Filosofia della moda
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Filosofia della moda
Capitolo 1 – Introduzione: una filosofia della moda?
Nella Francia del ‘400 la moda era talmente importante da fare in modo che Carlo VII ne istituì un ministero.
Nel ‘700 la moda entra in un processo di democratizzazione, non è più riservata ad un piccolo gruppo, ai benestanti. Al giorno d’oggi, quasi nessuno nel mondo occidentale può sottrarsi ai suoi dettami.
E’ la moda che è ritenuta così tanto importante da suscitare attenzione , o è tutta questa attenzione a rendere importante la moda? La moda si rivolge ad entrambi i sessi, non solo alle donne. Essa influenza la maggior parte delle relazioni delle persone, con se stesse e con gli altri.
Evidenziamo dunque una rottura con la tradizione e costante visione al “nuovo”. Walter Benjamin parlerà di “eterno ritorno del nuovo”. La nuova moda ha una grande rilevanza nella comprensione della nostra identità. La parola “moda” deriva dal latino modees (misura, maniera, forma).
Adam Smith affermava che la moda acquista valenza in ambiti dove il gusto è fondamentale: abiti, mobili, poesia, architettura, ma anche della morale. Secondo il grande filosofo Kant, tutte le mode sono maniera di vivere, poiché comportano cambiamenti generali nelle abitudini di vita. Lipovetsky parlò invece di un meccanismo sociale generale, non limitandosi ai vestiti, ovvero la moda nell’abbigliamento è una delle tante manifestazioni della moda.
Definizione di “moda”: un oggetto è moda se e solo se funziona come elemento di distinzione sociale ed è parte di un sistema che lo sostituisce con relativa rapidità con qualcosa di nuovo.
Tuttavia possiamo dare esempi di ciò che chiamiamo “moda” e di ciò che non chiamiamo tale, ma non possiamo dare una definizione.
Secondo Thomas Carlyle, lo scopo originario dei vestiti non è il calore o la decenza, bensì l’abbellimento. Gli abiti dunque sono “chiave di lettura del mondo”, e ciò funzionerà se l’esteriorità corrisponde all’interiorità. Esiste un collegamento tra moda ed identità, poiché noi siamo attraverso la nostra apparenza esteriore.
Capitolo 2 – Il principio della moda: il nuovo
La moda non è universale. Essa sorse in una data società per poi informare le società a venire. Nel periodo Greco-Romano non si parlava di moda, poiché non esisteva un’autonomia estetica nella scelta del vestiario. Dai tempi dei romani fino al XIV secolo l’abbigliamento europeo si sviluppa e si modifica relativamente poco. Dunque tra l’abbigliamento dell’uomo ricco e quello del povero l’unica differenza stava nella qualità delle stoffe. Si comincia a parlare di moda solo quando il cambiamento è ricevuto di per sé ed avviene a un ritmo relativamente incalzante.
La moda ha origine tra il tardo Medioevo ed il primo Rinascimento, in concomitanza con la crescita del capitalismo mercantile. L’Europa attraversava una fase di grande crescita economica, e si capì allora che le modificazioni nell’abbigliamento seguivano una certa logica. Da li in poi la forma degli abiti cambiò a ritmo sostenuto. Nel tardo Medioevo i vestiti si adattarono a ciascun individuo, con un taglio che si modificava nel tempo. Verso la metà del XIV secolo troviamo tagli nuovi, creativi, nuovi colori e nuove stoffe. Nel XVI secolo troviamo il graduale distacco delle forme dai contorni naturali del corpo. Alcune modifiche saranno accessibili soltanto alla classe borghese e dei ricchi.
