Storia del Blues
Storia del Blues
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Breve Storia del Blues
Il Blues. Secondo molti studiosi il termine Blues ebbe origine dall’espressione “I have the blue devils” (letteralmente “Ho i diavoli blu”) indicativa di uno stato di depressione, di profonda disperazione del popolo nero americano che, per scacciare la malinconia e per esorcizzare il proprio malessere e le proprie tensioni comunicandoli alla propria gente, cantava i Blues.
La storia dei neri d’America o afroamericani e delle loro forme di espressione artistico-musicali sono profondamente legate e la storia del Blues sintetizza l’evoluzione dalle originarie matrici africane alla formazione di una nuova identità storica e culturale.
Le radici più profonde del Blues risalgono storicamente nell’esigenza dei neri ridotti in schiavitù di sviluppare nuove forme di espressione per comunicare tra loro, giacché gli schiavi provenivano da zone diverse dell’Africa e parlavano lingue differenti. Essi dovettero inventarsi un linguaggio che doveva essere il più possibile incomprensibile per i padroni bianchi, per i “sorveglianti”; si sviluppò così un linguaggio metaforico, basato sui double talks.
Proprio nelle piantagioni dove lavoravano gli schiavi, per sopportare meglio la fatica e coordinare le proprie azioni con quelle dei compagni, l’elementare scansione ritmica del lavoro divenne la base su cui sovrapporre semplici iterazioni vocali secondo la tipica matrice antifonale e responsoriale proprio di derivazione africana. Da qui nacque la struttura dei worksongs.
Intorno alla metà del XIX°secolo negli Stati del Sud era molto popolare uno spettacolo basato sull’ironia caricaturale delle caratteristiche dei neri, detto ministrelsy: in pratica intrattenitori bianchi si dipingevano il volto di nero e, per la gioia di un pubblico esclusivamente bianco, imitavano sarcasticamente i tratti caratteristici, le movenze e la musicalità dei neri. Alcuni neri entrarono nel circuito del ministrelsy, accettando quell’ambito espressivo in quanto gli consentiva, sotto l’apparente contraddittorietà della satira autodenigratoria, di farsi beffe del loro pubblico bianco, ponendo in realtà le basi per l’affermazione del black ministrelsy nel quale i neri davano sfoggio delle loro qualità musicali attraverso quelle che vennero poi definite coon songs, le canzoni dei “negri”.
Nei black musicals i neri si divertivano cantando e danzando soprattutto i cakewalks, cioè i balli derivanti dalle antiche danze schiavili nei quali coppie di ballerini gareggiavano tra loro.
Un altro elemento fondante della cultura dei neri americani fu il Cristianesimo. Esso rappresentava anche un’idea liberatoria: per i neri infatti nell’ambito religioso poteva avvenire un parziale superamento delle barriere razziali e molti aderirono alle Chiese cristiane. Ciò sviluppò nuove forme musicali: la solennità ed il trasporto delle lodi innalzate al Signore erano esaltati dalla potente musicalità propria dei neri. Ben presto spirituals e gospels divennero ambiti privilegiati dell’espressione degli afroamericani.
Verso la fine del XIX°secolo si affermarono i medicine shows ovvero spettacoli itineranti organizzati da sedicenti medici per vendere i loro intrugli. Figura centrale dello spettacolo era il songster, cioè colui che cantava motivi popolari e soprattutto gli stati d’animo dei neri. Dal songster nacque la figura del musicista girovago.
Accompagnato da una chitarra e/o da un’armonica a bocca questi girava gli Stati del Sud in cerca di fortuna. Fu proprio la regione del Delta – dove confluivano i fiumi Mississippi e Yazoo – ad essere il teatro dei “padri” dei bluesmen quali primi protagonisti di quel processo di maturazione che segnava la simbolica fine del nero dell’epoca schiavile e la nascita del nero americano in viaggio verso la scoperta di una nuova identità.
