Pragmatica della comunicazione umana
Pragmatica della comunicazione umana
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PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE UMANA
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson
INTRODUZIONE
Un essere umano è coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di acquisizione delle regole della comunicazione, ma di tale corpo di regole, di tale calcolo della comunicazione è consapevole solo in minima parte.
CAPITOLO I
PRESUPPOSTI TEORICI
1. Presupposti
Un fenomeno resta inspiegabile finché il campo d’osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica.
Se si studia una persona dal comportamento disturbato (psicopatologia) isolandola, allora l’indagine deve occuparsi della natura di tale condizione e –in senso esteso- della natura della mente umana. Se invece si estende l’indagine fino ad includere gli effetti che tale comportamento ha sugli altri, le reazioni degli altri a questo comportamento, e il contesto in cui tutto ciò accade, il centro dell’interesse si sposta dalla monade isolata artificialmente alla relazione tra le parti di un sistema più vasto. Chi studia il comportamento umano passa allora dall’analisi deduttiva della mente all’analisi delle manifestazioni osservabili nella relazione: il veicolo di tali manifestazioni è la comunicazione.
Lo studio della comunicazione umana si può dividere in tre settori:
- Sintassi = è di competenza esclusiva del teorico dell’informazione, il quale appunto si interessa ai problemi della codificazione, dei canali, della capacità, del rumore, della ridondanza, e di altre proprietà statistiche del linguaggio;
- Semantica = l’interesse primario è il significato;
- Pragmatica = influenza il comportamento.
F. H. George fa notare che <sotto molti punti di vista è giusto dire che la sintassi è la logica matematica, la semantica è la filosofia o la filosofia della scienza, e la pragmatica è la psicologia, ma in realtà questi campi non sono affatto ben distinti>.
2. Nozione di funzione e di relazione
Il concetto di funzione è costituito dal rapporto tra le variabili (che assumono valore proprio in base al loro rapporto).
E’ senza dubbio stimolante il parallelismo che si instaura tra l’affermazione in matematica del concetto di funzione e il riconoscimento in psicologia di quello di relazione. Sappiamo che sensazioni, percezioni, attenzione, memoria e diversi altri concetti sono stati definiti come “funzioni”; come del resto sappiamo dell’enorme mole di lavoro che è stato compiuto e che tutt’ora si compie per studiare tali “funzioni” isolandole artificialmente.
W. R. Ashby fa rivelare che un osservatore che sia in possesso di tutta l’informazione necessaria non ha bisogno di riferirsi al passato (e quindi all’esistenza di una memoria nel sistema): gli basta lo stato attuale del sistema per poterne spiegare il comportamento.
<Evidentemente la “memoria” non è qualcosa di obiettivo che il sistema possiede o non possiede; e un concetto a cui l’osservatore ricorre per colmare la lacuna determinata dal fatto che il sistema è in parte inosservabile. Tanto minore è il numero della variabili osservabili tanto più l’osservatore sarà costretto a considerare gli eventi passati come rilevanti per il comportamento del sistema>.
Le percezioni implicano un processo di cambiamento, movimento o scansione. In altre parole, sulla base di prove estremamente ampie, è stato possibile stabilire e astrarre una relazione che è identica al concetto matematico di funzione... ne consegue che la sostanza delle nostre percezioni non è costituita da “cose” ma da funzioni; e come abbiamo visto le funzioni non sono grandezze isolate ma <segni per un nesso... per una infinità di situazioni possibili di uno stesso tipo...>. Ma se le cose stanno così, non deve più sorprenderci neppure che la consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente una consapevolezza delle funzioni, delle relazioni in cui si trova implicato, e qui non ha importanza quanto egli possa successivamente reificare tale consapevolezza.
3. Informazione e retroazione
La teoria psicoanalitica di S. Freud si basa su di un modello che non è in contrasto con l’epistemologia predominante al tempo in cui furono formulati i principi della psicoanalisi. Si parte dal postulato che il comportamento sia in primo luogo la conseguenza di una ipotizzata azione reciproca di forze intrapsichiche che si ritiene seguano strettamente le leggi della fisica sulla conservazione e sulla trasformazione dell’energia. La psicoanalisi classica restava anzitutto una teoria dei processi intrapsichici, che considerava si secondaria importanza l’interazione con le forze esterne anche quando tale interazione era evidente. La ricerca psicoanalitica ha trascurato l’interdipendenza tra l’individuo e il suo ambiente, ed è proprio a questo punto che diventa indispensabile il concetto di scambio di informazione, cioè di comunicazione. C’è una differenza sostanziale tra il modello psicodinamico (psicoanalitico) da una parte e ogni schema che elabori il concetto di interazione individuo-ambiente dall’altra. Se si da un calcio ad un sasso, questo rotolerà secondo la forza acquisita e la struttura del terreno; se lo si dà a un cane, questo acquisirà sì la forza, ma “reagirà” in un ordine diverso.
La scoperta della retroazione ha reso possibile questo nuovo modo di vedere le cose. Una catena in cui l’evento A produce l’evento B, e poi B produce C, e C a sua volta causa D, etc..., può sembrare che abbia le proprietà di un sistema lineare deterministico. Ma se D riconduce ad A, il sistema è circolare e funziona in un modo completamente diverso.
La retroazione può essere negativa o positiva. La prima caratterizza l’omeostasi (stato stazionario) e gioca quindi un ruolo importante nel far raggiungere e mantenere la stabilità delle relazioni; la seconda provoca un cambiamento, cioè la perdita di stabilità e di equilibrio. In entrambi i casi, parte dei dati in uscita sono reintrodotti nel sistema come informazione circa l’uscita stessa. In caso di retroazione negativa, si usa questa informazione per far diminuire la deviazione all’uscita rispetto a una norma prestabilita o previsione dell’insieme –di qui l’aggettivo “negativa”- mentre in caso di retroazione positiva la stessa informazione agisce come una misura per aumentare la deviazione all’uscita, ed è quindi positiva in rapporto alla tendenza già esistente verso l’arresto o la distruzione.
I sistemi interpersonali possono essere considerati circuiti di retroazione, poiché il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra persona. Poiché sia la stabilità che il cambiamento contraddistinguono le manifestazioni della vita, i meccanismi di retroazione negativa e positiva agiscono in essa come forme specifiche di interdipendenza o di complementarità. I sistemi con autoregolazione –i sistemi a retroazione- impongono una loro filosofia in cui i concetti di modello e di informazione sono fondamentali come lo erano quelli di materia e di energia all’inizio del secolo.
4. Ridondanza
L’omeostato di W. R. Ashby è costituito da quattro identici sottosistemi autoregolantesi e tutti interconnessi in modo tale che una perturbazione provocata in uno qualunque di essi influenza gli altri e a sua volta ciascuno reagisce attraverso gli altri. Nessun sottosistema può quindi ottenere il proprio equilibrio isolandosi dagli altri. L’omeostato ottiene la stabilità mediante una ricerca casuale delle sue combinazioni e continua finché non raggiunge una configurazione interna adatta..