Sempre nel ‘700 la borghesia competeva con l’aristocrazia feudale per il potere, e ci si vestiva per fare mostra del proprio status sociale. Tra il 1770 ed il 1780 compaiono le prime riviste di moda: queste pubblicazioni favoriscono l’aumento della velocità di circolazione della moda, le informazioni su ciò che era in ed out si diffondevano più velocemente. Tra “moda” e “moderno” troviamo un carattere comune, ovvero la soppressione della tradizione. Nietzsche afferma che la moda è irrazionale, la sua essenza è il cambiamento per il puro cambiamento, la modernità vede se stessa come un cambiamento che conduce verso l’autodeterminazione.
La differenza tra vecchio e nuovo è recente: da quando la gente iniziò a notare di per sé i cambiamenti nel tempo. Il termine “moderno” è dunque sinonimo di “nuovo”: nuovi oggetti ne sostituiscono altri, che a loro volta sono stati nuovi, ma che sono diventati vecchi. Kant afferma che la moda non ha nessun bisogno di avere a che fare con il bello, ma che può anzi degenerare nello stravagante, imponendosi nell’odioso.
La bellezza nella moda va ricercata nel temporale e nel fugace. Ad un oggetto di moda per principio non si richiede nulla oltre all’essere nuovo, ricercando essa soltanto modificazioni superficiali. Inoltre la moda si sviluppa in risposta a sollecitazioni interne più che con l’evoluzione politica della società (gonna corta-lunga).
Lo scopo della moda è senza dubbio l’essere potenzialmente infinita, ovvero creare nuove forme all’infinito. La moda tuttavia a volte produce variazioni su mode precedenti, come nella comparsa, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, del “New Look” di Christian Dior, con una profusione di stoffe ed un ritorno ad una moda più “borghese”. Il New Look era uno stile di rinnovamento, pur essendo un ripristino della moda retrò. La temporalità non è più lineare, bensì ciclica, perché la moda prima si proietta in avanti, ed ora è più intenta a riciclarsi. Dunque la moda gioca tra ricordo ed oblio: tiene presente sempre il suo passato per riciclarlo, dimenticando che al contempo il passato è, per l’appunto, passato, dal momento che la moda deve essere sempre assolutamente contemporanea. Il ritmo della moda ha subito una forte accelerazione a partire dall’800 ma principalmente negli ultimi Cinquant’anni, quando negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta si riconosce un riciclaggio di idèè dal decennio immediatamente precedente a quello successivo.
Walter Benjamin, come abbiamo detto anche prima, parlò di “eterno ritorno del nuovo” tuttavia, sotto il principio precedente, possiamo parlare di eterno ritorno dello stesso (è frequente per gli stilisti appoggiarsi a stili del passato, come per esempio rinascimentali o medioevali). Prima la moda seguiva una norma modernista, nel senso che il nuovo stile aveva il compito di sostituire tutti i precedenti, rendendoli superflui. Il suo criterio principale era dunque una logica sostitutiva. Adesso invece, negli ultimi dieci anni, si è andata imponendo una logica suppletiva, secondo la quale tutte le tendenze sono riciclabili e la moda stessa si accontenta di aggiungersi ad esse. La moda sta dunque morendo? Ha raggiunto una velocità critica che ne ha stravolto la logica.
Capitolo 3 – L’origine e la diffusione della moda
Come e perché si è sviluppata la moda? Al centro della nostra attenzione ci stanno diverse versioni della cosiddetta teoria del drop-dawn (gocciolamento verso il basso), tuttavia tale teoria è risultata essere, in molte occasioni, inadeguata (il prosperare della moda si può leggere come il risultato del tentativo di combatterla).
Nell’Europa del Medioevo lo Stato e la Chiesa facevano fronte al lusso con leggi dirette all’abbigliamento (sumptuary laws): imponevano restrizioni sul consumo a prescindere dal rango, riservando alcuni abiti alle classi più alte. Com’è ovvio, tali leggi non solo furono trasgredite regolarmente (per certi versi, il divieto rese ancora più allettante la mercanzia), ma anzi rafforzarono il significato degli abiti come segni di distinzione sociale, che lasciano trasparire lo status sociale di chi li indossa.
