “allomorfi”
= forme diverse che hanno lo stesso valore; esempi:
Le diverse forme di una radice: ven(ire), venn(i), veng(o), verr(ò).
Le diverse forme di una desinenza nominale: maschile-singolare -o ed –e. Le diverse forme della desinenza dell’infinito: -are, -ere, -ire; le diverse forme del suffisso del participio –ent-, -ant-
In alcuni casi la comparsa di allomorfi è determinata dal “contesto fonetico”: è il caso delle forme radicali che sono condizionate dalla vocale iniziale del morfema che le segue: can-e, caɲ- (i)olino, amik-o, amitʃ- i; Le forme diverse dell’articolo: il/ lo ; i/gli. Oppure di forme desinenziali, diverse a seconda della radice a cui si aggiungono, come nelle forme del plurale inglese: cat-s, dog-z, hous-es, ox-en, feet (rispetto a foot), sheep-(0). (morfema ZERO, cioè “mancante”).
Analisi in morfemi e coscienza linguistica
Talvolta l’analisi del parlante riconosce un morfema dove etimologicamente non c’è: Il caso di ogg-i, doman-i, ier-i: avverbi non percepiti come forme libere, in quanto il parlante tende ad analizzarli come composti da due forme legate e individua nel morfema -i una designazione avverbiale di tipo temporale.
(Considerazione diacronica: oggi deriva dall’espressione hoc die ‘in questo giorno’; domani deriva da de mane ‘di mattina’; il modello per l’individuazione del morfema “-i” è l’avverbio heri)
30 novembre 2010 (occupazione)
MORFOLOGIA
morfemi: classificazione in base alla posizione.
Nella parola la radice è il momento assiale. Essa è la testa della parola. Rispetto ad essa si differenziano gli elementi affissi
(pre-fissi: ri-dire, suff-issi port-ament-o, in-fissi: in latino l'infisso del presente n in una verbi come vi-n-c-ere, cfr. perfetto vic-i.
Alcune radici appaiono in posizione di prefissi o di suffissi: in questo caso si diranno prefissoidi e suffissoidi: es. storio-grafia, si trova nella posizione di un prefisso, ma ha un significato lessicale (“storia”). Così termo-metro (“misura”).
Il morfema che sta alla fine della parola si chiama desinenza = “che finisce”.
morfemi: classificazione funzionale
I morfemi possono appartenere a classi aperte o a classi chiuse.
1) morfemi lessicali (radici): classe aperta (contiene un numero potenzialmente infinito di morfemi)
2) morfemi grammaticali (affissi e desinenze):classe chiusa (sono in numero definito)
a) morfemi derivativi: derivano parole dalla radice, senza modificare il paradigma di appartenenza. Es. verbo da verbo: salt-are/ salt-ell-are; nome da nome: tavol-o/tavol-in-o. Sono più vicini alla radice; non sono obbligatori .
b) morfemi flessivi: derivano parole dalla radice modificando il paradigma di appartenenza. Es. verbo da nome: vernici-are da vernice; nome da verbo salt-o da saltare. Sono più lontani dalla radice, sono obbligatori
Esistono anche parole funzionali, come (es. articoli, preposizioni, pronomi) che hanno funzione grammaticale e appartengono a classi chiuse: sono apparentemente forme libere, ma non possono stare da sole e spesso non hanno un accento autonomo (proclitiche).
Alcuni morfemi possono comparire come “amalgamati”: es. sul = su + il
Altri morfemi, unitari, contengono diversi “significati accumulati”. Es. gatt-e(femminile + plurale); latino ros-as (accusativo + femminile+ plurale)
La combinazione di radici dà luogo a “composti”.
Martedì 07 Dicembre
RAPPORTI SINTAGMATICI E RAPPORTI PARADIGMATICI (o “ASSOCIATIVI”)
Le parole o le parti che le compongono possono essere messe tra loro in rapporto sintagmatico, cioè viene fatta un’associazione di termini o rapporto in praesentia (i due termini coesistono all’interno della frase), o in rapporto paradigmatico (o associativo), in absentia (i termini non coesistono, ma sono scelti da un paradigma).
Esempio: “studentessa” è in rapporto paradigmatico con “studio”, con “presidente”, con “avvocatesse”, con “gatta”o anche con “insegnante” per associazione di radice, di suffisso, di desinenza, semantica, e via dicendo.
Se si confrontano più termini (più parole) scopriamo sia elementi comuni che li assimilano, sia altri che li contraddistinguono; tuttavia questi elementi confrontati (= richiamati per “associazione”) non coesistono all’interno della stessa parola.
All’interno della stessa parola, a loro volta, i morfemi che la compongono (stud-ent-ess-a) sono tra loro in rapporto sintagmatico, perché si dispongono gli uni dopo gli altri sulla catena della parola.
Il meccanismo della lingua
Tali rapporti intercorrono tra le unità di prima articolazione (vedi “doppia articolazione)”, cioè quelle unità concrete presenti alla coscienza del parlante e costituite da un significante e un significato (tali sono le radici, i suffissi, le desinenze, i sintagmi, ecc.), e tra le unità di seconda articolazione, che non sono portatrici di alcun significato (i fonemi e i grafemi). Le unità concrete sono delimitate (rapporto sintagmatico), hanno cioè un inizio e una fine (es. “ent” inizia dove termina la radice e finisce al cominciare del suffisso successivo), e sono differenziate (rapporto associativo o paradigmatico).
Il meccanismo della lingua si basa sulle opposizioni, cioè sulle variazioni rispetto a elementi comuni (es. president ~ student sono in opposizione perché hanno in comune il suffisso “ent” e differiscono per la radice). Il valore di un’unità è il posto che essa occupa nel sistema, dato dalle opposizioni in cui rientra.
LA SEGMENTAZIONE
Quando il parlante elabora una serie, all’orecchio dell’ascoltatore non giungerà un susseguirsi di parole delimitate da silenzi (o “spazi bianchi” come avviene nello scritto), ma una sequela, un continuum o catena del parlato sulla quale egli effettuerà una segmentazione riconoscendo le unità linguistiche, e di conseguenza, i significati. Attraverso la segmentazione si spezza la catena dell’enunciato, idealmente continua, secondo una gerarchia, fino ad arrivare alla segmentazione ultima in unità prive di significato (dai testi, alle frasi, ai lessemi, ai morfemi, fino ai fonemi).
Durante il processo di segmentazione si può intercorrere in ambiguità di tipo sintattico.
Esempio: la frase “la vecchia porta la sbarra” giunge all’orecchio dell’ascoltatore come una catena continua (“lavecchiaportalasbarra”). L’unica segmentazione possibile è quella effettuata sopra. L’ambiguità cui andiamo incontro sta nelle diverse analisi sintattiche che ne possiamo fare: è una donna anziana a reggere una trave, o una porta antica a sprangare qualcosa?
Un altro esempio viene riportato da Ferdinand de Saussure: in francese le due frasi “si je la prends” e “si je l’apprends” hanno esattamente lo stesso suono, ma differiscono per la segmentazione (“se la prendo” e “se l’apprendo”).
LA SEMANTICA
Un’unità linguistica ha una porzione costante di sonorità in rapporto alla capacità di portare significato. Il parlante ha coscienza dell’unità linguistica in quanto essa possiede un significante, un significato e una significazione (ossia la capacità di ricondursi a un aspetto della realtà). La branca della linguistica interessata allo studio dell’analisi dei segni in rapporto alla significazione è denominata semantica (dal greco semaino, “rappresento, indico”).
LE OPPOSIZIONI
I fonemi possiedono contenuto fonologico (termine introdotto da Trubetzkoy per designare l’insieme dei tratti rilevanti di un fonema), in base al quale presentano una base di comparazione uguale ma alcuni fattori che li differenziano.
Ad esempio, i due fonemi /m/ e /n/ sono entrambi consonanti nasali, ma differiscono per il luogo di articolazione, rispettivamente bilabiale ed alveolare.
Tali opposizioni possono essere in alcuni casi neutralizzate.
Esempio 1: Giandomenico / ʤando'meniko/ Gianpaolo / ʤam'paolo/
Il fonema resta in entrambi i casi /n/, ma nel secondo la successione di /n/ con la bilabiale /p/ fa sì che il fono pronunciato sia [m]. L’opposizione tra /m/ ed /n/ si è neutralizzata.
Esempio 2: in tedesco bund ~ bunt vengono letti allo stesso modo [bunt] dove /t/ rappresenta l’arcifonema con neutralizzazione del tratto oppositivo sordo ~ sonoro.
Esempio 3: com-passione con-tinenza
“Com” e “con” derivano entrambi dal latino cum ma, considerato che in italiano la terminazione in /m/ non è concessa, entrambi i termini vengono assimilati a “con”, neutralizzando l’opposizione.
Un fonema è quindi un fascio di varianti, può possedere cioè diverse realizzazioni che si distribuiscono senza che per questo la nostra rappresentazione mentale di esso sia diversa. La /n/ dentale di “intenso”, quella labiodentale di “inferno”, quella velare di “ingoiare”, come quella bilabiale di “Gianpaolo”, sono tutte varianti combinatorie dello stesso fonema, cioè le diverse realizzazioni che possono essere previste in base al contesto fonetico. Ciascuna di tali varianti è definita allòfono.
Allo stesso modo esistono le varianti dei morfemi, dette allomòrfi (es. il ~ lo sono due forme dell’articolo determinativo maschile e singolare, ma l’utilizzo dell’una o dell’altra è decretato dal suono iniziale del sostantivo che le segue).
Si osservano anche varianti dei lessemi (es. rosato/roseo)
Le varianti possono anche essere libere, se possono scambiarsi tra loro all'interno di una stessa parola senza modificarne il significato. Un tipico esempio di varianti libere sono le inflessioni regionali (es. 'sempre ~ 'sεmpre in Lombardia, 'ʤɔrno ~ 'ʤorno al Sud Italia, ecc.), o la cosiddetta “erre moscia”, che non compromettono la comprensione reciproca né vengono percepiti come errori grammaticali dai parlanti di quella lingua. Esempio diverso di varianti libere sono tra~fra, che rivestono lo stesso significato e il cui utilizzo indistinto è determinato semplicemente da una scelta individuale.
LA MARCA
La marca è un tratto funzionale che si verifica nelle opposizioni privative. Una forma marcata, meno naturale, si contrappone alla corrispondente forma non marcata, che è la forma basilare, neutrale. Il termine marca può essere utilizzato in qualunque tipo di opposizione linguistica.
Esempi:
Opposizione semantica: nelle frasi “ci penso tutti i giorni” e “ci penso tutte le notti”, giorni e notti sono in opposizione. Tuttavia, il primo termine può includere il secondo, dal momento che “tutti i giorni” può essere interpretato come “a tutte le ore della giornata”, e quindi anche di notte; al contrario “tutte le notti” non include le ore diurne. In tale opposizione, giorno costituisce il termine non marcato e notte quello marcato. Dall’esempio possiamo facilmente dedurre come il termine non marcato sia utilizzato generalmente con maggiore frequenza.
Opposizione morfologica: studente è il termine non marcato rispetto a studentessa. Di norma nelle opposizioni morfologiche il termine non marcato è il maschile. Esistono tuttavia delle eccezioni (es. “mucca” è il termine non marcato rispetto a “toro”(ho visto una mandria di mucche).
Opposizione fonologica: /'pεska/ e /'peska/ costituiscono una coppia minima. Parole che condividono la loro radice, come rispettivamente /pe'sketo/ e /peska'tore/, presentano in entrambi i casi la /e/, che è la forma non marcata rispetto a /ε/, poiché le vocali in posizione atona sono sempre chiuse.
LO STRUTTURALISMO
La scuola linguistica post-saussuriana o strutturale (che annovera tra i suoi componenti Martinet, Jakobson, Hjelmslev) pose molta attenzione alle modificazioni che le sostituzioni nel significante operano sul piano del significato; in particolare, agli elementi che restano costanti (invarianti) in opposizione alle varianti con cui può un elemento linguistico può presentarsi.
Esempio:
toro ~ vacca invariante del contenuto (se si sostituisce il ‘tratto’ di contenuto ‘maschile’ col tratto ‘femminile’ uniti al tratto ‘bovino’ abbiamo una variazione sul piano dell’espressione (due forme fonetiche diverse)
piccione (maschio) ~ piccione (femmina) variante del contenuto (se si sostituisce il ‘tratto’ di contenuto ‘maschile’ col tratto ‘femminile’ uniti al tratto ‘piccione’ non abbiamo una variazione sul piano dell’espressione (la parola è la stessa).
Sulla scia di Saussure, Hjelmslev conia in proposito una nuova terminologia: i concetti di espressione (corrispettivo del saussuriano significante) e contenuto (corrispettivo di significato).
