La moda
La moda
Tesina di: Giulia Sanna
Classe: III E
Liceo Classico “D.A. Azuni”
Sassari
A.S. 2008/2009
«Un personaggio che non abbiamo ancora visto,
apre la porta, entra in scena e,
prima che abbia proferito parola,
il suo modo di vestire ci parla della sua condizione
e del suo carattere.
Più ancora del suo personaggio,
l’abito esprime uno stato d’animo;
attraverso l’abito ciascun di noi tradisce,
in tutto o in parte, la personalità, le abitudini,
i gusti, il modo di pensare,
il suo umore del momento, quello che si accinge a fare»
Jacques Manuel
L’art du costume dans le film
“Revue du cinèma”, 1949
- Etimologia e introduzione
Il termine moda deriva dal latino modus, i, che significa maniera, norma, regola.
Nei secoli passati, l'abbigliamento alla moda era appannaggio delle sole classi abbienti soprattutto per via del costo dei tessuti e dei coloranti usati, che erano estratti dal mondo minerale, animale e vegetale. Prima dell'Ottocento, l'abito era considerato talmente prezioso che era elencato tra i beni testamentari. I ceti poco abbienti erano usi indossare solo abiti tagliati rozzamente e, soprattutto, colorati con tinture poco costose come il grigio. A questi si aggiungevano scarpe in panno o legno. Non potendo permettersi il lusso di acquistare abiti nuovi confezionati su misura, tali classi ripiegavano spesso sull'abbigliamento usato.
Il termine moda compare per la prima volta, nel suo significato attuale, nel trattato La carrozza da nolo, ovvero del vestire alla moda, dell'abate Agostino Lampugnani, pubblicato nel 1645.
La storia di questo particolare fenomeno offre un punto di osservazione privilegiato per studiare la confluenza di molti elementi: l'intreccio continuo tra l'evolversi della storia delle idee e quella del pensiero economico; le relazioni tra i cambiamenti del gusto, e l'incidenza del progresso scientifico; il meccanismo d’influenza reciproca che caratterizza l'attuale rapporto tra mass media e consumatori.
Protezione, pudore, ornamento sono le tre motivazioni principali del vestirsi che s’inseriscono in un sistema formale di segni organizzato in funzione normativa.
- Dalla foglia di fico alla T-shirt
«Gli abiti servono a coprire le nudità delle nostre vergogne e
a difendere il corpo dalle intemperie, dal freddo e dal caldo.»
Come dice un antico trattato seicentesco,
il pudore e la necessità di proteggersi sono ritenuti tradizionalmente
come i primi motivi e l’origine stessa del bisogno di vestirsi.
Racconta la genesi che non appena Adamo ed Eva ebbero gustato il frutto dell’albero della conoscenza, “si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi” (3, sette). La scoperta delle nudità appare come il primo momento che segue alla caduta. Dapprima Adamo ed Eva la dissimularono facendosi scudo con alcune foglie di fico intrecciate; in seguito l’uomo, chiamato al cospetto di Dio, si nasconderà dicendo: “Ho avuto paura, perché sono nudo” (3, dieci). Allora prima di cacciarli dal paradiso terrestre “il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (3, ventuno).
Questo mito dell’origine dell’umanità mette in luce due funzioni essenziali del vestirsi: il pudore e la protezione. Pudore dell’uomo e della donna che coprono di foglie le loro nudità, divenute fonte di vergogna per via della conoscenza. Protezione della pelle animale che fa da involucro a un individuo gettato in un mondo ostile.
Tali preoccupazioni sono due costanti del comportamento umano; a qualsiasi cultura appartenga, l’uomo non è mai completamente nudo. Si possono sempre scorgere le tracce di un minimum indumentario, si trattasse soltanto di un “rivestimento” di segni e decorazioni, come nel caso del tatuaggio, al contempo involucro magico, artificio estetico ed elemento di linguaggio.
La Funzione Protettiva degli Abiti
La pelle animale con la quale Dio copre Adamo ed Eva prima di cacciarli, fungerà al contempo d riparo e protezione contro il freddo, le spine, la durezza del suolo. Abito - abitacolo, il vestito accresce progressivamente il valore della sua utilità, permettendo di correre senza martoriarsi i piedi, di ammortizzare i colpi, di facilitare i movimenti.
Le necessità tecniche sono spesso alla base dell’evoluzione degli indumenti. Dall’abito da guerra, all’abito da lavoro, dai vestiti per la caccia a quelli sportivi, l’uomo non ha cessato di innovare il suo modo di vestire, adattandolo incessantemente a nuove esigenze. Nel continuo perfezionamento dei suoi abiti, ha sperimentato numerosi materiali: dalle fibre vegetali, morbide e fresche, a quelle animali, soffici e calde, dal cuoio dei grembiuli alla maglia metallica delle cotte al goretex degli indumenti sportivi. Ha sperimentato materiali e forme per avvolgere senza costrizione il corpo.
Il “chiodo”, in origine il giubbotto indossato dai motociclisti americani, è un classico esempio di “guscio indumentario”. Confezionato in cuoio molto duro e spesso, è praticamente indistruttibile in caso di caduta; chiudendosi sul davanti con un doppio spessore, permette di proteggere al meglio la pancia, più esposta al vento della corsa; grazie ad una coppia di bottoni automatici, il bavero può essere fissato sulle spalle in modo da non sbattere in continuazione; infine lo sprone sulla schiena assicura una tenuta ottimale delle reni. Il “chiodo” è fabbricato dal 1915 dalla società americana Schott, che dal 1928 lo fornisce ai motociclisti appassionati di Harley Davidson. In alcuni paesi è conosciuto con l’appellativo di Perfecto, dal nome del suo marchio storico.
Proteggere il proprio corpo vuol dire anche ripararsi in una corazza che risponde a bisogni fisiologici. In casi estremi, l’abito ha costituito anche una protezione contro le malattie; come nel seicento, quando in assenza di reali nozioni di profilassi sanitaria, i medici che curavano gli appestati si facevano schermo di una coltre di stoffe e di spezie ritenute efficaci nella prevenzione dei morbi.
In un’epoca in cui il corpo è percepito come una materia permeabile a ogni aggressione e in cui l’invisibile occupa quasi più posto del visibile nella rappresentazione del mondo, l’abito protegge sia da ciò che si vede e si sente, sia dai mali occulti. Siano di passamaneria, di pizzo o di merletto, gli ornamenti delle aperture servono ad abbellire gli abiti, ma possono avere anche significati magici, come salvare il corpo dal demonio.
L’Armatura
Abiti e accessori sono a volte talmente ricercati da divenire delle vere e proprie protesi, delle estensioni meccaniche del corpo; come l’armatura del cavaliere, che richiede un’infinità di pezzi distinti e articolati tra loro, concepiti per proteggere i punti vitali del corpo e per agevolare il più possibile i movimenti. Gli abiti da guerra utilizzati dai cavalieri medievali si dividono in due categorie: le cotte di maglia e le armature. La tecnica per la fabbricazione delle cotte di maglia, reticella di fili di metallo intrecciata a catena, si sviluppa fra il X e il XIV secolo. Morbida e piuttosto leggera, dal quattrocento la cotta è adoperata in combinazione con l’armatura, composta di un insieme di placche di metallo articolate fra loro e conformate alle diverse parti del corpo, a formare singole parti, come la gorgiera e il camaglio a difesa del collo e delle spalle, i bracciali, i cosciali e gli schinieri. Spesso il cavaliere indossa sull’armatura una livrea di stoffa con i colori della sua arme o del signore per cui combatte.
Il Trench Coat
Il trench coat (cappotto da trincea) fu creato per gli ufficiali inglesi impegnati nella Prima Guerra Mondiale. Confezionato con una tela di cotone impermeabilizzato morbida e resistente, è rivestito internamente con una calda imbottitura sfoderabile. Alzando il bavero si ottiene una mentoniera che, fissata con una cinghietta, impedisce alla pioggia di penetrare nel collo. Le spalline permettono di fissare gli eventuali equipaggiamenti militari o le bandoliere. Altre cinghiette servono a stringere l’imboccatura delle maniche. La mantellina cucita sulla schiena permette una maggiore mobilità delle braccia, mentre due fasce di tessuto attorno alle cosce assicurano l’abito ben stretto al corpo. Infine, la cintura presenta una serie di anelli ai quali si possono appendere la borraccia e le granate. Introdotto fra gli abiti di uso comune dai reduci di guerra, è ormai diventato un abito da città e recentemente ha anche ritrovato un nuovo consenso nelle passerelle di moda, ma naturalmente ha perso numerosi dettagli, come gli anelli porta-granate.
La T-Shirt
La canottiera fa la sua apparizione come indumento intimo maschile nella seconda metà dell’ottocento, in una forma simile a quella che ha ancora oggi: corpo cilindrico in maglia di cotone e girocollo piatto. Usata nella divisa della Marina militare statunitense, si afferma come indumento di uso quotidiano grazie allo sviluppo delle pratiche sportive. Negli anni Venti le associazioni sportive delle grandi università americane, e in particolare University of California, cominciano a personalizzarla con delle scritte. Negli anni Trenta diventa un supporto pubblicitario, utilizzato per reclamizzare i pregi di una località turistica o di un film, primo fra tutti Il mago di Oz nel 1939. La Seconda Guerra Mondiale contribuisce in modo decisivo alla sua diffusione. Indossata dai militari americani, è prodotta in milioni di esemplari sul modello fissato nel 1942 dalla Marina Americana degli Stati Uniti col nome di T type shirt, dalla lettera che ricorda la sua forma. Finita la guerra, la T shirt conosce una grande popolarità e si diffonde soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Il cinema e il rock and roll ne fanno un modello universale per le nuove generazioni. Divenuta nel corso di trent’anni uno dei supporti privilegiati della comunicazione pubblicitaria, ma anche musicale, politica o letteraria, la T shirt rappresenta un perfetto esempio di trasferimento d’uso e di adattamento di un capo di vestiario alla moda.
Il Jeans
Tutti ne hanno almeno un paio nell'armadio, la resistenza del tessuto è famosa in tutto il mondo, alcuni lo considerano un modo di vivere, altri un oggetto di culto, altri ancora una moda: è il jeans. Osannato e maltrattato, stracciato, tinto e arricchito. Il pantalone a cinque tasche di tessuto più famoso della storia della moda ha conquistato il suo posto nell'armadio grazie ad una lunga e tormentata vita che è iniziata nella seconda metà dell'Ottocento.