Il Blues divenne vera e propria “colonna sonora” del processo di consapevolezza e di riscatto dei neri d’America.
Toccò a Mamie Smith il privilegio nel 1917 di cantare per prima un Blues (“Crazy Blues”) in un rudimentale apparecchio di registrazione.
Il Blues moderno: fu la città di Chicago che in due periodi, prima e dopo la seconda guerra mondiale, ebbe un posto fondamentale nella storia e nell’evoluzione del Blues. Città industriale, con grandi possibilità di occupazione, attirò ben presto i neri del Sud alla ricerca di un lavoro e della libertà e i suonatori di Blues che vennero a partire dal 1928. Gente come Georgia Tom Dorsey o Tampa Red profittavano del loro soggiorno per esibirsi e spesso vi si stabilivano provvisoriamente o definitivamente.
Proprio nella Windy City (la Città del Vento come è chiamata Chicago), ed in particolare nel South Side, nacquero come funghi studi di registrazione, case discografiche e locali notturni che contribuirono alla spettacolare evoluzione del jazz e del Blues.
Ma fu soprattutto dopo la seconda guerra mondiale che avvenne la grande emigrazione di tutti coloro che, oltrepassando la linea Mason-Dixon, la frontiera immaginaria tra gli Stati del Sud e quelli del Nord, lasciavano le terre del Deep South alla ricerca di una ipotetica miglior fortuna. In questo periodo, dopo che artisti come Big Bill Broonzy, Tampa Red, Jazz Gillum o Sonny Boy Williamson 1° consentirono al Bluebird Beat di raggiungere i più elevati livelli di creatività musicale, altri musicisti furono spinti a rinnovare il Blues verso le sue tendenze e caratteristiche più squisitamente “urbane”. Alla fine degli anni Quaranta, infatti, fu Muddy Waters che, registrando nel 1948 il brano I Can’t Be Satisfied (con Earnest Big Crawford al contrabbasso), gettò le basi del Blues moderno dando il colpo di grazia al “vecchio” Blues ed apportò allo stesso tempo numerose innovazioni tra cui la più importante fu sicuramente il nuovo concetto di gruppo musicale Blues. Benché fin dagli anni Trenta esistessero Blues bands a Chicago, è a Muddy Waters che dobbiamo la struttura moderna della formazione di Blues: una o due chitarre, un’armonica e/o un piano, un basso ed una batteria.
Ed ecco che agli inizi degli anni Cinquanta, Muddy Waters e Jimmy Rogers (alle chitarre), Little Walter o Walter Horton (all’armonica), Willie Dixon o Earnest Big Crawford (al contrabbasso), Otis Spann (al piano) ed Elgin Evans o Elgin Edmonds (alla batteria) rivoluzionarono letteralmente l’estetica del Blues, proponendo un Delta Blues inequivocabilmente modernizzato, con le chitarre elettriche spesso fortemente amplificate e con tutti i nuovi effetti consentiti dall’evoluzione delle tecniche di registrazione. In pratica il Blues low down dei padri Robert Johnson, Son House e Charley Patton adattato in forma elettrica ed urbana, rivisto e corretto dai tecnici del suono, non solo sul palcoscenico ma anche dietro la tavola di mixaggio.
Se è vero che tra i numerosi gruppi di Blues che si sono formati nel dopoguerra a Chicago quello citato di Muddy Waters fu senz’altro il più celebre, altre formazioni, tuttavia, dimostrarono di essere all’altezza come, su tutte, i richiestissimi Aces dei fratelli Myers (Louis alla chitarra e Dave alla chitarra prima ed al basso poi) con il grande Fred Below alla batteria e Junior Wells e poi Little Walter all’armonica: anche loro se la cavavano alla grande con le dodici battute.