Leonard Bloomfield è invece un esponente americano dello strutturalismo che prediligeva lo studio delle forme sul piano sintagmatico. Molti studiosi attivi in America infatti, si trovarono a contatto con le lingue degli indigeni (indiani), particolarmente complesse in riferimento al numero di morfermi e alla lunghezza dei lessemi. Fu Bloomfield a dividere le forma linguistiche in libere e legate e a definire il morfema come “la forma linguistica libera minima”.
9 Dicembre 2010
La struttura linguistica
Nella lingua domina una struttura a catena in quanto i morfemi si “attaccano” gli uni agli altri creando un’articolazione che ha dimensione lineare.
I due caratteri del segno linguistico sono definiti da Saussure:
arbitrarietà del rapporto fra significante e significato e linearità del significante (il significante ha, cioè, la dimensione del tempo perché si sviluppa come una linea)
Abbiamo visto studiando la morfologia come gli elementi della parola si “attacchino” gli uni agli altri in una dimensione lineare.
TIPOLOGIA
Non in tutte le lingue le parole sono articolate; in alcune lingue le parole sono “atomiche”, non analizzabili, in quanto non si possono scomporre in elementi/morfemi più piccoli. In queste lingue la parola è sempre invariabile, spesso coincide con la radice, non presenta affissazioni.
Di fronte alle varietà delle lingue del mondo alcuni studiosi dell’epoca romantica hanno provato a classificare le lingue, individuando dei tipi linguistici in base alla forma delle parole e al modo in cui la parola poteva modificarsi (“tipologia morfologica”).
I fratelli Schlegel, August e Friedrich (importanti studiosi del romanticismo tedesco) hanno classificato le lingue in questo modo:
- Lingue FLESSIVE
- Lingue AGGLUTINANTI
- Lingue ISOLANTI
Non a caso è questo l’ordine della classificazione, in quanto, le prime sono, nell’ottica dei fratelli Schlegel, le migliori (quelle più perfette); quelle agglutinanti sono le più facili da utilizzare (sono perciò anche le più frequenti) e quelle isolanti, invece, sono considerate le più rozze, le più primitive.
Le lingue flessive
Sono lingue arbitrarie (cioè, non è facile prevedere quali saranno i morfemi ) come l’italiano ed il latino.
Esempio:
Cane - Lupo
(la desinenza è sempre maschile singolare ma la prima volta è –e e la volta successiva è -o )
Ed ancora: honoris, manus, diei, rosae (diverse forme di genitivo singolare)
In questo tipo di lingue la radice ha la caratteristica di governare sui suoi suffissi e le sue desinenze.
Non permettono quasi mai la separazione fra le singole porzioni significative dei morfemi ed i morfemi stessi perché fondono dentro di loro i significati (es. flor-ibus maschile+ plurale+ ablativo/dativo).
Lingue agglutinanti
Sono lingue facilmente utilizzabili, per questo sono anche le più frequenti.
In queste lingue i morfemi si stabiliscono in una struttura fissa(si attaccano, si uniscono gli uni agli altri) ma i singoli morfemi (presi singolarmente) mantengono il loro significato autonomo.
Una di queste lingue è l’ungherese
Esempio:
“kertben” -> nel giardino
kert= giardino
ben=dentro
(si tratta di due nuclei con valore autonomo
Ed ancora: “kertekben”
kert=giardino
ek=plurale
ben=dentro
Questi morfemi non si possono chiamare suffissi perché hanno un loro significato autonomo e completo.
Le parole sono articolate e facilmente “disarticolabili”, possono essere scomposte in pezzi (in particelle facilmente riconoscibili, identificabili e separabili che occupano sempre la stessa posizione).
Lingue isolanti
Sono lingue che hanno parole non modificabili. Una parola non può avere affissi né desinenze, ed in base alla sua posizione si capisce se è un nome o un aggettivo, verbo etc.
Le lingue isolanti sono poche e si trovano tutte nell’Asia orientale ( un esempio è il cinese).
Secondo i fratelli Schlegel le lingue agglutinanti e isolanti sono meccaniche (è facile scomporre le parole) e sono utilizzate da popolazioni meno evolute o nomadi; mentre le lingue flessive sono organiche, vive (è difficile scomporre le parole), hanno maggiore “plasticità”, più arbitrarie e degne di popolazioni più evolute.
Ecco che una differenza sul piano morfologico diventa anche un pregiudizio di ordine culturale (una classifica delle lingue migliori, intermedie ed inferiori)
La classificazione dei fratelli Schlegel è una classificazione tipologica, ma esiste anche un altro tipo di classificazione: quella per famiglie (o classificazione genealogica) che presuppone che le lingue simili abbiano la stessa origine.
Le lingue flessive appartengono a popoli occidentali (a famiglie di razza bianca), a culture più evolute (famiglia indoeuropea -> latino, italiano.. ; famiglia semitica-> arabo, lingue babilonesi, lingue camitiche come l’antico egiziano)
Le lingue amerindiane
Dopo la scoperta dell’America, si constatò che le lingue parlate dai nativi americani erano “strane” perché IPERAGGLUTINANTI (consistenti in parole lunghe che potevano contenere diversi morfemi, morfemi radicali, e molti suffissi); ciò creò un pregiudizio verso questi popoli (si arrivò addirittura a pensare che non fossero umani) perché parlavano lingue troppo lontane, geograficamente dal luogo in cui Dio aveva confuso le lingue (mito della “torre di Babele”; la varietà linguistica era infatti interpretata nella Bibbia come una forma di punizione mandata da Dio).
Quindi, il pregiudizio linguistico sta nel ritenere le lingue simili a quelle europee (latino, greco etc., tutte lingue flessive) come lingue superiori, e con loro anche le popolazioni che le utilizzano.
Edward Sapir (1884-1939)
è stato un grande linguista, assai sensibile al problema della varietà linguistica .
Egli studiò il rapporto fra lingua e cultura e “Language” (1921) è la sua opera più importante, in cui egli affronta da vari punti di vista la varietà delle lingue (Sapir vuole individuare a livello universale tutto ciò che è possibile nelle lingue).
Due importanti capitoli di quest’opera sono:
“La forma nella lingua: processi grammaticali” e “La forma nella lingua: concetti grammaticali”
I processi ed i concetti grammaticali sono tratti universali, che possono presentarsi in tutte le lingue del mondo.
Collegamento al testo inglese di Language
PROCESSI GRAMMATICALI:
Riguardano le forme che la lingua può assumere.
Sono gli strumenti per l’espressione dei concetti in quanto per Sapir la lingua è comunicazione di concetti.
- ORDINE DELLE PAROLE (vi sono lingue in cui l’ordine delle parole è fisso, ci sono delle restrizioni linguistiche, come nel caso dell’inglese)
- COMPOSIZIONE
È il processo grammaticale per cui due elementi autonomi si uniscono e diventano un’unica forma, non si separano più.
Esempio: Bláckbird=merlo (un solo accento)
Diverso da Bláck bírd= uccello nero (ordine delle parole, due accenti)
- AFFISSAZIONE (prefissi, suffissi e desinenze che si dispongono intorno la radice)
- MODIFICAZIONE VOCALICA o CONSONANTICA (serve per esprimere concetti diversi)
Esempio: was –were
Si ha una mutazione consonantica, un fenomeno di “rotacismo” per cui la /s/ intervocalica diventa /r/ quando l’accento cade nella sillaba seguente.
- RADDOPPIAMENTO (ripetizione di una parte della parola o di tutta la parola)
Esempio: “vieni subito subito”
Il raddoppiamento può essere usato nella grammatica. Esempio in greco : presente pemp , perfetto pépompha (il perfetto greco è caratterizzato da modificazione vocalica, modificazione consonantica e raddoppiamento)
- MUTAMENTO di ACCENTO (es: cerco – cercò)
CONCETTI GRAMMATICALI:
Secondo Sapir la forma linguistica ha lo scopo di permettere la comunicazione dei concetti
- Concetti CONCRETI (si esprimono in tutte le lingue del mondo,sono obbligatori)
Esprimono qualità, oggetti, azioni e tutti gli elementi della realtà.
Esempio: “la ragazza cammina per strada”
“La ragazza”, “cammina” e “strada” sono concetti concreti.
- Concetti RELAZIONALI (anch’essi si esprimono in tutte le lingue)
Mettono in relazione fra loro i concetti concreti
Se prendiamo in esempio sempre la frase precedente vediamo che “ragazza” è soggetto e “cammina” è verbo, ecc.
C’è una grande differenza fra le lingue perché ogni lingua esprime i concetti relazionali in modi diversi.
I concetti relazionali si dicono CONCRETI quando sono espressi simultaneamente al concetto concreto
Es: puella ambulat (sappiamo che “puella” è soggetto per la sua desinenza -a)
I concetti relazionali si dicono PURI quando vengono usate delle parti esterne alla parola per esprimere concetti grammaticali (non si usano quindi le desinenze)
Es: la ragazza cammina (sappiamo che “ragazza” è soggetto per la disposizione delle parole nella frase)
Ed ancora: vanno à concetto relazionale concreto (desinenza di persona)
they go à concetto relazionale puro (presenza della forma libera they
- Concetti DERIVATIVI
Es: gattino
Alcune lingue non hanno la possibilità di utilizzare concetti derivativi, e tra queste c’è il francese. In francese ,infatti, per dire “gattino” si è obbligati ad usare l’aggettivo: “petit chat”.
14 dicembre
IL CONFRONTO TRA LINGUE
La classificazione dei fratelli Schlegel (Friedrich e Wilhelm August) delle lingue del mondo in tre tipi morfologici fondamentali ci mette in risalto una delle attività del linguista: la comparazione tra lingue, che consente l’individuazione di tratti comuni, somiglianze e diversità.
La tipologia linguistica in generale porta all’identificazione dei cosiddetti universali linguistici, ossia i principi linguistici comuni a tutte le lingue, tra i quali distinguiamo:
Universali necessari (o assoluti):
tratti che ogni lingua deve presentare necessariamente per potersi definire tale (es. linearità del significante, il rapporto tra significante e significato, la doppia articolazione).
Universali possibili:
tratti che qualsiasi lingua potrebbe potenzialmente avere o acquisire col tempo (se non li possiede già). Ogni processo grammaticale presente in una lingua è un universale possibile.
Esempio : i sei processi grammaticali descritti da Sapir sono tutti universali possibili.
Molte lingue – tra le quali l’inglese – sfruttano l’ordine delle parole per esprimere concetti relazionali; altre tuttavia – tra cui il latino – esprimono gli stessi attraverso suffissazione. Ancora, la mutazione vocalica è molto frequente nel greco ma poco nell’italiano (es. faccio/feci).
Ciò indica che gli universali possibili hanno la potenzialità di essere sfruttati da una qualunque lingua, ma il fenomeno non si verifica necessariamente perché le lingue si evolvono diversamente.
Universali empirici:
caratteristiche comuni a tutte le lingue (o statisticamente alla maggior parte di esse), non perché necessarie, ma perché effettivamente più diffuse.
TIPOLOGIA DELL’ORDINE BASICO
Joseph Greenberg classificò le lingue secondo l’ordine basico, ossia l’ordine di alcuni elementi grammaticali all’interno della frase. In particolare, prese in considerazione S(oggetto), V(erbo) e O(ggetto). Tali concetti relazionali sono presenti in tutte le lingue, e 6 sono le possibili combinazioni nelle quali li possiamo disporre (universali possibili): SVO, SOV, VOS, VSO, OVS, OSV. Greenberg scoprì che SOV (Soggetto-Verbo-Oggetto) è un universale empirico, in quanto è l’ordine presente con maggiore frequenza. È un universale empirico – più genericamente – anche il soggetto che precede l’oggetto, quindi SOV, SVO e VSO sono i tre ordini più diffusi.
Altri ordini basici studiati da Greenberg sono:
N(ome) A(ggettivo)
Pr(eposizioni) Po(sposizioni)
Gen(itivo) N(ome)
TIPOLOGIA DI SAPIR
Sapir, parallelamente, classificò le lingue a partire dal tipo di concetti espressi, in:
a) puro – relazionali – derivanti
b) puro – relazionali – non derivanti
c) concreto – relazionali – derivanti
d) concreto – relazionali – non derivanti
a seconda che esprimano concetti puri o concreti e presentino o meno concetti derivativi.
Sapir fa una seconda classificazione delle lingue in base al loro grado di sintesi.
Esempio : italiano latino
al lupo lupo
Il latino è una lingua più sintetica dell’italiano in quanto richiede un minor numero di parole per l’espressione di un concetto (in questo caso il dativo).
In questo senso il cinese è iperanalitico, mentre le lingue degli indiani d’America sono polisintetiche.
Esistono anche altri criteri di classificazione delle lingue; ne abbiamo analizzati solo alcuni.