Levi's è la compagnia che per tutto il ‘900 è stata al primo posto nella produzione dei jeans. Il suo fondatore, Mr. Levi Strauss, uno dei tanti cercatori d'oro che arrivò a San Francisco nel 1853, con l'aiuto di Jacob Davis, un sarto del Nevada, che per primo abbinò al denim i celebri bottoni di metallo, mise a punto il più longevo dei pantaloni, resistente alle intemperie e alle mode. All'epoca il denim era già usato per molti abiti da lavoro, ed è soltanto una leggenda quella secondo cui Levi Strauss abbia fabbricato i primi jeans con la stoffa delle tende; non era un materiale che lui produceva, se ne approvvigionava dai grossisti di passaggio. Così nasce il mito. é l'evoluzione che il prodotto ebbe negli anni ‘50 che decretò il suo successo.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale il jeans rimase un abito da lavoro, nel dopoguerra fu il boom del casual e Levi's ne fu protagonista. Dagli anni ‘50, i "Red Label" cominciarono a entrare nelle case dei giovani insieme ai primi idoli del cinema e del rock'n'roll: da James Dean a Elvis Presley. La crescita e la popolarità dell'azienda furono inarrestabili almeno fino agli anni ‘70, periodo in cui le griffe hanno iniziato a impadronirsi del jeans come parte integrante del loro pret-à-porter. In questo periodo il famoso pantalone entra negli armadi dei giovani di tutto il mondo per non uscirne mai più. Tra slim fit e zampa d'elefante raggiunge il primato di pantalone passepartout, il preferito dai giovani e in assoluto il più portato. L'evoluzione continua e il pubblico sembrano preferire il jeans firmato, un po' per la novità e un po' perché negli anni ‘80 la tendenza è mostrare soprattutto il marchio, così anche per il jeans. La storica ditta di San Francisco si affanna a mantenere la leadership senza tradire i suoi principi fondamentali, quelli che l'hanno vista protagonista del costume giovanile per decenni. Motivo di crisi è che ormai qualsiasi linea di abbigliamento, dalla ditta più sconosciuta alla firma più nota dell'alta moda, produce una propria linea jeans. Il numero di persone che ne compra uno o lo porta è cresciuto. Diverse, però, sono le scuole di pensiero: alcuni lo considerano un oggetto di culto e ricercano, nel campo dell'usato, il modello più antico o il tessuto più pregiato; altri, i più giovani, lo considerano un modo di vivere, anche se oggi è stato in parte soppiantato da altri tipi di pantaloni sportivi; altri ancora lo portano sempre all'ultima moda acquistando jeans di questa o di quell'altra ditta.
Adesso anche il più famoso dei pantaloni sta diventando vittima della moda. Se prima era concepito come pantalone da lavoro e aveva un taglio e un tessuto di un certo tipo, oggi la moda e le esigenze di un pubblico sempre più critico e competente portano il jeans a cambiare forme e colori, lunghezza e larghezza secondo lo stile più attuale.
La fine degli anni ‘90 è stata caratterizzata, dopo un periodo di silenzio e di minimalismo in cui si era quasi persa traccia del benamato pantalone in denim, da un ritorno alla grande della moda jeans. Dopo l'imitatissimo neohippy di Gucci, a opera di Tom Ford, che ricorda molto gli anni settanta, jeans a vita molto bassa, non esageratamente stretti, lunghezza appena sopra la caviglia, finto trasandato con applicazioni colorate di altri materiali, e il parallelo successo dei modelli, tra piume e pitone, proposti da Roberto Cavalli, ecco che si parla di nuovo jeans. Non è più solo per i giovani e per il tempo libero, ma ora il suo spazio nell'armadio occupa un altro livello. E' diventato un oggetto di lusso. Per la sera e per il giorno, indifferentemente il jeans regna ancora una volta incontrastato alla faccia dei nuovi tessuti supertecnologici e delle mode che si alternano e sono dimenticate. Apprezzato, arricchito, la sua immagine è oggi sfruttata ai limiti dell'inflazione. Nella famosa tela denim oggi si può trovare di tutto dalle borse al costume, agli stivali, pochette, portafogli, bracciali...
Il jeans sta morendo o è rinato in altra forma? L'importante è portalo sempre come si vuole e con tanta personalità. Immortale e sempre blue-jeans.
3. Essere alla moda
«La nostra leggerezza è tale,
che non appena una moda ne ha cancellato
un’altra già viene sorpassata da una nuova,
che a sua volta lascia il passo a quella che la segue.»
La Bruyère
Les Caractères
Piet Mondrian
Composition in Red, Yellow, and Blue (1930)
La moda sembra godere di un piacere perverso
nel cambiare e riciclare di continuo le linee e le forme dei vestiti. Stilisti e creatori di moda, ma anche tutti coloro che indossano gli abiti,
giocano con i capi di abbigliamento combinandoli e reinterpretandoli, stagione dopo stagione, in un’incessante ricerca delle novità.
Christian Laboutin and Nike Shoes
Yves Saint Laurent Dress and Bag
Modelli ispirati al celeberrimo quadro di Mondrian
Nell’antichità non si può dire che esistesse una vera e propria moda, ma più che altro dei modelli uguali per tutti o che al massimo differenziassero tra loro le varie classi sociali.
Gli Egizi, i Romani e i Greci
Gli Egizi, popolo molto scrupoloso nella pulizia (come dice Erodoto), usavano pochissimo la lana e le altre fibre animali, perché ritenute impure, preferendo le fibre naturali come il lino che, essendo più leggero, era molto adatto a un clima caldo e secco. Le vesti di lino, inoltre, avevano il vantaggio di poter essere lavate con molta facilità. Le donne indossavano abiti simili a quelli degli uomini, ma più lunghi e molto aderenti. Anche dagli affreschi è possibile ammirare l’elegante silhouette di tutte le donne egizie: dalla moglie del faraone alle ballerine. L’abito contrassegnava anche l’appartenenza a una classe sociale: per i ceti più bassi l’abito era più semplice. Indossavano anche parrucche, realizzate con capelli naturali o fili di lino o fibre di palma. Grazie a un avanzato livello culturale e a una buona stabilità politica, nell’arco di tremila anni, durata della società egizia, i cambiamenti nell’abbigliamento furono minimi. Le prime informazioni riguardanti l’abbigliamento ci giungono proprio dagli Egizi, grazie all’ottima conservazione di statuette, affreschi ecc.
Per quanto riguarda la società greca, gli uomini indossavano una tunica lunga fino al ginocchio, la tunica delle donne arrivava fino alla caviglia. Utilizzavano spille, fermagli, cordoni e cinture per la vita. Dalle ultime ricerche risulta che le classi più agiate indossassero indumenti di stoffe colorate (rosso, giallo e porpora) e operate. Nonostante gli abiti fossero abbastanza semplici, fornivano un’idea di armonia ed eleganza. Le donne facoltose si ornavano con diademi e pietre preziose, utilizzavano pettinature elaborate e parrucche.
L’abbigliamento romano s’ispirò a quello greco, ma soprattutto a quello etrusco.
I Romani ereditarono l’indumento più diffuso: la toga di lana che poteva essere indossata in diversi modi e in diversi modelli.
Quella dei senatori era bianca e, cosa curiosa, impediva quasi del tutto l’attività fisica.
Le donne, invece, indossavano la tunica, la stola e la palla di lana (una cappa che ricopriva anche la testa), preferendo però altri tessuti quali il lino e la seta. Le acconciature richiedevano ore di preparazione, Ovidio ci dice che andavano di moda i capelli biondi e che molte donne schiarivano i propri capelli.
Durante la Roma repubblicana i costumi erano più castigati, mentre nella Roma imperiale l’abbigliamento era più disinvolto ed esibizionista. I Romani ritenevano l’uso dei pantaloni un’usanza barbarica, ma alla fine furono accettati; i primi a indossarli furono i militari.
Durante i matrimoni s’indossava una tunica cucita, lunga fino a terra.
I Barbari e l’epoca Carolingia
I barbari indossavano una tunica con dei pantaloni dal taglio largo, aborriti dai romani. Questi furono ispirati all’abbigliamento romano, utilizzando però fibre più grezze come la canapa. Anche i Goti e i Longobardi andarono via via assimilando l’abbigliamento romano. Gli scavi, condotti in Francia, hanno permesso di accertare che gli alti personaggi franchi vestivano raffinate vesti di lino.
Durante l’epoca carolingia le vesti imperiali erano di una magnificenza estrema, sia il taglio sia le stoffe erano importati dal vicino oriente.
Dopo l’anno 1000, con la ripresa dei commerci, a causa dell’indebolimento del feudalesimo, anche l’abbigliamento subì delle modifiche e nuove influenze.
Il Medioevo
L’evoluzione collettiva del gusto è all’origine delle numerose variazioni dei modi di apparire, anche nelle cosiddette società tradizionali. Sul lungo periodo altri fattori contribuirono ad accelerare o a rafforzare certi entusiasmi: la comparsa o il mutamento dei gruppi sociali, l’evoluzione tecnologica, la nascita e la diffusione di certi modelli. Le mutazioni economiche e sociali che caratterizzano la fine del medioevo, come quelle dell’epoca della rivoluzione industriale o dell’ultimo dopoguerra, costituiscono altra tante tappe nella storia della moda e del costume. Nel corso del trecento i ritmi di trasformazione dei modi di vestire si fanno via via più rapidi in funzione sia del progresso tecnologico, che riguarda in particolar modo i filati (è l’epoca dell’invenzione dell’arcolaio) e le tinture, sia dello sviluppo degli scambi commerciali (Via della Seta, importazione di stoffe dal Medio Oriente).
Sino al trecento in occidente l’abbigliamento non ha subito grandi trasformazioni: ampio, lungo e drappeggiato, non presenta grandi differenze a livello geografico o sociale. L’abbandono di un modo di vestire uniforme ai due sessi costituisce il primo importante fenomeno della nuova concezione del costume in Europa. Fra il 1340 e il 1350 gli abiti si dividono in due parti: quella di sopra e quella di sotto, portata lunga dalle donne e corta dagli uomini. Divenendo aderente l’abito svela e mette in evidenza il corpo come sino ad allora non era mai accaduto. L’abbigliamento di base dell’uomo è costituito da due pezzi: il farsetto e le brache. Le brache sono due tubi di tela che arrivano sino all’altezza dell’inguine dove si raccordano con la base del farsetto per mezzo di spille, cordoncini o nastri. Il farsetto, corta veste imbottita, trae le sue origini da un capo indossato sotto le armature per proteggere il corpo dal contatto con il metallo. Le donne portano un vestito intero, o talvolta un abito composto da una gonna e da un corpetto. Sotto, sia gli uomini sia le donne, indossano la camicia a fior di pelle; questo capo, che in origine era interamente nascosto alla vista e serviva a isolare il corpo dal contatto con gli abiti, si rende via via più manifesto. L’estremità delle maniche si accorcia, compaiono i polsini e poi le maniche. Alla fine del quattrocento la parte superiore della camicia si prolunga e in seguito creerà al collo.
La Corte Francese
Luogo privilegiato della competizione e della seduzione, la corte reale sarà per lungo tempo il centro principale della nascita e della diffusione dei nuovi modelli. La corte di Francia passa dalle 270 persone del 1480 alle oltre 2000 del secolo successivo, sino a divenire la più grande d’Europa con Luigi XIV. Più è grande, più cresce il prestigio e la forza di diffusione dei suoi modelli. Il costume occupa un ruolo di primo piano nell’economia politica della corte reale. Il nome dei due abiti principalmente usati in Europa nel settecento, il vestito “alla francese” per le donne e l’abito “alla francese” per gli uomini, indicano chiaramente l’egemonia internazionale del gusto transalpino.
La moda di questo periodo prevede un abito intero aperto frontalmente indossato sopra una sottogonna, solitamente realizzata nello stesso tessuto dell'abito. Il corpino è aderente, di forma conica (ottenuta comprimendo il torso in un rigido busto steccato) con un'ampia scollatura quadrata e maniche che terminano al gomito, solitamente completate da ricchi polsini cascanti e merletti arricciati imbastiti di volta in volta all'abito. In molti casi il corpino rimane frontalmente aperto, e lo spazio che resta è riempito da un Piece d'Estomac, ossia un triangolo di tessuto riccamente decorato tenuto in posizione fissandolo con spilli o un'imbastitura al sottostante busto. Il volume della gonna è ampio sui fianchi, e dritto davanti e dietro. Questo volume è ottenuto indossando, sotto all'abito, un panier, ossia una gabbia rigida. Le acconciature si sviluppano in altezza, in particolare negli anni '70 del secolo, quando diventano talmente elaborate e complesse da incorporare decorazioni e oggetti di vario genere, da semplici fiori e piume a uccellini impagliati e perfino navi in miniatura. Le scarpette, in tessuto prezioso, hanno alti tacchi a rocchetto e fibbie gioiello.