Nel XIV secolo troviamo l’aumento della produzione di massa, grazie anche al boom dato dalle macchine tessili, partorite dalla Rivoluzione Industriale. Quest’ultime resero possibile la produzione di vestiti in grandi quantità, quindi gli abiti non erano più privilegio delle classi più abbienti. Secondo la teoria del drop-dawn, l’innovazione ha luogo nei livelli sociali altolocati e si diffonde poi verso il basso, facendo leva sull’aspirazione di sollevarsi dagli strati inferiori, con la conseguenza che questi ultimi restano in una posizione arretrata. Precursore di tale tesi fu Adam Smith.
Spencer rintraccia l’origine della moda negli emblemi ed in tutto ciò che segnala lo status, ritiene inoltre che la moda è destinata a scomparire a breve, in conseguenza di un democratico livellamento della società. Tuttavia l’esito di tale livellamento risulterebbe l’opposto, poiché il singolo tenderebbe ad elevarsi, per rendersi visibile attraverso la moda. Il sociologo Veblen, in opposizione con questa tesi, afferma che non c’è bisogno di denaro e di potere per acquistare credito: bisogna anche che tutto ciò sia visibile. Si tratta perciò di mostrare il proprio status sociale, tramite uno “spreco opulento”. Dunque noi, secondo Veblen, cerchiamo di superare gli altri uomini che appartengono alla nostra stessa classe sociale e di issarci fino al livello di quella immediatamente superiore, imitandola. In altre parole, saranno due i principi d’azione: differenziazione nella stessa classe ed imitazione di quella superiore. Secondo Rimmel, tutte le mode sono mode di classe, il loro funzionamento si basa sul fatto che le classi alte abbandonano una moda per abbracciarne una nuova, non appena le classi più basse l’hanno imitata. Altro grande contributo lo ha dato il sociologo Gabriel Tarde, affermando che nella società moderna è presente una maggiore flessibilità imitativa, dunque anche le classi superiori possono prendere come modello quelle inferiori. Un esempio può esser dato dall’abito da uomo, tipico abito della classe media, che verrà utilizzato anche da quelle superiori. Troviamo il passaggio dai jeans comuni a quelli firmati. I jeans sono nati come capo da lavoro. Bande di motociclisti li utilizzarono, arrivando dunque ad influire sui giovani, visto che la classe media voleva assumere un aspetto più giovanile. Inizialmente i jeans erano un capo egualitario, in seguito Yves Saint Laurent li caratterizzò di particolari distintivi. I jeans firmati divennero un modo di vestirsi da povero in modo esplicitamente costoso. Negli anni ’90 troviamo una situazione totalmente diversa da quella di cui ci parlava il drop-down. Bordieu ci fa infatti osservare che la forza motrice del consumo è costituita dalle strategie di differenziazione messe in atto dalle classi alte nei confronti di quelle basse. Egli inoltre pensa che la moda sia un’invenzione della classe dominante volta a creare una distinzione tra se stessa ed i ceti inferiori, tutto dunque accade in un piano subcosciente. Per Bordieu il buon gusto non è espressione di ricchezza economica, ma culturale (soltanto escludendo gli altri una persona uò entrare in possesso di valori simbolici. Nel concetto di gusto vi sono dei modelli sociali che prendono corpo in ciò che Bordieu chiama habitus, che svolge una mediazione tra l’arena sociale ed il corpo umano (ad ogni classe corrisponde un habitus, ovvero un tipo di gusto). L’habitus fa si che possiamo credere di aver scelto qualcosa che in realtà ci è stato imposto. L’habitus è il prodotto, è l’indicatore dell’appartenenza ad un ceto. L’autore pensa che il gusto non sia un fatto personale, quindi non è qualcosa di innato, bensì qualcosa da coltivare attraverso le discipline sociali. Oggi invece, con l’imporsi dell’individualismo moderno, il gusto è una faccenda personale. Il sociologo Herbert Blumer fu uno dei primi a criticare la teoria dello sviluppo della moda sulla base della differenza di classe, affermando che la spiegazione va cercata in una specie di gusto collettivo mutevole, non vi è dunque, secondo lui, differenza nelle classi.