Tuttavia, se un sistema come l’omeostato ha la capacità di immagazzinare gli adattamenti precedenti per usarli in futuro, la probabilità inerente alla sequenza delle configurazioni interne subirà un drastico cambiamento nel senso che certi raggruppamenti di configurazioni diventeranno ripetitivi e per tale ragione più probabili di altri. Questo è un processo stocastico, e secondo la teoria dell’informazione, tali processi mostrano ridondanza o vincolo.
La ridondanza è stata studiata ampiamente in due settori della comunicazione umana: in quello della sintassi e in quello della semantica. Una delle conclusioni che si possono trarre da questi studi è che ognuno di noi ha moltissime cognizioni sulla legittimità e sulla probabilità statistica inerente sia alla sintassi che alla semantica della comunicazione umana. Una persona può essere in grado di usare la propria lingua correttamente e fluentemente senza conoscere tuttavia la grammatica e la sintassi, cioè le regole che egli osserva nel parlare la lingua.
La maggior parte degli studi esistenti sulla pragmatica della comunicazione sembra che si limiti a considerare gli effetti della persona A sulla persona B, senza prendere in considerazione in egual misura che qualunque cosa faccia B influenza la mossa successiva di A, e che essi sono soprattutto influenzati dal contesto in cui ha luogo la loro interazione (e a loro volta influenzano il contesto).
I gradi di consapevolezza che abbiamo delle regole di comportamento e di interazione sono gli stessi che S. Freud ha postulato per i lapsus e gli errori:
- se ne può avere piena consapevolezza, e in questo caso si possono usare il questionario e altre tecniche semplici di domanda-risposta;
- possiamo non rendercene conto, ma essere capaci di riconoscerli quando ci vengono fatti notare;
- è possibile non avere alcuna consapevolezza fino al punto che se anche venissero delineati con chiarezza per attirarvi la nostra attenzione, non saremmo ancora in grado di vederli.
5. Metacomunicazione e concetto di calcolo
Quando non usiamo più la comunicazione per comunicare ma per comunicare sulla comunicazione, gli schemi concettuali che adopriamo non fanno parte della comunicazione ma vertono su di essa. Definiamo quindi metacomunicazione, per analogia alla metamatematica, la comunicazione sulla comunicazione. Rispetto alla metamatematica, il lavoro di ricerca della metacomunicazione incontra due grossi inconvenienti. Il primo svantaggio è che nel campo della comunicazione non ci sia finora nulla di confrontabile al sistema formale del calcolo; il secondo è strettamente collegato al primo: mentre i matematici hanno due linguaggi (numeri e segni algebrici per esprimere fatti matematici e il linguaggio naturale per la metamatematica), noi dobbiamo limitarci ad usare il linguaggio naturale che resta il veicolo sia della comunicazione che della metacomunicazione.
Si può definire l’interazione ricorrendo all’analogia del gioco degli scacchi, come sequenze di “mosse” rigidamente governate de regole, ma è irrilevante che i comunicanti siano perfettamente consapevoli delle regole oppure no; è invece estremamente importante che su tali regole sia possibile fare delle asserzioni di metacomunicazione dotate tutte di significato. Il che significa che esiste un calcolo della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata.
6. Conclusioni
Nell’ambito della psicopatologia, occorre assumere nuovi schemi concettuali per studiare la comunicazione umana.
6.1 Concetto di scatola nera
L’impossibilità di vedere la mente “al lavoro” ha fatto adottare negli ultimi ani un concetto elaborato nel settore delle telecomunicazioni, quello di “scatola nera”. Se applichiamo il concetto a problemi psicologici e psichiatrici, si vede subito il vantaggio euristico che presenta: non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcuna ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente inverificabile) e possiamo limitarci ad osservare i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione.
6.2 Consapevolezza e non consapevolezza
Lo studio del comportamento umano, sulla base del concetto di “scatola nera”, ci porta a considerare l’uscita di una “scatola” come l’ingresso di un’altra. Ma stabilire se tale scambio di informazione sia consapevole oppure no è un quesito che non ha più quell’importanza che invece conserva in una struttura psicodinamica. Il che non significa certo che non sia importante stabilire (per quanto riguarda le reazioni a un comportamento specifico) se tale comportamento sia consapevole o inconsapevole. L’opinione che si fa a proposito si basa necessariamente sulla nostra valutazione dei motivi dell’altro, e quindi su una ipotesi di ciò che passa dentro la testa dell’altro. E se anche si chiedesse all’altro, ci si può non fidare della risposta che si riceve.
6.3 Presente e passato
Non c’è dubbio che il comportamento sia determinato almeno in parte dall’esperienza precedente, ma si sa quanto sia inattendibile ricercarne le cause nel passato. Non soltanto le prove soggettive su cui principalmente si basa la memoria hanno la tendenza a distorcere i fatti, ma bisogna anche tener presente che qualunque persona A che parli del suo passato alla persona B è strettamente legata alla relazione in corso tra queste due persone (e ne è determinata).
6.4 Causa ed effetto
Le cause possibili o ipotizzabili del comportamento assumono un’importanza secondaria, mentre s’impone l’effetto del comportamento come criterio estremamente rilevante nell’interazione di individui che sono in stretti rapporti di parentela.
6.5 Circolarità dei modelli di comunicazione
Mentre nelle catene causali, che sono lineari e progressive, ha senso parlare del principio e della fine di una catena, tali termini sono privi di significato in sistemi con circuiti di retroazione. Non c’è fine né principio in un cerchio.
6.6 Relatività delle nozioni di “normalità” e “anormalità”
Una volta che si sia accettato il principio di comunicazione secondo cui un comportamento si può studiare soltanto nel contesto in cui si attua, i termini “sanità” e “insania” perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui. Analogamente le nozioni di “normalità” e “anormalità” diventano molto discutibili.
CAPITOLO II
TENTATIVO DI FISSARE ALCUNI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE
1. Introduzione
Alcune proprietà semplici della comunicazione, che possiedono fondamentali implicazioni interpersonali, hanno natura di assiomi all’interno del nostro calcolo ipotetico della comunicazione umana.
2. Impossibilità di non-comunicare
2.1
Non esiste qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio.
Non possiamo dire che la comunicazione ha luogo soltanto quando è intenzionale, conscia o efficace, cioè quando si ha la comprensione reciproca. Che il messaggio emesso eguagli o meno il messaggio ricevuto rientra in un ordine di analisi importante ma diverso.
2.2
Una singola unità di comunicazione sarà chiamata messaggio, oppure, dove non si presentano possibilità di confusione, una comunicazione. Una serie di messaggi scambiati tra persone sarà definita interazione. Esistono unità della comunicazione umana di livello ancor più elevato che saranno chiamate modelli di interazione.