Illuminismo, Rivoluzione Francese e Rivoluzione Industriale
Verso la fine del secolo la moda, influenzata dalle fogge inglesi e dalle nuove idee dell'illuminismo, si fa via via più semplice. Il panier va scomparendo rimanendo infine confinato all'abito di corte. Il volume sui fianchi, ora non più solo laterale, ma spostato anche sul dietro, è garantito da cuscini imbottiti di ridotte dimensioni se non semplicemente dalle sottogonne. Le decorazioni sono più semplici e meno numerose. Si cerca un aspetto più naturale, meno artificioso. La sottogonna, sempre più spesso, è in tessuto e colore contrastante con l'abito che lo accompagna. Le scollature sono coperte da un piccolo scialle, il fisciù. Le maniche, aderenti, si allungano a raggiungere il polso.
Con lo scoppio della rivoluzione francese gli abiti si semplificano ulteriormente. Il punto vita comincia a spostarsi verso l'alto, sottolineato da una cintura di seta, e i tessuti sono sempre più spesso leggere mussole di cotone dai colori chiari o dalle fantasie stampate. I corpini hanno ora la parte frontale morbidamente rigonfia e le gonne perdono sempre più volume. Le scarpette hanno tacchi sempre più bassi e piccoli, e i copri capi sono ampie cuffie sormontate da nastri e piume, che coprono morbide acconciature con boccoli ricadenti.
Dalla fine del Settecento, nell'Europa settentrionale, in Svizzera e in Inghilterra, lo sviluppo dell’industria tessile, e in particolare di quella cotoniera, si avvantaggia della comparsa di nuovi mezzi di produzione, dopo che per lungo tempo la fabbricazione era rimasta legata al modello artigianale, con uomini e donne che lavoravano per mercanti-imprenditori piccole quantità di prodotto, spesso a domicilio, in funzione della domanda diretta. Nel volgere di qualche decennio, nuove macchine come la filatrice meccanica (la celebre Spinning Jenny), il telaio a maglia, il telaio Jacquard e le prime stamperie, rivoluzionando i metodi di lavoro tradizionali. Eliminando in modo radicale la strozzatura produttiva rappresentata dalla fabbricazione dei tessuti, la Rivoluzione Industriale spiana il cammino alla moda moderna. La produzione e il commercio dell’abbigliamento si dividono allora in quattro settori principali: confezionisti e sarti si occupano della realizzazione dei capi di sopra, le cucitrici confezionano la biancheria intima; le modiste, o i mercanti di moda, si dedicano al commercio e alla confezione degli accessori e delle guarnizioni. Un po’ alla volta le classi popolari, gli operai e la piccola borghesia acquisiscono la possibilità economica di confezionarsi i propri abiti: il mercato della moda soppianta in breve il commercio di abiti usati, cui facevano soprattutto ricorso gli individui meno agiati. Dal 1830 in Francia questa tendenza si rafforza ancor più grazie all’introduzione della macchina per cucire di Berthèlemy Thimonnier. Intanto si diffondono anche nuovi modi di distribuzione. Nelle gallerie, come quella del Palais Royal di Parigi, appaiono intorno al 1780 i primi negozi di abbigliamento, poi i grandi magazzini, fra i quali A la belle jardinière (1824). Lo sviluppo della stampa di settore, la prima rivista “Le Journal Des Dames et Des Modes” è del 1797, permette una migliore diffusione dei modelli lanciati dalle signore del bel mondo, che sono ripresi da sarti di provincia e all’estero.
La Prima Metà dell’Ottocento
La moda che si delinea durante l’impero napoleonico sopravvive all’impero stesso e si protrae ancora per qualche anno dopo la sua caduta. E’ una moda che si discosta totalmente dal passato abbandonando tutte le modifiche artificiose del corpo femminile in favore di una linea sciolta e naturale. Eliminati busti steccati e panier, la biancheria si riduce al minimo e gli abiti stessi sono leggere tuniche di chiara ispirazione classica, lunghe fino alla caviglia, di linea dritta, ampie in fondo, con un corto strascico e cinte sotto il seno. Le maniche, cortissime, lasciano le braccia nude, e la scollatura è ampia e quadrata. Il colore prediletto è il bianco delle sculture classiche. Per la sera gli abiti si fanno più complicati con ricami in oro e argento e spesso una corta tunica aperta sovrapposta.
Per proteggersi dal freddo si usano scialli di cachemire e sciarpe, ma già nel 1806, come reazione all’epidemia d’influenza che colpì l’Europa, riappaiono i più caldi cappotti, ben più adatti al clima nostrano delle leggere stole d’ispirazione ellenica. Intorno al 1810 l’aderenza ai modelli classici si fa meno precisa. Le maniche sono più lunghe mentre le gonne si accorciano e in fondo appaiono applicazioni di volant ricamati. Le scollature si riducono e spesso sono riempite da corte camicie accollate con balze attorno al collo. Come soprabiti appaiono corti giacchini, detti spencer, spesso chiusi da alamari, e altri colori cominciano ad affiancare, soprattutto d’inverno, il fino allora imperante bianco. Ricompare anche la biancheria con lunghi mutandoni che fanno capolino dall’orlo delle gonne. Le scarpe sono basse, totalmente prive di tacco, e scollate. Anche le acconciature si rifanno ai modelli classici.
Intorno al 1830, abbandonate le fonti neoclassiche, ci si rivolge ora al medioevo come nuova fonte d’ispirazione. Le linee dell’abito abbandonano le verticalità dell’inizio del secolo per allargarsi in orizzontale. La vita è ora solo leggermente alta e nuovamente stretta dal busto, le gonne si allargano e si accorciano fino a mostrare completamente la caviglia, una cortezza mai raggiunta prima. Le maniche si gonfiano dalla spalla al gomito al punto di dover richiedere intorno al 1830 imbottiture da indossare sulle spalle per sostenerne il volume. Nella seconda metà degli anni ’30 il volume delle maniche scivola però gradatamente verso il basso fino a lasciare verso la fine del decennio la spalla aderente.
Il corpino è spesso guarnito da increspature e ha la scollatura dritta, da spalla a spalla, in genere coperta durante il giorno da una corta pellegrina, imbottita per l’inverno e leggera per l’estate. La biancheria riacquista volume e numero di pezzi. Camicia e mutandoni sono ormai considerati indispensabili e anche il busto ha fatto la sua ricomparsa, anche se è ancora leggero, in tessuto trapuntato e con un'unica stecca centrale estraibile. Anche le sottogonne inamidate, spesso indossate in numero di due o tre contemporaneamente, sono ora indispensabili per garantire volume alle gonne. I cappelli sono voluminosi, con ampie tese decorate di fiori e nastri, spesso ben più voluminose dei piccoli ombrelli. Gli ombrellini parasole sono piccoli, spesso minuscoli, con il manico pieghevole, la calotta orientabile verso il sole, e un anello in cima per portarli al polso come una borsetta. Le borsette al contrario non sono quasi usate.
Con il 1840 le maniche abbandonano totalmente il volume precedente e diventano lunghe e aderenti. Il corpino, di linea aderente e più allungata rispetto a prima, accentua ulteriormente questa sua verticalità terminando a punta, e gli scolli a barca spariscono a favore di uno scollo rotondo e accollato da cui spesso fa capolino un colletto bianco. Le gonne, che ora toccano di nuovo terra, al contrario acquistano volume e rotondità, e per sostenerle in questa loro crescita nasce la crinolina, una sottogonna rigida in crine intessuto con fili di lana o seta. Calze e scarpe, ora completamente nascosti dall’abito, perdono importanza, ma è in questo periodo che ricompare un basso tacco sulle calzature dalla punta sempre quadrata e gli stivaletti acquistano sempre più importanza. Le acconciature sono basse con i capelli, idealmente scuri, spartiti sulla fronte e raccolti sulla nuca. I cappelli a capote incorniciano il viso spesso sovrapponendosi alle cuffie di pizzo che non vengono quasi mai tolte.
I guanti, o i mezzi guanti, sono indossati in ogni circostanza, anche in casa. Per quel che riguarda la biancheria, i lunghi mutandoni non sono più dritti ma si stringono all'altezza delle caviglie.
I gioielli sono pochi e discreti con orecchini piccoli e raramente pendenti e quasi mai collane. Verso la fine di questo periodo fanno la loro comparsa appese in vita anche piccole borsette.
La Seconda Metà dell’Ottocento
Nel 1860 le gonne si allargano a dismisura arrivando a raggiungere anche i sette metri di circonferenza. Per permettere di sostenere un tale volume, le sottogonne rigide del periodo precedente sono sostituite da gabbie di fili metallici leggere e pratiche che permettono una maggiore agilità di movimento nonostante il volume degli abiti. Le gabbie sono poi ricoperte ancora da una o più sottogonne di tessuto per ammorbidirne le forme e dare una migliore silhouette all’abito. Per lasciar spazio al volume delle gonne, la vita degli abiti si sposta leggermente in alto. Il corpetto è comunque ancora aderente e le maniche più comuni sono a pagoda, ampie dal gomito in giù e indossate su sottomaniche in battista spesso ricamate. I decori più comuni sono geometrici con abbondanti applicazioni di passamanerie alle maniche e in fondo alla gonna. La sera, per il ballo, le scollature sono ampie e a cuore con maniche cortissime spesso accompagnate da guanti altrettanto corti che quindi lasciano le braccia nude. La grande quantità di tessuto necessario a confezionare le amplissime gonne fa sì che spesso per un’unica gonna siano confezionati due corpetti, uno da giorno e uno da sera da usare alternativamente.
Dopo il 1860 il volume della gonna non è più perfettamente circolare attorno al corpo ma si sposta sul dietro, sbilanciamento accentuato da un piccolo strascico, e in molti casi l’orlo non tocca più terra rivelando le scarpe. Questo è ottenuto anche grazie ai raccogli - gonna dei particolari fermagli spesso in argento appesi alla cintura tramite un cordino e che servivano a sollevare la gonna per camminare più agilmente, per esempio in caso di pozzanghere. Dal 1864 a segnare la vita compare una cintura e lo scollo più comune non è più tondo ma quadrato. Vista l’impossibilita’ di indossare soprabiti aderenti sulle ampie gonne, questi sono sostituiti da scialli di ogni genere o corte giacchette che terminano in vita. Questo è anche il decennio che segna la nascita dell’alta moda come la concepiamo ora. Nascita che si fa coincidere con l’apertura a Parigi nel 1858 dell’atelier di Worth, il primo stilista moderno.
Dopo le mastodontiche crinoline della metà degli anni ’60, la misura delle gonne comincia a diminuire. Si passa quindi intorno al 1867 alle demi-crinoline composte di meno cerchi e con una circonferenza di non più di 4,5 metri. In breve le misure si riducono ulteriormente e soprattutto i volumi cominciano a spostarsi sul dietro. Negli anni ’70 il davanti dell’abito cade dritto concentrando gran parte del suo volume sul retro, arricchito da panneggi e arricciature e spesso un piccolo strascico. La ricchezza della gonna è poi in molti casi ottenuta sovrapponendo alla gonna vera e propria un tablier arricciato, e le decorazioni sono arricchite da bottoni, frange, trecce, nastri e nappe. Le acconciature sono ricche e ricercate di pari passo con le gonne e sormontate da cappelli altrettanto carichi ma di ridottissime dimensioni.
