Ercole (Eracle) storia dei suoi viaggi e delle sue fatiche
Ercole (Eracle) storia dei suoi viaggi e delle sue fatiche
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Ercole (Eracle) storia dei suoi viaggi e delle sue fatiche
Storia di Éracle, dei suoi viaggi e delle sue fatiche
Nascita dell'eroe
ERACLE, che i Latini chiamarono Ercole, fu un eroe divino. Eroe in quanto nato da un dio, Zeus, e da una donna mortale di nome Alcména; divino, perché dopo una lunga vita terrena ebbe la gloria di salire sull'Olimpo, tra gli dei.
II nome greco, Éracle, significa « colui a cui Era diede gloria » Fu infatti la divina moglie di Zeus a infliggergli le sofferenze che dovevano renderlo, infine, degno di diventare un dio. E ciò avvenne non perché Era amasse Eracle ma, al contrario, perché ne era terribilmente gelosa, e spieghiamo subito il perché. Zeus aveva deciso di generare un figlio che fosse un portento di forza e di bellezza. Perciò volle che sua madre fosse la bellissima Alcména, che viveva nella città di Tebe.
Quando si avvicinò il giorno in cui Alcména doveva partorire, Zeus convocò gli dei e annunciò a gran voce: « Ascoltatemi tutti, dei e dee! Voglio esprimere ciò che il cuore mi ordina. Oggi, la dea che aiuta le nascite, Ilizia, farà venire alla luce un bambino che è del mio sangue e che da grande regnerà su tutti i Greci! »
Tutti gli dei guardarono di sottecchi Era, aspettandosi di vederla esplodere in una delle sue famose scenate contro il marito infedele. Ma questa volta Era si dominò e con fare apparentemente tranquillo disse:
« Ma cosa ci racconti mai, Zeus! Davvero oggi nascerà un bambino che regnerà su tutti i Greci? Io non ci credo, se non me lo giuri solennemente! »
Zeus,-in quel momento - come si disse poi - fu vittima di Ate, la dea dell'errore, cadde nel tranello e giurò. Allora Era, con l'aiuto di Ilizia, fece nascere prima del tempo, quello stesso giorno, un altro bambino, Euristéo (che era cugino di Alcména) e ritardò invece la nascita di Eracle. Poi corse ad annunciare a Zeus che era nato il bambino che egli attendeva e che avrebbe regnato su tutti i Greci: si chiamava Euristéo.
Fuori di sé dalla rabbia per essere stato così facilmente ingannato, Zeus afferrò per i capelli la dea dell'errore, Ate, e la scagliò giù dall'Olimpo, tra gli uomini; ma non poté, comunque, infrangere il suo giuramento.
Quando Eracle nacque, Alcména, per paura dell'odio e della gelosia di Era, decise di abbandonarlo. Chiamò un'ancella e le consegnò il bambino addormentato, avvolto in pochi panni; poi le ordinò di portarlo in una pianura deserta, lontano dalla città, e di lasciarlo lì.
La serva eseguì il compito che le era stato affidato.
Quando il piccino si svegliò, si trovò solo, nel silenzio immobile di un pomeriggio assolato appena interrotto dai lontani stridi degli uccelli che guizzavano nel cielo, ma non ebbe paura. Per un po', buono buono, stette a guardarli, succhiandosi il pollice, ma appena gli venne fame - e fame brutta, perché Èracle era già un bel bambinone molto robusto si mise a strillare con tutte le sue forze.
Era da un pezzo che smaniava e piangeva, quando passarono dì lì le dee Atena ed Era. Atena, che certamente sapeva che il bambino era Èracle e voleva proteggerlo perché ammirava e amava tutto ciò che appariva legato alla forza e al coraggio, si fermò a osservarlo e disse, rivolta a Era: « Guarda che magnifico maschietto! Che membra solide e robuste ha e non sembra che pianga per la paura di essere rimasto solo, ma perché ha fame. Non ti fa compassione? Potresti dargli un poco del tuo latte e faresti un atto pietoso e gentile degno veramente della regina degli dei! »
Era si lasciò convincere, ma il piccolo succhiò con tanta forza che la dea, gridando per il dolore, lo allontanò da sé, così violentemente che uno schizzo del latte divino arrivò fino al cielo, dove diventò la Via lattea.
« Questo bambino è un mostro! » gridò Era andandosene di furia. « Non sarò certo io la sua nutrice! »
Eracle era comunque riuscito a ingollare una bella sorsata del latte della dea e ciò ere bastato a renderlo immortale.
Non appena Atena si ritrovò sola con lui, lo prese in braccio e tutto contenta lo riportò ad Alcména. « Non avere paura di Era » le disse « e tieniti questo bel bambino destinato a grandi imprese. Vedrai che Zeus ed Era troveranno un accordo e a te non succederà nulla di male, »
Infatti, come Atena aveva previsto, Zeus ed Era, dopo molte discussioni, stabilirono che Euristéo sarebbe stato re ed Eracle lo avrebbe servito, compiendo per lui dodici fatiche, dopo di che avrebbe avuto un posto fra gli dei, sull'Olimpo. Come si vede, seppure indirettamente, Era, dettando queste condizioni, procurò e Èracle la gloria, come dice il suo nome
Giovinezza dell'eroe
CHE sì trattasse dì un bambino straordinario fu subito chiaro ad Alcména e a tutti i parenti. Eracle aveva ancora pochi mesi, quando, una notte, Era introdusse nella sua culla due enormi serpenti perché lo soffocassero. Ma non appena egli li vide, senza alcun timore, li afferrò per la gola - uno con una mano, l'altro con I' altra - e strinse, strinse finché le due bestiacce si afflosciarono senza più vita. Negli anni successivi, ebbe maestri ed educatori per imparare, come usavano tutti i fanciulli in Grecia, la scrittura e la musica; ma era un allievo assai indisciplinato e ribelle.
Un giorno, il suo maestro, Lino, dopo averlo inutilmente richiamato all'ordine per varie volte, provò a punirlo con la bacchetta. Èracle allora si incollerì tanto che, preso uno sgabello, lo ruppe sulla 'testa del povero maestro, spedendolo prematuramente nell'aldilà. E questo Lino era, oltre tutto, persona di riguardo, saggissima e colta: pare addirittura che fosse stato lui a introdurre l'alfabeto in Grecia! La sua morte violenta e ingiusta fu ricordata e pianta dai musici-poeti per molti e molti anni. Èracle fu processato per assassinio, ma riuscì a farsi assolvere, dichiarando di avere agito per legittima difesa, poiché il maestro per primo lo aveva picchiato. Fu tuttavia allontanato dalla reggia e mandato a pascolare gli armenti sulle montagne vicino a Tebe.