La tipologia di una lingua è soggetta a mutamento nel tempo (es. il latino, “trasformatosi” col tempo nell’attuale italiano, ha perso di sinteticità). Secondo Sapir, l’unica barriera al mutamento linguistico si trova tra le lingue che esprimono concetti relazionali puri e quelle che esprimono concetti relazionali concreti. In tal modo Sapir attribuisce personalità alle lingue, nel modo in cui le attitudini di un popolo rimangono statiche nel tempo. Humboldt definisce questa personalità, questo genio caratteristico di ogni lingua “forma linguistica interna”.
L’ORIGINE DEL LINGUAGGIO
La ricerca di universali può spingere, oltre alla classificazione tipologica di cui sopra, a nutrire l’idea di un’origine comune delle lingue (monogenesi).
In assenza di alcuna traccia storica che confermi l’ipotesi, le congetture sono state tra le più varie.
Oggi quella più accolta vuole che la culla del linguaggio articolato sia stata l’Africa, almeno 50.000 anni fa (all’inizio del Neolitico) o forse di più. Ciò che rende diverso il nostro linguaggio da quello dei primati, o di altri animali in genere, è la sua articolazione in parti. Teorie ipotizzano addirittura che l’Homo Sapiens abbia soppiantato l’uomo di Neanderthal perché, a differenza di quest’ultimo, egli possedeva un primordiale linguaggio articolato.
La Bibbia: origine
La mitologia ci offre molte più informazioni riguardo la nascita del linguaggio, a partire dalla Genesi biblica.
Alla creazione di Adamo, Dio gli fa sfilare davanti gli animali e gli chiede di assegnare a ciascuno di essi un nome. La lingua nasce quindi in quanto determinazione del lessico, come strumento per etichettare gli oggetti esterni.
Dio addormenta Adamo, gli toglie una costola e da questa crea la donna, Eva. Al suo risveglio Adamo le parla in ebraico: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa.».
La frase presenta processi grammaticali quali forme flesse e preposizioni.
E ancora: «La si chiamerà donna (in ebraico isha) perché dall'uomo (ish) è stata tolta» descrivendo chiaramente il processo di affissazione per specificare il genere.
La Genesi descrive il passaggio dalla formazione del lessico all’utilizzo della grammatica, che è esattamente il modo in cui gli studiosi al giorno d’oggi pensano si sia sviluppato il linguaggio.
La Bibbia:moltiplicazione
La Bibbia narra, sotto forma del mito della torre di Babele (o Babilonia), anche il processo di moltiplicazione delle lingue. L’impero babilonese era multietnico, vi si parlavano numerose lingue, sia quelle dei popoli assoggettati, sia quelle di persone (seppure in numero esiguo) arrivate da altri paesi per lavorarvi. Il popolo ebraico era d’altro canto unitario e nomade, per cui venendo a contatto con una realtà così multirazziale e progredita come quella dei babilonesi (basti pensare alle ziqqurat, imponenti tronchi di piramide alti decine di metri che fungevano da templi) ne volle dare una spiegazione di carattere discriminatorio. Secondo la narrazione, infatti, gli uomini intrapresero la costruzione di una piramide che arrivasse a toccare il cielo (riferimento alle ziqqurat). Per punire la loro presunzione e impedire che portassero a termine il lavoro, Dio confuse le lingue in modo tale che essi non si comprendessero più l’uno con l’altro.
Genetica
Di recente sono stati intrapresi studi di carattere genetico che possano evidenziare negli uomini difformità biologiche (ad esempio nel DNA) in rapporto alle differenze linguistiche. A tali studi si è interessato in particolar modo Luigi Luca Cavalli Sforza, autore di “Geni, popoli e lingue”.
LE LINGUE INDOEUROPEE
Se la monogesi resta un’ipotesi, altri studi hanno confermato l’esistenza di un gruppo compatto di lingue con notevoli caratteristiche comuni: le lingue indoeuropee. Il loro territorio di estensione va dall’India fino all’oceano Atlantico. Le principali lingue del gruppo indoeuropeo sono:
Gruppo germanico: svedese, norvegese, danese, islandese, inglese, tedesco (alto e basso), nederlandese
Gruppo celtico: islandese, gallese, scozzese, bretone
Gruppo baltico: lituano e lettone
Italico o osco umbro (parlato sul territorio italiano prima e accanto al latino)
Lingue neolatine (direttamente sviluppate dal latino) : italiano ( in tre aree dialettali),
sardo francese, franco-provenzale e provenzale, spagnolo, portoghese, catalano,ladino,
rumeno.
Albanese
Greco
Gruppo slavo: russo, ucraino, polacco, ceco, slovacco, sloveno, serbocroato, bulgaro
Gruppo indo- iranico: iranico, indiano (tra cui l’antico sanscrito)
Come ci mostra la cartina, oggi alcune di queste lingue hanno allargato i loro confini Europei. L’inglese è parlato, oltre che nel Regno Unito, in Canada, Australia e negli USA; lo spagnolo in Spagna, Cile, Colombia, Cuba, Messico, Nuovo Messico (U.S.A.), Perù, Argentina ed altri 20 paesi; il portoghese in Angola, Brasile, Capo Verde, Guinea Bissau, Macao (Cina), Goa (India), Mozambico, São Tomé e Príncipe, Timor Est, oltre che in Portogallo.
(le lingue indoeuropee occupano l’area verde chiaro)
Possedendo le lingue indoeuropee una lunga tradizione scritta, molte e notevoli sono state le somiglianze individuate a partire dai testi più antichi, e tutte confrontabili col sanscrito.
Il sanscrito è un’antica lingua letteraria dell’India, dove tutt’oggi si parlano varietà più moderne. I primi testi in sanscrito sono antichissimi, risalgono al II millennio a.C., tuttavia furono conosciuti in Europa e diventarono di grande interesse per gli studiosi solo a partire dalla fine del XVIII secolo, in corrispondenza con la corrente del Romanticismo e l’attenzione che esso rivolgeva a tutto ciò che era antico o esotico.
Il primo grande studioso della lingua sanscrita fu William Jones, filologo e magistrato britannico che, durante i suoi studi a Calcutta, si accorse di numerose somiglianze tra il lessico del greco e del sanscrito, sfatando il mito che il latino derivasse dal greco (derivarono parallelamente entrambi da un’unica lingua).
Esempio: sanscrito greco
sarpa serpes(serpe)
bharami phero(portare)
Nell’entusiasmo generale per la nuova scoperta, lo stesso Friedrich Schlegel inserisce nel suo libro “Über die Sprache und Weisheit der Indier” (sulla lingua e la sapienza degli indiani) una novella in sanscrito con un commento linguistico, mettendo in rilievo lo stretto rapporto di parentela tra questa lingua e, oltre alle lingue classiche, anche quelle germaniche e il persiano, commettendo però l'errore di considerare il sanscrito la fonte da cui sono derivate le altre lingue.
Il problema fu invece risolto pochi anni dopo da Franz Bopp che nel 1816 scoprì un omologia totale nei sistemi di coniugazione verbale del sanscrito, del greco, del latino, del persiano e delle antiche lingue germaniche.
Esempio: sanscrito greco
da-da-mi di-do-mi (dare-io)
Egli dimostrò la somiglianza non sono tipologica, ma genealogica di queste lingue e ne trovò la comune origine non già nel sanscrito, ma in una lingua non documentata da cui è derivato anche il sanscrito, cioè nell'indeuropeo (il sanscrito resta la lingua indoeuropea più conservatrice in assoluto, che mantiene tutte le forme originali e ne presenta poche innovative).
16 Dicembre 2010
FAMIGLIE LINGUISTICHE
Alle famiglie linguistiche appartengono le lingue che hanno una lingua madre in comune. Le lingue, nel corso del tempo, subiscono delle trasformazione (mutano come mutano anche i geni) ma rimane la traccia di un passato in comune. Tra le famiglie linguistiche ricordiamo la famiglia indoeuropea. La scoperta della parentela tra le lingue della famiglia indoeuropea ha dato origine alla linguistica scientifica.
Lingua importante della famiglia indoeuropea è la lingua sanscrita, antica lingua letteraria dell’India; il primo studioso della lingua sanscrita fu WILLIAM JONES, successivamente fu studiata da alcuni studiosi tedeschi, fondatori del romanticismo, tra cui FRIEDRICH SCHLEGEL, scrittore del libro “Sulla lingua e la saggezza degli indiani” (1808), nel quale per la prima volta si confrontano le lingue europee col sanscrito. Tuttavia il fondatore della grammatica comparativa è FRANZ BOPP, il quale passa da una comparazione lessicale ad una comparazione grammaticale. Il problema è dare una collocazione geografica alla lingua madre, e fare ipotesi circa la provenienza dei popoli indoeuropei. Si pensava che l’origina fosse verso oriente, e in una zona settentrionale, dato che in tutte o quasi tutte le lingue indoeuropee si trova la parola FAGGIO. Altro indizio è la parola SALMONE, pesce che si trova in acque fredde.
Un indizio importante è quella della religione, erano venerate divinità celesti e non umane,e questo ha fatto pensare che coloro che veneravano questi dei fossero nomadi. Fra queste divinità celeste c’è ZEUS (greco) e JUPPITER-JOVIS (latino)
JOV e JU hanno la stessa radice dell’equivalente parola in sanscrito, ossia DIAUS.
ZEUS = DJEUS = DIAUS
Zeus era il dio del tempo meteorico e rappresentava la luminosità del cielo.
PALEONTOLOGIA LINGUISTICA
La paleontologia linguistica si è sviluppata e studiata tra l’800e il ‘900, nel tentativo di ricostruire una cultura arcaica indoeuropea. Si ricostruisce il nome di un “capo supremo” (re).
REX (latino) / RAJA (sanscrito)/ RIX (celtico; ad es. Vercingetorix, Asterix)
Si ricostruisce un capo religioso
PONTIFEX = in latino rappresentava la funzione religiosa; sia in sanscrito che in latino il “ Pontifex” rappresenta la possibilità di costruire un ponte che legava il mondo degli uomini con il mondo degli dei.
Lo studio dell’etimologia indoeuropea permette di interpretare le ideologie religiose. Sono state comparate due forme greche e latine per il cibo e la bevanda degli dei “nettare” e “ambrosia”
NEC- (‘morte provocata’, lat. necare ‘ uccidere’) - TAR > suffisso (= la radice di un verbo che significa “attraversare, andare oltre”, cfr. sanscrito tarati = io supero) NECTAR = > bevanda che fa superare la morte provocata.
AM (B) ROSIA > la “B” non è considerata nell’etimologia, quindi
A prefisso negativo (alfa privativa) MR ( sembra essere una radice a grado 0, lat. morior ‘muoio naturalmente’) OSIA > parte suffissale AMBROSIA = cibo che fa superare la morte maturale
MR e NEC sono due tipi di morte: MR > morte naturale, NEC > morte provocata (da NECARE > uccidere).
AMBROSIA e NECTAR garantiscono l’immortalità
Il problema della comparazione indoeuropea dipende anche dalla FONETICA; anche quando delle parole si somigliano tra loro, bisogna scegliere quali tra queste è più simile alla lingua madre.
genus generis (latino)
genos geneos (greco)
ganas ganasas (sanscrito)
Martedì 21 Dicembre
l’alfabeto sanscrito
Lo studio sistematico del sanscrito fu intrapreso nella seconda metà del XVIII secolo, come già detto in precedenza, da William Jones durante la sua permanenza a Calcutta.
Come vediamo dall’immagine, le lettere di questo alfabeto sono legate tra loro da una linea orizzontale che sottolinea la linearità dei significanti, alla quale sembrano “attaccate come panni su un filo” (Garcia Marquez “Cent’anni di solitudine”)). In alcuni casi, la linea può collegare un intero sintagma (linearità del significante e parallela congruenza del significato).
L’alfabeto sanscrito è frutto di veri e propri linguisti dell’antichità, pertanto l’ordine e la classificazione delle lettere non è per niente casuale. Gli studi grammaticali sanscriti risalgono almeno al V secolo a.C. e sono molto accurati.
L’alfabeto sanscrito è diviso in :
10 vocali che comprendono a, i, u, e le corrispettive lunghe ā, ī, ū;
r e l vocaliche (indicate con un puntino sotto), che possono cioè fungere da vocali (definite pertanto contoidi intensi), come nel caso della l nell’inglese little /’lɪtl/. Vengono anch’esse accompagnate dalle corrispettive lunghe.
4 dittonghi 2 brevi (e, o) e 2 lunghi (ai, au)
33 consonanti divise in 8 serie. Le 5 serie di occlusive sono elencate secondo il luogo di articolazione, dal fondo del palato (velari) fino alle labbra (labiali); ciascuna di queste 5 serie comprende in successione la consonante sorda, la sorda aspirata, la sonora, la sonora aspirata e la nasale. Le cacuminali comportano una retroflessione della lingua, come nel siciliano “padda” o “cavaddu”.
Le 3 serie di fricative (sibilanti, semivocali e aspirate) sono anch'esse ordinate secondo il punto di articolazione.