Nella seconda metà dell’ottocento la borghesia diventa la nuova classe emergente e fa suoi quegli strumenti di affermazione sociale che fino ad allora erano stati esclusivo appannaggio della nobiltà, tra questi anche l’eleganza. Gli abiti, infatti, sono in questo secolo una vetrina della propria condizione sociale che deve rispettare regole ben precise. Una donna elegante si cambia d’abito almeno quattro volte al giorno ed esistono abiti specifici per ogni occasione, dal ballo alla villeggiatura, dal viaggio alla passeggiata pomeridiana.
Alla fine degli anni ’70 l’abito perde volume, la figura è ora sottile e slanciata. Abbandonate le tournure e i sellini, le gonne ora scivolano aderenti al corpo sulle reni, e i panneggi e le arricciature sono relegati nella parte bassa della gonna. Nonostante l’apparente semplificarsi delle vesti, però, questa nuova linea è in realtà molto più scomoda della precedente perché le gonne strette e fascianti rendono difficile camminare più di quanto non facessero le ampie e leggere gabbie delle tournure. I busti si adeguano a questa nuova linea e diventano più lunghi, e così pure le acconciature che ora sono chignon raccolti in cima alla testa per accentuare ulteriormente la verticalità dell’insieme.
A partire circa dal 1883 gli abiti ricominciano ad acquistare volume sulle reni. Abbandonata la linea naturale della fine degli anni ’70 e dei primissimi anni ’80, sotto gli abiti tornano le ampie tournure che però a differenza di quelle dei primi anni ’70 sono ora limitate alla parte posteriore del corpo. Le gonne insieme al volume acquistano anche importanza, sono, infatti, spesso arricciate ed elaborate, con complicati panneggi e applicazioni. In contrasto con le ampie e ricche gonne, i corpini, spesso di taglio maschile, hanno torace stretto e vita esilissima tanto che questo è considerato il momento della storia del costume in cui il busto è più deformante e dannoso per la salute.
I gioielli più diffusi sono le perle indossate in molteplici file. Celebri quelle della regina Margherita che sfoggiava ben quattordici fili ricevuti in dono da re Umberto, uno per ogni Natale.
Le gonne sono leggermente rialzate da terra tanto da lasciar intravedere i piedi. Questo permette una maggior agilità nel camminare e riporta in vista le scarpe cui quindi è dedicata maggior cura. La punta quadrata lascia definitivamente il passo a quella a punta e ricompare il tacco a rocchetto.
All’inizio degli anni ’90 la figura sottile e slanciata del decennio precedente, pur lasciando il punto fermo della vita sottilissima, tende ad allargarsi agli estremi. Le maniche si gonfiano assumendo la tipica forma a prosciutto voluminosa sulle spalle e stretta al polso e gli orli delle gonne, che ora toccano di nuovo terra, si allargano.
Sotto la gonna sono spariti tournure e ampi sellini e ora il volume sui fianchi e lasciato alla sua forma naturale. Il collo è fasciato da un colletto alto e montante e, in contrasto con l’ampiezza delle vesti, i capelli sono raccolti in discreti chignon.
La seta e tenui tinte pastello vengono a volte a sostituire i canonici tessuti bianchi di lino finora padroni indiscussi della biancheria femminile. Questo anche grazie a nuove tinture che reggono meglio il contatto con l’acqua e quindi sono adatte anche alla biancheria che deve essere lavata di frequente.
Le calze sono comunemente nere, tranne che con gli abiti bianchi, e di seta.
La linea aderente sui fianchi delle gonne segna anche la scomparsa delle tasche e di conseguenza il ritorno alla ribalta delle borsette, accantonate nei decenni precedenti.
Il XX Secolo
Gli anni iniziali del XX secolo sono noti come Belle Epoque. Un periodo di ottimismo e spensieratezza in cui i grandi passi avanti della scienza e dell’industria, coronati nella grande Esposizione Universale di Parigi del 1900, avevano diffuso nella gente una grande fiducia nel futuro. Automobili, aerei, grattacieli sono ormai una realtà. Il cinema muove i suoi primi passi, l’arte cerca nuove vie espressive. Per le classi agiate sono gli anni dei caffè concerto e del Can Can, un periodo di divertimenti, feste, ricevimenti sfarzosi.
Per quanto riguarda l’abbigliamento femminile, all’inizio del secolo si afferma un nuovo modello di busto che spinge in fuori il seno, appiattisce lo stomaco e irrigidisce la schiena, conferendo alla figura alterigia e slancio. Sensazione data anche dai colletti steccati che costringono a mantenere la testa ben eretta. Le gonne, fascianti sui fianchi, si allargano sul fondo, talvolta culminando in un corto strascico. I corpini, aderenti sulla schiena, si gonfiano sul petto. Di giorno gli abiti hanno alti colletti di merletto irrigiditi da stecche, che salgono quasi fino al mento. Di sera, al contrario, profonde scollature. I colori più di voga, dopo le tonalità scure degli anni precedenti, sono ora tenui tinte pastello, e tessuti morbidi e leggeri sostituiscono le pesanti sete.
In testa grandi e vaporose pettinature, spesso ottenute con l’aiuto di posticci, e cappelli ornati di piume e fiori.
Le calzature più comuni sono gli stivaletti in vernice o capretto chiusi da lacci o bottoni.
Con il 1910 si afferma un nuovo modello di abito che segna una profonda rottura con la moda precedente. La vita cessa, infatti, dopo parecchi decenni, di essere il punto focale della linea femminile e i nuovi abiti sono invece caratterizzati da una linea dritta e slanciata, a vita leggermente alta. Le forme sono morbide e drappeggiate, e si fa un grande uso di stoffe leggere e trasparenti, sovrapposte fra loro, spesso ricamate o decorate di strass e perline. Le gonne sono lunghe e aderenti, a volte tanto strette attorno alle caviglie da costringere le donne ad avanzare a piccoli passi; i corpini apparentemente morbidi, erano però ancora spesso irrigiditi internamente da stecche. La sera si sfoggiano ampie scollature, strascichi e corte maniche aderenti. I colori, abbandonati i toni pastello del decennio precedente, tendono sempre più a tinte sgargianti. A fare da contrasto ai nuovi abiti di linea dritta, ci sono cappelli dalle tese larghissime carichi di decorazioni.
Con la Grande Guerra (1914-1918) la vita di tutti i giorni è profondamente sconvolta. Non solo i militari al fronte, ma anche i civili rimasti in città devono fare i conti con un conflitto che modifica tutti gli aspetti della vita quotidiana.
Le donne, in particolare, si trovano a occupare, per la prima volta, ruoli fino allora riservati agli uomini e a entrare massicciamente nel mondo nel lavoro.
Le gonne lunghe e strette degli anni precedenti non sono più adatte a questa nuova vita, e sono immediatamente abbandonate a favore di gonne più corte e soprattutto più larghe che non impaccino nei movimenti. Anche la linea dei corpini è sciolta e pensata per essere comoda. Sono definitivamente abbandonati anche gli alti colletti di pizzo a favore di scolli triangolari che lasciano la gola scoperta. Inoltre molti degli abiti di questi anni si rifanno alle divise militari prendendone a prestito forme e colori.
Negli ultimi anni della guerra, anche perché il tessuto comincia a scarseggiare, le linee delle gonne si stringono di nuovo. Le gonne sono ora a metà polpaccio spesso con drappeggi sui fianchi e strette in vita da una fascia morbida. I corpini hanno scolli quadrati e ampi.
Con la fine del conflitto alcune case di moda riproposero modelli ricchi ed elaborati che si rifacevano alla moda di prima della guerra, ma fu ben presto chiaro che le donne non erano più disposte a tornare agli ingombranti modelli d’inizio secolo e che quello che ora cercavano in un abito era soprattutto la comodità.
Dopo gli anni di privazioni e paure della guerra, gli anni ’20 si aprono come una nuova epoca di benessere e ottimismo. La società è pervasa da un nuovo senso di libertà e speranza che porterà a chiamare questo decennio gli anni ruggenti.
Nel campo dell’abbigliamento per la prima volta la moda cessa di essere riservata a un’elite, ma si apre alle masse. I grandi magazzini portano le novità dell’abbigliamento immediatamente alla portata di tutti e i nuovi tessuti artificiali e sintetici, come il rayon, cominciano a diffondersi abbassando considerevolmente il prezzo di alcuni capi. Il razionalismo e la passione per le geometrie, oltre all’arte e all’architettura, influenza anche la moda. Gli abiti ora sono semplici, pensati soprattutto per lasciare la maggior libertà possibile nei movimenti: le linee sono dritte, i tessuti morbidi, la vita bassa, le gonne sempre più corte. I capelli per la prima volta sono tagliati corti e i cappelli sono piccole cloche calzate fino alle sopracciglia. La sera gli abiti, senza maniche e con spalline sottili, sono in tessuti leggeri e velati, come chiffon, tulle, organza e seta, spesso impreziositi con perline e frange.
I progressi tecnologici portano anche alle prime calze trasparenti e al proliferare dei cosmetici, lanciando la moda delle labbra rosso fuoco e del mascara.
La Moda Maschile
Sul versante maschile, sotto la stimolo dei cambiamenti sociali della fine del settecento, e a dispetto del gusto nostalgico che si afferma durante l’epoca napoleonica e, la Restaurazione, la redingote e le sue varianti, il frac e la marsina, occupano il posto dell’abito alla francese. Nel 1830 i pantaloni soppiantano quasi del tutto i calzoni attillati. Intorno al 1860 compaiono i primi “abiti interi”, composti di tre pezzi confezionati con la stessa stoffa. S’impone la giacca che, insieme al panciotto (o gilè) e ai pantaloni, assume la forma quasi definitiva degli abiti ancora oggi in uso.
La Moda Infantile
Sempre nell’ottocento appaiono i primi capi di vestiario specificamente destinati ai bambini. Nei secoli precedenti, infatti, superati i primi due o tre anni in cui indossano un abitino di linea sciolta uguale per entrambi i sessi, i bambini sono vestiti e acconciati in modo identico a quello degli adulti. Le bambine sono costrette in stretti busti e voluminosi panier come le loro madri, con gonne lunghe e acconciature raccolte. I maschietti non è raro che sfoggino piccole armature. Questo abbigliamento è ritenuto indispensabile per abituare i bambini al ruolo che ricopriranno da adulti.
Le nuove teorie di puericultura che cominciano a diffondersi a fine Settecento grazie al filosofo francese Rousseau e che ritengono il gioco e la libertà di movimento indispensabili per un corretto sviluppo del bambino, portano finalmente a concepire un abbigliamento specifico che, pur riprendendo fogge e motivi decorativi in voga nel periodo, lascia a chi lo indossa molta più libertà di movimento.
Durante l'Ottocento le bambine sfoggiano abitini corti, quasi mai oltre il ginocchio, che pur riprendendo la linea di quelli delle loro madri, non ne copia mai la silhouette esasperata, lasciando il corpo alle sue linee naturali. Anche le bambine spesso indossano il busto, ma a differenza di quello per donne adulte, questo non stringe la vita, ma fornisce solo un sostegno che aiuti una corretta postura, oltre naturalmente ad essere più morbido e meno costrittivo.
I maschietti indossano calzoni corti, al ginocchio, e morbide casacche. Interessante notare come i maschietti fino ai 4-7 anni (l'età variava a seconda delle abitudini locali o familiari) fossero vestiti con abitini femminili, quasi identici a quelli delle proprie sorelline, questo probabilmente perché le gonne rendevano più facile cambiare il piccolo. Le uniche differenze fra gli abiti dei due sessi in questi primi anni di vita potevano essere le abbottonature (più spesso posteriori per le bambine e anteriori per i maschietti) e la scelta di colori e tessuti. Diversi erano poi i tagli di capelli e gli accessori, tanto che per un contemporaneo era comunque facile distinguere un maschietto da una femminuccia.