Restò tra i pastori fino all'età di diciotto anni, diventando un colosso alto più di quattro cubiti. Viveva sempre all'aperto, non temeva il freddo, né il buio della notte, né le belve.
Era infallibile nel tiro con l'arco e nello scagliare la lancia, e il fuoco dei suoi occhi rivelava la suo natura divina.
A diciotto anni compì la sua prima azione eroica, uccidendo un leone ferocissimo che faceva strage delle mandrie dei pastori nei dintorni della città di Tespie. Èracle si avventurò tra i monti senz'armi. Sradicò do terra un olivastro, lo sfrondò e se ne fece una clava, secondo l'uso dei pastori. Durante il giorno cacciava, quando scendeva la sera si ritirava nel palazzo del re Tespio. Come molti altri re di quei luoghi e di quei tempi lontani, Tespio era un repastore. La città su cui regnava - un pugno dì case e di capanne nella valle tra i monti Citerone ed Elicona - era in realtà non più grande di un villaggio. Il suo palazzo non era che una grande casa e forma di cubo dal pavimento di terre battuta e dalle pareti di legno rivestite di argilla. Come tutti i re-pastori, Tespio possedeva pecore e capre - allevate soprattutto per la lana e ìl latte -, maiali, cani; cacciava - specialmente i cervi, con arco e frecce - e aveva un certo numero di schiavi che coltivavano per lui cereali e legumi é raccoglievano frutti negli immensi boschi della valle. Tutta qui era la sua ricchezza e il danno economico che gli procurava il leone ere enorme. Dopo cinquanta giorni Eracle riuscì a scovare e a uccidere il leone. Congedatosi dall'ospite che non si stancava di ringraziarlo e di baciargli le mani e i piedi, il giovane eroe si diresse alla volta di Tebe, la sua città natale. Per strada incontrò, malauguratamente per loro, alcuni messi inviati dal re di una città vicina che, approfittando della debolezza del vecchio re di Tebe, era riuscito e imporre ai Tebani un forte tributo: essi dovevano inviargli per vent'anni cento buoi ogni anno. Quando Eracle incontrò i messaggeri, essi andavano appunto a riscuotere il tributo e i loro modi erano molto arroganti. La tradizione non dice come si svolse l'incontro tra i messi e l'eroe, ma soltanto come finì: Èracle tagliò e tutti il naso e le orecchie, che appese loro intorno al collo con una corda, e li rispedì al loro re con quel « tributo ». Entrò in. Tebe tra le acclamazioni del popolo, felice di essere stato liberato dall'odiosa imposizione, e il vecchio e malandato re volle abdicare in suo favore e dargli in sposa la figlia Megàra. Ma la vita di re non soddisfaceva Eracle. Egli non sapeva amministrare saggiamente i suoi sudditi. Ogni tanto era preso da terribili accessi d'ira Ciò accadeva quando la sua nemica, Era, gli faceva cadere sugli occhi una benda color sangue. Allora Éracle, in preda alla follia, era capace di commettere i peggiori delitti. In uno di quei momenti giunse a uccidere i figli avuti da Megàra.
Quando ritornò in sé pianse disperatamente e per implorare il perdono degli dèi andò a Delfi. Là, arroccato su una sporgenza del monte Parnaso, tra robusti olivi e rocce scoscese, sorgeva il tempio principale del dio Apollo. Una sacerdotessa, chiamata Pizia, per ispirazione dei dio prediceva il futuro, dava ordini e consigli. La Pizia, una donna già anziana, avvolta in un nero mantello parlò così: «Per purificarti dalle tue colpe andrai e servire tuo cugino Euristéo, re di Tirinto e di Micene, e resterai ai suoi ordini per undici anni. Quando avrai compiuto tutto quello che egli ti ordinerà di fare, otterrai il perdono e il premio degli dèi. » Eracle andò dunque a Tirinto ed Euristéo lo accolse presso di sé non perché lo amava ma perché l'odiava. Euristéo era infatti un uomo vile e meschino che temeva Èracle, del quale invidiava il coraggio e la forza. Voleva sfruttare la straordinaria forza fisica dell'eroe, e possibilmente farlo morire, ordinandogli di compiere imprese rischiosissime che nessun uomo avrebbe potuto portare a termine.
Le dodici fatiche
Uccidere l'invulnerabile Leone di Nemea e portare la sua pelle come trofeo.
2 - Uccidere l'immortale Idra di Lerna.
3 - Catturare la Cerva di Cerinea.
4 - Catturare il cinghiale di Erimanto.
5 - Ripulire in un giorno le Stalle di Augia.
6 - Disperdere gli uccelli del lago Stinfalo.
7 - Catturare il Toro di Creta.
8 - Rubare le cavalle di Diomede.
9 - Impossessarsi della cintura di Ippolita , regina delle Amazzoni.
10 - Rubare i buoi di Gerione
11 - Rubare i pomi d'oro del giardino delle Esperidi.
12 - Portare vivo a Micene Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi.
LE FATICHE che inizialmente Èracle dovette affrontare per ordine di Euristéo ebbero lo scopo di liberare gli uomini da un certo numero di mostri che portavano morti e distruzione.
Diversi dèi vollero aiutare l'eroe donandogli armi speciali: Ermes gli regalò una spada, Apollo un arco con frecce ornate di piume d'aquila, Efesto una corazza d'oro, a cui Atena aggiunse un mantello, Zeus uno scudo meraviglioso e indistruttibile, Poseidone una coppia di cavalli. Ma Eracle non amava le armature e preferì sempre combattere con la sua semplice clava, I' arco e le frecce.
Uccidere l'invulnerabile Leone di Nemea e portare la sua pelle come trofeo.