L’ordine sopra elencato corrisponde proprio a quello in cui le lettere sono disposte nell’alfabeto. Esso ha dunque un ordine di esecuzione ben preciso, e ogni suono viene pronunciato appoggiandolo alla vocale “a”.
La grammatica indiana infatti - contrariamente a quella greco-latina che curava principalmente la sintassi – ha puntato gran parte della sua attenzione sulla fonetica.
Le due specie di radici di Bopp
Franz Bopp, fondatore della grammatica comparata, sosteneva che le parole sanscrite ( e quindi quelle delle lingue col sanscrito confrontabili, le lingue indoeuropee) abbiano due radici: una verbale, che esprime oggetti, qualità o eventi (in pratica nomi, aggettivi o verbi) e non è indipendente; e una pronominale, che esprime il rapporto tra radice verbale e soggetto parlante. Tutti i significati delle desinenze, verbali o nominali che siano, sono legati al soggetto parlante (es. in da-da-mi, mi si ricollega al pronome).
LE LEGGI DI GRIMM
Mentre Franz Bopp si sofferma sulle corrispondenze morfologiche, Rasmus Rask è l’iniziatore degli studi fonetici nell’ambito indoeuropeo. Egli si focalizzò sulle lingue germaniche, perché esse si differenziano non tanto per sintassi e morfologia, quanto per i suoni.
Esempio: inglese tedesco
apple apfel
ten zehn
word wort
Le differenze sono più evidenti in riferimento alle occlusive.
Gli studi di Rask furono ripresi e continuati dai due fratelli Grimm, linguisti tedeschi ed esponenti del romanticismo più “maturo”, ricordati principalmente per aver elaborato una raccolta di fiabe del folklore tedesco. Jacob, in particolare, formula la legge di Grimm, che descrive il passaggio delle consonanti indoeuropee a quelle proto-germaniche.
- Le occlusive sorde indoeuropee p,t,k e kʷ (la q di quadro) diventano in proto-germanico fricative sorde f, θ (trascritta "þ", è la th dell’inglese thing), h e hʷ.
Esempio: indoeuropeo *pətér ("padre") à gotico fáðar (cfr. latino pater)
- Le occlusive sonore indoeuropee b, d, g e gʷ diventano in germanico le occlusive sorde p, t, k e kʷ.
Esempio: indoeuropeo *dekṃ ("dieci") à basso tedesco taihun (cfr. latino decem);
- Le occlusive sonore aspirate indoeuropee bh, dh, gh e ghʷ perdono l’aspirazione e diventano in germanico le occlusive sonore b, d, g e gʷ.
Esempio: indoeuropeo *ghostis ("straniero") à alto tedesco antico gast (cfr. latino hostis).
Il fenomeno descritto dalla legge è stato deifinito Erste Deutsche (Germanische) Lautverschiebung ("prima mutazione consonantica germanica"). Al termine della “rotazione consonantica”, vengono recuperate le occlusive sorde e le occlusive sonore, ma d’altro canto scompaiono le occlusive sonore aspirate e vengono create le fricative sorde, che l’indoeuropeo non possedeva. La legge non presenta eccezioni, ed esigue variazioni sono state motivate da Karl Verner in quanto legate alla posizione dell’accento.
La legge di Grimm spiega delle variazioni costanti tra le parole di diverse lingue indoeuropee. Per esempio la 'p' latina (o italiana) corrisponde spesso alla 'f' inglese o tedesca proprio per questa legge, mentre 'k' (scritto 'c') diventa 'h':
Esempio: latino italiano inglese
piscis pesce fish
cor cuore heart
Accanto a tale legge Grimm ne formulò un'altra (o “seconda rotazione consonantica”), detta Zweite Lautverschiebung, che contrappone il sistema consonantico dell'alto tedesco a quello del basso tedesco e delle restanti lingue germaniche, per cui il secondo risulta più arcaico (cioè più vicino al proto-germanico) del primo. Per lo stesso motivo il tedesco moderno risulta avere forme più moderne rispetto all’inglese (es. ted. wasser vs ingl.water).
GLI INDOEUROPEI
Quella ricostruita dai linguisti è una “finzione vera”: l’indoeuropeo non è in alcun modo documentato, tuttavia è stato ricostruito attraverso leggi fisse ed etimologie.
Chi erano gli indoeuropei?
La loro esistenza è stata ipotizzata solo a partire dalla ricostruzione della loro lingua: gran parte delle constatazioni sulla loro storia deriva dall’analisi dell’indoeuropeo stesso.
Si trattava dunque di un popolo nomade di invasori (come intuibile dalle continue frammentazioni sull’albero genealogico, sintomo di desideri di espansione per occupare uno spazio proprio) proveniente dal nord-est. A conferma di ciò, gli stessi achei descritti da Omero nell’Iliade (popolazione indoeuropea) avevano tratti tipicamente nordici: erano biondi e avevano gli occhi chiari. La loro patria (Urheimat) è ancora incerta ed è stata via via identificata con l’India, l’Asia minore, le regioni baltiche o la Russia.
L’idea degli indoeuropei intesi come popolo guerriero e, allo stesso tempo, portatore di innovazioni tecnologiche ai paesi conquistati, è stata ripresa dall’ideologia nazista (basti pensare che ario o ariano è sinonimo di indoeuropeo) e da ideologie razziste più in generale nel corso della storia.
11 Gennaio 2011
Famiglia linguistica
Per famiglia linguistica si intende un gruppo di lingue che presentano all’osservazione (soprattutto grammaticale) una serie di somiglianze tali da far supporre che derivino dalla stessa lingua madre.
Le espressioni “famiglia linguistica” e “parentela linguistica” sono ovviamente delle espressioni metaforiche perche le lingue non sono organismi viventi.
La famiglia indoeuropea è la più importante delle famiglie linguistiche, non perché raggruppa le lingue più parlate ma perché la sua scoperta ha determinato la nascita della linguistica scientifica.
La più importante delle lingue indoeuropee è il sanscrito (non perché sia la lingua madre, come hanno pensato molti studiosi dell’800 ma) perché il carattere trasparente della grammatica sanscrita ha fatto sì che fosse facile confrontare le parti della parola sanscrita con le parti delle parole delle lingue indoeuropee.
L’analisi morfologica (radici, affissi e desinenze) ci permette di descrivere una parola indoeuropea antica. Le lingue moderne si sono infatti allontanate dal modello delle lingue antiche a tal punto che esistono anche parole che rappresentano solo la radice, si pensi ad esempio alle parole inglesi cat e dog , al verbo think o alla parola francese chat. Questo nelle lingue antiche non succede mai.
Per il gruppo delle lingue indoeuropee e per quello delle lingue semitiche (in entrambi i casi lingue flessive) si parla di “parentela” e di “famiglia” perche presentano somiglianze sia nella struttura grammaticale sia nella materia fonica, ma per le altre lingue come quelle agglutinanti è difficile parlare di parentela perché sono distinte e indipendenti le une dalle altre.
Ad esempio: il turco e il giapponese sono due lingue agglutinanti che hanno alcune somiglianze strutturali (come , ad esempio l’ordine delle parole) però non possono essere messe a confronto perché non c’è nessun motivo che può farci pensare ad una qualche parentela linguistica fra le due.
Altre lingue agglutinanti (ad esempio l’ungherese e il finlandese) presentano, invece, delle somiglianze per cui già dal ‘700 si è riconosciuta un’origine comune (unità ungrofinica) però questa parentela non emerge con evidenza come per le lingue indoeuropee.
Quindi la nozione di famiglia linguistica si adatta particolarmente alle lingue flessive anche perché queste sono tutte situate geograficamente vicine le une alle altre e sono “diverse” perché sono raggruppate in sottofamiglie ma non c’è discontinuità.
Le lingue indeuropee non sono tutte arrivate fino ai nostri tempi, sia pure con le loro “figlie”. Alcune si sono estinte:
La lingua ittita è una lingua indoeuropea estinta molto antica parlata nella zona della penisola anatolica che rientra culturalmente (non linguisticamente) nella sfera della cultura che comincia con i sumeri.
Un’altra lingua indoeuropea morta scoperta di recente è il tocario, che era parlato nel Turkestan cinese (est dell’India settentrionale). Si dice che una lingua è indoeuropea in base alla grammatica.
All’inizio si pensava che l’ittito fosse ancore più antico dell’indoeuropee perché vi si sono riscontrate caratteristiche anomale rispetto alle altre lingue indoeuropee; come il fatto di non avere i 3 casi (maschile, femminile e neutro) ma solo 2 casi (animato ed inanimato).
Per il resto, tutte le altre lingue indoeuropee hanno una continuazione fino ai nostri giorni, sono parlate. Ad esempio il latino non è morto perché è continuato dalle lingue romanze.
La famiglia indoeuropea è una grande famiglia che si divide in sottofamiglie.
Lingue romanze
La storia delle lingue neolatine (romanze) è una storia emblematica, ovvero, è l’unico caso in cui conosciamo la lingua madre. Infatti per quanto riguarda l’indoeuropeo noi non lo conosciamo ma lo ricostruiamo, mentre per quanto riguarda le lingue romanze conosciamo una lunga fase di attestazione del latino (circa 1500 anni).
Lingue germaniche
Le lingue germaniche sono un gruppo di lingue indoeuropee divise in tre sottogruppi:
1) orientali (le lingue dei Goti)
di cui abbiamo una lingua attestata che è il gotico di Wulfila (un vescovo rappresentante dell’eresia ariana che fece una traduzione della Bibbia e del Vangelo dal greco)
2) occidentale (inglese, tedesco e olandese)
Angli, Sassoni e Juti che, colonizzarono l’isola britannica, appartenevano alla zona nord della Germania occidentale; quella che viene chiamata “basso tedesca” (il tedesco infatti viene diviso in alto tedesco, parlato sulle montagne del sud, che è la base della lingua tedesca, e basso tedesco, che è alla base dei dialetti tedeschi stttentrionali).
3)settentrionale (danese, svedese, norvegese e islandese).
Sono lingue attestate in epoca più antica.
Parliamo delle lingue germaniche come una famiglia perché hanno notevoli somiglianze sia dal punto di vista grammaticale (verbi forti e verbi deboli) sia dal punto di vista fonetico (legge della seconda rotazione consonantica di Grimm); ma non abbiamo una lingua madre comune, né questa è stata ricostruita (non si ricostruiscono le lingue delle unità intermedie).
Lingue slave
Anche le lingue slave costituiscono una grande famiglia, ma non si ricostruisce lo slavo comune (anche se si pensa che ci sia stato perché le somiglianze sono molte).
La lingua slava di cui ci sono le più antiche attestazioni è l’antico bulgaro (“antico slavo ecclesiastico” lingua liturgica della chiesa ortodossa).
Greco
Un altro caso che ci fa riflettere è quello del greco. Noi parliamo di greco come una lingua unica. In realtà il greco antico è diviso in dialetti che sono, in certi casi, molto diversi gli uni dagli altri.
Il dialetto più importante del greco antico è il dialetto attico che era quello di Atene.
Mentre le colonie in Asia minore diedero origine al dialetto ionico (molto simile all’attico per cui si parla di ionico-attico, che è la varietà greca più importante, infatti, anche Platone scriveva in questo tipo di greco). Contemporaneamente c’erano altri dialetti: dorico (quello di Sparta), eolico (quello dell’isola di Lesbo).
Quindi non si può parlare di un greco originario, non esiste un greco comune(una lingua madre greca comune), si pensa che ci sia stato ma non si conosce. Il greco ci è noto in una diversità. I greci antichi utilizzavano queste varietà come lingue speciali per generi letterari: in certe parti della tragedia utilizzavano il dialetto dorico, nella lirica quello eolico e nella storia quello attico.
Vediamo come la varietà è posta alla base di una tradizione linguistico-letteraria.
Veniamo ora alla famiglia neolatina.
Il latino era una lingua unitaria, non differenziata dialettalmente, e lo diciamo sulla base della documentazione che noi abbiamo di questa lingua.
Si sapeva che c’erano delle varietà; ad esempio si parlava di un sermo castrensis (sermo=lingua parlata, castrum=accampamento) che era la lingua dei soldati parlata negli accampamenti, nelle caserme. Non abbiamo però documentazione del sermo castrensis anche se sappiamo che esisteva.
Possiamo pensare che nelle diverse zone dell’Impero (nelle diverse provincie) il latino doveva essere parlato con un diverso accento provinciale. Però di questo non abbiamo alcuna documentazione, dobbiamo immaginare che così fosse, perché lo vediamo dalle conseguenze; ovvero dal fatto che nelle diverse provincie si sono poi affermate diverse forme di latino che sono alla base delle lingue romanze.
Quindi l’origine delle lingue romanze viene ricondotta soprattutto all’influenza delle popolazioni che abitavano nelle zone su cui il latino si era sovrapposto.
Arriviamo così al concetto di bilinguismo
cioè l’uso di due lingue di ceppo diverso (l’una utilizzata a livello formale – il latino- e l’altra a livello informale, familiare – la lingua autoctona), che persiste per molti secoli.