Un tipo di abbigliamento particolarmente in voga per bambini di entrambi i sessi a fine Ottocento e inizio Novecento è, poi, l’abito alla marinara. In genere blu scuro o bianco e di linea morbida, realizzato in materiali comodi e resistenti (e quindi facilmente lavabili), ben si adatta alle esigenze di movimento dei bambini. Da notare come, in generale, la foggia marinara è usata, anche per gli adulti, per tutti quegli abiti pensati per potersi muovere, come completi da ginnastica o da bicicletta.
La moda di Regime
In Italia, il fascismo cerca di portare avanti il discorso di una moda nazionale, pubblicizzata soprattutto attraverso i grandi matrimoni dell’epoca, Umberto di Savoia e Maria Josè, Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, in consonanza con lo spirito nazionalistico che in seguito diverrà autarchico.
Negli anni ’30 è percorsa da un gran fermento per la moda nazionale. La primavera del ’32 vede Firenze al centro di un’iniziativa tesa a portare in luce la creatività sartoriale italiana. Al teatro della Pergola si tiene, infatti, la Mostra della moda italiana, alla quale partecipano le più insigni sartorie italiane. Modelli di Aiazzi, Fantecchi, Yalla Ballenghi, Magnani, Chiostri e altri scandiscono tutti i momenti della giornata femminile, dal mattino al pomeriggio, fino alla gran sera, senza trascurare le tenute da sport e i costumi da bagno.
Nella primavera del ’33 la principessa di Piemonte si fa fotografare con indosso costumi regionali italiani; è un incentivo a riflettere sull’importanza di un abito di stile nazionale. Maria Josè stessa, benché avesse con sé un fornitissimo guardaroba di vestiti francesi e tessuti di Fiandra, vi rinuncia fin dal momento del suo arrivo in Italia, vuole vestire solo italiano, e fornisce così un esempio importante.
Pochi anni dopo, a Milano, si cerca di lanciare la prima bambola “conformata” col fisico di una donna matura, simile in qualche modo alla Barbie degli anni ’60, ma l’esperimento fallisce miseramente.
A Torino, Roma e Milano, però, i grandi sarti continuano a ispirarsi alla moda francese; tra le grandi case troviamo Ventura, Testa, le Sorelle Gori, Zecca e Ferrario.
La moda italiana di sartoria non è dedicata alle masse, bensì alle donne alto-borghesi, alle nobili, alle nuove ricche, ed è a queste che è demandato il compito di fare sfoggio in tutto il mondo dei lussuosi prodotti italiani.
Nel 1932 si giunge all’approvazione da parte del governo fascista, di un disegno di legge per la costruzione a Torino dell’Ente Autonomo per la Mostra Permanente. Questo provvedimento è teso a organizzare tutti i settori dell’abbigliamento e ad assicurare una produzione che abbia in Italia tutto il suo ciclo, dalla creazione dei modelli a quella degli accessori. Si programmano anche due mostre annuali da tenersi a Torino. Un nuovo decreto legge del 31 ottobre 1935 intende mettere maggior ordine nel settore dell’abbigliamento, il nome dell’istituzione è Ente Nazionale della Moda, e ogni attività di questo settore è tenuta a farvi riferimento. Da questo momento in poi le italiane dovranno vestire secondo i voleri del Duce e gli improrogabili disegni della patria. È istituita la marca di garanzia per i modelli riconosciuti “d’ideazione e produzione nazionale”. Rigidissimo diventa il controllo sulle case di moda, nelle collezioni è necessario avere almeno il 35% di modelli originali italiani, sia per il tessuto impiegato sia per il disegno, mentre il resto della creazione continua a essere interamente realizzata su ispirazione dei modelli francesi.
Intanto si fa strada una nuova immagine, quella della donna florida dalle curve docili; la ritroviamo, oltre che sulle riviste italiane, nei saloni parigini, che puntano sui modelli dalla vita sottile, le spalle ampie e il busto in evidenza.
Così, nonostante la volontà di differenziarsi il regime si trova con l’andare di pari passo con la tanto aborrita moda d’Oltralpe. Gli attacchi alla Francia non terminano qui; infatti, nel 1937, l’Ente Nazionale della Moda si occupa dell’influenza che i vestiti possono avere sulla demografia, incolpando un certo gusto parigino di fuorviare le signore dalla loro sacrosanta funzione procreatrice, e di proporre un’immagine femminile che tutto incarna tranne che il ruolo della madre.
Il Pret-a-Porter
Nonostante tutti i cambiamenti apportati alla moda in circa 150 anni, l’alta moda resta appannaggio esclusivo della classe agiata. La piccola borghesia si veste “su misura” ricorrendo a sarti che riproducono i modelli parigini. La classe operaia porta vestiti semplici, poco influenzati dai gusti della moda e per lo più già confezionati.
La rottura di questo sistema avviene dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la comparsa del prêt-à-porter. Con questa parola francese, a sua volta modellata sull’espressione americana ready-to-wear, si definiscono le collezioni prodotte industrialmente, ma distinte dalle semplici confezioni per la creatività delle loro forme e per la “firma” che ne fa un prodotto d’immagine elevata. Gli anni Cinquanta sono l’età d’oro in cui le più prestigiose firme dell’alta moda coesistono con gli esordi un po’ stentati di un altro tipo di creazione, più giovane, più divertente e meno cara. Compare una nuova figura, quella degli stilisti, i nuovi talenti in grado di apportare a un’industria tradizionalmente conformista i caratteri della modernità. Negli anni Sessanta grandi sarti, come Yves Saint Laurent, si dedicano con la stessa attenzione alle collezioni di alta moda e al prêt-à-porter. La stampa specializzata rilancia il fenomeno, favorendone l’affermazione. Si mette così in moto, attorno alla moda, una macchina di comunicazione che ne assicura la diffusione. Sfilate, indossatrici, fotografi e giornali divengono i nuovi eroi di un “mondo della moda” che porta, per esempio, le tirature del mensile Elle, vicine al milione di copie, o quelle di Vogue. L’alta moda si “democratizza” grazie al sistema delle licenze, che permette di utilizzare la firma su bigiotteria, accessori, calze e scarpe. Con l’ampliamento delle loro attività commerciali, alta moda e il prêt-à-porter si lanciano alla conquista di mercati sempre più grandi, la prima internazionalizzandosi e divenendo più accessibile grazie al maggior numero di linee di prodotto, la seconda creando, col sostegno dei mezzi di comunicazione di massa, un universo sempre più seducente.
Le generazioni successive hanno arricchito il gioco senza cambiarne sostanzialmente le regole. Negli anni Sessanta appaiono i cosiddetti creatori di moda che intendono difendere una creatività forte, senza concessioni, prodotta e diffusa grazie alle tecnologie del prêt-à-porter. Gli anni Ottanta vedono l’affermazione di marchi con prodotti ben definiti, come nel caso di Benetton, e la comparsa di una seconda generazione di creatori di alta moda.
Le mode si susseguono a un ritmo sempre più serrato, in una sorta di perverso gusto di citare, ricitare e riciclare quelle che le hanno precedute. Nel proliferare delle proposte, ha perso valore “essere alla moda” perché ci si può ormai richiamare a una molteplicità di mode. Mode “istituzionali” e mode “di strada” si rincorrono e si nutrono vicendevolmente le una con le altre.
3. Le Biografie della Moda
Worth
Charles Worth, soprannominato da Paul Poiret “l’inventore dell’alta moda”, era un individuo piccolo, asciutto, nervoso, spesso vestito di nero ma elegante e per molti aspetti l'epitome dell'affascinante uomo degli atelier. Gli bastava far sfilare per pochi secondi le proprie clienti per realizzare abiti appropriati alle loro caratteristiche fisiche. Non erano loro scegliere stoffe e colori ma lui. Accettava malvolentieri clienti che non gli erano stati in precedenza presentati.
Fu lui a inventare l’alta moda, perché se nelle epoche precedenti il disegnatore di moda era un personaggio abituato a lavorare nell’ombra delle sue clienti, umile e anonimo, costretto a recarsi personalmente nelle abitazioni delle donne che richiedevano suoi lavori, con Worth invece sono le signore a muoversi dalle loro case per andare nella sua bottega e attendere pazientemente il loro turno.
Era un vero e proprio artista, non lavorava su commissione di clienti illustri cui assecondare i capricci, ma presentava dei modelli frutto solo ed esclusivamente del suo genio e della sua fantasia.
Charles Frederick Worth nasce a Boume in Inghilterra nel 1825. Iniziò a
lavorare come commesso a 12 anni in grandi empori londinesi, prima da Swan &
Edgar a Piccadilly e poi da Lewis & Allemby, specializzati nella commercializzazione di stoffe, tappezzerie e sete. Giovane affascinante e ambizioso, a vent’anni -già uomo d’inconsueta energia e spirito d’iniziativa- raccolti i pochi risparmi decide di trasferirsi a Parigi, la capitale della moda. Qui fu assunto come commesso nel celebre "magasin de nouveautés" Gagelin e Opigez che vendeva scialli e altri oggetti di moda al 93 di rue de Richelieu. Dopo pochi mesi aveva sposato una collega commessa, Marie Vernet, anche lei molto bella. Worth parlava con le clienti mentre drappeggiava elegantemente gli scialli della casa attorno alle spalle di Marie. E proprio per l'affascinante moglie cominciò a disegnare dei vestiti che Gagelin e Opigez erano felicissimi di vendere. Marie Vernet ha dunque il diritto di essere considerata la prima indossatrice della storia.
Dopo cinque anni, riuscì ad aprire un reparto di sartoria divenendone in seguito responsabile.
Nel 1853, anno delle nozze tra Napoleone III ed Eugenia di Montijo, la maison Gagelin fu incaricata di fornire il corredo all’Imperatrice e questo la portò a raggiungere una fama internazionale e a partecipare alle Esposizioni Universali di Londra e Parigi. Proprio a Parigi Worth ebbe
l’occasione di esporre una sua creazione originale: un manto di corte ispirato a modelli dell’antichità classica.
Nel 1857 decise di lasciare Gagelin per avviare una propria attività. In
questa nuova avventura fu accompagnato da un amico di origine svedese, Otto Bobergh. La loro bottega si trovava in un’anonima strada parigina, al numero 7 di rue de la Paix, che però grazie a Worth diverrà la più celebre della capitale.
Gli inizi non furono facili, lavoravano per lui solo venti operaie ma poteva contare sulla preziosa collaborazione della bella moglie. Presto però giunse un’importante commissione da parte della principessa Pauline de Metternich, moglie dell’ambasciatore prussiano alla corte di Francia. Worth riuscì a conquistare con i suoi abiti la principessa che non tardò a presentarlo all’Imperatrice Eugenia.
Nel 1859 divenne il sarto ufficiale di corte, specializzandosi soprattutto nella realizzazione di abiti da sera e da ballo. Fu sicuramente tra i primi a capire la necessità di ridurre l’ampiezza degli abiti femminili applicando il cosiddetto pouf. Il pouf consisteva nel drappeggiare e imbottire la parte posteriore degli abiti e nell’appiattire invece il davanti, che era così meno ingombrante. Sarà sempre Worth a inventare l’abito princesse, realizzato per la prima volta per l’Imperatrice Eugenia. Questo vestito si presentava come una veste sciolta e comoda, cucita senza tagli in vita, diversa dai consueti abiti femminili del tempo composti di gonna e corsetto staccati.