La prima fatica che Euristéo impose a Èracle fu di uccidere il leone che divorava gli abitanti e il bestiame nella zona di Nemea: « Va', » gli disse « uccidilo e portami la sua pelle. »
Nemea era un'ampia vallata che si estendeva al margine settentrionale
dell' Argolide, sotto un monte in cui si aprivano molte caverne. In una di quelle aveva la sua tana il leone. Non era soltanto un leone ferocissimo, come quello che Eracle aveva vinto a Tespie, ma un animale prodigioso, che si sospettava appartenesse agli dèi infernali e che nessun'arma poteva ferire. Eracle vide da lontano il leone che ritornava nella sua caverna con il muso sporco dei sangue della sua quotidiana strage e gli scagliò addosso una quantità di frecce, ma tutte rimbalzarono sulla pelle più dura di una corazza, e il leone sbadigliando con grande indifferenza entrò nella sua tana .Èracle non riusciva a snidarlo. « Se non viene fuori lui, vorrà dire che andrò io a fargli visita », pensò, e si infilò a forza nella tana, di stretta misura, tanto da bloccarne l'ingresso. Strisciava sul ventre nel cunicolo basso e buìo, che si apriva nella roccia e pareva interminabile. Più avanzava, più l'aria si faceva irrespirabile e mortifera
« A quale profondità si è mai andato a cacciare quel mostro? » si chiedeva Eracle. Ormai aveva perso la nozione del tempo: sapeva solo che ore, forse giorni interi stavano passando. Incontrava talora un topo o una talpa, ma del leone sembrava non esserci traccia. Poi il cunicolo sfociò in una grotta ampia e, all'apparenza, deserta. Éracle avanzava a tentoni nell'oscurità. Ora sentiva i pipistrelli svolazzare intorno al suo capo e, improvvisamente, nel buio, a un palmo dalla sua faccia, brillarono gli aguzzi candidi canini della belva. Senza neanche accorgersene Èracle era finito nelle fauci del leone. Ma prima di dargli il tempo di richiudere quei bei dentoni sopra la sua testa, gli assestò un colpo di clava, un colpo quasi alla cieca, in quelle tenebre, ma che andò a buon fine. Il leone restò stordito ed Eracle gli si buttò sopra e lo soffocò. Poi l'eroe fu preso da una profonda stanchezza e cadde in un sonno profondo, simile alla morte. Erano già trascorsi trenta giorni quando si risvegliò e uscì dalla caverna Fuori splendeva la luce argentea dell'alba e i suoi occhi non più abituati a esso ne furono abbagliati. Quando ci vide di nuovo bene, scorse tutt' intorno all'ingresso della tana molte piante di sedano, come quelle che si usavano per ornare le tombe. L'eroe ne strappò alcune e se ne cinse il capo. Poi si caricò il leone morto sulle spalle e si avviò verso la reggia di Euristéo, e Micene. Ma quando giunse alle porte della città, la sentinella gli sbarrò il passo gridando: « Per ordine di Sua Maestà, Euristéo, non puoi entrare in città con la tua preda! » « E che ne devo fare allora? » chiese Éracle, sorpreso. « Non so, il re non l'ha detto. Lasciala qui o riportala dove l'hai presa. »
Intanto Euristéo si era così spaventato vedendolo arrivare di lontano incoronato di sedano, come una che fosse uscito dalla tomba, che non volle neppure incontrarlo. Si era addirittura nascosto in una gran botte di bronzo che aveva fatto mettere sotto terra e, anche in seguito, ogni volta che Eracle gli sì avvicinava, strisciava frettolosamente nel suo rifugio.
Èracle allora scuoiò il leone, servendosi degli stessi affilati artigli del mostro perché in altro modo non sarebbe stato possibile, e si rivesti con quella pelle invulnerabile: la teneva come una mantellina sulle spalle e la testa gli faceva da cappuccio.
Per onorare e ricordare l'impresa dei suo figliolo, Zeus pose iI leone prodigioso in cielo fra le costellazioni.
Uccidere l'immortale Idra di Lerna.
Trascorso qualche tempo, Euristéo ordinò a Eracle di recarsi nella zona di Lerna, dove, ai piedi dei monti calcarei circostanti, sgorgavano diverse sorgenti che formavano degli abissi d'acqua dolce in prossimità dei mare. Là si annidava l'idra, un enorme serpente acquatico che con il suo fiato fiammeggiante e pestilenziale ammazzava chiunque si avventurasse nella regione. Dell'idra si diceva - si diceva soltanto, perché chi l'aveva veramente vista non era mai tornato vivo a raccontare com'era fatta - che avesse molte teste, di cui pero una sola era immortale. In quelle acque profonde presso Lerna, l'inferno confinava direttamente con l'Argolide e la bestia misteriosa stava guardia dei confine, all'ingresso dei regno dei morti.
Insieme al suo giovane e affezionato nipote Iolao di Tebe Èracle si avvicinò alla tana dell'idra presso le sorgenti. Con una serie di frecce infuocate scoccate nella caverna sotterranea costrinse l'animale inferocito a mostrarsi.
Appena apparve, strisciando e soffiando, Èracle cominciò a colpirlo con una spada. Ma al posto di ogni testa che riusciva a tagliare, ne crescevano subito altre due che soffiavano ancora più vigorosamente il loro alito velenoso. A un certo punto Eracle si sentì azzannare il piede; abbassò gli occhi e vide un grosso granchio, che era evidentemente venuto in soccorso dell'idra, forse per ordine della dea Era. ' Iolao! » gridò, mentre schiacciava il granchio sotto il tallone. « Non appena io taglio una testa dell' idra, tu brucia la ferita con un tizzone ardente, così nessuna nuova testa potrà ricrescere! » E Iolao bruciò quasi un bosco per impedire che nuove teste nascessero. Allora Èracle riuscì a individuare la sola testa immortale e con un colpo di spada la troncò di netto. Poi la seppellì profondamente nella terra e immerse punte delle frecce nel sangue velenoso del mostro morto. Da allora anche la più piccola ferita prodotta da quelle frecce si rivelò sempre mortale.
Stavolta Euristéo era proprio certo che Èracle non ce l'avrebbe fatta. Potete quindi immaginare la sua ira, quando gli fu annunciato che l'eroe era di ritorno vittorioso. Dapprima pianse e si strappò la barba, poi, con incredibile faccia tosta, dal suo rifugio nella botte di bronzo, stizzosamente gridò: « Caro mio, non vale. Niente da fare. Il patto era che tu da solo, dico da solo, vincessi l'idra. Invece ti sei fatto aiutare da tuo nipote. Perciò sappi che questa fatica è a metà e non la metto nel conto delle dodici fatiche che devi fare per me. Intesi? »
Catturare la Cerva di Cerinea.