Per favorire la comprensione da parte di tutti i fedeli, nell' 813, il Concilio di Tours dette la disposizione ai sacerdoti di tenere le prediche in « rusticam Romanam linguam » (lingua romana rustica) e non più in latino.
Gramatica = latino ufficiale, scritto (il latino per antonomasia).
Rustica romana lingua = latino parlato (quello che in seguito si chiamerà volgare).
Si crea così una diglossia
tra due varietà della stessa lingua: la lingua scritta (varietà alta) e la lingua parlata (varietà bassa), quest’ultima differenziata a seconda delle zone. Il motivo per cui non abbiamo forme di latino provinciale è perché quando si scriveva lo si faceva in latino “corretto”, e la documentazione è, naturalmente, solo scritta.
Il latino è stato utilizzato moltissimo, tanto da essere vietato nel 1500 in Francia da Francesco I, con l’ordinanza di Villers-Cotterêts, nella quale ordinava di usare la “lingua del re” (il francese di Parigi) e non più il latino.
In Italia invece il latino si è continuato a scrivere fino all’800. Nella Chiesa cattolica è ancora in uso
Questo ci fa capire (attraverso l’idea della diglossia) di come si possa mantenere in una famiglia linguistica (come quella delle lingue neolatine) una sostanziale unità per la sopravvivenza a lungo della lingua madre, ma anche una progressiva differenziazione.
Una lingua romanza è il risultato di una scelta anche artificiale.
Romeno e Dalmatico (estinto)
La lingua romanza più orientale è il romeno (Dacia); procedendo verso occidente troviamo lingue romanze che oggi non ci sono più come il dalmatico (parlata fino all’800 lungo le coste orientali dell’Adriatico. Dalmazia). L’ultimo parlante rimasto si chiamava Antonio Udino (nome italianizzato di Tuone Udaine) e viveva nell’isola di Veglia (quindi il dalmatico parlato di Udino era una varietà di questa lingua, il vegliotto). Tuone Udaine fu intervistato e studiato dal linguista italiano Matteo Giulio Bartoli, che nel 1906 pubblicò un’opera su questa lingua. Bartoli trasse la conclusione che il mutamento linguistico è determinato dal contatto fra una varietà linguistica e le altre, alcune delle quali “conquistano”, con lo strumento del “fascino” la varietà di minor prestigio; questi studi influenzarono la teoria di Gramsci sull’egemonia.
italiano
Procedendo ancora verso occidente troviamo l’italiano che ha una genesi letteraria: Dante, Petrarca e Boccaccio (i tre grandi scrittori fiorentini) attestarono nelle loro opere una varietà di volgare altissima. Da questo fatto letterario scaturisce la “Questione della lingua” conclusasi poi nell’800 con l’intervento di Alessandro Manzoni che dà vita al modello linguistico con il suo romanzo “ I Promessi Sposi” (la cui lingua, insegnata nelle scuole dell’Italia unitaria, è alla base dell’italiano moderno).
Dante, Petrarca e Boccaccio parlavano il “loro” fiorentino mentre Manzoni era milanese ed era vissuto in Francia per molto tempo quindi conosceva il fiorentino solo come lingua letteraria, non parlata. Perciò andò a vivere per un lungo periodo a Firenze e lì imparò la lingua parlata che userà nel romanzo. (L’opera di Manzoni ha tre redazioni : “Fermo e Lucia”, “Gli sposi promessi” e poi infine “ I promessi sposi” (questa ultima redazione è quindi scritta nella lingua dei ben parlanti fiorentini e non in un generico toscano).
L’italiano ha, quindi, un’origine dotta (letteraria) e diventa lingua unitaria nell’800 su base fiorentina ad opera di Alessandro Manzoni.
Ricordiamo altri dialetti italiani che hanno avuto una dignità letteraria: siciliano (la poesia siciliana del ‘200) e napoletano (“il pentamerone” di Gian Battista Basile).
Andando ancora più ad occidente troviamo il francese
(la lingua romanza di più antica attestazione: Giuramenti di Strasburgo (842), fra due re Ludovico il Germanico, che giura in francese, e con lui il suo esercito, e Carlo il Calvo, che giura in tedesco, con il suo esercito. Nel Medioevo nel territorio francese si parlavano due lingue romanze, denominate in base al modo di esprimere “sì”: a Nord della Loira la lingua d’oil, a Sud la lingua d’oc, alla base delle varietà “occitane o “provenzali. Il francese non ha dialetti importanti (si tende ad ignorarli come varietà deteriori rispetto alla lingua di Parigi), è parlato anche in Belgio, in Svizzera e nella regione del Quebec in Canada.
Procedendo ancora verso occidente troviamo le lingue della penisola iberica.
Da un punto di vista storico si osserva che le lingue di queste antiche provincie romane mostrano coincidenze con l’italiano dell’Italia meridionale; si tratta di un fatto di conservazione, perché nell’esercito romano erano presenti in grande numero soldati provenienti dalle aree abitate da popolazioni Osche (Sanniti); a molti di questi soldati venivano dati in proprietà i territori conquistati, per cui in Spagna arrivarono tantissime popolazioni dell’Italia meridionale che parlavano latino sannitico.
Le lingue parlate nella penisola iberica sono il catalano (che ha come capitale Barcellona e che non è la lingua ufficiale del regno) e il castigliano (che è la lingua ufficiale del regno, la lingua di Madrid). Il castigliano è la stessa lingua che si parla nell’America meridionale.
Infine abbiamo il portoghese che è la lingua romanza più occidentale, parlata anche in Brasile.
13 Gennaio 2011
L
a Varietà linguistica e la nozione di “DIA”
“DIA” è un’espressione greca che significa “attraverso”(ed infatti, diacronico vuol dire: attraverso il tempo).
La nozione di “dia” è stata introdotta da Eugenio Coseriu, uno dei più grandi linguisti del ‘900.
“Dia” è un segno della varietà quindi:
dia-cronico = varietà nel tempo
dia-topico = varietà nello spazio (varietà linguistiche che si incontrano percorrendo un certo spazio)
dia-letti = varietà del parlare (forme linguistiche). Infatti in latino lego, participio lectum = parlare, parlato, lingua. (anche in greco: lego, lexis, logos…)
dia-topico
La varietà linguistica per antonomasia è la varietà diatopica, ed è la più importante perché è nota a tutti. Infatti, il parlante si rende conto della varietà linguistica (relativismo linguistico) proprio constatando come parlano i gruppi etnici più vicini al suo paese (infatti la differenza si constata avviene prima di tutto nel dialetto).
Non è il luogo che fa la differenza linguistica ma sono i parlanti di quel luogo.
Nozione di “SOSTRATO (etnico = di popolo)”
Quando una popolazione è dominata da un’altra popolazione, le abitudini articolatorie della popolazione dominata persistono nel modo di realizzare la lingua del popolo dominatore. (In altri termini: la lingua del popolo dominatore si impone su quella del popolo dominato ma il popolo dominato conserva alcune abitudini articolatorie, che si manifestano nei dialetti moderni).
La nozione di sostrato è stata introdotta da Graziadio Isaia Ascoli (grande linguista italiano dell’800 conosciuto e stimato anche in Europa).
Secodo Ascoli, per parlare di sostrato è necessario verificare alcune prove:
- Prova COROGRAFICA (della “regione”)
Bisogna che la regione in cui si vuole riconoscere un fenomeno di sostrato etnico sia una regione anticamente abitata da quel “popolo dominato”. Ad esempio, se ipotizziamo un fenomeno di “sostrato osco-umbro”, deve essere una regione anticamente abitata da osco-umbri (ci deve essere, cioè, coincidenza fra la sede del popolo antico e il dialetto moderno a cui attribuiamo quel sostrato). Ovviamente non possiamo dire che in una regione vi è il sostrato osco se gli Oschi non l’hanno mai abitata. - Prova di CONGRUENZA INTRINSECA
Bisogna avere le prove che nella lingua di quell’antico popolo fosse presente lo stesso fenomeno che constatiamo nel dialetto moderno(ciò rivela che quel popolo aveva quell’abitudine articolatoria).
Esempio: il latino “mundus” in napoletano diventa “munno” ( fenomeno di sostrato osco-umbro).
La cosa che ci fa pensare che si tratti di un sostrato osco-umbro è
1) il fatto che questa particolarità è stata trovata in luoghi dominati da una popolazione osco-umbra (in questo caso i Campani);
2) nell’antica lingua osca abbiamo casi in cui –nn- corrisponde al latino –nd-
es: osco -> upsanna , latino -> operandam
- Prova di CONGRUENZA ESTRINSECA
Bisognerebbe trovare lo stesso fenomeno anche in altre zone dove vi è stata la stessa popolazione.
Es: gli Oschi si trovavano nell’Italia meridionale ma anche in Spagna, quindi nell’Italia meridionale e in Spagna troviamo fenomeni linguistici simili).
Nell’Osco antico: mb > mm
latino-> palumba
napoletano-> palomma (forma dialettale in zona osca)
spagnolo-> paloma (continuazione della pronuncia osca)
Lo spazio è responsabile della varietà linguistica in quanto è abitato.
Il sostrato è un esempio di persistenza di un’abitudine articolatoria nel tempo.
etnocentrismi
Le varietà linguistiche sono sempre legate ai luoghi; e la varietà (come abbiamo già detto) è la prima esperienza del parlante che si accorge che gli altri popoli parlano con una lingua o un accento diverso.
I popoli nomadi sono etnocentrici (sono concentrati su se stessi) ed hanno comportamenti particolari nei confronti della varietà linguistica.
Gli ebrei, ad esempio, quando arrivarono a Babilonia si meravigliarono per due motivi; innanzitutto quando videro la grandiosità dei templi a terrazze (Ziqqurat = la “Torre” di Babele): infatti, essendo all’origine nomadi e vivendo in tende non avevano mai visto una struttura così alta. L’altro motivo di meraviglia fu la pluralità linguistica che incontrarono nella terra di schiavitù (in fatti le popolazioni nomade sono linguisticamente molto compatte): ciò viene interpretata come punizione divina (parlano lingue diverse e perciò sono stati puniti da Dio), in quanto, secondo gli Ebrei, c’era una sola lingua, ovvero, l’ebraico, la lingua di Adamo, data da Dio. E quindi loro, in quanto popolo eletto, conservavano la lingua originaria, mentre gli altri avevano subito la punizione di Dio.
Quando venne scoperta l’America, i conquistatori europei e cattolici pensarono che quei popoli indigeni non avessero l’anima, in quanto non propriamente umani, perché non ci si spiegava come fossero arrivati così lontano da Babele. E questo era anche un pretesto per ucciderli.
Un altro interessante personaggio, testimone dell’etnolinguismo linguistico – in questo caso dei Greci - è Mitridate (antico re del Ponto). I Greci dicevano che fosse immune rispetto a tutti i veleni (ne assumeva quotidianamente piccole dosi) e che sapesse parlare tutte le lingue. Ciò non era vero, ovviamente. Il fatto è che mentre i Greci avevano solo una lingua (per quanto divisa in dialetti), Mitridate era re di una regione dove vivevano popolazioni diverse e quindi dove vi era una notevole pluralità linguistica; il re doveva conoscere le lingue del suo regno e dei popoli vicini.
Conoscenza delle lingue del mondo
Per far sì che le lingue del mondo siano conosciute e classificate bisogna aspettare l’uscita dei popoli europei dalla loro “culla” e ciò avviene con la scoperta dell’America, con il ‘500, con l’uscita dal Medioevo e col Rinascimento.
I Mithridates
A partire dal 16° secolo si cominciano a fare delle raccolte di lingue: queste raccolte hanno nome “Mithridates” (il più antico Mithridates è quello pubblicato nel 1555 col titolo Mithridates de differentis linguis dal naturalista svizzero protestante Conrad Gessner; il testo del Padre Nostro in latino era rappresentato tradotto in 22 lingue, mentre si dava notizia dell’esistenza di 133 diverse lingue del mondo. ) Queste raccolte vanno avanti fino all’800: famoso quello di Adelung (1806-17, che presenta esempi di 500 lingue).
Fra coloro che facevano aumentare la conoscenza delle lingue del mondo vanno ricordati i missionari, poiché nella loro attività presso i diversi popoli non cristiani traducevano i testi sacri ed erano costretti ad imparare la lingua del posto. Da un certo momento in poi cominciarono a formarsi una serie di grammatiche soprattutto ad opera dei gesuiti. La linguistica gesuita fu molto importante, soprattutto nel ‘700.
Modello naturalistico
Nell’Ottocento la conoscenza delle lingue del mondo subisce il modello delle scienze naturali. Il grande viaggiatore.scienziato dell’800 è Charles Darwin che fece un famoso viaggio intorno al mondo sulla nave Beagle. Egli sperimento nel suo campo la varietà diatopica in quanto notava che con i luoghi cambiavano gli animali.