Troviamo tre categorie di moda: moda di lusso, moda industriale e moda di strada.
La prima si colloca con i prezzi più alti e confeziona su misura. La seconda corrisponde ad una produzione di massa, spaziando da capi costosi a quelli economici. La terza invece si crea in differenti sottoculture.
Prima c’era un “centro” (Parigi) che decideva quali fossero i vestiti IN, ora invece i centri e le norme si sono moltiplicati. Oggi i modelli di diffusione seguono il criterio dell’età. Troviamo infatti sempre più bambini che si vestono da adulti, e sempre più adulti che vestono da giovani (contro-trend). Oggi dunque la gioventù diviene l’attitudine della vita.
Capitolo 4 – La moda e il linguaggio
Prima l’abbigliamento era in grado di esprimere, in modo quasi univoco, l’identità sociale dell’interessato. Nel corso del ‘700 divenne meno usuale abbellire gli abiti con motivi decorativi aventi uno specifico significato, dando più importanza al taglio e alla tessitura: la loro capacità di far trasparire l’identità del soggetto che li indossa diminuì. Il tentativo forse più estremo - e meno convincente – di considerare gli abiti come una lingua ce lo fornisce la scrittrice Alison Lurie in “The Language of Clothes”: abiti come lingua, dotati di un vocabolario e di un linguaggio proprio. Dunque gli abiti fanno parte di un vocabolario visuale, cioè, un individuo con un guardaroba limitato esprimerà solo pochi messaggi attraverso i vestiti. La scrittrice pensa che nei vestiti possano trovarsi “difetti di origine psicologica”: una persona che si veste sempre uguale è coerente, chi con abiti incolori esprime incapacità di parlare ad alta voce, ecc…
Secondo Barthes ci sono tre aspetti nell’abbigliamento: 1) L’indumento reale; 2) L’indumento rappresentativo; 3) L’indumento utilizzato.
Il primo è il capo concreto che viene prodotto, il secondo è l’articolo di vestiario che si vede nelle riviste, il terzo, infine, è l’abito che si compra e si indossa. Barthes intende studiare un sistema di moda statico. Egli opera una netta distinzione tra significante e significato, ovvero tale differenza ha l’aspetto materiale e quello sematico del segno. Se un individuo non conosce tale codice, gli sarà impossibile orientarsi all’interno del sistema. Da dove deriva il “significato” del “capo d’abbigliamento”? Dall’artista? L’artista non è che un interprete, inoltre gli abiti modificano il proprio significato a seconda del contesto. Il significato è dunque da ricercarsi nella coscienza di colui che fa uso del vestito? O è chi guarda? Oppure il significato sta nell’abito stesso? Gli abiti non sono una lingua, poiché mancano di grammatica e di vocabolario, esprimono si qualcosa, ma non tutto ciò che è in grado di comunicare può chiamarsi lingua. Secondo la sociologa Diana Crane, gli abiti dipendono dal contesto (i significati). I vestiti sono come dei testi, chiusi nella società classista ed aventi un significato fisso ed aperti nella post modernità. Sono dunque capaci di ricevere nuovi significati.
Capitolo 5 – La moda e il corpo
La costruzione dell’identità risponde all’esigenza di progettazione del corpo. L’io si costituisce in gran parte attraverso la presentazione del corpo. La dieta una volta aveva uno scopo spirituale, invece nell’età tardo-vittoriana fu un fenomeno che si diffuse con l’obiettivo di modellare il proprio corpo. Secondo la prospettiva platonica, l’identità attiene in primo luogo all’anima, non al corpo. Il corpo è l’oggetto privilegiato della moda. Per Rimmel i vestiti non rispondono più alla necessità di coprirsi.