Attraverso l’utilizzo di stoffe sontuose e lavorazioni esclusive contribuì a rilanciare le seterie di Lione, spingendo i produttori tessili a elaborare disegni e modelli sempre diversi e di grande attualità. Sciolta la società con Bobergh, fece entrare nella sua impresa i due figli Jean Philippe e Gaston, portando così al consolidamento e all’espansione della sartoria.
Divenne fornitore delle corti di Francia, Austria, Svezia, Italia, Spagna e Russia ma anche della nuova borghesia industriale, della politica e del mondo dello spettacolo.
Worth fu il detentore indiscusso del gusto e dell’eleganza della seconda metà dell’Ottocento. Sarà il primo a introdurre concezioni commerciali e sartoriali innovative. A lui il merito di aver diviso la moda in stagioni e di aver pensato fornire cartamodelli delle sue creazioni sul mercato internazionale, preferendo diffondere personalmente le proprie idee piuttosto che cedere alle imitazioni. La figura del sarto ne uscì notevolmente cambiata, con Worth divenne il padrone della moda, che d’ora in poi non terrà più conto dei capricci o della struttura fisica del cliente, ma solo delle leggi di alternanza che lei stessa decreta.
Nasce l’alta moda come professione e creazione autonoma distinta dalla semplice confezione sartoriale, un settore speciale riservato a poche elette, a signore benestanti che desiderano abiti esclusivi.
Charles Worth morirà a Parigi nel 1895 lasciando in eredità ai figli il proprio impero che dopo un primo periodo di successi, faticheranno a portarlo avanti, perché la concorrenza si era nel frattempo irrobustita.
Nel 1953 la maison fu assorbita da Paquin.
Nel volgere di un secolo la moda francese saprà imporre i propri modelli in tutto il mondo, con ambasciatori di spicco quali Paul Poiret, Jeanne Lanvin, Coco Chanel, Madeleine Vionnet. Grazie alle loro iniziative il sarto diventa un “artista quotidiano”. Promotore di un movimento di arti decorative, Poiret afferma che non vi è campo, abbigliamento, profumeria o decorazione, dove il sarto non possa estendere la propria autorità. È lui a creare, nel 1911, il primo profumo “firmato” da un grande sarto. Dieci anni più tardi, Coco Chanel lo seguirà su questa via lanciando l’intramontabile N°5.
Nel volgere di un secolo la moda francese saprà imporre i propri modelli in tutto il mondo, con ambasciatori di spicco quali Paul Poiret, Jeanne Lanvin, Coco Chanel, Madeleine Vionnet. Grazie alle loro iniziative il sarto diventa un “artista quotidiano”. Promotore di un movimento di arti decorative, Poiret afferma che non vi è campo, abbigliamento, profumeria o decorazione, dove il sarto non possa estendere la propria autorità. È lui a creare, nel 1911, il primo profumo “firmato” da un grande sarto. Dieci anni più tardi, Coco Chanel lo seguirà su questa via lanciando l’intramontabile N°5.
Poiret
Primo creatore di moda in senso moderno, Poiret, "le Magnifique" nasce a Parigi da un commerciante di stoffe. Destinato a continuare l'attività di famiglia, presto mostra di preferire la sartoria e così, dopo esperienze in vari atelier, nel 1898, approda da Jacques Doucet, sarto, mecenate ed estimatore d'arte che gli comunicherà la sensibilità e il gusto per il collezionismo. L'esperienza, acquisita in un'atmosfera elegante e raffinata, forma una personalità moderna e originale.
Tra il 1900 e il 1901 lo troviamo presso la Maison Worth, dove i suoi prototipi di tailleur sportivi e un mantello a forma di kimono orientale, Confucius, troppo innovativo, non incontrano l'approvazione di Worth. Costretto a lasciare la celebre sartoria per divergenze di vedute, nel 1903 Poiret avvia la prima attività indipendente al 5 di rue Auber.
Subito si distingue per azzardate scelte commerciali, aprendo ampie vetrine sulla strada dove espone i suoi modelli, contrariamente a quanto usava nel mondo dell'haute couture.
Dal 1906 al 1908 s’installa in una sede più ampia di rue Pasquier 37, seguito da un’altolocata clientela strappata alla concorrenza più tradizionalista.
Schierandosi subito sul fronte della semplificazione della silhouette femminile, combattendo il busto e ogni anacronistica costrizione, propone una nuova linea sensuale e sciolta, ispirata al periodo neoclassico.
Nel 1909 stabilisce la propria abitazione e la sartoria in un lussuosissimo palazzo circondato da un grande parco in avenue d'Antin, dando vita a défilé, ricevimenti e feste (la celebre La Mille et Deuxième Nuit, del 1911, apoteosi dell'orientalismo), che lo renderanno celebre in tutto il mondo.
Conquistata una solida popolarità, dimostra di essere un antesignano anche nel pubblicare a scopo pubblicitario i primi album di bozzetti curati dai più noti illustratori del tempo. Nascono così le raccolte Les Choses de Paul Poiret vuès par Georges Lepape (1911). Allo stesso tempo, organizza tournée europee con sfilate d’indossatrici al fine di far conoscere ovunque le sue collezioni.
Influenzato dalla ricchezza decorativa e dai colori dei Ballets Russes, messi in scena a Parigi da Diaghilev, Poiret, tra il '10 e l'11, lancia una moda di chiara eco orientale con turbanti, pantaloni alla turca e tuniche velate da harem, che diverranno distintive del suo stile. Molto scalpore provoca la sua jupe-culotte, primo tentativo di pantalone femminile da casa.
Dopo un viaggio a Vienna, fonda a Parigi l'Atelier Martine, dedicato all'interior design, dove, egli stesso progetta tessuti d'arredamento, tappezzerie, mobili e oggetti per la casa dalle straordinarie decorazioni.
La sua lungimiranza imprenditoriale si manifesta nel 1911 anche attraverso la volontà di cimentarsi nel campo dei profumi e della cosmetica con la sua linea Rosine, caratterizzata da essenze raffinatissime e da rare bottiglie in argento o cristallo.
Nel '13, Poiret sbarca negli Stati Uniti, dove sigla accordi e licenze per commercializzare con la sua etichetta modelli e accessori su vasta scala, comprese borse, guanti e calze. Ormai riconosciuto anche oltreoceano come King of Fashion, nel '17, poco prima di essere richiamato alle armi, apre una succursale a New York e crea la Poiret Incorporated per la diffusione di un prêt-à-porter ante litteram.
La sua attività riprende nel 1919, ma ormai la parentesi tragica della guerra ha cambiato il mondo. Alcune speculazioni sbagliate lo portano a esporsi troppo finanziariamente. Lo dissanguano l'inaugurazione di un dancing coperto, l'Oasis, che vuole trasformare il suo giardino di avenue d'Antin in un ritrovo mondano, e la sua esagerata magnanimità nell'organizzare sfarzose feste in costume. Nonostante i suoi modelli non incontrino più i consensi d'anteguerra, perché ancora legate a un'atmosfera troppo lussuosa e lontana, decide di aprire nuove filiali a La Baule nel '19, a Cannes nel '21, a Deauville e a Biarritz nel '24. Incalzato da Chanel e dalla moda-sport di Patou, Poiret durante gli anni '20 episodicamente si rifugia nella costumistica teatrale e cinematografica più consone alla sua esuberanza creativa. Ben presto, è costretto ad abbandonare la sua storica dimora per una sistemazione più modesta al n. 1 del Rond Point des Champs Elyseés, dove rimarrà sino al '29. L'atelier è in amministrazione controllata. Poiret tenta comunque un'ultima dispendiosa impresa per l'Expo del 1925. Acquistati tre battelli ancorati sulla Senna, li trasforma in piattaforme galleggianti del lusso: un salone consacrato alla sua linea di profumi, un ristorante completamente arredato con stoffe e oggetti dell'Atelier Martine, una galleria per sfilate. Si espone per un milione e mezzo di franchi. Per coprire i debiti, a novembre dello stesso anno, deve mettere all'asta la sua importante collezione privata di opere d'arte.
Nel '26 la casa di moda è in liquidazione e Poiret esce dall'impresa da lui stesso creata, cedendo anche il nome. Completamente rovinato, causa anche la crisi economica del '29, l'anno successivo scrive una toccante biografia intitolata En habillant l'epoque.
Nel '32, aiutato da un contributo della Chambre Syndicale de la Couture, ritenta una piccola attività nel quartiere dell'Étoile. La battezza Passy 10-17, dal numero telefonico della sartoria. Confortato dalla possibilità di potersi riappropriare del marchio, instaura occasionali collaborazioni con i magazzini Liberty di Londra e, nel '33, con Printemps di Parigi per cui organizza un défilé speciale. Ma presto sprofonda nell'oblio.
Poiret muore in miseria nel 1944, poco prima che l'amico Jean Cocteau riesca a portare a termine una mostra retrospettiva di suoi dipinti.
Chanel
Gabrielle Chanel fu una sarta francese, nota con il soprannome di Coco, cui si devono alcune fra le innovazioni più importanti della moda del XX secolo.
Questa donna ambiziosa e determinata, con alle spalle un'infanzia povera e infelice, trascorsa in un orfanotrofio, ha rappresentato con la sua personalità il nuovo modello femminile del '900, dedito al lavoro, a una vita dinamica, sportiva, priva di etichette e dotata di autoironia, fornendo a questo modello il modo più idoneo di vestire.
Attraverso le sue creazioni, Chanel ha trasformato totalmente l'eleganza femminile, non più basandola sull'opulenza strutturale e sull'affettazione dei dettagli e dei tessuti, ma sulla semplicità e sul comfort. Ha modificato l'abito da giorno, conferendogli una spiccata connotazione sportiva e funzionale, e ha drasticamente reso essenziali e fluide le linee dell'abito da sera, introducendo materiali tessili più comodi e moderni. L'inserimento della maglia nel panorama dell'alta moda, lavorata a mano e poi confezionata industrialmente, rimane una delle novità più sensazionali proposte da Chanel. La combinazione di capi desunti dal guardaroba maschile con gli elementi dell'abbigliamento femminile più tradizionale è diventato sinonimo del suo stile, come il tailleur costituito da giacca maschile e gonna diritta o i pantaloni, appartenuti fino a quel momento all'uomo, che Chanel introduce in ogni collezione, anche per le occasioni più formali.
Dal 1924, Chanel impone sopra i suoi abiti dal taglio essenziale gioielli vistosi e di poco prezzo, sottolineando l'abbandono di ogni consuetudine e proponendo la democratizzazione dell'abito. Le bigiotterie in perle, le lunghe catene dorate, l'assemblaggio di pietre vere con gemme false, i cristalli che hanno l'apparenza di diamanti sono accessori indispensabili dell'abbigliamento Chanel e segni riconoscibili della sua griffe.
Nata il 19 agosto 1883, a Saumur, nel Sud della Francia, Chanel inizia la sua carriera disegnando cappelli, prima a Parigi nel 1908 e poi a Deauville. In queste città nel '14 apre i suoi primi negozi, seguiti nel '16 da un salone di alta moda a Biarritz.
Già nelle sue prime proposte, Chanel dimostra una propensione per la moda sportiva, di derivazione maschile, che, in aperto contrasto con la moda imperante, sembra interpretare le teorie igieniste dell'inizio del secolo, fautrici di una vita sana, all'aria aperta e di un abbigliamento nel rispetto delle esigenze del corpo.