II terzo incarico che Euristéo affibbiò all'eroe fu quello di catturare la cerva dalle corna d'oro che era sacra ad Artemide. Questa cerva viveva nelle selvagge foreste dell'Arcadia. Poiché neppure in quei favolosi tempi le cerve possedevano corna, e questa invece le aveva, e anche dorate, è evidente che non era un animale comune, ma un essere divino. Il difficile, il pericoloso, lo strano della cerva non era la sua particolare selvatichezza e fierezza - per cui invece di essere il dolce e timido animale che tutti immaginiamo e amiamo era capace di affrontare e mettere in fuga chi le dava la caccia - ma il fatto che corresse instancabile e velocissima per giorni e giorni e che l'inseguitore non potesse vincere il desiderio di catturarla, fino a perdersi dietro a lei chi sa dove e per sempre. Èracle inseguì la cerva per un anno intero. Passò fiumi e montagne, steppe e pianure gelate, finché giunse al paese nebbioso degli Iperborei, oltre l'Istria .Là infine la raggiunse e la prese scoccando una freccia, che trafisse le zampe dell'animale, passando tra l'osso e i tendini, senza fare sgorgare sangue, poiché sarebbe stato un sacrilegio ferire o uccidere un animale che apparteneva ad Artemide.
Catturare il cinghiale di Erimanto.
A Micene, Euristéo lo aspettava impaziente per ordinargli la quarta fatica: tornare sui monti d'Arcadia e catturare il cinghiale che viveva sul monte Emirato e che con le sue scorrerie 'a valle devastava i campi dei contadini. Anche questa volta l'animale non doveva essere ucciso ma, cosa assai più difficile, catturato vivo L'inverno aveva già imbiancato di neve la montagna. Ogni animale stava al riparo nella sua tana Èracle capì che per obbligare iI cinghiale a mostrarsi doveva stanarlo, spaventandolo con terribili grida e battendo i cespugli con la clava. Così fece e le lepri disturbate si scossero dal loro sonno, gli uccelli si levarono in volo stridendo e infine anche il cinghiale saltò fuori dal suo covo con rabbiosi grugniti Èracle lo seguì nell'alta neve finché lo raggiunse e lo prese al laccio. Poi si buttò l'animale sulle spalle e lo portò a Micene.
Disperdere gli uccelli del lago Stinfalo.
Come sempre il vile Euristéo, all'avvicinarsi dell'eroe, si nascose nella sua botte interrata e di lì, sporgendo soltanto la testa gridò con la sua stridula vocetta: « Stai fermo lì dove sei. Non avvicinarti. Non entrare nella reggia. Anzi, torna subito da dove sei venuto: in Arcadia. Va' nella palude di Stinfalo e cacciane via gli uccellacci che vi hanno fatto il nido. Te lo ordino! »
Èracle parti per la quinta fatica, ma non sapeva bene dove si trovava la palude di Stìnfalo né la poteva scorgere perché era tutta circondata di fittissimi boschi. La dea Atena però gli indicò la strada, seppure con parole non tanto chiare, come era proprio del modo di parlare degli dèi:
« Tanti uccelli si radunano al mare, quando il freddo inverno li spinge verso caldi paesi soleggiati. Uno dopo l'altro, più rapidi del fuoco devastatore, li vedi volare verso le coste del dio del tramonto »
Eracle continuava a rimuginare le ultime parole della dea: « "Le coste del dio del tramonto", cioè dove il sole tramonta, vale a dire l'occidente. E questa la direzione che devi prendere. Di nuovo al confine con iI regno dei morti... Anche questa non sarà impresa da poco... Comunque adesso so dove andare: nel regno di Artemide, signora delle paludi. » Camminò fino a che sentì levarsi dalla palude il canto annunciatore di morte delle Sirene
Le Sirene erano fanciulle dai piedi di uccelli acquatici che abitavano le paludi insieme agli uccelli feroci dal becco, dagli artigli e dalle penne di bronzo. Con il loro canto attiravano le persone sulle sponde del lago paludoso; d'improvviso, dal folto dei canneti si alzavano gli uccelli feroci, che con le loro penne acuminate come pugnali assalivano e uccidevano gli incauti viandanti.
Eracle non si avvicinò, ma salì su un'altura lì presso Aveva con sé un paio di nacchere di bronzo, donategli da Atena, e le fece risuonare a lungo, con forza. Gli uccelli s levarono in volo ed erano così numerosi che oscurarono solo come una spessa nube nera, poi scesero in picchiati contro l'eroe. Allora Eracle con la fionda e con l'arco ne fece strage. Gli uccelli che non furono abbattuti fuggirono lontano, sul mar e.
Eracle porto alcuni degli uccelli uccisi a Micene, come prova della sua vittoria. Ancora una volta aveva vinto la morte.
Ripulire in un giorno le Stalle di Augia
La sesta fatica attendeva Èracle sulla costa occidentale del Peloponneso, nell'Elide. Vi regnava Augia, figlio di Elio, il Sole. Augia possedeva migliaia di buoi che costituivano un'immensa ricchezza, ma che riempivano di tale quantità di letame le sterminate stalle accanto al palazzo reale che era' impresa impossibile tenerle pulite. Una puzza continua e insopportabile appestava l'intera regione e attirava nugoli di mosconi schifosi che infettavano ogni cosa.
Eracle doveva, secondo gli ordini di Euristéo, pulire perfettamente quelle stalla nel breve spazio di un giorno! Euristéo si era immaginato con gioia maligna il povero cugino che, armato dì scopa e badile, raccoglieva lo sterco in enormi ceste che portava via sulle spalle... Ma Eracle non era uno stupido e capì subito che in quelle condizioni scopa, badile e ceste servivano poco.
Scorrevano lì vicino due fiumi, l'Alfeo e il Peneo. L'eroe deviò il loro corso di modo che le loro acque allegramente spumeggianti dilagarono nella pianura e invasero le stalle. La corrente portò via la sporcizia e alla fine della giornata tutto splendeva ed Èracle non si era sporcato neppure un dito.
In cambio della pulizia aveva patteggiato con Augia una ricompensa: avrebbe avuto un decimo dei suo bestiame. Ma quando Augia apprese che Èracle aveva dovuto pulire le stalle per ordine di Euristéo non volle più tenere fede al patto. Il colmo però fu che anche Euristéo non volle riconoscere la fatica dell'eroe. Dalla sua maledetta botte sotterranea gridò: « La fatica era valida se compivi il servizio solo per me. Invece so benissimo che hai lavorato anche per Augia!
Catturare il Toro di Creta
Col tempo Euristéo pretese che Èracle compisse le sue fatiche in terre sempre più lontane. Come settima fatica gli ordinò dunque dì catturare il toro di Creta che, infuriato, stava devastando l'isola. Era un animale prodigioso anch'esso, sorto dalle onde del mare.