Altro padre fondatore del Blues moderno fu, ed è, senza ombra di dubbio l’inarrivabile B.B.King. Benché originario del Mississippi e per quanto avesse debuttato a Memphis–la capitale del Delta–,a differenza di gente come Muddy Waters, Howlin’Wolf, Sonny Boy Williamson 2°, John Lee Hooker ed Elmore James, egli subì solo marginalmente le influenze dei pionieri del Blues. I suoi ispiratori furono Louis Jordan, Doctor Clayton, Roy Brown e i chitarristi T-Bone Walker, Lonnie Johnson, Charlie Christian, cioè chitarristi che costantemente nella loro carriera hanno oscillato tra il Blues ed il jazz.
A differenza degli artisti del Chicago Blues, la musica di B.B.King si arricchiva così di arrangiamenti sofisticati più vicini al jazz e, di conseguenza, poteva essere suonata con orchestre numerose in cui era stata aggiunta una corposa sezione fiati.
Il Chicago Blues di Muddy Waters ebbe la sua età dell’oro durante gli anni Cinquanta e più precisamente tra il 1948, l’anno di I Can’t Be Satisfied, ed il 1958 quando apparvero i nuovi bluesmen che, prendendo ispirazione dal Blues di Muddy Waters, da quello di B.B.King e dal gospel, diedero vita al cosiddetto West Side sound.
Musica più violenta di quella di Muddy Waters e compagnia (in quanto suonata essenzialmente da chitarristi provenienti da un ghetto, il West Side appunto, nel quale le condizioni di vita erano più dure che nel South Side), il West Side sound rinnovò indiscutibilmente il linguaggio del Blues alla fine degli anni Cinquanta. Era il Blues esasperato di uomini arrabbiati, di coloro che non avevano raccolto alcun frutto dal progresso economico del paese in cui vivevano ed ecco che il suono delle loro chitarre era più aspro e drammatico, espressione profonda delle umiliazioni della popolazione del ghetto.
Dalla fine degli anni Cinquanta, infatti, il West Side era divenuto il nuovo feudo dei bluesmen. Ghetto particolarmente emarginato, che aveva accolto una nuova generazione di immigrati provenienti dal Mississippi e che il South Side non sarebbe stato in grado di assorbire, il quartiere Ovest di Chicago ospitava di fatto musicisti straordinari. Per la maggior parte chitarristi e cantanti, decisi a battersi sul terreno della tecnica pura e convinti che era necessario dare un respiro più ampio a tutto il Blues in generale, costoro intendevano misurare il proprio virtuosismo a livello strumentale, riservando così alla chitarra uno spazio ancora più importante e drammatico di quello ad essa riservato in precedenza.
L’uso frequente del modo minore, che fino ad allora non era stato praticamente utilizzato nel Blues, sommato all’improvviso fiorire di nuove voci estremamente profonde, che esprimevano tutta la desolazione del ghetto, contribuiva ad aumentare il magico potere, ossessivo, magnetico ed incantatore, del Blues.
Il cammino artistico dei bluesmen del West Side non va comunque inquadrato nella deliberata volontà di rompere con il Blues South Side di Muddy Waters, Howlin’Wolf, Jimmy Reed ecc. (che nel frattempo continueranno a rimanere sulla cresta dell’onda), come avevano fatto invece i boppers del jazz, che all’inizio degli anni Quaranta avevano rotto con gli schemi armonici di Louis Armstrong, prima, e con quelli delle grandi orchestre swing, poi. Gli artisti del West Side, al contrario, volevano essere i figli spirituali degli ideatori del Blues moderno, che rimanevano i loro idoli indiscussi, ma a differenza dei loro maestri daranno vita ad un Blues più violento ed allo stesso tempo più sofisticato; questo per un serie di ragioni. Primo, perché vivevano nel quartiere più miserabile di Chicago; secondo, perché erano lontani dalle tradizioni del Delta di quanto non lo fossero i loro “padri”; terzo, perché appartenevano ad una generazione che aveva visto esplodere un certo B.B.King; infine perché erano stati contagiati più dei loro predecessori dai canti religiosi del gospel.