Immediatamente il tricot rivela le sue possibilità sartoriali e nel '16 Chanel ottiene da Rodier, noto industriale tessile francese, l'esclusiva del jersey, nuovo tessuto a maglia realizzato meccanicamente, con cui concretizza il suo progetto di una moda giorno semplice ed essenzialmente spoglia, caratterizzata da gonna, pullover e cardigan oppure da semplici tubini aderenti.
Il suo decollo definitivo nella moda avviene nel '20 a Parigi, quando apre i battenti della sede in rue de Cambon n. 31. L'anno successivo lancia il suo primo e più fortunato profumo, Chanel N.5, a cui seguono molti altri.
Alla metà degli anni '20, Chanel introduce tra le tipologie di abiti da giorno, il petit noir, emblema del decennio, la versione attualizzata dei modesti abitini neri con colletto e polsini bianchi, tipici delle commesse e delle impiegate a conferma tangibile di un’ostinata volontà di democratizzazione che si respira nell'atmosfera del momento e di cui la grande sarta si fa interprete. Il tailleur Chanel s’impone all'attenzione del pubblico femminile per l'assoluta semplicità della linea, l'accuratezza del taglio e delle cuciture e l'impiego di stoffe morbide e cadenti come il gabardine, la vigogna, il tweed, oltre il jersey, proposto in una scioccante combinazione di non colori come il beige, il grigio e il blu navy.
L'impronta stilistica di Chanel si fonda sull’apparente ripetersi dei modelli base. Le varianti sono costituite dal disegno dei tessuti e dai dettagli, a conferma del credo "la moda passa, lo stile resta". Nel '34 sviluppa le sue creazioni di bigiotteria inaugurando un atelier speciale e incrementa, accanto all'alta moda, la produzione di accessori. È, infatti, ascrivibile al '30 la nascita della celebre borsetta trapuntata con tracolla a catena, copiata da generazioni di produttori. Alla metà di quel decennio, Chanel è al culmine della fama. L'atelier dà lavoro a 4000 addette e vende circa 28 mila modelli l'anno in tutto il mondo.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale impone però un'improvvisa battuta di arresto. Chanel è costretta a chiudere la sede di rue de Cambon, lasciando aperto soltanto il negozio per la vendita dei profumi. Nel '54, quando torna nel mondo della moda, Chanel ha 71 anni. La stampa la dà ormai per spacciata e non crede in una possibile ripresa. La nuova creazione di Coco, il tailleur di maglia della collezione N. 5, è un successo. Le donne di tutto il mondo faranno a gara per averne uno. E una di queste è Jacqueline Kennedy. Chanel è di nuovo e solo Chanel e, nel '57, Neiman Marcus consacra la sua creatività conferendole l'Oscar della moda. La sua firma identifica capi di abbigliamento e accessori che sono uno status symbol, come il sandalo bicolore, a punta chiusa, aperto al tallone, creato nei primi anni '60.
Alla scomparsa della creatrice di moda, il 10 gennaio '71, la maison è mandata avanti dai suoi assistenti, Gaston Berthelot e Ramon Esparza, e dalle loro collaboratrici, Yvonne Dudel e Jean Cazaubon.
Nel '78 accanto all'alta moda è introdotta la prima linea prêt-à-porter disegnata da Philippe Guibourgé.
È dal 1983 per l'alta moda e dal 1984 per il prêt-à-porter che il marchio Chanel porta la sigla dello stilista Karl Lagerfeld, direttore creativo della maison. A Lagerfeld si deve il merito di avere interpretato i valori Chanel secondo le esigenze più attuali, portando continue innovazioni, ma lasciando invariato il segno inconfondibile dello stile.
5. Il caso Zara e Ortega
Con una crescita continua e senza sosta, che mette in crisi i principali competitors, non solo new entry come H&M, ma anche presenze storiche e consolidate del fashion business, come Gap e Benetton; con più di 4264 negozi in 73 paesi diversi, la compagnia spagnola Inditex, con negozi Zara come stella del gruppo, si estende a macchia d’olio ai quattro angoli del globo. Secondo la rivista Forbes, Amancio Ortega, fondatore e presidente del gruppo, è l’uomo più ricco di tutta la Spagna; il suo impero è formato dalle catene Massimo Dutti, Pull and Bear, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home, Kiddy’s Class. Ma il grosso degli affari è costituito da Zara.
La catena rappresenta il 70% delle vendite e degli utili di tutto il gruppo e possiede 1.292 punti vendita nel mondo: da Madrid a Barcellona, da Parigi a Londra, da Lisbona a Città del Messico, da Tokio a New York.
In Italia, Zara ha aperto il suo primo punto vendita a Milano in Corso Vittorio Emanuele nel 2001; un arrivo salutato fin da subito con molto entusiasmo.
Fare shopping da Zara è un’esperienza gratificante: l’offerta, rinnovata settimanalmente, comprende modelli che s’ispirano alle passerelle delle grandi firme, sempre in linea con le tendenze della moda, di buona qualità e a un prezzo accessibile.
Il modello di business sviluppato da questa catena rappresenta un caso singolare, in linea con i cambiamenti dei consumatori e con l’evoluzione delle forme imprenditoriali: Zara è, infatti, un esempio d’impresa an-entropica, cioè che si autoalimenta grazie ad una dinamica d’interconnessione tra tutti i fattori della catena del valore, che stimolandosi a vicenda, mantengono un equilibrio vitale per l’azienda. Lo stretto collegamento tra sistema produttivo, distributivo e logistico permette di ridurre il lead time delle collezioni e di rispondere velocemente alle richieste di mercato.
Oltre a ciò, le chiavi strategiche principali sono rappresentate dai punti vendita e dai disegni dei modelli.
Tutta l’attività commerciale ruota attorno al punto vendita. Nella filosofia di Zara questo è, infatti, concepito come primo anello della catena del valore, rappresentando il punto di raccordo tra le dinamiche della domanda e dell’offerta. Il processo prende l’avvio con l’informazione riguardante l’andamento quotidiano delle vendite, integrata dai dati riguardanti opinioni, suggerimenti e richieste della clientela.
Per questo i punti vendita Zara sono particolarmente curati nei dettagli. Soprattutto quelli delle cosiddette spy city: New York, Parigi e Tokio, che sorgono i punti strategici delle città. I negozi Zara a New York sorgono in due delle aree più emblematiche di Manhattan: sulla Fifth Avenue, una fermata d’obbligo per qualunque amante dello shopping che si rispetti, e a Soho, il quartiere più alla moda della città. Inseriti perfettamente nei luoghi più conosciuti della Città della Luce: Saint Germain, Le Marais e Saint Honorè, i negozi Zara di Parigi fanno ormai parte del caratteristico paesaggio parigino e sono diventati una tappa obbligatoria di quello che da sempre è considerato il circuito della moda più raffinato del mondo. Zara è riuscita anche a ritagliarsi un importante spazio nella moderna e dinamica città di Tokio; il primo negozio della città si trova a Shibuya, il quartiere più popolare tra i giovani, il secondo, a Ginza, è perfettamente integrato tra i moderni palazzi di questa zona ed è anche il negozio numero 4000; Ginza è una delle mete dello shopping più importanti a livello mondiale, dove gli edifici sono frutto dello studio dei migliori architetti del mondo. Altri negozi particolarmente rappresentativi si trovano a San Pietroburgo, Atene, Salamanca, Barcellona, Izmir, Londra, Milano e Shangai.
Le location selezionate, quindi, si trovano nelle aree di maggior prestigio delle città con più di centomila abitanti. Zara è presente inoltre nei grandi centri commerciali, principali scenari del consumo e del tempo libero. L’ubicazione nelle zone di maggior passaggio trasforma le vetrine in un costante elemento di richiamo, mentre il design degli interni definisce la forma attraverso la quale il cliente entra in contatto con il prodotto.
Nella sede centrale di Arteixo si mettono a punto diverse soluzioni in scala reale, tenendo conto della geometria degli spazi, dell’illuminazione, della mobilità del cliente, degli itinerari al suo interno. Concluso il processo, il modello adottato viene fotografato nei minimi dettagli, per essere riprodotto nei negozi di tutto il mondo. Le uniche modifiche sono legate a particolarità di carattere religioso o culturale: ad esempio, in Arabia Saudita i manichini sono sprovvisti della testa e i cartelloni delle modelle si adeguano alle regole locali riguardo all’immagine della donna.
Lo spazio all’interno si divide nelle classiche sezioni donna, uomo e bambino; la maggior parte dei punti vendita le possiede tutte e tre, anche se, i locali di ridotte dimensioni possono essere mono - sezione. La sezione femminile, come capita un po’ in tutti i punti vendita, occupa uno spazio maggiore. Oltre agli abiti, si possono trovare accessori, come scarpe, borse, cinture, ecc., e prodotti di profumeria e di cosmetica, tutti con la firma Zara.
L’ampia superficie degli interni è concepita come uno spazio libero da ostacoli, diafano e accogliente; l’obiettivo è mettere le persone a proprio agio, perché il tempo di permanenza all’interno del negozio aumenti.
Gli abiti sono collocati in base alle tendenze (stile, tessuti, prezzo) e suddivisi per colore.
Il cliente è libero di guardare, toccare, prendere e spostare, ha tutto il tempo per provare. Solitamente si entra da Zara senza un’idea precisa e si decide l’acquisto mentre si guardano e si provano i capi.
Un altro principio di gestione è il “fattore moda”. L’elemento essenziale, infatti, non è il prezzo ma il disegno degli abiti, l’ampiezza della proposta, la rapidità dell’offrire al cliente ciò che desidera: il prezzo viene dopo.
Zara non è una marca di vestiti. Il suo nome identifica un certo e ben determinato stile. Nel punto vendita Zara si concentra la possibilità di soddisfare necessità sociali e individuali, attraverso il consumo della moda da indossare, rivolta a un ampio spettro di persone con differenti caratteristiche e condizioni sociali, mediante un’offerta la cui estensione e velocità di rinnovamento si adeguano alle necessità in continuo cambiamento del mercato. In sintesi, all’interno del punto vendita si conoscono giorno per giorno i desideri dei clienti, le loro preferenze, le loro richieste. Il punto vendita è l’osservatorio principale sull’evoluzione del mercato: unitamente agli obiettivi dell’impresa, esso determina gli investimenti a lungo termine e la strategia generale del gruppo.
Un altro elemento di forza è la gestione dell’informazione. Ortega ha chiaro che bisogna “vendere gli abiti prima che si vendano”. Questa frase racchiude una filosofia commerciale rivoluzionaria: si deve produrre solo ciò che si vende, e per fare ciò bisogna prestare attenzione a ciò che la gente vuole comprare. Per riuscire in quest’impresa si utilizzano due fonti d’informazione: una esterna, attraverso i designer di moda, che viaggiano alla ricerca delle nuove tendenze di mercato, e una interna, rappresentata dagli stessi clienti, i cui suggerimenti e le cui richieste sono tenuti in forte considerazione. Questo flusso d’informazioni si realizza attraverso numerosi canali:
- tramite la cassa: l’impresa registra quotidianamente la fatturazione del negozio, quali prodotti ha venduto e quali no;
- via telefono, fax e posta elettronica, al fine di trasmettere le osservazioni e le richieste concrete dei clienti, che possono ripercuotersi nella configurazione dell’offerta del prodotto;
- di persona, mediante le continue visite dei dirigenti;
- mediante Cassiopea, software sviluppato da Inditex, che mette il punto vendita in condizione di verificare in qualunque momento le disponibilità di prodotto, di visualizzare le immagini di ogni modello e di trasmettere l’ordine al centro logistico;
Il 40% dei prodotti ruota continuamente, in modo che ci sia sempre qualcosa di nuovo. All’arrivo della merce il responsabile decide quali tenere e quale rimandare indietro.