Si diceva che un giorno il re dell'isola, Minosse, fosse andato sulla riva del mare a pregare Poseidone. Per rendere più gradita al dio lo sua preghiera gli aveva promesso di sacrificargli la prima cosa che fosse venuta dal mare. Pensava ad un grosso pesce o alla nave carica di mercanzie di qualche straniero. Ma ciò che vide emergere dalle acque fu invece un toro di straordinaria bellezza. Tanto bello che Minosse non volle rinunciarvi. Sperando ingenuamente, e follemente, che Poseidone non se ne accorgesse, se lo portò nelle sue stalle e ne sacrificò un altro al suo posto. Poseidone, allora, si vendicò rendendo l'animale pazzo furioso. Eracle ingaggiò con il toro, che lanciava fiamme dalle narici, un'aspra lotta, ma lo vinse e lo portò a Micene, dove Euristéo lo consacrò a Era.
Rubare le cavalle di Diomede.
L'ottava fatica si svolse in Tracia, una gelida regione montuosa continuamente spazzata dal vento, e fu la cattura delle cavalle del re Diomede, vere cavalle della morte che si nutrivano soltanto di carne umana. Diomede teneva le sue micidiali cavalle legate con catene di ferro a mangiatoie di bronzo e dava loro in pasto qualsiasi disgraziato straniero che si avventurasse nel suo desolato regno e gli chiedesse ospitalità.
Èracle diede da mangiare agli animali il loro stesso padrone e dopo che li ebbe resi in tal modo tranquilli e docili, li condusse con sé a Micene.
Impossessarsi della cintura di Ippolita , regina delle Amazzoni
Un bel giorno anche la figlia di Euristéo, Admèta, si mise a desiderare e pretendere cose impossibili, come la cintura di Ippólita, la regina delle Amazzoni. Le Amazzoni erano un popolo di donne guerriere che vivevano in un barbaro e inospitale paese dell'Asia Minore, sulle coste meridionali del mar Riero. Eracle fu mandato dunque laggiù a compiere la sua nona fatica. Egli si presentò a Ippólita insieme ad altri amici e fu accolto molto gentilmente, tanta era ormai la fama del suo coraggio e della sua forza. Ippolita addirittura gli offrì in dono la sua meravigliosa cintura d'oro e di gemme. Tutto sembrava andare a gonfie vele ed Èracle non stava più nella pelle vedendo che, per una volta almeno, l'impresa assegnatagli da Euristéo non solo non richiedeva le solite sovrumane fatiche, ma si rivelava perfino piacevole. Non aveva fatto i conti, però, con la sua irriducibile nemica, Era. Questa, che da una finestrella del suo appartamento sull'Olimpo, aveva assistito allo scambio di cortesie e di doni tra Èracle e Ippolita, in un baleno corse, travestita da Amazzone, a chiamare le guerriere a raccolta: « Sorelle, attenzione! Diffidate degli stranieri» le esortava. « Ricordatevi che tutti gli uomini sono pronti a tradire. So per certo che costoro vogliono rapire Ippolita e vigilate! » E ancora, sempre più concitata, girando nell'accampamento da una tenda all'altra: « Ecco, la tenda della sorella di Ippolita, la tenda di Melanippe è vuota. Dov'e Melanippe? È inutile che vi guardiate attorno. Melanippe non c'è più! Gli stranieri ce l'hanno rubata! Coraggio, sorelle, se non vogliamo fare una brutta fine, diamogliela noi una bella lezione a Èracle e ai suoi compagni. Seguitemi e fate coma me! ». Appena ebbe detto queste cose, tese l'arco e scoccò una freccia contro il gruppo degli stranieri. Dietro a lei, la Amazzoni, lanciate al galoppo sui loro cavalli, fecero vibrare la corda dei loro archi. Un nugolo di frecce si abbatté sugli eroi che, per quanto colti di sorpresa, non tardarono a rispondere. Si accese una battaglia forsennata che si concluse però con la sconfitta delle guerriere.
La stessa Ippólita fu uccisa da Èracle e le sua compagne furono fatte prigioniere e distribuite coma schiave tra i vincitori..
Rubare i buoi di Gerione
L'odio di Era rese lunga e difficile anche la strada del ritorno, e quando infine Èracle, dopo molti mesi, giunse a Micene, Euristéo lo mandò nuovamente lontano, lontano, nella terre dell'estremo occidente, per compiere la decima fatica: rubare i rossi buoi dì Gerione.
Nell'isoletta di Erizia, che sorgeva nell'Oceano, di fronte alle coste della Spagna, il pastore Eurizione e il ferocissimo e mostruoso cane Ortro custodivano i buoi di Gerione in stalle buia e nebbiose. I buoi rossi pascolavano al tramonto, quando il sole tingeva di sanguigno le pianure e i monti di quell'isola sperduta e sinistra. Per giungervi Èracle affrontò un altro viaggio avventuroso e dovette superare molte difficoltà. Con una nave salpò dalla costa occidentale del Peloponneso, veleggiò attraverso il mare Ionio a poi lungo le coste della Sicilia e dell'Africa settentrionale fino allo stretto che separa l'Africa dall'Europa e il mare Mediterraneo dall'Oceano.
Nello regione africana della Mauritania incontrò il gigante Anteo che vi aveva fondato la città di Tingis (l'odierna Tangeri). Era un gigante che sfidava alla lotta tutti gli stranieri. Si sapeva più forte di ogni altro e ornava con i crani deì vinti il tempio del padre suo, il dio Poseidone.Ma doveva la sua forza eccezionale anche al fatto di essere figlio di Gea, la Terra, per cui, quando, lottando, gli capitava di cadere a terra, sua madre, toccandolo, gli infondeva nuovo vigore. Eracle accettò di lottare con Anteo ma, astutamente, evitò di gettarlo a terra. Così il gigante perse la sua forza e fu vinto e ucciso. Dopo la faticosa lotta Èracle si sentì stanco e si addormentò. Arrivarono allora quatti quatti, ma in gran numero, i Pigmei, i buffi nani burloni d'Egitto. Questa volta però non avevano alcuna voglia di scherzare, volevano piuttosto vendicare Anteo, che era il loro fratellone. Anche i Pigmei, infatti, erano nati dalla Terra.