2.3
L’impossibilità di non-comunicare è un fenomeno che riveste un interesse più che teorico. Ad esempio, è parte integrante del “dilemma” schizofrenico. Se il comportamento schizofrenico è osservato lasciando in sospeso ogni considerazione eziologica, sembra che lo schizofrenico cerchi di non-comunicare. Ma poiché anche le assurdità, il silenzio, il ritrarsi, l’immobilità, o ogni altra forma di diniego sono essi stessi comunicazione, lo schizofrenico si trova di fronte al compito impossibile di negare che egli sta comunicando e al tempo stesso di negare che il suo diniego è comunicazione.
2.4
Si può quindi postulare il primo assioma (“metacomunicazionale”) della pragmatica della comunicazione: non si può non comunicare.
3. Livelli comunicativi di contenuto e di relazione
3.1
Ogni comunicazione implica un impegno e perciò definisce la relazione. E’ un altro modo per dire che la comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento. Accettando l’impostazione di G. Bateson, si è giunti a considerare queste due operazioni come l’aspetto di “notizia” (report) e di “comando” (command) di ogni comunicazione.
L’aspetto di “notizia” di un messaggio trasmette informazione ed è quindi sinonimo nella comunicazione umana del contenuto del messaggio. L’aspetto di “comando”, d’altra parte, si riferisce al tipo di messaggio che deve essere assunto e perciò, in definitiva, alla relazione tra i comunicanti. Quanto più una relazione è spontanea e “sana”, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni “malate” sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante.
3.2
Nelle operazioni dei calcolatori, essi hanno bisogno di informazione (dati) e di informazione su tale informazione (istruzioni). E’ chiaro dunque che le istruzioni sono di un tipo logico più elevato dei dati: sono metainformazione poiché sono informazione sull’informazione e ogni confusione tra i due porterebbe a un risultato privo di significato.
3.3
Se passiamo a considerare la comunicazione umana, troviamo che esiste anche qui lo stesso rapporto tra l’aspetto di “notizia” e quello di “comando”: il primo trasmette i “dati” della comunicazione, il secondo il modo in cui si deve assumere tale comunicazione. Il contesto in cui ha luogo la comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione.
L’aspetto relazionale della comunicazione (che è comunicazione sulla comunicazione) è identico, naturalmente, al concetto di metacomunicazione, contenendolo però entro i limiti della struttura concettuale e del linguaggio che l’analista della comunicazione deve impiegare quando sta comunicando sulla comunicazione. La capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri.
3.4
Il secondo assioma della comunicazione è quindi il seguente: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.
4. Punteggiatura della sequenza di eventi
4.1
Un osservatore esterno può considerare una serie di comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione introducono sempre qualcosa di importante che, sulle orme di B. L. Whorf. G. Bateson e D. D. Jackson hanno definito “la punteggiatura della sequenza di eventi”. La punteggiatura organizza gli eventi comportamentali ed è quindi vitale per le interazioni in corso.
4.2
Si trova alla radice di innumerevoli conflitti di relazione un disaccordo su come punteggiare la sequenza di eventi. Nella psicoterapia congiunta delle coppie si è spesso colpiti dall’intensità di quel fenomeno che nella psicoterapia tradizionale si sarebbe definito “distorsione della realtà da parte di entrambe le persone”. E’ difficile convincersi come due individui possano avere opinioni così divergenti su tanti elementi di un’esperienza comune. Ma è un problema che si può spiegare con un argomento: cioè, la loro incapacità di metacomunicare in base ai rispettivi modelli di interazione.
Anche i rapporti internazionali presentano numerosi modelli di interazione che hanno più di un’analogia.
4.3
La matematica ci offre un’analogia descrittiva: il concetto di “serie oscillante, infinita”. Anche se il termine fu introdotto molto più tardi, serie di questo tipo furono studiate per la prima volta in modo logico e coerente dal sacerdote austriaco B. Bolzano ne “I paradossi dell’infinito”:
S = a – a + a – a + a – a + a – a + a – a + a - ...
Questa serie ci interessa da vicino perché si può assumere per rappresentare una sequenza di comunicazione costituita da affermazioni e negazioni del messaggio “a”. B. Bolzano ha dimostrato che si può raggruppare –punteggiare- questa sequenza in diversi modi, ma che portano sempre alla seguente soluzione:
S = a / 2
Il dilemma sorge dalla spuria punteggiatura della serie, cioè dalla pretesa che la serie abbia un principio (che è infatti l’errore dei partner in tale situazione).
4.4
Possiamo aggiungere dunque un terzo assioma di metacomunicazione: la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.
5. Comunicazione numerica e analogica
5.1
L’attività del neurone consiste nel trasmettere informazione numerica binaria. D’altra parte, il sistema umorale non si basa sulla numerazione dell’informazione: è un sistema che comunica liberando quantità discrete di sostanza specifiche nella circolazione del sangue. E’ inoltre noto che i moduli di comunicazione intraorganica umorali o neuronici non soltanto coesistono, ma sono reciprocamente complementari e dipendono l’uno dall’altro in modi spesso molto complessi.
Questi due moduli fondamentali di comunicazione li troviamo operanti anche negli organismi artificiali: i calcolatori numerici (così definiti in quanto fondamentalmente operano con numeri) utilizzano il principio tutto-o-niente delle valvole a vuoto e dei transistori, mentre i calcolatori analogici (così definiti perché ciò che manipolano sono gli analoghi dei dati) operano con grandezze positive, discrete. I numeri sono nomi di codice assegnati arbitrariamente e la loro somiglianza con le grandezze reali è davvero minima. Un esempio di calcolatore analogico semplice è la cosiddetta “macchina della marea” (uno strumento composto di leve, ruote dentate e bilancieri che si usa per misurare le maree in un tempo dato); un paradigma di calcolatore analogico è l’omeostato di W. R. Ashby, anche se è una macchina che non calcola nulla.
5.2
Nella comunicazione umana si hanno due possibilità del tutto diverse di far riferimento agli oggetti (in senso esteso):
- dargli un nome;
- rappresentarli con un’immagine (come quando si disegna).
Questi due modi di comunicare sono rispettivamente equivalenti ai concetti di analogico e numerico. Ogni volta che si usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto tra il nome e la cosa nominata è un rapporto stabilito arbitrariamente. Le parole sono segni arbitrari che vengono manipolati secondo la sintassi logica della lingua.
Nella comunicazione analogica si può far riferimento con maggiore facilità alla cosa che si rappresenta. La comunicazione analogica ha le sue radici in periodi molto più arcaici dell’evoluzione e la sua validità è quindi molto più generale del modulo numerico della comunicazione verbale, relativamente recente e assai più astratto.
La comunicazione non verbale non si limita al movimento del corpo, ma include le posizioni del corpo, il ritmo e la cadenza delle parole stesse, e ogni altra espressione non verbale di cui l’organismo sia capace, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un’interazione.