La creatrice di moda Elsa Schiapparelli sosteneva che non sono i vestiti a doversi adattare al corpo, ma è quest’ultimo che si dovrebbe adattare ad essi. La vita è come un concorso di bellezza, possiamo soltanto sperare di nascere nel momento più adeguato alle nostre bellezze. Se è vero che esiste un limite alle modificazioni che un corpo può avere attraverso la cosmesi, la pettinatura e la ginnastica, con la chirurgia estetica il canone estetico può essere vicino sempre a più persone.
Ideale: l’io corporeo ideale resterà irraggiungibile quasi per tutti. L’ideale è sottoposto ad un costante cambiamento. Persino le modelle restano indietro rispetto alle norme, poiché vi sono manipolazioni delle immagini. Il prototipo di bellezza corrisponde ai corpi ossuti. Le modificazioni dell’ideale corporeo vanno ricercate nei manichini delle vetrine: agli inizi del Novecento troviamo la classica forma a clessidra; negli anni Venti si passa ad una figura più magra; negli anni Trenta vengono sottolineate le clavicole ed i muscoli; dopo la Seconda Guerra Mondiale i seni ed i fianchi si riempiono di nuovo; negli anni Sessanta troviamo una figura spigolosa; negli anni Settanta figurano tratti somatici di altre razze. I tratti simmetrici vengono considerati più graziosi rispetto quelli asimmetrici, a prescindere se siano effettivamente belli.
Capitolo 6 - La moda e l’arte
I sarti furono catalogati tra gli artigiani, e gli abiti furono collocati in una sfera extra-artistica.
Worth avviò l’emancipazione dello stilista di moda dal ruolo di semplice artigiano (soggetto ai desideri dei clienti) a quello di libero creatore. Worth fu il primo “re della moda”. Egli sceglieva le stoffe, sviluppava un’idea e produceva i capi. In seguito si iniziò a firmare i capi. Quando le creazioni si accordavano con il gusto estetico dei clienti, si parla di libertà limitata.
Gli stilisti non hanno mai raggiunto lo status di artisti a pieno titolo. La presa di distanza dal mercato è sempre stata una strategia importante per aumentare il capitale culturale della moda. La moda si situa tra arte e denaro. Una ragione per la quale la moda non ha ottenuto un riconoscimento artistico è perché non ha una tradizione di critica seria. La maggior parte delle aziende di alta moda promuove l’arte contemporanea nei musei, per legarsi più strettamente al mondo dell’arte.
All’inizio del Novecento non era inusuale che gli scultori si dedicassero anche a disegnare abiti (Gustav Klimt).
Così come si usa l’arte nella moda (arte pop), anche la moda è usata nell’arte.
Nel corso del XX secolo arte e moda a volte si amano, altre si odiano. La moda ha desiderato sempre di essere benvista dall’arte, mentre l’arte ha avuto un atteggiamento ambivalente (a volte si avvicina, a volte si allontana). Almeno negli ultimi due decenni, l’arte si è mostrata più ambivalente nei confronti della moda, invece negli anni Settanta (arte politicizzata) le fu unicamente avversa.