Per loro, così piccolini, Èracle era un vero gigante. Come potevano farlo prigioniero o ucciderlo con le loro deboli forze? Prepararono un assalto contro l'eroe addormentato usando macchine da guerra come per espugnare un'enorme fortezza.
Ma erano macchine da guerra minuscole che lanciavano minuscoli proiettili: nocciolini di frutta, sassolini, spilli. A Eracle, nel sonno, ogni volta che ne era colpito, pareva di essere molestato da qualche noioso zanzarino. Infine una gragnuola più fitta di ghiaietta, concentrata sull'obbiettivo « fronte del dormiente », lo svegliò. A vedere tutto qual bellicoso armeggiare di guerrieri in miniatura, Eracle scoppiò in una gran risata che scosse via dalla capigliatura e dalla barba come granelli di polvere o di forfora alcuni valorosi che vi si erano arrampicati. Le cose si mettevano male per i nanetti e il Pigmeo trombettiere suonò il segnale della ritirata. Seguì un fuggi fuggi generale, ma Èracle fece in tempo a prendere una manciata di mini-guerrieri, che cacciò nella sua pelle di leone per portarli come divertente curiosità a Euristéo.
Dirimpetto a Tangeri, sulla costa spagnola, sta Cadice. Fu qui che Eracle eresse le colonne cha segnavano gli invalicabili confini occidentali del mondo. Per arrivare all'isola di Erizia bisognava tuttavia superare quei limiti ed entrare nell'Oceano. Eracle chiese in prestito a Elio, ossia al Sole, la grande coppa cha gli serviva da imbarcazione. Ogni sera, infatti, , Elio, quando giungeva nell'estremo occidente, dopo avere percorso tutto il cielo sul suo carro d'oro, si imbarcava sulla coppa per attraversare l'Oceano e raggiungere il suo palazzo nell'oriente dei mondo. Ma non appena Èracle montò nella coppa, Oceano sollevò contro di lui immense ondate mostrando la sua faccia orribilmente stravolta, livida a schiumante d'ira. L'eroe allora lo minaccio con il suo arco e ìl vecchio Oceano, impaurito, si calmò subito. Così Èracle poté sbarcare nell'isola rossa. A colpi di clava uccise il cane Ortro e il pastore Eurizìone, e con" le frecce abbatté Gerione, che era un mostro fornito di tra teste e sei braccia. Poi prese i buoi, li imbarcò sulla coppa del Sole e riattraversò il tratto di Oceano fino alla foce del fiume Tartasso.
Anche il ritorno a Micene con lo splendido armento fu lungo e pieno di insidie. Dappertutto - sulla coste della Spagna, della Francia, dell'Italia bagnata dal mare Mediterraneo - Èracle dovette difendere i buoi da ladri e pirati. Uno dei briganti più terribili, lo incontrò mentre attraversava il Lazio, nel luogo stesso in cui più tardi, sarebbe sorta Roma. Si chiamava Caco e abitava in una caverna del monta Aventino. Aveva tre teste e soffiava fiamme e fumo dalle tre bocche.
Mentre Èracle, spossato dal viaggio, dormiva, Caco rubò quattro tori e quattro buoi. Per non lasciare tracce li fece camminare a ritroso, trascinandoli per la coda fino alla sua grotta, dove Ii nascose.
Èracle non si accorse di nulla e quando si svegliò raccolse le bestie che pascolavano lì intorno per riprendere il cammino. Quando ecco che al momento di allontanarsi, i buoi presero a muggire, per richiamare i compagni mancanti, e questi risposero a loro volta muggendo. Eracle, furibondo, afferrò la sua clava nodosa e si lanciò di corsa verso la caverna di Caco, facendosi guidare dai muggiti disperati degli animali che vi erano rinchiusi.
Inutilmente Caco difese I' ingresso della sua grotta sputando fuoco e fiamme. Con un balzo Eracle si lanciò in mezzo al fuoco là dove il fumo formava una barriera densa e nera.
Afferrò Caco e lo strinse in un nodo mortale per soffocarlo. Strinse finché gli occhi del mostro schizzarono fuori dalle orbite e il sangue si seccò nelle sue tre gole. Dopo altre avventure e altre lotte, l'eroe giunse a Micene con i buoi ed Euristéo li prese e li sacrificò a Era.
Rubare i pomi d'oro del giardino delle Esperidi
Sempre più dure e rischiose divenivano le fatiche che Euristéo imponeva a Èracle. Questa volta egli doveva addirittura andare a prendere i pomi d'oro che crescevano nel giardino delle Espèridi, le notturne ninfe, figlie del Titano Atlante . Nessun mortale era mai ritornato di laggiù e perciò il luogo in cui sorgeva il giardino era sconosciuto. L'eroe intraprese questa undicesima fatica avviandosi in direzione del nord e poi dell'occidente. Giunse così al fiume Po, lo risalì fino alle sorgenti, fino alla caverna attraverso la quale questo fiume divino scaturisce dall'aldilà sulla terra. Nell'antro misterioso incontrò le ninfe del fiume. Esse gli consigliarono di cercare Nereo, il vecchio del mare, e di chiedere a lui la via segreta che portava al giardino nascosto. In una baia del Mediterraneo, l'eroe trovò il vecchio Nereo dagli occhi d'acquamarina e dalla lunga barba d'argento. Era lì che insegnava ai giovani Tritoni, metà uomini metà pesci, a strappare le reti dei pescatori per liberare i tonni e i delfini che vi restavano impigliati. II percorso suggerito dal vecchio Nereo si snodò attraverso una lunga serie di tappe avventurose da un capo all'altro del mondo. Eracle passava i fiumi a guado, andava per mare su una nave di bronzo, usando come vela la sua pelle di leone, camminava sulla terraferma senza mai arrestarsi. Giunse infine alle montagne del Caucaso, dove liberò Prometeo (ma questa storia l'abbiamo già raccontata). II Titàno riconoscente gli insegnò che non doveva cogliere i pomi da sé, ma farseli prendere dal vecchio Atlante, che sosteneva il cielo sulle spalle e aveva accesso al vicinissimo giardino delle Espéridi.