5.3
L’uomo è il solo organismo che si conosca che usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici. Il linguaggio numerico ha un’importanza particolare perché serve a scambiare informazione sugli oggetti e anche perché ha la funzione di trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C’è però tutto un settore in cui facciamo assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica, spesso discostandoci assai poco dall’eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati mammiferi. E’ questo il settore della relazione. Ciò che capiscono davvero gli animali, non è certo il significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica che s’accompagna al discorso. Infatti ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico è pressoché privo di significato.
In breve, se si ricorda che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, è lecito aspettarsi che i due moduli di comunicazione non soltanto coesistano ma siano reciprocamente complementari in ogni messaggio. E’ pure lecito dedurre che l’aspetto di contenuto ha più probabilità di essere trasmesso con un modulo numerico, mentre in natura il modulo analogico avrà una netta predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.
5.4
Il rendimento, la precisione e la versatilità dei due tipi di calcolatori –gli analogici e i numerici- sono molto diversi. I dispositivi che si usano nei calcolatori analogici in luogo delle grandezze reali non possono essere che approssimazioni dei valori reali e questa inevitabile fonte d’imprecisione viene ulteriormente amplificata mentre il calcolatore compie le operazioni. Denti di ruote dentate, ingranaggi e trasmissioni non possono mai essere costruiti in modo perfetto e anche quando le macchine analogiche impiegano soltanto impulsi di corrente, resistenze elettriche, reostati, etc... questi eventi discreti sono sempre soggetti a fluttuazioni praticamente incontrollabili. D’altro canto si può sostenere che una macchina numerica lavorerebbe con la massima precisione se non si dovesse limitare lo spazio entro cui vengono immagazzinati i numeri, il che rende necessario “arrotondare” tutti i risultati che vengono ad avere più numeri di quelli che la macchina è in grado di contenere.
Indipendentemente dalla sua assoluta precisione, il calcolatore numerico ha il vantaggio enorme di essere una macchina non solo aritmetica ma anche logica. Nulla di simile né di lontanamente confrontabile si può fare con i calcolatori analogici. Poiché operano con quantità discrete, positive, non possono rappresentare nessun valore negativo (compresa la negazione stessa) o nessuna delle altre funzioni di verità.
L’uomo ha la necessità di combinare questi due linguaggi (come trasmettitore e come ricevitore) e deve costantemente tradurre dall’uno all’altro. Nella comunicazione umana in entrambi i casi è difficile “tradurre”: non solo non sia ha nessuna traduzione dal modulo numerico a quello analogico senza una notevole perdita d’informazione, ma anche il caso contrario presenta enormi difficoltà.
5.5
Possiamo ora, quindi, enunciare il quarto assioma della comunicazione: gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.
6. Interazione complementare e simmetrica
6.1
Nel 1935 G. Bateson riferì di un fenomeno di interazione che aveva osservato nella tribù Iatmul nella Nuova Guinea nel suo libro “Naven”. Diede al fenomeno il nome di scismogenesi e lo definì come un processo di differenziazione delle norme del comportamento individuale derivante dall’interazione cumulativa tra individui.
6.2
Definiamo scismogenesi simmetrica il caso in cui i modelli tendono a rispecchiare il comportamento dell’altro; si definisce invece scismogenesi complementare il caso in cui il comportamento del partner completa quello dell’altro e costituisce un tipo diverso di Gestalt comportamentale (ovvero complementare). L’interazione simmetrica dunque è caratterizzata dall’uguaglianza e dalla “minimizzazione” della differenza, mentre il processo opposto caratterizza l’interazione complementare.
Nella relazione complementare si hanno due diverse posizioni:
- One-up = posizione superiore, primaria;
- One-down = posizione inferiore, secondaria.
6.3
E’ stata avanzata l’ipotesi di un terzo tipo di relazione –“metacomplementare”- in cui A consente a B di assumere la direzione del proprio (di A) comportamento (o lo costringe a farlo); analogamente, si potrebbe anche aggiungere una relazione “pseudosimmetrica” in cui A consente a B di adottare un comportamento simmetrico (o lo costringe a farlo).
6.4
Ecco quindi l’ultimo assioma della comunicazione: tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.
7. Sommario
L’impossibilità di non-comunicare rende comunicative tutte le situazioni impersonali che coinvolgono due o più persone. L’importanza pragmatica, interpersonale, dei moduli numerici e analogici non sta solo nell’isomorfismo con il contenuto e la relazione, ma anche nell’ambiguità, inevitabile e significativa, che sia il trasmettitore che il ricevitore devono affrontare nei problemi di traduzione da un modulo all’altro. La descrizione dei problemi di punteggiatura si basa proprio sulla metamorfosi sottesa al modello classico di azione-reazione. Il paradigma simmetria-complementarità e quello che si avvicina forse di più al concetto matematico di funzione, poiché le posizioni individuali sono delle semplici variabili con infiniti valori possibili il cui significato non è assoluto ma piuttosto emerge dalla reciprocità del rapporto.
CAPITOLO III
COMUNICAZIONE PATOLOGICA
1. Introduzione
Le conseguenza comportamentali tra assiomi della comunicazione umana e relativi disturbi corrispondono spesso a varie psicopatologie individuali.
2. Inesistenza della non-comunicazione
2.1
Lo “schizofrenese” è una lingua che lascia all’ascoltatore la scelta tra i molti significati possibili (che non soltanto sono diversi ma possono anche essere incompatibili). Diventa così possibile negare parzialmente o totalmente gli aspetti di un messaggio.
2.2
La situazione opposta si trova in “Through the Looking Glass” (“Nel mondo dello specchio”) quando la comunicazione semplice e schietta di Alice viene corrotta del “lavaggio del cervello” della Regina Rossa e della Regina Bianca. Esse adducono il motivo che Alice stia cercando di negare qualcosa e lo attribuiscono al suo stato mentale.
2.3
E’ lecito supporre che tentativi di non-comunicare si avranno in ogni altro contesto in cui si deve evitare l’impegno inerente a ogni comunicazione. In questo senso, una situazione tipica è l’incontro tra due estranei di cui uno vuole conversare mentre l’altro non lo vuole, ad esempio due passeggeri d’aereo seduti di fianco.
2.3.1 “Rifiuto” della comunicazione
Con maniere più o meno brusche il passeggero A può far capire al passeggero B che non ha voglia di conversare. Ma per le regole della buona educazione questo è un modo d’agire riprovevole che richiede un certo coraggio e che provocherà un silenzio imbarazzato e piuttosto teso; in questo modo, inoltre, A non è certo riuscito a evitare, come voleva, una relazione con B.
2.3.2 Accettazione della comunicazione
Il passeggero A si rassegna a conversare. L’aspetto importante della decisione del passeggero A è che presto si renderà contro della saggezza di una regola militare secondo la quale “in caso di cattura dare soltanto il nome, il grado e il numero di matricola”; è infatti possibile che il passeggero B non sia affatto disposto a fermarsi a metà strada e voglia scoprire tutto su A, compresi i pensieri, i sentimenti, le convinzioni. E una volta che A ha cominciato a rispondere, troverà sempre più difficile fermarsi, come sa bene chi pratica il lavaggio del cervello.