Nella sua opera Devil’s music, Une histoire du blues (Denoel, 1976, Parigi), Giles Oakley ha perfettamente definito quello che distingueva i bluesmen del West Side dai loro predecessori:”Nel West Side, fra le case in affitto fatiscenti e in rovina, numerosi giovani artisti suonavano nelle taverne e nei club: gente come Freddy King, Otis Rush, Buddy Guy, Magic Sam, Jimmy Dawkins. Ma la loro musica non era più quella del Delta: Era il blues del ghetto, un blues che metteva in risalto soprattutto la loro abilità alla chitarra…Laddove Muddy Waters, Little Walter ed Howlin’Wolf avevano insistito sull’impatto sonoro d’assieme, questi giovani artisti mettevano in evidenza le chitarre, dando loro un posto di primo piano, con puliti fraseggi d’arpeggio e violenti assolo”.
E’ solo questa la storia del Blues? Naturalmente no!
Abbiamo preferito sottolineare di questa fantastica storia quelli che a nostro avviso sono gli aspetti principali che più di altri ispirano il Blues che The Caldonians Blues band, la nostra band, intende proporre.
Ma non si può non citare lo splendido Jump Blues di Louis Jordan, il Soul Blues di Little Junior Parker, il cosiddetto Folk Blues di Lightnin’Hopkins e poi Albert King, John Lee Hooker, Robert Jr.Lockwood, Eddie Taylor, Hound Dog Taylor, Luther Allison, il texano Johnny”guitar”Watson, Mighty Joe Young, John Littlejohn, Buster Benton, Magic Slim nonché armonicisti come Frank Frost, Snooky Pryor, James Cotton e i bianchi Paul Butterfield, Kim Wilson ed il californiano William Clarke ed infine tutti gli altri grandi che per necessità di sintesi non possiamo menzionare.
Com’è fatto un Blues
Il Blues si serve in genere di strutture di dodici battute (o misure), ciò non esclude che possano esistere strutture di otto, sedici o trentadue battute, ma rappresentano delle eccezioni.
Un Blues di solito è costituito da un’introduzione (intro), dalle strofe cantate (chorus o verse), da una parte strumentale (solo o break), da una ripresa vocale e da una coda (ending).
Le ultime due battute di un Blues vengono indicate generalmente con il termine turnaround. Dovendo servire per cominciare da capo il giro armonico, queste ultime due battute devono essere particolarmente incisive. Inoltre il turnaround spesso viene usato come introduzione al brano.
Il basso e il basso nel Blues
Prima di trattare, seppur brevemente, del basso nel Blues mi sembra opportuno dire qualcosa sul basso e basta.
Fu il liutaio americano Leo Fender che, per dare ai bassisti delle orchestre itineranti uno strumento non solo più pratico da trasportare del contrabbasso ma anche capace di eguagliare il volume ottenuto dalle chitarre elettriche, concepì un ibrido che assomigliava sia alla chitarra elettrica, per la forma, sia al contrabbasso, per il numero delle corde ed il modo in cui sono accordate. Nacque così nel 1951 il primo basso elettrico commercializzato sotto il nome di Precision Bass.
Pur non suonando esattamente come un contrabbasso, anzi oserei dire che basso e contrabbasso sono quasi due strumenti “diversi” giacché diverso ne è il suono, l’intenzione, l’approccio e la tecnica, il basso elettrico ha la stessa intonazione del suo fratello maggiore.
Infatti il suono reale di entrambi è un’ottava sotto a quello scritto sul pentagramma, un’ottava sotto alle quattro corde più basse di una normale chitarra a sei corde. Come alcuni contrabbassi ci sono bassi elettrici a cinque corde (alcuni addirittura a sei corde), la più grave delle quali è intonata sul si o sul do sotto il rigo di basso.