La moda si è approssimata all’arte al punto che ormai diviene complicato tracciare una linea di confine tra di esse. La moda è dunque arte? Fino a che punto? Menkej fece presente il criterio di demarcazione tra arte e non arte, ovvero l’inservibilità. E’ d'altronde evidente che i vestiti, nella stragrande maggioranza dei casi, sono per l’appunto funzionali, ma considerata l’evoluzione recente dell’arte, l’inservibilità non è più un criterio adatto. Secondo Rhodes, la moda è più rilevante, più artistica dell’arte che si produce oggi, perché la prima indugia su una concezione della bellezza per la quale la seconda ha perso interesse. La vera arte è dunque la bellezza e, secondo Khan Nathalie, implica un’autocritica. Ma fino a che punto la moda è arte di valore? Secondo Adorno, l’arte subisce un influsso da parte della moda inconsapevolmente. L’arte è vincolata alla moda. Egli inoltre pensa che l’arte deve rapportarsi alla moda con un doppio movimento: da un lato riconoscendone la forza ed accettando di esserne subordinata, dall’altro combattendo questa stessa forza. La moda è il peggior pericolo per la cultura, perché svolge un’azione dichiaratamente omogeneizzante. Il compito dell’arte è di prendere coscienza del pericolo e meditare sul significato della moda.
L’arte ha continuato ad essere di moda, mentre quest’ultima sembra sostanzialmente essere uscita di moda ogni volta che ha voluto essere considerata come arte.
Capitolo 7 - La moda e il consumo
La nostra vita quotidiana è andata sempre più commercializzandosi. Agli inizi della modernità la società era una “società della produzione”, i cittadini erano considerati in quanto produttori. Nel tardo-moderno il ruolo si è modificato ed i cittadini da produttori divengono consumatori. Qualunque società necessita sia di produttori che di consumatori, ma c’è stato uno slittamento rispetto a chi rivolge il ruolo primario. Il lavoro occupa una parte sempre più breve della vita di un individuo. Siamo quindi produttori per molto meno della metà della vita, e siamo consumatori per la sua intera durata. I consumatori non sono un gruppo omogeneo, in ogni popolazione vi sono differenti modelli di consumo.
Miller critica l’opinione diffusa, per cui il compratore sia l’espressione di un materialismo egoista.
Il consumo oggi funge da diversivo, è un rimedio contro la noia sempre più diffusa. Secondo Douglas ed Isherwood i beni in uso hanno due funzioni principali: ponte e recinto: uniscono e dividono le persone. Sono entrambi importanti per una demarcazione sia positiva che negativa. Per Lipovetsky il consumo è motivato dal desiderio di piacere e di benessere. Il consumatore romantico era alla ricerca di un oggetto che lo soddisfi in modo assoluto o infinito. Tuttavia chi desidera l’infinito non sa cosa desidera (Friedrich Schlegel). Ogni qual volta che un individuo entra in possesso di un nuovo prodotto, questi risulterà deludente.
Il capitalismo funzionerà dunque finché il consumatore continua a comprare nuovi prodotti.
Per Campbell la differenza tra l’oggetto immaginario e quello reale crea un “desiderio struggente che alimenta il consumo”. Sempre il consumo, a parere di Michelde Certeau, è un processo di significazione nel quale gli individui sono creativi. La pubblicità ha un ruolo fondamentale, ma non compie in noi un lavaggio del cervello, poiché il cliente compra con premeditazione. Simmel esprime il rapporto di alienazione (di Marx) tra il consumatore e l’oggetto di consumo (rapporti reiterati). Secondo lui, il consumatore è sopraffatto dall’abbondanza dei prodotti e ciò provoca in lui un’incapacità di incorporare l’oggetto di consumo nel proprio progetto di vita. Secondo Giacomo Leopardi, gli abiti dovrebbero adattarsi ai soggetti, ma in realtà sono quest’ultimi a doversi adeguare agli oggetti. Simmel parlerà inoltre di tragedia della cultura: la cultura moderna è il risultato di un’evoluzione culturale in cui le merci e la tecnologia dominano l’uomo. La moda è costituita da elementi contrastanti: da una parte lascia che le persone si mostrino come esseri unici, dall’altro le etichetta come appartenenti ad un gruppo. La nostra relazione con gli oggetti interessa sempre meno la sfera dell’utilità. Per Baudrillard, la verità di un oggetto è la sua marca. Per affermare indentità e realizzazione sociale, è necessario e determinante oggi il valore simbolico. Ciò che si vende è la rappresentazione di un prodotto. I prodotti griffati vengono percepiti come di migliore qualità rispetto altri. Un capo firmato può esercitare attrazione anche solo per il fatto di essere stato prodotto da un marchio affermato.