Anni dopo Friedrich Müller (linguista austriaco) fece un viaggio intorno al mondo “alla ricerca di lingue” (per conoscere le lingue del mondo) sulla nave Novara.
Alla fine del viaggio fece una classificazione delle lingue su base antropologica (in base alle caratteristiche fisiche dei popoli che parlavano queste lingue)
Es: lingue coi capelli lisci, lingue coi capelli crespi, lingue coi capelli ondulati, ecc. Egli quando incontrava popolazioni con caratteristiche fisiche simili o uguali notava che queste parlavano lingue simili.
varietà linguistica = varietà di razza (concezione naturalistica).
La classificazione delle lingue amerindiane
Importante è lo studio (di fine ‘800 fino al XX secolo) delle lingue degli indigeni americani. Queste erano difficili da classificare perché erano molto diverse da quelle europee e anche tra di loro. Nel 1987 il grande linguista americano Joseph Greenberg classificò le lingue americane in tre grandi famiglie ( Language in the Americas, Stanford: Stanford University Press)
1) Eskimo-Aleutina (America settentrionale artica)
2) Na-Dene (America centro-settentrionale)
3) Amerinda (parte America settentrionale, America centrale e meridionale)
Questa è una classificazione diatopica (che si basa sul territorio) e che presuppone che le popolazioni dell’America siano arrivate dall’Asia. Alcuni gruppi etnici dell’Asia settentrionale sarebbero arrivati sul territorio americano (vuoto di popolazioni) andando verso oriente e passando lo stretto di Bering in periodi in cui era gelato, procedendo da Nord-ovest del continente americano) e scendendo verso Sud. Quindi, secondo Greenberg gli americani del sud sarebbero i primi arrivati e gli ultimi arrivati sono quelli rimasti più a nord.
Questa classificazione di Greenberg è stata molto criticata in quanto, essendo queste tutte lingue agglutinanti, è difficili fare una classificazione (cioè ipotizzare una famiglia o addirittura una lingua madre).
Il dialetto
Il dialetto è una varietà linguistica.
La prima cosa che ci viene in mente è la differenza fra dialetto e lingua.
Innanzitutto la lingua è ufficiale (= identifica una nazione) o letteraria (scritta, come ad esempio il sanscrito).
Certe volte le due cose coincidono. Ad esempio l’italiano originariamente era una lingua letteraria che è diventata, poi, lingua ufficiale.
Il dialetto non è una forma corrotta (sbagliata) della lingua ufficiale ma è una varietà diatopica della lingua.
Quindi il discorso della varietà diatopica esige la nozione di DIALETTO.
Isoglosse
Ascoli definisce il dialetto facendo riferimento alla nozione di “ISOGLOSSA”, cioè: una linea che congiunge tutti i punti di una superficie più o meno ampia in cui si trova lo stesso fenomeno linguistico.
DIALETTO = insieme di isoglosse condivise (dove l’isoglossa è un concetto linguistico geografico perché indica la linea che contiene quel particolare fenomeno linguistico), ovvero un territorio identificato dalla combinazione di un certo numero di isoglosse. È la combinazione di isoglosse che definisce un dialetto (in altre parole: un dialetto è caratterizzato dalla presenza simultanea in una certa regione di fenomeni linguistici che possono riapparire separatamente anche altrove).
La nozione di isoglossa è strettamente legata alla dimensione diatopica perché l’isoglossa è fondamentalmente una linea tracciata sulla carta che individua le zone in cui appare un certo fenomeno linguistico. Questa rappresentazione spaziale della varietà diatopica è stata molto coltivata in Italia (ed in particolar modo da Ascoli).
Geografia linguistica
Un grandissimo linguista svizzero, Jules Gilliéron ebbe l’idea di rappresentare la varietà linguistica su base lessicale; facendo un grandioso Atlante linguistico della Francia (siamo intorno al 1900).
Egli si procurò una serie di parole riferite a dei concetti di base (parole semplici) che si trovano soprattutto in ambiente contadino, dopo di che, incaricò una persona di andare in circa settecento punti della Francia (che lui aveva determinato sulla carta geografica) per registrare il modo in cui dicevano quelle parole in quel punto. Dopo di che rappresentò sulla carta geografica della Francia il risultato dell’inchiesta, dedicando ogni pagina ad una parola o una frase semplice: le differenze registrate mostravano in maniera immediata il variare diatopico della lingua.
Lo studio dell’Atlante linguistico della Francia faceva ricostruire una serie di storie, non solo di parole ma anche di popoli. Questa presentazione cartografica dei fenomeni linguistici è su base lessicale (Gillièron fece uno studio della varietà linguistica del lessico, non dei fenomeni fonetici).
18 Gennaio 2011
I dialetti italiani
Come abbiamo detto precedentemente i dialetti sono varietà diatopiche.
Per quanto riguarda l’Italia, esiste una classificazione tradizionale dei dialetti in tre gruppi (alla base ci sono tre tipi di “sostrato”
- dialetti settentrionali
sono a sostrato celtico e sono quelli di Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna. I dialetti veneti restano fuori perché hanno un sostrato veneto (nella zona del moderno veneto abitava una popolazione indoeuropea diversa dalle altre di cui abbiamo delle testimonianze scritte: i veneti)
ATTENZIONE:
Ricordiamo che quando si parla di “attestazioni” si intende attestazioni scritte in quanto non abbiamo altro tipo di attestazione delle lingue antiche. Abbiamo attestate solo le lingue di quei popoli che hanno utilizzato la scrittura per redigere documenti pubblici o oggetti inscritti.
Di molte lingue non abbiamo nessuna attestazione perché parlate da popoli che non avevano l’abitudine di lasciare delle documentazioni scritte.
A questo proposito facciamo una differenza fra lingue arcaiche e lingue di attestazione antica. Le prime sono lingue (non necessariamente di antica attestazione) che conservano tratti, soprattutto grammaticali, che appaiono perduti in altre lingue: fra queste rammentiamo il sanscrito e il greco, il latino, ma anche il lituano, che, presenta tratti arcaici (la sua grammatica somiglia a quella del sanscrito e del greco) anche se i suoi documenti più antichi sono di epoca recente (dopo il mille). Invece altre lingue, come ad esempio l’ittito, pur essendo di attestazione antica, mostrano tratti linguistici che alcuni studiosi hanno considerato come “meno arcaici” rispetto a quelli documentati dal greco e dal sanscrito.
Quindi antica (o recente) è l’attestazione mentre arcaici sono i tratti linguistici.
- dialetti toscani
sono a sostrato etrusco.
L’etrusco era una lingua non indoeuropea parlata nell’Italia antica (anche nell’Italia meridionale come a Capua). Il popolo etrusco è una delle componenti antiche di Roma (re Tarquini). La lingua etrusca quindi era una lingua arcaica nota e parlata. Dopo la conquista romana anche gli Etruschi, come gli altri popoli dell’Italia antica, hanno iniziato a parlare il latino, ma la non somiglianza delle due lingue ha fatto sì che non si manifestassero interferenze fra latino ed etrusco. E’ come dire che nei territori etruschi è stato appreso un latino puro perché i parlanti non l’hanno modificato sotto l’influsso della propria lingua.
Viceversa, nella Roma antica, dove i latini erano molto pochi ed erano circondati da popolazioni italiche che non parlavano latino, ma lingue italiche come il sabino, proprio per la somiglianza fra la lingua materna e la lingua appresa, il latino appare modificato in direzione delle lingue degli abitanti delle zone limitrofe a Roma .
Si pensa che il dialetto toscano sia a sostrato etrusco per due motivi:
l'ipotesi di Merlo
il primo è un’ipotesi di Clemente Merlo (studioso che ha lavorato nella prima metà del ‘900) il quale crede che: nel latino di Roma agisca il sostrato sabino mentre nel latino della Toscana il sostrato etrusco si manifesta nell’assenza di modificazioni.
In altri termini: la prova dell’esistenza di una popolazione non indoeuropea (alloglotta = che parlava un’altra lingua) in Toscana è data dal fatto che il latino qui si è conservato senza modificazione (questo non significa che in Toscana si continui a parlare latino, ma che il toscano è più vicino al latino di quanto non sia il romanesco o il milanese, il veneziano ecc). Merlo sintetizzò quest’idea nell’articolo “Lazio sannita ed Etruria latina”.
L'ipotesi fonetica
- meno sicura è la seconda prova del sostrato etrusco:
la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche
Esempio: casa in toscana è /kasa/ ma la casa diventa /la hasa/
così come la moto viene pronunciata /la motho/ e la scopa diventa /la scoppa/.
Questo fenomeno si chiama GORGIA TOSCANA e viene considerato una forma del sostrato etrusco ma non è sicuro che lo sia perché abbiamo solo la prova corografica e non abbiamo le prove di congruenza intrinseca ed estrinseca.
L’osservazione di Merlo, invece, rivela il sostrato dall’assenza di sostrato.
3) dialetti centro-meridionali
sono divisi in grandi sottogruppi.
Marchigiano-umbro-romanesco
Abruzzese-pugliese meridionale
Molisano-campano-basilisco
Salentino-calabro-siculo
Hanno alcune caratteristiche comuni: un fenomeno è l’assimilazione nd>nn ed mb>mm
Il trattamento di [r]+i semovocalica: contrappone Gennaro a Gennaio, ara a aia
Infatti in Toscana [r] + i = i (area>aria>aia), a Napoli (area>aria>ara) (Gennaio>Gennaro)
Varietà DIASTRATICA
è una varietà sociale (che “attraversa” gli strati sociali).
Queste varietà manifestano linguisticamente la presenza di diverse classi sociali o classi di lavoro (modi di parlare di gruppi: gerghi, lingue settoriali, varietà popolari, lingue segrete, tecno letti, sottocodici).
socio-letti= il modo di parlare dei gruppi sociali.
Oggi i dialetti stanno scomparendo (anche nelle campagne) a causa della grande diffusione della televisione: pertanto l’italiano è la lingua più ascoltata e quindi anche più imitata. Cò non significa che i dialetti non manifestino la loro influenza nelle varietà diastatiche.
Italiano popolare
L’italiano popolare è “una forma di italiano imperfettamente appreso da chi ha come lingua materna, come modello, il dialetto” (Definizione di Manlio Cortelazzo).
Questo è caratterizzato da particolari forme grammaticali che non coincidono con quelle dell’italiano standard (come il che polivalente, le concordanze a senso, ecc.)
L’italiano popolare in Italia è unitario, e va considerato come una varietà diastatica.
Diverso è il caso degli italiani regionali (o addirittura cittadini), dove sono presenti forme linguistiche (grammaticali, lessicali, fonetiche) che i parlanti considerano pienamente italiane e che invece coincidono con il dialetto. Di fronte a questi fenomeni i parlanti ingenui mostrano di confondere italiano regionale e dialetto.
Nell’italiano popolare sono presenti fenomeni di “tabù ” quando si attribuisce ad una parola italiana valore dialettale, e quindi la si evita: es. papà sostituito da babbo, vacca sostituita da mucca, tarallo sostituito da biscotto…
Competenza linguistica fra lingua e dialetto:
il grande linguista contemporaneo Noam Chomsky (Filadelfia, 7 Dicembre 1928), dice che solo il parlante nativo ha la piena competenza della lingua materna. Possiamo dire che oggi è difficile trovare una persona che abbia la piena competenza del dialetto mentre è più facile incontrarne una che abbia la piena conoscenza dell’italiano, tranne in queste zone di confine fra dialetto e lingua che sono zone di confine sociale.
A questo proposito distinguiamo fra bilinguismo, ovvero la conoscenza di due lingue da parte del parlante, e diglossia, cioè la conoscenza di due varietà della lingua (una usata per le situazioni comunicative più alte e l’altra per quelle basse).
Varietà DIAFASICA
è la varietà dello stile, che riguarda l’individuo (ogni individuo ha in sé diverse varietà diafasiche).
idioletto = modo di parlare di un singolo individuo (quello che Saussure chiama “parole”-> atto individuale). Questa nozione è stata molto studiata nell’800 come origine di tutti i mutamenti linguistici (perché è chiaro che i mutamenti linguistici avvengono nell’individuo).
Una persona è tanto colta quante più varietà diafasiche è in grado di utilizzare.
Perché la lingua è parlata dalla società è possibile, da chi ha il potere, cercare di influire sul modo di parlare delle popolazioni.
Si parla di sessismo linguistico quando si vuole manifestare la differenza sessuale nel linguaggio. Per cui, ad esempio, non si dovrebbe dire “il sindaco” ma “la sindaca”.