La maggior parte dei bassisti e contrabbassisti usano uno strumento accordato in quarte (mi, la, re, sol per i bassi a quattro corde). Pochissimi, fra tutti basti citare per il passato il contrabbassista jazz Red Mitchell, ricorrono all’accordatura per quinte (do, sol, re, la sempre per i bassi a quattro corde) che produce evidentemente un’ottava più bassa.
Numerosi bassisti contemporanei cercano disperatamente strumenti cosiddetti vintage o antichi perché ritengono che con questi le loro prestazioni saranno maggiormente apprezzate (per i jazzisti un buon contrabbasso deve avere fra i cinquanta ed i cento anni, una buona età per una nonna come si dice familiarmente presso i contrabbassisti). Personalmente ritengo che questo concetto sia valido fino ad un certo punto, nel senso che partendo ovviamente dal presupposto di doversi procurare comunque uno strumento, ed un amplificatore, di qualità poi siamo sempre noi a doverci mettere le mani, e la testa, sopra quindi…
Visto che ho accennato ai contrabbassisti consiglio vivamente l’ascolto di jazzisti come Jimmy Blanton (dell’orchestra di Duke Ellington), Scott LoFaro (per un brevissimo periodo nel trio di Bill Evans), Stanley Clarke, Charlie Haden, Ron Carter, Paul Chambers, Charlie Mingus, Ray Brown e comunque più o meno di tutti i boppers.
Per quanto riguarda il basso nel Blues non si sa chi lo abbia utilizzato per primo: alcuni ritengono che sia stato William D.Warren, cantante/chitarrista recentemente scomparso, ad introdurre il concetto di basso elettrico nel Chicago Blues quando, durante una session dei primissimi anni Cinquanta con Otis Rush, per dare più groove al sound decise di accordare la sua chitarra elettrica un’ottava più bassa ed a suonarla come un basso pizzicando solo le quattro corde più basse.
Di lì a poco con l’avvento del basso Fender vi fu praticamente l’introduzione del basso elettrico nel Blues che agli inizi però, data la novità dello strumento e la sua somiglianza con la chitarra elettrica, veniva suonato da chitarristi. Poi, per fortuna, ci si rese subito conto delle enormi potenzialità ritmiche ed armoniche dello strumento e del fatto che il basso andava e va suonato esclusivamente da bassisti.
Nonostante ciò alcuni odierni presuntuosi chitarristi, sopraffatti da un ridicolo complesso di superiorità, sottovalutano il basso elettrico e ritengono che suonarlo per loro sia una semplice passeggiata.
Purtroppo per loro quando un presuntuoso chitarrista mette le mani, o peggio il plettro, su un basso elettrico si vede ma soprattutto si sente…!!!!!
In un combo Blues, e non solo Blues, il basso è la porta che unisce la sezione ritmica con il resto degli strumenti, è il collante che tiene unito il gruppo, la sua capacità sonora amalgama tutti gli altri strumenti. L’orchestra di Blues, infatti, riunisce attorno a un cantante-solista (generalmente chitarrista) una sezione ritmica che comprende invariabilmente un basso ed una batteria. Su una trama fissa , ritmata dalla cassa battuta in contrattempo, il basso tesse una base melodica che consente allo strumento solista di esprimersi in tutta libertà. Questa non è altro che la trasposizione strumentale delle differenti voci assemblate nei primi gruppi di spirituals.
Dapprima, la voce del baritono veniva imitata, nelle piccole formazioni improvvisate, da un contrabbasso artigianale, il washtub, tinozza da bucato rovesciata che serviva da cassa di risonanza ad una corda tesa lungo un manico di scopa. Altri ricorrevano a una damigiana di vetro o di latta che emetteva un suono cavernoso quando vi si soffiava ritmicamente dentro: si trattava dei jug, le brocche che avrebbero dato vita alle celebri jug bands degli anni Venti e Trenta.