2.3.3 Squalificazione della comunicazione
La squalificazione è una tecnica importante a cui A può ricorrere per difendersi: egli può comunicare in modo da invalidare le proprie comunicazioni o quelle dell’altro. Rientra in questa tecnica una vasta gamma di fenomeni della comunicazione: contraddirsi, cambiare argomento o sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, ricorrere ad uno stile oscuro o usare manierismi, fraintendere, dare un’interpretazione letterale delle metafore e un’interpretazione metaforica di osservazioni letterali, etc...
Se da tutti i possibili punti di vista da cui si può considerare il comportamento scegliamo quello clinico, ci sia consentito di far rivelare che la comunicazione (comportamento) “folle” non è necessariamente la manifestazione di una mente malata, ma può essere l’unica reazione possibile a un contesto di comunicazione assurdo ed insostenibile.
2.3.4 Sintomo come comunicazione
Il passeggero A può ricorrere per difendersi alla loquacità di B anche facendo finta di aver sonno, di essere sordo o ubriaco, di non conoscere la lingua, o simulando qualsiasi altro stato di incapacità o qualunque difetto che giustifichino l’impossibilità di comunicare. Questa “strategia” diventa perfetta una volta che il soggetto ha convinto se stesso di essere alla mercè di forze che non può controllare, liberandosi così sia dalle fitte della propria coscienza sia dal biasimo delle altre persone che contano in quella situazione.
La teoria della comunicazione giudica un sintomo come un messaggio non verbale non sono io che non voglio (o che voglio) far questo, è qualcosa che non posso controllare, per esempio i nervi, la malattia, l’ansia, il partner...
3. Struttura di livello della comunicazione (contenuto e relazione)
Un marito, mentre era a casa da solo, aveva ricevuto una telefonata da un amico che doveva venire da quelle parti, e così si offrì di ospitarlo, sapendo che anche la moglie avrebbe fatto lo stesso. Nella seduta terapeutica di questa coppia fu esaminato il problema: sia il marito che la moglie erano d’accordo nell’ammettere che invitare l’amico fosse la cosa più giusta, e naturale da farsi. La loro perplessità sorgeva quando dovevano prendere atto che da un lato erano d’accordo, ma poi “chissà perché” non erano d’accordo su quello che sembrava essere lo stesso punto.
3.1
In verità i punti in questione erano due:
- azione nella situazione (invito);
- relazione tra i comunicanti (chi doveva prendere l’iniziativa senza consultare l’altro).
Il secondo punto era quello che non era facile risolvere con il modulo numerico perché presupponeva che il marito e la moglie fossero in grado di parlare sulla loro relazione.
3.2
Il disaccordo può manifestarsi a livello di contenuto o a livello di relazione; è chiaro però che le due forme dipendono l’una dall’altra.
A dispetto del loro disaccordo, due individui debbono finire la loro relazione che può essere o complementare o simmetrica.
3.3 Definizione del sé e dell’altro
La persona P dà la definizione di sé ad O. P può farlo in diversi modi, ma qualunque cosa comunichi e comunque la comunichi a livello di contenuto, il prototipo della sua comunicazione sarà: <Ecco come mi vedo>. La comunicazione umana consente tre possibili reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di sé; e tutte e tre sono di grande importanza per la pragmatica della comunicazione umana:
- Conferma
O può accettare la definizione che P ha dato di sé. Per quanto sorprendente possa sembrare, senza l’effetto che produce la conferma del sé è difficile che la comunicazione avrebbe potuto svilupparsi oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza. L’uomo deve comunicare con gli altri per avere la consapevolezza di sé. La verifica sperimentale di questa ipotesi intuitiva ci viene sempre più fornita dalle ricerche sulla privazione sensoriale che mostrano come l’uomo non riesca a mantenere la propria stabilità emotiva per periodi prolungati comunicando solo con se stesso; - Rifiuto
O può rifiutare la definizione che P ha dato di sé. Ma il rifiuto presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta e quindi esso non nega necessariamente la realtà del giudizio di P su di sé; - Disconferma
O può disconfermare la definizione che P ha dato di sé. La disconferma non si occupa della verità o della falsità della definizione che P ha dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di P come emittente di tale definizione. Se paragonassimo la conferma e il rifiuto del sé ai concetti di verità e falsità, la disconferma dovrebbe corrispondere al concetto di indecidibilità che è di un ordine logico diverso. W. James scrisse: <Se fosse realizzabile, non ci sarebbe pena più diabolica di quella di concedere ad un individuo la libertà assoluta dei suoi atti in una società in cui nessuno si accorga mai di lui>.
3.4 Livelli di percezione interpersonale
Nel discorso a livello di metacomunicazione abbiamo dunque un messaggio di P ad O: <Ecco come ti vedo> che è seguito da un messaggio di O a P: <Ecco come ti vedo>. A questo messaggio P risponderà con un messaggio che asserisce tra l’altro: <Ecco come vedo che mi vedi> e O con il messaggio: <Ecco come vedo che mi vedi che ti vedo”. Questa catena regredente in teoria è infinita, anche se in pratica ci limitiamo ad occuparci di messaggi che non sono di un ordine più elevato di astrazione di quello citato.
3.5 Impenetrabilità
La disconferma del sé da parte dell’altro è soprattutto la conseguenza di una particolare mancanza di consapevolezza delle percezioni interpersonali a cui A. R. Lee dà il nome di “impenetrabilità” (imperviousness) e la definisce così: <Dato che la percezione interpersonale si ha a molti livelli, anche l’impenetrabilità può presentarsi a vari livelli; e ad ogni livello di percezione è possibile che corrisponda un analogo livello di non-percezione o impenetrabilità. Ogni volta che viene meno una precisa consapevolezza (cioè quando si ha impenetrabilità), sono sempre pseudo-problemi quelli su cui riferiscono le parti di una diade [...] E’ un’armonia presunta, priva di ogni fondamento reale, quella che le parti raggiungono, come sono presunti e senza alcuna base concreta i disaccordi su cui si accendono le loro dispute>.
A. R. Lee prosegue dimostrando che l’impenetrabilità può aversi al primo livello della gerarchia: al messaggio di P <Ecco come ti vedo> O risponde <Ecco come ti vedo>, in un modo cioè che non concorda con la definizione che P dà di sé. E’ possibile allora che P concluda che O non lo capisce mentre O da parte sua può presumere che P si senta capito da lui. In questo caso O non è in disaccordo con P, ma ignora o fraintende il messaggio di P (situazione di disconferma). Si può dire che si abbia un secondo livello di impenetrabilità quando P non si accorge che il suo messaggio non è giunto ad O; cioè P non trasmette con precisione <Ecco come ti vedo che tu vedi me>. A questo livello, dunque, accade che all’impenetrabilità si reagisca con l’impenetrabilità.
4. Punteggiatura della sequenza
Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze di comunicazione l’interazione a cui inevitabilmente si giunge è un vicolo cieco dove alla fine vengono lanciate accuse reciproche di cattiveria e di follia.