Dopo molto cammino, di nuovo verso occidente, Èracle arrivò finalmente alla misteriosa e meravigliosa isola. Là Zeus ed Era avevano un palazzo di marmo e il loro letto nuziale d'avorio e d'oro. L'albero dai pomi d'oro era stato il dono di nozze della Madre Terra alla regina degli dei. Sorgeva nel mezzo del giardino tra verdi prati punteggiati di fiori d'ogni colore, ma non era custodito soltanto dalle ninfe. Esperidi. Avvinghiato al tronco vi era un grosso serpente che, come l’idra, aveva molte teste e cento occhi che non chiudeva mai. Aveva anche molte voci, voci terrificanti: guai a chi avesse osato afferrare i pomi d'oro che appartenevano alla regina degli dei! Eracle chiese ad Atlante di andare a prendere tre pomi d'oro. Questi non disse di no, ma pose una condizione: che nel frattempo Èracle si prendesse lui sulle spalle il peso del cielo. Così fu fatto. Il vecchio Titano, che era molto astuto, tornando con i frutti d'oro disse: « Andrò io stesso a consegnare i pomi a Eùristéo. Tu fammi il favore di reggere il peso del cielo fino al mio ritorno.
Naturalmente pensava di non tornare mai più. Èracle, che era ancora più scaltro di lui, finse di acconsentire,. Chiese però ad Atlante un solo favore: che gli reggesse per un attimo, niente più che un attimo, il cielo: « Giusto il tempo di mettermi sulle spalle un cuscino che mi aiuti a reggerlo meglio. Faccio in un momento, grazie! » E appena Atlante posò i frutti per rimettersi sulle spalle il cielo, Eracle ridendo li afferrò e scappò via. Quando giunse da Euristéo con i pomi d'oro, il vile re di Micene non volle neppure toccarli. Sapeva che i frutti erano proprietà degli dèi, una proprietà ancora più sacra e inviolabile dei tesori dei templi, e sapeva che una doppia morte attendeva chi li avesse presi e conservati per sé. Voleva assolutamente che fosse Èracle a tenerli, ma l'eroe li restituì a Era.
Portare vivo a Micene Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi
L'ultimo tentativo dì Euristéo per mandare a morte l'eroico cugino fu quello di assegnargli il compito di catturare il cane di Ade, dio degli inferi. Non poteva escogitare prova più terribile e pericolosa, anche perché, di nuovo, questa fatica, la dodicesima, richiedeva la violazione di un luogo sacro agli dèi. Violare il regno di Ade, il regno dei morti, era un atto inaudito, che neppure un eroe poteva osare. Ma Èracle era un eroe divino e come tale uscì vittorioso dalla prova: vittorioso sulla morte per l'eternità.
Per scendere nell'inferno Èracle prese la strada del Tenaro, un promontorio sull'estrema punta meridionale del Peloponneso. Qui uno sconfinato baratro sprofondava nel buio regno dei morti, la cui porta era custodita da Cerbero, cane dalle tre teste e dal corpo irto di serpenti Eracle avanzava baldanzoso perchè lo guidavano, per or dine di Zeus, gli 'dei Ermes e Atena.. Di fronte al suo fiero cipiglio, Cerbero, uggiolando, con i suoi tre testoni ciondolanti e la coda tra le zampe, corse a cercare protezione dal padrone, Ade. Anche le anime dei morti si ritraevano timorose: tranne una, quella di Meleàgro. Eracle fece molti incontri variamente orripilanti, disgustosi o sinistri, come quello con la testa della Gòrgone Medusa, che impietriva col suo unico occhio chiunque la guardasse.
Finalmente giunse davanti al trono del re Ade e di sua moglie Persefone. Facevano compagnia e cornice alla coppia regale serpi, pipistrelli, avvoltoi, rospi, civette e démoni d'ogni sorta. La pallida e graziosa Persefone, che splendeva in quel buio pesto come una candelina, salutò gentilmente Eracle: « Salve, vero figlio di Zeus, » gli disse, « spiana il cipiglio e vieni a noi con cuore amico, perché benevolo batte per te il nostro cuore. » Piacevolmente sorpreso dalla buona accoglienza, Eracle si profuse in scuse e complimenti. Spiegò la ragione della sua discesa agli inferi e chiese il permesso di condurre via con sé Cerbero. « Permesso accordato! » esclamò Ade. « A patto che tu riesca a prendere il cane senza usare armi. » Eracle, allora, a mani nude affrontò Cerbero. Inutilmente la bestia gli balzò addosso latrando e cercando di mordere. Eracle strinse in un sol pugno tutte e tre le gole del mostro ringhiante. Strinse, strinse... finché Cerbero si piegò sulle ginocchia e con occhi languidi e smorti fece capire che intendeva arrendersi. Con una catena Eracle lo trascinò via dall`inferno e poi per le strade della Grecia, verso Micene.
Fitte gocce di bava rabbiosa cadevano dal muso del cane che tremava arricciando il labbro sui denti aguzzi e abbaiando furiosamente; i serpenti si svolgevano sibilando intorno al suo ventre irsuto e alla schiena; i suoi occhi mandavano freddi lampi di brace azzurra. -Quando fu condotto davanti a Euristéo quasi si strozzava,trattenuto a forza dal collare di ferro nel tentativo di saltargli addosso. Strillando di paura, il re corse a rifugiarsi nella sua botte e lì restò finché Eracle non si allontanò con la sua preda. In seguito, non sapendo che farsene di quel cane, lo riportò dal suo padrone, Ade.
La morte dell'eroe e la sua ascesa tra gli dèi
Dopo le dodici fatiche Èracle compì ancora molte altre imprese, viaggiò, uccise altri mostri, si vendicò di nemici, partecipò a spedizioni, corse pericoli d'ogni genere. Stanco infine di tante avventure, decise di riprendere moglie e si ricordò che Meleàgro, durante il loro incontro nell'inferno, gli aveva decantato la bellezza e le virtù della sorella Deianira. Meleàgro gli aveva detto che soltanto un grande eroe era degno di lei ed Eracle pensò che forse quella era davvero la donna che gli era destinata.