Sia nel jazz sia nel Blues il basso tuba ed il contrabbasso prenderanno progressivamente il posto dei jug e dei washtub.
Durante gli anni Trenta e Quaranta a Chicago, in pieno bluebird beat, Lester Melrose chiamerà al suo fianco due contrabbassisti, Alfred Elkins e Ransom Knowling, che collaboreranno a quasi tutte le incisioni delle star delle principali case discografiche dell’epoca (Bluebird, Decca, Columbia, RCA-Victor): Sonny Boy Williamson 1°, Big Bill Broonzy, Tampa Red, Memphis Slim, Washboard Sam e Jazz Gillum.
Elkins e soprattutto Knowling influiranno notevolmente sullo sviluppo del blues urbano.
Nel dopoguerra, i successori di Knowling sono Earnest“Big”Crawford e Willie Dixon, anche se il contrabbasso verso la metà degli anni Cinquanta cominciò a “subire” la concorrenza dei primi bassi elettrici.
Con pionieri come il citato Willie D.Warren, Jack Myers e George Joyner (dell’orchestra di B.B.King dei primi anni Cinquanta) il basso elettrico diventerà insostituibile nel Blues moderno.
Qui di seguito vi elenco, rigorosamente in ordine alfabetico, i più grandi bassisti, senza trascurare naturalmente Willie Dixon e gli altri contrabbassisti succitati, che secondo me il Blues abbia mai avuto e dai quali nessun aspirante bassista, di Blues ovviamente, può prescindere per la propria formazione e crescita musicale: Sylvester Boines, Donald”Duck”Dunn, Johnny B.Gayden, Joe Harper, Nick Holt, Gerald Jemmott, Calvin Jones, Dave Myers, Jack Myers, Bob Stroger, Larry Taylor ed infine il grandissimo Bill Willis.
I miei dischi preferiti
Ecco qui di seguito un elenco, in ordine alfabetico, dei dischi che chiunque, musicista di Blues o appassionato, ha secondo me il dovere, l’obbligo assoluto di possedere nella propria collezione:
Buster Benton: Blues At The Top.
Jimmy Dawkins: Hot Wire 81.
Buddy Guy: A Man And The Blues.
Lightnin’Hopkins: Soul Blues.
Elmore James: King Of Slide Guitar (2CD).
Homesick James: Blues On The South Side.
Robert Johnson: The Complete Recordings (2CD).
Albert King: Live Wire/Blues Power.
B.B.King: Live At The Regal, Singin’The Blues/The Blues e The Best of Kent Singles 1958/1971 – consiglio comunque vivamente in aggiunta o in alternativa il cofanetto della Ace The Vintage Years (4CD).
Freddy King: Sings e Let’s Hide Away And Dance Away oppure The Very Best Of Voll. 1, 2 e 3 della Collectables più My Feeling For The Blues.
John Littlejohn: Chicago Blues Stars.
Junior Parker: The Duke recordings e The Mercury recordings.
Jimmy Reed: The Vee Jay Years.
Otis Rush: Lost In The Blues.
T-Bone Walker: Stormy Monday Blues [Hallmark records].
Little Walter: The Best Of Voll.1 e 2.
Muddy Waters: The Best Of, Funky Butt, Hard Again e Sings Big Bill/Folk Singer.
Junior Wells: Hoodoo Man Blues.
Sonny Boy Williamson 2°: The Best Of.
Mighty Joe Young: Blues With A Touch Of Soul.
Bibliografia e fonti
- Enciclopedia del blues e della musica nera (Arcana editrice).
- Blues collection: i maestri del blues e del rhythm&blues (DeAgostini).
- Antologia del blues (Tascabili economici Newton).
- Guida al blues (Edizioni Blues Brothers).
- Dizionario Jazz (Armando Curcio Editore).
- rivista Il Blues (Edizioni Blues e dintorni).
http://www.caldonians.itb.it/Breve%20Storia%20del%20Blues.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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