4.1
E’ naturale che le discrepanze, relative alla punteggiatura della sequenza di eventi, si presentino in tutti quei casi in cui almeno uno dei comunicanti non ha lo stesso grado di informazione dell’altro tuttavia senza saperlo (Es. Una lettera spedita ma mai arrivata).
4.2
Alla radice dei conflitti di punteggiatura è probabile che ci sia la convinzione che esista soltanto una realtà, il mondo come lo vedo io, e che ogni opinione diversa dalla mia dipenda necessariamente dalla irrazionalità dell’altro o dalla sua mancanza di buona volontà. I casi di comunicazione patologica sono circoli viziosi che non si possono infrangere a meno che (e finché) la comunicazione stessa non diventi l’oggetto della comunicazione, ovvero finché i comunicanti non siano in grado di metacomunicare. Ma per esserne capaci devono uscire fuori dal circolo.
4.3 Causa ed effetto
Per la pragmatica della comunicazione la differenza tra l’interazione delle nazioni o quella degli individui è minima o nulla una volta che le discrepanze di punteggiatura hanno portato a visioni diverse dalla realtà (in cui va esclusa la natura della relazione) e quindi al conflitto internazionale o interpersonale.
4.4
Il concetto di “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling prophecy), dal punto di vista dell’interazione è forse il fenomeno più interessante nel settore della punteggiatura. Nella comunicazione, il “dare la cosa per scontata”, si può considerare l’equivalente della “profezia che si autodetermina”.
E’ il comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel dato comportamento sarebbe la risposta adeguata. Per esempio, una persona che agisce in base alla premessa “non piaccio a nessuno”, si comporterà in modo sospettoso, difensivo o aggressivo, ed è probabile che gli altri reagiscano con antipatia al suo comportamento, confermando la premessa da cui il soggetto era partito.
5. Errori nella “traduzione” del materiale analogico in numerico
5.1
Il materiale del messaggio analogico manca di molti elementi che invece ha il linguaggio numerico, tra cui la morfologia e la sintassi. Quando traduce messaggi analogici in numerici, il traduttore deve necessariamente aggiungere e inserire gli elementi mancanti; analogamente, per interpretare i sogni è necessario introdurre la struttura numerica nel caleidoscopio delle immagini oniriche.
Il materiale del messaggio analogico ha molti aspetti contradditori; si presta ad interpretazioni numeriche assai diverse e spesso del tutto incompatibili. Non si tratta soltanto della difficoltà che il trasmettitore incontra per dare una veste verbale alle proprie comunicazioni analogiche, ma se sorge una controversia interpersonale sul significato di un particolare dettaglio della comunicazione analogica, è probabile che uno dei partner introduca il tipo di numerazione che gli consente di mantenere l’opinione che egli ha della natura della relazione.
Uno degli obiettivi della psicoterapia e senz’altro quello di dare una numerazione corretta e correttiva del messaggio analogico; in realtà, il successo o il fallimento di qualsiasi interpretazione dipenderà sia dall’abilità del terapeuta di tradurre da un modulo all’altro che dalla prontezza del paziente di cambiare la sua numerazione con quelle che sono più adatte e meno penose.
5.2
G. Bateson sostiene che uno degli errori fondamentali che si compiono quando si traduce da un modulo di comunicazione in un altro si quello di supporre che un messaggio analogico sia per natura assertivo o denotativo, proprio come lo sono i messaggi numerici.
Tutti i messaggi analogici sono invocazioni di relazione e sono quindi proposte che riguardano le regole future della relazione. L’argomento di G. Bateson è che con il mio comportamento posso accennare o proporre che voglio amare, odiare, combattere, etc..., ma tocca a voi attribuire alle mie proposte il futuro valore di verità positivo o negativo.
5.3
Nel tradurre il materiale analogico in numerico, bisogna introdurre funzioni di verità logiche che mancano al modulo analogico. Tale assenza si nota maggiormente quando si deve negare. E’ semplice trasmettere il messaggio analogico <Ti aggredirò>, ma è estremamente difficile segnalare <Non ti aggredirò>, come è difficile se non impossibile introdurre negazioni nei calcolatori analogici.
La disperazione di essere respinto e di non poter dimostrare di non aver l’intenzione di far del male porta alla violenza, anche se l’intenzione è assolutamente benevola (Es. Cercare di accarezzare un gatto che scappa da noi sempre).
5.3.1
Se si osserva come si comportano gli animali in tali circostanze, si giunge alla conclusione che l’unico modo di risolvere il problema (“come segnalare la negazione”) sia anzitutto quello di mostrare e proporre l’azione che si vuol negare e poi di non portarla a termine. Soltanto in apparenza questo comportamento (indubbiamente interessante) è “irrazionale”; si può osservarlo comunque non solo nell’interazione tra animali ma anche a livello umano.
5.3.2
Il rituale può fungere da intermediario tra la comunicazione analogica e quella numerica, in quanto simula il materiale del messaggio ma in modo stilizzato e ripetitivo che è sospeso tra l’analogia e il simbolo. I materiali analogici sono spesso formalizzati nei rituali delle società umane; quando questo materiale viene canonizzato si avvicina molto alla comunicazione simbolica o numerica e curiosamente mostra quasi di coincidere con essa.
5.4
Nell’isteria si ha una ritraduzione dal materiale del messaggio già numericizzato nel modulo analogico.
Tutta l’opera di C. G. Jung dimostra che il simbolo si manifesta laddove ciò che chiamiamo “numerizzazione” non è ancora possibile. Ma si ricorre ai simboli anche quando non è più possibile usare il modulo numerico -e questo si verifica tipicamente quando una relazione minaccia di evolversi in zone socialmente e moralmente tabù come l’incesto-.
6. Patologie potenziali dell’interazione simmetrica e complementare
Nella comunicazione la simmetria e la complementarità non sono in se stesse e da sole “buone” o “cattive”, “normali” o “anormali”, etc... I due concetti si riferiscono semplicemente alle due categorie fondamentali in cui si possono dividere tutti gli scambi di comunicazione.
6.1 Escalation simmetrica
In una relazione simmetrica è sempre presente il pericolo della competitività. Sia negli individui che nelle nazioni, l’uguaglianza sembra più rassicurante se si riesce ad essere un po’ “più uguali” degli altri. E’ una tendenza a cui si deve la qualità tipica di escalation dell’interazione simmetrica una volta che abbia perduto la stabilità e sia sopraggiunta una cosiddetta runaway (Es. Dispute, litigi, guerre...). E’ facile osservare, ad esempio, nei conflitti coniugali l’escalation di un modello di frustrazione che i coniugi perseguono finché alla fine si fermano solo perché spossati fisicamente ed emotivamente; mantengono poi una tregua inquieta finché non si sono successivamente ristabiliti per affrontare lo scontro successivo. La patologia dell’interazione simmetrica è quindi caratterizzata da uno stato di guerra più o meno aperta o scisma.