Zara propone ogni anno più di 12.000 modelli differenti, ma non ha rimanenze di magazzino.
Il lavoro di preparazione delle collezioni inizia generalmente un anno prima dell’arrivo della merce nei punti vendita, anche se è un’attività che continua nel corso di tutta la stagione. Ora, più di 200 professionisti disegnano per Zara, viaggiando in tutto il mondo alla ricerca delle future tendenze. I disegnatori portano con sé telecamere e macchine fotografiche per registrare tutto ciò che attira la loro attenzione. Raccolgono molte informazioni su come sono vestite le persone secondo i luoghi, l’ora e l’ambiente. Nella sede centrale di Arteixo, tutte queste informazioni sono rielaborate e confrontate con le tendenze delle più rinomate passerelle della moda. Il risultato di questo lavoro di ricerca costituisce la base per la creazione degli stili.
Il triangolo delle chiavi del successo si chiude con la risposta “in tempo”; in tempo ai continui cambiamenti del mercato. Questo avviene mediante la produzione e la messa in vendita di un’offerta completa, disegnata giorno per giorno. Rispetto al modello tradizionale di due collezioni annue, Zara introduce il concetto di “collezioni vive”: prodotte, distribuite e vendute con la stessa rapidità con cui si modificano gli atteggiamenti e i comportamenti dei clienti. I clienti sanno che Zara rinnova l’offerta ogni settimana e visitano spesso i suoi punti vendita (11 volte all’anno rispetto alle 4 della concorrenza). Il management aziendale ritiene, infatti, che soltanto alimentando sul mercato un sentimento diffuso di “scarsità e opportunità” si può riuscire a spingere la clientela ad acquistare d’impulso, condizionandola con il “timore” di non trovare più ciò che ha visto la settimana precedente.
Bastano meno di due settimane perché un capo disegnato dal team di stilisti de La Coruña arrivi in uno qualunque dei negozi sparsi per tutto il mondo, 12 volte più in fretta della concorrenza. In questo modo, l’azienda può permettersi di inviare un numero inferiore di pezzi in una più ampia varietà di stili e con maggiore frequenza. In questo modo, può rapidamente eliminare le linee che non vendono, evitando intasamenti di magazzino o svendite periodiche.
Zara realizza oltre il 60% della produzione entro fabbriche di sua proprietà. I tessuti, che arrivano dalla Spagna, dal Marocco e dall’Oriente, sono tagliati e colorati negli stabilimenti della compagnia, per essere confezionati, cuciti e rifiniti nelle cooperative e nei laboratori esterni sparsi nella zona attorno a La Coruña. L’elevata percentuale di produzione propria rappresenta un modello unico nel settore dell’abbigliamento: una soluzione organizzativa che consente a Zara di rispondere con la massima velocità alle sollecitazioni del mercato. Molti dei concorrenti subappaltano, invece, gran parte della fabbricazione. Il fatto di presidiare direttamente il momento produttivo è ovviamente una potente arma nelle mani della compagnia, che riesce a contrattare vantaggiosamente prezzi, quantità, condizioni e tempi di consegna, in questo modo Zara può ottenere, a prezzi sensibilmente ridotti, partite di tessuti di alta qualità, gli stessi utilizzati dalle firme più prestigiose. Tutto ciò, sommato al buon disegno che contraddistingue i modelli, dà a Zara la possibilità di includere abiti di gran livello a prezzi tre o quattro volte inferiori a quelli delle grandi firme.
Il percorso produttivo si conclude presso la sede centrale di Arteixo, dove i capi sono controllati, stirati e imballati, prima di essere caricati su un camion, pronti a raggiungere i diversi punti vendita. Dai centri logistici di Arteixo e Zaragoza si distribuiscono prodotti quattro volte la settimana, in modo tale che ogni negozio della catena riceva due spedizioni settimanali.
Il modello presenta elementi d’innovazione in ogni fase del processo: dal rapporto con i fornitori, alla produzione, alla distribuzione e alla logistica. Senza dimenticare che nell’attività comunicativa l’elemento di maggior forza è rappresentato dal punto vendita, luogo di dialogo e incontro con il consumatore e unica vera forma di “pubblicità” dell’azienda. Questo sistema di gestione si concretizza in un’immagine di marca immediatamente riconoscibile dal pubblico per la coerenza con cui si presenta.
Fonte: http://skuola.tiscali.it/tesine/abito_monaco_moda.doc
La moda
La Moda è un fenomeno sociale che consiste nell’affermarsi in un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale di modelli, di gusto, di stile. In particolare è una tendenza nel campo dell’abbigliamento.
Il termine deriva dal latino modum, foggia, maniera; ha finito col disegnare, oltre al cambiamento dei costumi, anche l’industria tessile, in particolare la produzione elegante e costosa. Se si considera la mutabilità dell’abbigliamento si può notare un avvicinamento del vestito femminile con quello maschile.
Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento sono un periodo di pace fra le varie potenze europee, in cui si cercano degli equilibri politici nuovi.
Prosegue il progresso scientifico, il quale porterà soluzioni a ogni problema umano; però questo progresso tecnico tende a “meccanizzare” gli uomini, soprattutto quelli delle classe subalterne, i quali erano costretti a lavorare duramente per poter uscire dalla loro condizione sociale.
Questo clima detto “decadente” si diffonde in tante nazioni europee: Art Nouveau in Francia, Modern Style in Inghilterra, Modernismo in Spagna, Jugendstil in Germania, Sezessionstil in Austria, Liberty o Floreale in Italia.
Questo movimento aveva delle caratteristiche molto importanti: voleva rendere esteticamente validi quegli oggetti di uso comune che erano diffusi grazie allo sviluppo delle industrie; nasce anche la produzione in serie, ogni prodotto, dalla carta da parati alla stoffa, dall’orologio al vaso, dalla lampada alla spazzola per capelli…, era disponibile su vasta scala in stile Art Nouveau.
Quindi nel campo tessile abbiamo la produzione di nuovi indumenti di stile floreale e si può notare il grande cambiamento dell’abbigliamento femminile tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo.
Nel periodo umbertino (1879-1900) gli indumenti cominciarono a prendere nuove forme; nel campo femminile in particolare vengono creati abiti diversi a seconda dell’occasione: da cerimonia, spesso molto accollati e con lunghi strascichi, da ballo, che potevano avere delle scollature fino sopra alle spalle e parte del petto che per la prima volta mettono in risalto il corpo femminile, per il pomeriggio, in cui erano molto utilizzati il cappello e il foulard, per la campagna, da viaggio, dove il nuovo elemento è il colletto alla “marinara”, per lo sport o da spiaggia.
Proprio il tailleurtrionferà alla fine del secolo introducendo nell’eleganza femminile un qualcosa di severo ma semplice del vestito maschile. Il termine significa proprio “abito fatto da un sarto”, quindi si esige una confezione maschile per poter realizzare questo tipo di abbigliamento; inoltre indicava anche una maggiore emancipazione della donna, la quale cominciava a conquistarsi un ruolo un po’ più importante nella società.
Nei primi del ‘900 quindi spariscono i bustini e nascono dei vestiti che mettono in risalto il corpo della donna, quindi anche l’anatomia femminile. Questa tipologia di abbigliamento prende spunto dai corai greci, vestiti eleganti lunghi a pieghe che mettevano bene in risalto le curve della perfetta donna greca.
BLUE-JEANS
Nel 1500 a Genova nasce la storia del tessuto che ha accompagnato l’evoluzione del jeans. Infatti proprio questo nome arriva da “blue de Genes”, da qui poi blue-jeans, che indicava un particolare tessuto utilizzato dai marinai di Genova per coprire delle merci sulle navi a vele. Era adatto ai lunghi viaggi perché era molto resistente alle intemperie.
Questo tessuto veniva fabbricato in una città francese, Nimes, da qui poi la parola denim (de Nimes). Secondo altre versioni i pratici e resistenti “calzoni da lavoro” erano fatti, in tempi remoti, proprio con questa tela di Nimes di color indaco ed erano indossati dai marinai genovesi.
Dal 1850 i jeans sono utilizzati, non più come tessuto in sé, ma come pantaloni per i lavoratori.
Infatti a San Francisco Levi Strauss, un giovane commerciante emigrato dalla Baviera, lancia un modello di pantaloni, resistenti, con cinque tasche, per i cercatori d’oro.
Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale i jeans venivano utilizzati solo come abito da lavoro, poi, nel dopoguerra, diventano un vero e proprio capo d’abbigliamento.
Proprio attraverso il cinema americano degli anni ’50 tutti i giovani inizieranno a portare i jeans, i quali diventeranno simbolo della ribellione giovanile, delle bande, della voglia di prendere le distanze dal mondo ipocrita degli adulti.
Alla fine degli anni ’70 le varie firme se ne impadroniscono e lo fanno diventare un capo d’abbigliamento elegante, il più portato in assoluto e preferito dai giovani.
A partire dagli anni ’80 qualsiasi ditta d’abbigliamento produce una propria linea di jeans.
Nel 2004 a Genova è stato realizzato, da parte di alcuni studenti,
un pantalone blu di dimensioni gigantesche (18m X 5m) confezionato
con circa 600 paia di vecchi jeans.
È stato issato su una gru del Porto antico.
COCO CHANEL
Gabrielle Bonheur Chanel, nata a Saumur (Francia meridionale) nel 1883 e morta a Parigi nel 1971, fu una stilista francese molto famosa che rivoluzionò il concetto di femminilità.
Quando aveva solo 12 anni morì la madre quindi venne spedita in un orfanotrofio da suo padre, il quale fu costretto ad emigrare per poter mantenere i suoi figli.
Passò anche alcuni anni da delle zie le quali le diedero il soprannome Coco che significava “bestiolina” e le insegnarono a cucire.
La sua carriera cominciò nel 1909, cucendo cappelli, poco dopo riuscì ad aprire due negozi, a Parigi e Deauville, e un salone di alta moda.
Intorno agli anni ’20 uscì il famosissimo profumo “Chanel No. 5”, il primo profumo che portava il nome di uno stilista. Questo fu reso ancora più leggendario negli anni ’50 quando era utilizzato da Marilyn Monroe.
Creò anche una sua linea di borse, accessori, scarpe, cinture, sciarpe e bigiotterie sul modello dei veri gioielli costosi.
Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale fu costretta a chiudere il suo atelier per rifugiarsi in Svizzera. Ritornò in scena solo finita la guerra. Morì a 87 anni.
Il suo stile nacque in mancanza di mezzi economici, che le impedivano di comprare i vestiti della Belle Epoque: fu così che cominciò a cucirsi da sola giacche, cravatte e cappelli.
Creò una nuova moda rivoluzionaria, degli anni ’20, che dava voce al bisogno di una riforma sociale che potesse dare più valore e importanza alla donna. Infatti proprio in questi anni il suo ruolo stava cambiando, cominciava ad emanciparsi sempre di più, stava conoscendo un’indipendenza che non aveva mai avuto.
Quindi Coco cercò di rompere con le vecchie regole del passato per impostare nuovi modelli di abiti molto più comodi e pratici, senza rinunciare al tocco di sensualità femminile.
Infatti fu proprio lei una delle prime donne ad indossare dei pantaloni e inventò il modello dei tailleur.
Il suo stile si può riassumere con le parole: eleganza, raffinatezza, modernità e comfort.
Fonte: http://skuola.tiscali.it/sezioni/tesine/tesina-moda-cambiamento-abbigliamento.doc
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