Giovedì 20 Gennaio
TEORIA DELLA COMUNICAZIONE DI JAKOBSON
Roman Jakobson, linguista russo seguace dello strutturalismo e ammiratore di Saussure, nacque a San Pietroburgo nel 1896. Costretto, come molti suoi concittadini, ad abbandonare la sua patria in seguito alla rivoluzione d’ottobre, si trasferì a Praga dove seguitò i suoi studi linguistici. In questa città, insieme ad altri linguisti e critici letterari (tra cui Trubeckoj, emigrato russo anch’egli) contribuì alla fondazione della scuola di Praga. I componenti di tale scuola misero in particolare evidenza il concetto di funzione del linguaggio, arrivando ad ipotizzare in extremis che esistessero lingue diverse per funzioni diverse. Tra le funzioni possibili, pensiamo a quella di esprimere contenuti, stati emotivi, o alla volontà di influire sull’ascoltatore.
Divenuto un linguista di fama e allontanatosi da Praga, Jakobson si interessò a lungo ai testi poetici. Fu proprio tale interesse che lo portò a riflettere sulla definizione di testo, e a formulare la sua teoria della comunicazione.
La comunicazione nei suoi elementi essenziali è così definita: parlante, messaggio e ascoltatore.
PARLANTE >>> MESSAGGIO >>> ASCOLTATORE
Arricchendo la definizione, Jakobson schematizza sei elementi fondamentali di una comunicazione, distinguendo un mittente (o locutore, o parlante) che è colui che invia un messaggio all’ascoltatore (o interlocutore o destinatario). il messaggio non si esplica solo attraverso la forma, ma è anche portatore di contenuti, che Jakobson definisce contesto (o co-testo, “che va insieme al testo”, in pratica ciò che il testo tratta). Il messaggio dev’essere formulato attraverso un codice (un sistema di segni, in genere una lingua) che risulti comune sia al mittente sia al destinatario, e un contatto che è al tempo stesso un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consente loro di stabilire la comunicazione e di mantenerla.
Esempio: I Promessi Sposi sono un romanzo storico(testo) scritto da Alessandro Manzoni(mittente) in dialetto fiorentino(codice) e consegnato al pubblico(destinatario) tramite la stampa(contatto). Il romanzo è ambientato nel XVII secolo e affronta la storia di Renzo e Lucia, due giovani che vivono in una località lecchese, nei pressi del lago di Como, ecc.ecc…(contesto).
Le funzioni
La comunicazione linguistica assume diverse funzioni che corrispondono a ciascuna delle sei componenti, o "punti di vista".
mittente: funzione espressiva tramite la quale egli esprime i propri stati d’animo, sentimenti,
emozioni, ecc.
destinatario: funzione conativa (dal latino conari, “intraprendere, tentare”) tramite la quale il
mittente cerca di influire sull’ascoltatore
messaggio: funzione poetica (dal greco poieo, “fare”) attraverso la quale il testo manifesta la sua
struttura, il modo in cui è organizzato
contesto: funzione referenziale che espone i contenuti del messaggio
contatto: funzione fatica(dal latino fari, “pronunciare, parlare”) che assicura che il canale di
comunicazione resti aperto (pensiamo ai “ti sento, si…” pronunciati durante una
conversazione telefonica e che esercitano funzione fatica, e non di comune asserzione)
codice: funzione metalinguistica che descrive, cioè, la lingua stessa.
Una comunicazione può essere studiata dal punto di vista di ciascuna di queste componenti, le cui tracce si ritrovano tutte nel testo. Il testo è proprio quella materia linguistica strutturata all’interno della quale si possono ritrovare le tracce delle funzioni linguistiche.
Una traccia della presenza del parlante potrebbe essere il riferimento alla prima persona singolare, una traccia della presenza dell’ascoltatore potrebbe essere l’utilizzo di imperativi. Non dobbiamo tuttavia confonderci: l’atto linguistico appartiene - in quanto creatore - al mittente, l’ascoltatore è “presente” all’interno del messaggio in quanto il mittente si rivolge a lui chiamandolo in causa.
La pragmatica
Con la teoria della comunicazione di Jakobson usciamo dalla descrizione prettamente teorica della lingua, per prendere in esame lo studio degli atti linguistici concreti, a metà strada tra filosofia linguistica e pragmatica(branca della linguistica tesa allo studio della comunicazione linguistica compiuta tramite atti linguistici concreti). La pragmatica è già stata affrontata nella dicotomia saussuriana langue-parole. In effetti Jakobson parte proprio dalla descrizione dell’atto di parole di Saussure e lo sviluppa riempiendolo di contenuti. Lo stesso Saussure presuppone la presenza di almeno due individui (emittente e destinatario) separati dall’aria (canale) attraverso la quale viaggiano le onde sonore portatrici di un messaggio(significante) che a sua volta rivela un contenuto(significato); egli ancora sottintende evidentemente la condivisione dello stesso codice da parte dei due individui affinché la comunicazione avvenga in maniera efficace.
LA DEISSI
La deissi (dal greco deîksis, derivato da deíknymi, “indicare”) è il modo linguistico di agganciare un testo (o messaggio) a una certa situazione comunicativa.
Il concetto di deissi fa riferimento ad espressioni interpretabili solo a partire da tale situazione.
Esistono tre tipi fondamentali di deissi:
deissi temporale: il tempo linguistico è relativo al momento in cui avviene la produzione
linguistica.
Esempio: nella frase “oggi piove”, l’avverbio temporale “oggi” è un deittico temporale che indica esattamente “il giorno in cui il parlante ha eseguito la produzione linguistica”.
deissi spaziale: lo spazio linguistico è relativo al luogo in cui avviene la produzione linguistica.
Esempio: nella frase “guarda qui!”, l’avverbio di luogo “qui” è un deittico spaziale che indica “il luogo in cui il parlante si trovava quando ha eseguito la produzione linguistica”
deissi personale: riguarda il ruolo del parlante e dell’interlocutore durante una comunicazione, e si
manifesta nei pronomi personali e possessivi e negli aggettivi possessivi alle prime e
seconde persone, che si interscambiano in relazione a chi li usa(Jakobson li definisce
shifters, dall’inglese to shift, “spostarsi, cambiarsi”). Proprio per questa ragione, i bambini alle prime armi con la lingua non riescono a utilizzare correttamente le prime e seconde persone, confusi dal loro utilizzo alternato all’interno di una comunicazione, e si riferiscono a se stessi in terza persona.
Esempio: nella frase “non dovresti dirglielo” l’utilizzo della seconda persona singolare del verbo è un deittico personale che indica l’ascoltatore, colui a cui è riferito il messaggio.
I deittici sono presenti in tutte le lingue del mondo(universale linguistico) in quanto servono ad orientare la comunicazione.
LA TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI DI AUSTIN
Restando nell’ambito della pragmatica, affronteremo la teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin, esplicitata nel 1955 durante una sua lezione tenuta all´Università di Harvard e pubblicata col titolo di “How To Do Things With Words”(it. “quando dire è fare”).
Egli sostenne che gli atti linguistici non vengono adoperati esclusivamente per descrivere o constatare un concetto, ma possono anche coinvolgere e influire sull’ascoltatore.
L’atto linguistico può mostrarsi in 3 modi(che possono coesistere all’interno di un enunciato):
atto locutivo: tramite il quale si esplica un concetto, si constata un avvenimento, si informa su un
tema. Verbi chiaramente sintomatici di atto locutivo sono “sostenere, comunicare,
annunciare, constatare, ecc.”.
Esempio: “oggi piove” con semplice scopo constatativo.
atto illocutivo: tramite il quale il parlante si impegna - con una promessa, una minaccia, un’offerta
- nei confronti dell’ascoltatore. Verbi chiaramente identificativi dell’atto illocutivo sono
“promettere, accordare, offrire, minacciare, ecc.”.
Esempio: “oggi piove…” sottintendendo l’offerta “…e io voglio invitarti al cinema”.
atto perlocutivo: tende in qualche modo a modificare la situazione dell’ascoltatore. Verbi
chiaramente sintomatici dell’atto perlocutivo sono “nominare, rilasciare, battezzare, ecc.”.
Esempio: “oggi piove…” con l’accezione di “…prendi l’ombrello e usciamo”.
Martedì 25 Gennaio
semiotica,semiologia e semantica.
Tali termini sono accomunati dalla radice greca sem (dal greco sema, “segno”, da cui il verbo denominale semaino, “faccio segno, significo”), che si identifica con la radice sign di origine latina. Le parole “significante” e “significato” sono infatti espresse in greco con semino (participio presente attivo di semaino, “che fa segno”), e semainómenon (participio passivo dello stesso verbo, “che è significato”).
Un segno è un qualsiasi oggetto che possiede un valore in quanto può essere interpretato come richiamo a un’altra entità.
Esempi: la fede all’anulare è segno che la persona che la indossa è sposata; l’utilizzo esclusivo di vestiti neri è probabilmente segno di un lutto; ecc.
SEMIOTICA E SEMIOLOGIA
Date le premesse, la semiotica si identifica con la semiologia. Entrambi i termini significano “scienza dei simboli”, ma il primo è calco del termine inglese semiotics, coniato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce, il secondo è calco del francese sémiologie, coniato da Saussure.
La semiotica di Peirce
La semiotica di Peirce va inserita nella dimensione del progresso umano, di come l’uomo, tra gli altri animali, abbia creato sistemi di segni convenzionali per comunicare.
Gli studi di Peirce si inseriscono nel campo di un metodo da lui definito “pragmaticismo”.
Secondo la teoria dello studioso, un segno può essere classificato più precisamente come:
Indice: segno che designa per contiguità, cioè perché necessariamente espressione dell’oggetto che
indica.
Esempi: il fumo è indice di combustione perché è necessariamente provocato da essa; un’orma è indice del passaggio di un animale, ecc…
Secondo Peirce gli indici sono molto numerosi, sono i segni più arcaici e vengono utilizzati anche dagli animali che, ad esempio, si allontanano da un oggetto ardente allarmati dal calore o dalla fiamma(indici di combustione).
Icona: segno che significa per somiglianza con l’oggetto designato.
Esempio: i segni affissi alle porte delle toilettes pubbliche che distinguono i bagni maschili da quelli femminili attraverso le rispettive sagome sono icone dei due sessi, in quanto non sussiste identità o contiguità tra il segno e ciò che esso esprime, ma in qualche modo “somiglianza”. La sagoma femminile somiglia a un determinato prototipo di donna (con la gonna).
Un particolare tipo di icona è il diagramma, rappresentazione di dati relativi a un fenomeno.
Il diagramma della febbre, ad esempio, rappresenta l’andamento della malattia al passare dei giorni, quindi il suo configurarsi in un certo modo è motivato.
Simbolo: segno che significa per convenzione, contrariamente agli indici, che sono naturali (il fumo
è naturalmente indice di fuoco), e alle icone, parzialmente naturali (un mandarino, che è un qualcosa di naturale, può essere usato come icona degli agrumi in genere).
Esempio: le bandiere sono simboli, in quanto rappresentano l’uno o l’altro stato in maniera arbitraria, cioè alla base del loro significare deve sussistere un comune consenso.
“Symbols grow”
È stato osservato che in senso diacronico il numero dei simboli tende a crescere perché col tempo indici e icone tendono a convenzionalizzarsi, e se ne perde l’origine naturale.
Le lettere dell’alfabeto fenicio (aleph, “bue”rappresentante un bucranio; beth, “casa” rappresentante una tenda), inizialmente icone, sono diventate col tempo simboli (le lettere A e B non sono più associate ad alcuna delle due entità).
Anche parole iconiche (onomatopee), sono diventate in alcuni casi simboli. Prendiamo l’esempio del latino pipio, pipionis uccello il cui verso nella tenera età ricorda la sonorità della parola stessa, oggi diventato “piccione”, che ha evidentemente perso la sua caratteristica di onomatopea.
D’altronde anche gli indici possono demotivarsi e diventare simboli. Il ramoscello d’ulivo, simbolo apparentemente arbitrario della pace, aveva, nel mito dell’arca di Noè, una motivazione ben precisa del suo significato attuale. Noè, ancora sull’arca, libera una colomba, la quale torna all’imbarcazione con un ramoscello in bocca. Il patriarca della Bibbia utilizza in quel momento una tecnica di navigazione molto antica, probabilmente contemporanea a quelle dei fenici. Al tempo, essendo sconosciute bussole e mappe geografiche, si era soliti portare a bordo degli uccelli, che venivano liberati per poi seguirne la rotta (con molta probabilità gli animali si sarebbero diretti verso la terraferma). Il ramoscello portato nel becco dalla colomba è quindi indice di terraferma, in quanto l’uccello deve averlo necessariamente strappato da un albero piantato su un terreno. Di conseguenza, diventa icona della volontà di Dio di fare pace con gli uomini, perché il diluvio è terminato e le terre stanno riemergendo. Oggi esso ha valore puramente simbolico.
arbitrarietà
I simboli sono anche i segni relativamente più recenti, perché presuppongono il consenso di un certo numero di persone organizzate in un apparato civilizzato.