In passato si consumava per l’identità personale. Il consumatore contemporaneo è impossibilitato a costruirsi un’identità attraverso le proprie scelte di consumo, proprio a causa della transitorietà del consumo. Secondo John Fiske si parla di democrazia semiotica, in cui i consumatori interpretano i simboli in risposta ai lori scopi. Lo shopping per i giovani è un’attività politica. Tuttavia dobbiamo smentire, poiché il significato delle cose è condizionato socialmente. L’azienda post-industriale non mirerà dunque a soddisfare bisogni ben precisi dei consumatori, ma di creare nuovi bisogni. E’ presente il fattore dell’irrazionalità, perché consumiamo ad un ritmo sempre più frenetico, anche se dentro di noi alberga la consapevolezza che non stiamo avvicinandoci alla meta. Il consumo non è più spinto dalla necessità, ma dal desiderio. Il consumo riempie il vuoto esistenziale. La nostra utopia è una società di consumi in cui gli individui possono realizzarsi attraverso l’uso dei beni.
Capitolo 8 – La moda come ideale di vita
Il ruolo dell’uomo moderno è quello di realizzare se stesso, attraverso la creazione del proprio sé, ovvero vengono messi al mondo, con il compito di diventare se stessi, di realizzare le loro qualità uniche. Nel mondo moderno non esiste più un significato collettivo della vita.
L’uomo pre-moderno aveva un’identità più stabile, perché ancorato alla tradizione. Oggi invece l’uomo è libero dalle costrizioni, la nostra identità consiste nel conservare uno stile di vita. La tradizione si ramanda, lo stile di vita di sceglie. L’identità non si costituisce per opera di un’io autosufficiente, ma si crea sulla base di relazioni sociali. La scelta dello stile di vita è dunque obbligata, quindi dobbiamo optare per uno stile di vita in quanto stile, farà della nostra preferenza una decisione estetica fondante. Dunque l’estetica è il centro di formazione dell’identità. La moda si trova quindi tra individualismo e conformismo. Per essere moda, uno stile deve presentare sia la conformità che l’individualità. Secondo Foucault, oggi il nostro compito è quello di crearci come opera d’arte: la nostra missione non è quella di trovare noi stessi, ma di inventare noi stessi. Dunque l’individuo è una costruzione sociale. La costruzione ha la capacità di costruire se stessa (autocostruzione), che avviene nell’askesis: cercare di dominare un io costantemente in fuga da sé. Per Paul Ricoeur, si distinguono nell’identità due aspetti: identità idem ed identità ipse. La prima è l’idea di restare la stessa persona, pur passando attraverso dei cambiamenti. La seconda è l’idea il quale l’individuo è una persona riflessiva in grado di relazionarsi con se stessa. Entrambe le identità sono imprescindibili affinché esista un solo io e devono essere inserite in un contesto costituito dal racconto coerente di chi uno è stato e sarà. Dunque l’identità non è una dimensione data, immutabile. Il problema va certamente identificato nel pluralismo presente nella moda odierna. Per Woolf non siamo noi a portare i nostri vestiti, ma sono loro a portare noi. E’ impossibile dare priorità all’aspetto esteriore o interiore dell’identità, poiché sono interdipendenti. L’ideale dunque è lo sforzo di ottenere un’indipendenza relativa dalla moda, poiché altrimenti saremo fashion victim. Si ha dunque un’identità quando per l’individuo le cose significano qualcosa e viceversa è l’identità a stabilire quale significato abbia o meno quella determinata cosa.
Fonte:
http://www.soqquadro.org/public/redazione/appunti/Estetica/Filosofia%20della%20moda.doc
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