Intraprese dunque il viaggio verso l'Etolia, la regione compresa tra i fiumi Acheloo ed Eveno, dove regnava il padre di Deianíra, Eneo. Il vecchio e ospitale Eneo accolse benevolmente l'eroe, gli offrì cibo, vino e. un comodo letto. Ma quando Eracle gli espose il motivo della sua visita, il vecchio sospirò: « Ahimè, arrivi tardi! Già da molto tempo c'e un pretendente di riguardo che insiste per avere la mano di Deianira, nientemeno che il dio del fiume Acheloo, nostro vicino. E’ un abile trasformista, sai; un essere di infinite risorse che non ha alcuna intenzione di rinunciare alla ragazza. La segue ovunque, assumendo le forme più diverse: se lei passeggia in un luogo solitario e assolato, lui le striscia accanto in sembianze di serpe, zufolando con finta indifferenza; se lei si aggira presso le mandrie dei miei buoi, lui - puoi giurarlo! - sarà uno dei tori. Anzi, il travestimento da toro e proprio il suo preferito. Guardalo laggiù: quel toro più grosso di tutti con le corna ben appuntite non è altri che Acheloo. »
Eracle non si scoraggiò: « Va bene! Io e Acheloo lotteremo per Deianira e il vincitore l'avrà in sposa. Io sono pronto! » Acheloo raccolse la sfida e i due pretendenti si affrontarono nella lotta sulla riva del fiume. Quando Eracle lo buttò a terra, Acheloo si trasformò in serpente e strisciò via.« Ho strangolato serpenti più grossi di te, quando ero ancora in fasce! » gridò Eracle cercando di afferrarlo. Ma Acheloo si trasformò in toro e lo caricò diverse volte. Sempre però Eracle riuscìì a schivarlo. dalla sponda opposta del fiume , Deianira assisteva al feroce combattimento; era tale la sua paura che per la maggior parte del tempo si coprì gli occhi con le mani. Li aprì quando sentì un gronde urlo, non capì se di dolore o di trionfo, e vide Eracle, vittorioso, brandire uno dei corni di Acheloo mentre questi giaceva a terra come morto. Intanto dalle gocce di sangue che sprizzavano dalla fronte, nel punto in cui il corno era stato spezzato, nascevano, prodigiosamente, piccole Sirene. Ben presto Acheloo rinvenne e i due lottatori si strinsero la mano. « Hai vinto tu, » disse Acheloo « perciò, come abbiamo stabilito, la ragazza è tua. Se non ti spiace, però, vorrei riavere il mio corno, in cambio ti darò una cornucopia. Sarà il mio dono di nozze. » La cornucopia è un recipiente a forma di corno, da cui escono inesauribilmente dolcissimi frutti d'ogni specie ed è considerata il simbolo dell`abbondanza . Era davvero un oggetto molto più grazioso e utile di un corno di toro, pensò Eracle accettando di buon grado lo scambio. Così, rappacificati tutti gli animi, furono con solennità celebrate le nozze tra Eracle e Deianíra. Gli sposi, che per il momento non avevano ancore una casa loro, accettarono di essere ospiti di un amico di famiglia che offrì il suo palazzo nella lontana Tracia.
All'alba, Eracle e Deianíra si misero in viaggio. Dovevano attraversare il fiume Eveno, che era in piena, e il traghettatore era il centauro Nesso, mezzo uomo mezzo cavallo, che trasportava sulla schiena chi ne aveva bisogno, ricevendo per tale servizio un modesto compenso.
In realtà Eracle era abbastanza forte, da portare Deianíra al di là del fiume, per quanto impetuosa fosse la corrente. Tuttavia Nesso tanto disse e tanto fece che lo convinse a lasciargli portare Deianíra sull'altra sponda. La giovane donna salì sulla groppa del centauro, mentre Eracle, gettati l'arco e la clava al di là del fiume si tuffava nella corrente. Nesso, però, con l'intenzione di rapire Deianíra, galoppò nella direzione opposta a quella dove doveva andare.
La donna chiamò in aiuto lo sposo ed Éracle, recuperato l'arco, scagliò una delle sue frecce avvelenate che trafisse il cuore di Nesso. Il centauro si abbatté a terra agonizzante, ma fece tuttavia ancora in tempo a vendicarsi, ingannando Deianíra. Finse di chiederle scusa e disse: « Non voglio morire senza il tuo perdono. Ma è anche giusto che io cerchi di meritarmelo in questi ultimi istanti di vita che mi restano. Ecco cosa posso fare per te: raccogli il sangue che esce dalla mia ferita; ha un potere magico, infallibile. Se vuoi che il tuo sposo non si innamori mai di nessun'altra donna all'infuori di te, fagli indossare una tunica bagnata nel mio sangue. Vedrai... ti resterà eternamente fedele. Fa' quel che ti dico e io morirò in pace, sicuro che mi hai perdonato. Deianíra ebbe compassione del centauro morente e raccolse il suo sangue in una fiaschetta. Passarono alcuni anni. Eracle riprese i suoi vagabondaggi e i suoi combattimenti. Deianíra restò sola ad attendere il suo ritorno. Un giorno, infine, l'eroe ricomparve portando con sé una bella schiava dalla pelle candida e dagli occhi di viola. Deianíra pensò che fosse giunto il momento di seguire il consiglio di Nesso. Preparò una veste di tela finissima, la tinse di rosso con il sangue del centauro e la fece indossare a Eracle. Ma appena egli se ne fu rivestito sentì un bruciore insopportabíle. Cercò di togliersela, ma la tunica gli aderiva sempre più strettamente al corpo e sempre più intensamente il veleno di cui era impregnata lo bruciava. Disperata per le terribili conseguenze del suo gesto Deianíra si uccise. Allora Eracle, non potendo più resistere alle atroci sofferenze, fece innalzare una grande catasta di legna sulla cima del monte Eta, vi si stese sopra con tutte le sue armi ordinò ai servitori di appiccare il fuoco. Ma nessuno di essi ,ebbe cuore di farlo ed Eracle dovette attendere che passasse per quei luoghi solitari uno straniero. Infine transitò Filottete, ed Eracle, dolorante e supplichevole, gli gridò: « Accendi, accendi, ti prego! » Dopo che Filottete ebbe esaudito il suo desiderio, Eracle,grato, gli donò il suo arco.
La catasta bruciò per giorni e giorni, ma quando si cercarono tra le ceneri i resti del corpo dell'eroe non se ne trovarono. Avvolto da una nube egli era salito sul cocchio di Ermes e Atena lo aveva condotto dinanzi a Zeus.Era, la nemica di un tempo, seduta accanto al re degli dèi,non solo lo accolse gentilmente ma gli diede in sposa la sua figliola, Ebe, dea dell'eterna giovinezza.
Sull'Olimpo, il monte degli dèi che si innalza in Tessaglia,Éracle ebbe per sé e la sua sposa un palazzo tutto d'oro. I poeti cantavano:« Ora egli è un dio, avendo meritato questa gloria attraverso fatiche e sofferenze.Ora egli vive per sempre insieme agli altri abitanti immortali dell'Olimpo. »
Fonte: http://www.comprensivocasatenovo.gov.it/scuolamedia/joomla/documenti/manuela/italiano/storia_di_eracle.doc
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