In una relazione simmetrica sana i partner sono in grado di accettarsi a vicenda “come sono”, il che li porta alla fiducia e al rispetto reciproci ed equivale ad una conferma dei rispettivi sé davvero realistica. Quando i partner di una relazione simmetrica arrivano alla rottura, di solito si osserva che l’altro rifiuta piuttosto che disconfermare il sé dell’altro.
6.2 Complementarità rigida
Nelle relazioni complementari ci può essere la stessa conferma reciproca, sana e positiva. Le patologie delle relazioni complementari presentano invece caratteri del tutto diversi e tendenzialmente equivalgono a disconferme piuttosto che a rifiuti del sé dell’altro. Da un punto di vista psicopatologico sono quindi più importanti dei conflitti, più o meno aperti, dei rapporti simmetrici.
Nella relazione complementare un problema tipico è quello che P pone quando chiede che O confermi la definizione che P dà di sé e che è in contrasto col modo con cui O vede P. questo pone O in un dilemma assai singolare: deve cambiare la propria definizione del sé in una che faccia da complemento e quindi sostenga quella di P, perché è nella natura delle relazioni complementari che una definizione del sé si possa mantenere soltanto se il partner assume uno specifico ruolo complementare. Lo stesso modello di relazione può costituire in un certo periodo una conferma del sé e una disconferma in un periodo successivo (o prematuro) della storia naturale di una relazione. In psicoanalisi si parla di sadomasochismo, che si considera come il legame più o meno fortuito di due individui le cui formazioni del rispettivo carattere deviante si amalgamano a vicenda. In queste relazioni si osserva un crescente senso di frustrazione e di disperazione in uno o in entrambi i partner.
6.3
I modelli di relazione simmetrica e complementare si possono stabilizzare a vicenda e i cambiamenti da un modello all’altro sono importanti meccanismi omeostatici.
6.4
In molte relazioni il problema principale non è il contenuto della comunicazione, ciò che è accaduto, ma l’aspetto di relazione nelle regole del gioco.
6.5
L’importanza del contenuto diminuisce quando emergono i modelli di comunicazione. Nessuna asserzione, presa isolatamente, può essere one-up complementare, simmetrica, o qualsiasi altra cosa. Naturalmente, occorre la “risposta” del partner per “classificare” un dato messaggio. Non è dunque la natura delle asserzioni (considerate come entità individuali) ma il rapporto tra due o più “risposte” a definire quelle che sono le funzioni di comunicazione.
CAPITOLO IV
ORGANIZZAZIONE DELL’INTERAZIONE UMANA
1. Introduzione
Nel campo della comunicazione il concetto di modello rappresenta ripetizione o ridondanza di eventi.
2. Interazione come sistema
L’interazione può essere considerata come un sistema e la teoria generale dei sistemi ci aiuta a capire la natura dei sistemi interattivi. La Teoria Generale dei Sistemi non è soltanto una teoria dei sistemi della biologia, dell’economia e dell’ingegneria. Nonostante che le materie di cui si occupano presentino aspetti assai diversi, queste teorie dei sistemi particolari hanno in comune tante concezioni che hanno reso possibile sviluppare una teoria più generale la quale organizza i punti in comune in isomorfismi formali.
2.1
Le sequenze di comunicazione non sono <unità anonime in una distribuzione di sequenza>, ma la materia indiscibile di un processo in corso di cui ci interessano l’ordine e le interrelazioni che si verificano durante tutto un periodo di tempo. H. L. Lennard e A. Bernstein si sono espressi in questi termini: <Un sistema implica un certo lasso di tempo. Per sua natura un sistema è costituito da una interazione, e questo significa che un processo sequenziale di azione e reazione deve aver luogo prima che si possa descrivere qualsiasi stato del sistema o qualsiasi cambiamento di stato>.
2.2 Definizione di un sistema
Per cominciare possiamo rifarci alla definizione di sistema che hanno dato A. D. Hall e R. E. Fagen: <Un insieme di oggetti e di relazioni tra gli oggetti e tra i loro attributi>, in cui gli oggetti sono componenti o parti del sistema, gli attributi sono le proprietà degli oggetti, e le relazioni “tengono insieme” il sistema. Mentre gli oggetti possono essere degli individui, gli attributi che servono ad identificarli sono i loro comportamenti di comunicazione. I due studiosi precisano che <le relazioni dobbiamo considerare nel contesto di un dato insieme di oggetti dipendono dal problema in questione poiché vengono incluse le relazioni importanti o interessanti ed escluse quelle banali o irrilevanti. Decidere quali relazioni siano importanti e quali banali spetta alla persona che si occupa del problema, cioè la questione della banalità è relativa all’interesse che si ha per il problema>.
Qui l’aspetto che è importante non è il contenuto della comunicazione in sé, ma l’aspetto di relazione (“comando”) della comunicazione umana. Sono sistemi interattivi dunque due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione (o che si trovano a un livello tale per farlo).
2.3 Ambiente e sottosistemi
Quando si definisce un sistema è importante definire anche il suo ambiente. <L’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema [...] Ogni sistema dato si può ulteriormente suddividere in sottosistemi e gli oggetti che appartengono a un sottosistema si possono benissimo considerare che facciano parte dell’ambiente di un altro sottosistema>.
Che il concetto di sistema-ambiente e sistema-sottosistema sia così elusivo e flessibile spiega in gran parte l’efficacia che la teoria dei sistemi ha nello studio dei sistemi viventi (organici), perché <i sistemi organici sono aperti, cioè scambiano materiali, energie o informazione col loro ambiente. Un sistema è chiuso se non c’è alcuna immissione o emissione di energia in nessuna delle sue forme>.
Con lo sviluppo della teoria dei sottosistemi aperti gerarchicamente ordinati, non occorre più isolare artificialmente il sistema dal suo ambiente: essi si compenetrano all’interno della stessa struttura teorica.
3. Proprietà dei sistemi aperti
3.1 Totalità
Ogni parte di un sistema è in rapporto tale con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema. Vale a dire, un sistema non si comporta come un semplice composto di elementi indipendenti, ma coerentemente come un tutto inscindibile. Se le variazioni di una parte non influenzano le altre o il tutto, è allora chiaro che le parti non dipendono allora l’una dall’altra e costituiscono invece un “agglomerato” (heap) che non ha una complessità maggiore di quella che risulta dalla somma dei suoi elementi. La sommatività e la totalità si trovano dunque ai due poli di un continuum ipotetico e si può affermare che un qualche grado di totalità caratterizza sempre i sistemi.