I simboli sono infatti da un lato arbitrari, cioè immotivati, dall’altro convenzionali. L’arbitrarietà deriva dalla scelta immotivata, in un preciso momento storico, di utilizzare proprio un determinato segno per significare qualcosa; la convenzionalità sottintende un comune accordo tra i parlanti di una stessa lingua ad adottare quel simbolo. Alcuni studiosi hanno tuttavia ipotizzato, riguardo l’origine del lessico, che la scelta di determinati segni linguistici possa essere legata alla loro iconicità, ossia la loro capacità di imitare i rumori della realtà, o al loro valore simbolico (fonosemia): teorie, queste, tuttavia non dimostrabili.
Icone e indici, al contrario, hanno una relazione rispettivamente motivata e necessaria con la realtà che esprimono.
La semiologia di Saussure
Saussure parlava di arbitrarietà tra significante e significato come una delle due caratteristiche fondamentali del segno linguistico (l’altra è la linearità del significante), volendo intendere che i segni linguistici non hanno agganci motivati con la realtà. La sua teoria fu molto contestata, tuttavia Saussure aveva già intuito che l’arbitrarietà dei segni linguistici era relativa, e a tal proposito egli utilizza l’espressione “segno”, e non “simbolo”, nella consapevolezza che esistono simboli motivati. Ad esempio, la bilancia è simbolo di giustizia perché essa pesa in modo pari; diversamente un carro non potrebbe mai simboleggiare la giustizia perché non ce ne sarebbe motivo.
Egli intendeva semplicemente mettere in rilievo che nella realtà non vi è motivo per cui si associa un significante a un significato, essi sono legati solo in virtù della convenzione accettata dai parlanti di un sistema linguistico.
Le stesse onomatopee, motivate per la sonorità affine a quella dell’oggetto designato, sono infine segni linguistici arbitrari. È facile constatarlo, verificando che i versi degli animali sono espressi diversamente da una lingua all’altra (il cane fa “bau” per gli italiani, woof per gli inglesi).
Un altro aspetto fondamentale dei segni è la stretta correlazione tra valore e differenza. I segni assumono valore solo a partire dalle differenze che sussistono con gli altri segni dello stesso sistema. Ciò vuol dire che, nel caso della lingua, il fattore fondamentale della parola non è il suono in se stesso, ma le differenze foniche che permettono di distinguere questa parola da tutte le altre.
Ad ogni modo, Saussure contribuisce alla scienza dei segni coniando anche il termine sémiologie, che egli definisce come “scienza dei sistemi di segni usati nella vita sociale”.
Per sistemi di segni non si intende solo la lingua – nonostante essa costituisca probabilmente quello più completo e sviluppato - ma anche, ad esempio, i segnali di cortesia, i segnali marittimi, ecc. ecc. La linguistica è una branca della semiologia, che ha come oggetto di studio la lingua parlata, ma si avvale anche dei testi scritti che sono un buon modello per comprendere i suoi meccanismi di funzionamento.
SEMANTICA
La semantica è una scienza, al confine tra psicologia, filosofia e scienze della comunicazione, che studia il semainómenon, cioè il significato.
Tuttavia, poiché un significato può essere comunicato solo attraverso un significante (la telepatia non esiste!), risulta impossibile scindere i due elementi e studiarli a prescindere l’uno dall’altro.
Il triangolo di Ogden e Richards
Nel 1923 gli inglesi Charles Kay Ogden (filosofo) e Ivor Amstrong Richards (critico letterario) collaborarono alla stesura del libro The Meaning of Meaning, “il significato di “significato””, proponendo il loro modello della funzione simbolica, meglio noto come triangolo di Ogden e Richards.
La base del triangolo è tratteggiata, a significare che per collegare un segno alla realtà è necessario passare per il pensiero. Quindi, affinché un segno identifichi un certo referente, esso dev’essere prima interpretato dal pensiero (definito appunto da Peirce interpretante).
Il significato della linea tratteggiata è espresso anche dal pensiero di Saussure, quando dice che significante e significato non hanno agganci nella realtà, ma devono passare per la convenzione. La teoria di Ogden e Richards, ad ogni modo, fu elaborata indipendentemente dallo studio di Saussure, e cerca di conciliare le idee di quest’ultimo con quelle di Peirce.
L’analisi semica
Parallelamente all’analisi fonologica, è stata tentata una più tortuosa analisi dei tratti semantici (o ‘semici’), riconoscendo per ogni significato i tratti distintivi. Per fare questo, bisogna creare dei campi semantici (o di significato), cioè gruppi di parole che si riferiscono alla stessa area di significati.
Ad esempio, tutti i termini che indicano oggetti per sedersi (sedia, poltrona, divano, sofà, sgabello, panca, puff, trono, sedile, altalena, passeggino, ecc.) potrebbero costituire un campo semantico.
Di questi, “sedile” è il termine più generico, il cui significato può inglobare tutti gli altri, ed è per questo detto iperonimo (iper-, dal greco hypér, “sopra”), che sta ad indicare la superiorità di quel nome rispetto agli altri, che, al contrario, sono detti iponimi (ipo-, dal greco hypó “sotto”).
Esempio: “albero” è iperonimo di “quercia”, e, viceversa, “quercia” è iponimo di “albero”.
Le lingue si differenziano anche nella designazione dei referenti, per cui, ad esempio, la differenza che sussiste in italiano tra “foresta” e “legno” è annullata nell’ “iperonimo” inglese wood.
27 Gennaio 2011
DIMENSIONE SINTATTICA
analisi logica
La sintassi (intesa come analisi logica) è stata sempre studiata come il riflesso del pensiero sulla lingua.
Secondo Aristotele il pensiero ha delle categorie (sostanza, qualità, azione, fare qualcosa, ecc) che si trovano anche nella lingua (la sostanza si trova nel sostantivo, la qualità nell’aggettivo, l’agire nel verbo attivo, il subire nel verbo passivo, ecc).
C’è quindi una perfetta corrispondenza fra pensiero e lingua per cui la struttura sintattica, che organizza le categorie linguistiche, è un riflesso del pensiero. La sintassi della frase è vista quindi come manifestazione della logica (scienza del pensiero, logos=pensiero).
In realtà, Aristotele, così facendo, descrive il greco (cioè la sua lingua) e proietta le categorie del pensiero nel greco; ci sono invece lingue che non distinguono fra verbo e sostantivo o fra verbo e aggettivo (come l’inglese).
Aristotele non era consapevole di questo e quindi crea una specie di universale sulla base del greco.
Su questa via procede anche la grammatica di Port Royal, di ispirazione cartesiana, che presuppone l’esistenza di un solo tipo di lingua, che è innato ed ha quelle specifiche categorie e strutture sintattiche.
la sintassi nella linguistica indeuropea delle origini
La linguistica indoeuropea della prima metà dell’Ottocento si disinteressa della sintassi perché le comparazione fra le lingue è in un primo momento lessicale ed in un secondo momento grammaticale. La sintassi dell’indoeuropeo non viene ricostruita perché non vengono ricostruiti testi dell’indoeuropeo, mentre viene studiata la sintassi delle singole lingue indoeuropee (ma questo era compito dei grecisti, latinisti, germanisti, sanscritisti). Tuttavia August Schleicher (1821-1866), invece, era così sicuro del suo metodo che arrivò a scrivere una piccola favola in indoeuropeo.
Saussure
In Saussure non troviamo lo studio sintattico, forse data la sua formazione di indoeuropeista, (anche se avrebbe potuto inserirla nell’atto linguistico individuale -> parole, perché un atto linguistico presume la sintassi).
Per Saussure l’unità per eccellenza è la parola.
Anche i seguaci strutturalisti di Saussure non si curano della sintassi;
ad esempio Benveniste disse “la frase non è un segno”.
In America:
Sapir è stato molto sensibile alla sintassi in quanto i suoi concetti relazionali sono concetti sintattici poiché mettono in relazione i concetti concreti che sono le parole.
Bloomfield (1887-1949, grande studioso e linguista americano che creò una scuola di numerosi linguisti) rifiuta lo studio della semantica (del significato) perché pensa che deve essere studiata da coloro che studiano la natura (il referente), però cerca il significato nella struttura sintattica. Essendo americano egli prende a riferimento la lingua inglese e fonda il suo studio sulle funzioni caratteristiche della sua lingua.
Egli studia, ad esempio, i COSTITUENTI IMMEDIATI della frase:
nucleo del SOGGETTO e nucleo del VERBO
Esempio: “poor John ran away”
“the poor John you know ran away from home”
poor John e ran away sono i nuclei principali della frase ed intorno a loro si organizza tutta la frase. Dobbiamo quindi cercare i significati intorno ai costituenti immediati.
Per Bloomfield è importante la disposizione delle unità, la loro collocazione lineare,
perché è li che si trova il significato; il linguista può parlare del significato solo guardando alla struttura sintattica.
Il comportamentismo
I post-bloomfieldiani erano molto condizionati dalla teoria del COMPORTAMENTISMO: una scuola psicologica che è stata dominante all’inizio del ‘900 e che credeva che il significato non esistesse ma andava inserito nella catena di STIMOLO e RISPOSTA.
Secondo Bloomfield la lingua è una risposta , si parla per rispondere ad uno stimolo. Secondo lo studioso la mente è una scatola nera di cui non conosciamo il contenuto, ma di cui possiamo solo constatare gli input (stimoli) e gli output (risposte)
NOAM CHOMSKY (Filadelfia, 7 dicembre 1928)
Grande studioso di origine ebraica, rappresentante dell’estrema sinistra americana. Reagisce ai post-bloomfieldiani (comportamentisti) definendo la sua una linguistica mentalista (secondo lui la lingua sta nel cervello e nella mente). La sua è anche una “biolinguistica “, perché vede nella lingua un organo del cervello: vuole scoprire cosa c’è dentro la “scatola nera”.
Nella sua prima opera importante (1957) “Sintactic Structures” (“le strutture della sintassi”) egli scrive che nel cervello di ciascun individuo c’è un “programma” (meccanismo), da intendersi come un programma di computer, chiamato LAD (Language Acquisition Device -> meccanismo di acquisizione della lingua) grazie al quale un bambino dopo la nascita, nel giro di un paio di anni apprende molte parole e formula anche qualche frase senza mai sbagliare l’ordine sintattico della sua lingua. Ciò non può averglielo insegnato l’esperienza quindi deve esserci nel suo cervello un meccanismo sintattico che elabora gli imput e provoca i giusti output. La competenza di una lingua, cioè la capacità di dire che cosa è corretto e che cosa non lo è, appartiene solo al parlante “nativo”.
Grammatica Universale
Negli anni ’90 c’è una specie di cambiamento della sua teoria:
Egli propone un modello semplicissimo che chiama GRAMMATICA UNIVERSALE.
Chomsky è convinto che il meccanismo del LAD sia innato (una specie di organo del cervello) e che è una dote solo dell’uomo (che si distingue dall’animale per questo, per la sintassi).
Nella grammatica universale ci sono due punti:
1) PRINCIPI (sono propri a tutte le lingue del mondo)
Es.: nella frase ci sono sempre due sintagmi: quello verbale e quello nominale.
Altri tratti universali si riconoscono nei quattro tipi di sintagmi:
- SNominali (hanno come testa un nome)
es: “figlio di mamma”
- SVerbali (hanno come testa un verbo)
es: “correre velocemente”
- SAggettivali (hanno come testa un aggettivo)
es: “pieno di energia”, “felice di conoscerti”
-SPreposizionali (hanno come testa una preposizione)
es: “per amore”, “da Roma”
2) PARAMETRI (differenziano le lingue del mondo)
Il bambino attiva il meccanismo della lingua perché è sollecitato al linguaggio in quanto ascolta, è esposto al linguaggio. In questa prima esperienza si trova di fronte ad una serie di interruttori, di natura binaria:
es. lingua a soggetto nullo/ obbligatorio (piove/it rains, il pleut).
es. lingua col genere nel nome/ lingua senza genere nel nome (italiano/ inglese)
Molti degli universali di Greenberg sono parametri.
Le due Facoltà del Linguaggio
Chomsky fa una differenza fra:.
- Facoltà del linguaggio “in senso ampio” (F L Broad), condivisa anche dagli animali: capacità di produrre segnali e di attribuire loro un significato
- Facoltà del linguaggio “in senso stretto” (F L Narrow), che appartiene solo agli uomini (specie-specifica)
La sintassi è quindi la facoltà di aggiungere un elemento all’altro in modo creativo (producendo frasi mai sentite prima e grammaticalmente corrette).
Citiamo una famosa frase di Chomsky
“ Colourless green ideas sleep furiously ”
questa non ha nessun senso ma è grammaticale, la sua sintassi è corretta, accettabile per un native speaker.
FONDAMENTI di LINGUISTICA
SPECIMEN DOMANDE
Fonte: http://docenti2.unior.it/doc_db/doc_obj_18094_31-01-2011_4d468764440ed.doc
LINGUISTICA GENERALE Appunti elaborati dagli studenti del corso della Prof. Vallini Cristina
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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