3.1.1
La non-sommatività in quanto corollario della nozione di totalità ci offre una guida negativa per definire un sistema. Un sistema non può essere fatto coincidere con la somma delle sue parti; infatti, l’analisi formale di segmenti isolati artificialmente distruggerebbe l’oggetto stesso dell’interesse. E’ necessario trascurare le parti per la Gestalt e fare attenzione a ciò che ne sostanzia la complessità, che è l’organizzazione. Il concetto psicologico di Gestalt è soltanto un modo per esprimere il principio di non-sommatività; in altri campi si nutre un grande interesse per la “qualità emergente” (emergent quality) che scaturisce dall’interrelazione di due o più elementi. Quando si considera l’interazione come la conseguenza di certe “proprietà” individuali (ruolo, valori, aspettazioni e motivazioni) il composto –due o più individui che interagiscono- è una pura somma, un “agglomerato” che si può spezzare in unità più fondamentali (individuali). Per contro, quel che consegue dal primo assioma della comunicazione –secondo cui ogni comportamento è comunicazione e quindi non si può non-comunicare- è che le sequenze di comunicazione sono reciprocamente inscindibili; in breve, che l’interazione è non-sommativa.
3.1.2
Un’altra teoria dell’interazione contraddetta dal principio di totalità è quella dei rapporti unilaterali tra elementi, cioè che A può influenzare B ma non viceversa. Asserire che il comportamento di A provoca il comportamento di B vuol dire negare l’effetto del comportamento di B sulla reazione di A; in realtà, è come distorcere la cronologia degli eventi punteggiando certi rapporti a tratto forte e oscurandone altri. Quando la relazione è complementare è facile perdere la totalità dell’interazione e spezzettarla in unità indipendenti e linearmente causali.
3.2 Retroazione
L’unione delle parti di un sistema non è dovuta quindi né ai rapporti unilaterali, né a quelli sommativi. Dall’avvento della cibernetica e dalla “scoperta” della retroazione, ci si è resi conto che una correlazione circolare e assi complessa è un fenomeno notevolmente diverso ma non meno scientifico delle nozioni causali più semplici e più ortodosse. Retroazione e circolarità sono il modello causale appropriato per la teoria dei sistemi interattivi.
3.3 Equifinità
In un sistema circolare e autoregolantesi, i “risultati” non sono determinati tanto dalle condizioni iniziali quanto dalla natura del processo o dai parametri del sistema. Secondo il principio di equifinalità gli stessi risultati possono avere origini diverse perché ciò che è determinante è la natura dell’organizzazione. <Il principio di equifinalità caratterizza lo stato stazionario dei sistemi aperti; ciò, contrariamente a quanto si verifica nei sistemi chiusi dove sono le condizioni iniziali a determinare lo stato di equilibrio, nei sistemi aperti soltanto i parametri del sistema determinato lo stato che è indipendente (anche temporalmente) dalle condizioni iniziali>. Se il comportamento equifinale dei sistemi aperti è basato sulla loro indipendenza dalle condizioni iniziali, allora non soltanto condizioni iniziali diverse possono produrre lo stesso risultato finale ma risultati diversi possono essere prodotti dalle stesse “cause”. E’ un corollario che poggia anch’esso sulla premessa che i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni iniziali.
Il comportamento tradizionalmente classificato come “schizofrenico” non venga più reificato ma piuttosto studiato soltanto nel contesto interpersonale in cui si attua –la famiglia, l’istituzione- dove risulta chiaro che questo comportamento non è semplicemente né il risultato né la causa delle condizioni ambientali, di solito strane, ma la parte complessamente integrata di un sistema patologico in corso.
Infine, una delle caratteristiche più significative dei sistemi aperti è il comportamento equifinale, che contrasta in modo particolare con il modello del sistema chiuso. Lo stato finale del sistema chiuso è completamente determinato dalle circostanze iniziali per cui possiamo sostenere che esse sono la migliore “spiegazione” di quel sistema. Ma, nei sistemi aperti, le caratteristiche organizzative del sistema possono operare in modo da ottenere –ed è il caso limite- anche l’indipendenza totale dalle condizioni iniziali: il sistema è in tal caso la propria migliore spiegazione e lo studio della sua organizzazione attuale la metodologia appropriata.
Unità basilare costituita di un’unica entità, considerata isolatamente. Qui si usa per denotare l’individuo fuori dal suo nesso di comunicazione; si contrappone a diade e triade.
F. H. George
W. R. Ashby
J. Ruesch, G. Bateson
W. James
A. R. Lee
Qui occorre sottolineare che un modello è informazione trasmessa dal verificarsi di certi eventi e dal non-verificarsi di altri. Se tutti i possibili eventi di una data classe si verificano a caso, non si ha nessun modello e nessuna informazione.
L. K. Frank
H. L. Lennard, A. Bernstein
A. D. Hall, R. E. Fagen
A. D. Hall, R. E. Fagen
A. D. Hall, R. E. Fagen
A. D. Hall, R. E. Fagen
L. Von Bertalanffy
4. Sistemi interattivi in corso
I sistemi caratterizzati dalla stabilità sono quelli con “stato stazionario”. Secondo A. D. Hall e R. E. Fagen, <un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro i limiti definiti>.
4.1 Relazioni in corso
E’ quasi inevitabile che un simile livello di analisi concentri l’attenzione sulle relazioni in corso, cioè su quelle che sono a.) importanti per entrambe le parti e b.) di lunga durata.
4.1.1
In una visione globale non si può ignorare il perché dell’energia e dello scopo (pulsione e bisogni, in termini psicologici), ma non si può neppure ignorare la natura dell’operazione, il come.
4.2 Limitazione
Esistono dei fattori identificabili, intrinseci al processo di comunicazione che servono a legare e a perpetuare una relazione.
In via sperimentale questi fattori si possono far rientrare nella nozione di effetto limitante della comunicazione, tenendo presente che in una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive. Il contesto può essere più o meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni contingenti. Definire una relazione come simmetrica o complementare oppure imporre una punteggiatura particolare sono atti che in linea di massima limitano la persona che ci sta di fronte. Vale a dire, non è soltanto il trasmettitore ma anche la relazione (che include il ricevitore) a risentire di questo modo di considerare la comunicazione.
4.3 Regole di relazione
In ogni comunicazione i partecipanti si danno a vicenda delle definizioni della loro relazione, o per dirla con più precisione, ciascuno cerca di determinare la natura della relazione. Analogamente, ciascuno risponde con quella che è la sua definizione della relazione, la quale può confermare, rifiutare o modificare la definizione che ha dato l’altro. E’ un processo che garantisce la massima attenzione, poiché in una relazione in corso non si può certo lasciarlo irrisolto o fluttuante. Se il processo non si stabilizzasse, le grandi variazioni che si verificherebbero e l’impaccio che ne conseguirebbe, per non dire che i partecipanti non sarebbero in grado di definire di nuovo la relazione ad ogni scambio, porterebbero alla runaway e alla dissoluzione della relazione. Le famiglie patologiche, sono l’esempio più evidente di questa necessità.
D. D. Jackson ha dato il nome di regola della relazione allo stabilizzarsi delle definizioni della relazione stessa. Si nota la tendenza a circoscrivere al massimo entro una configurazione ridondante i comportamenti possibili di qualunque particolare dimensione, il che ha spinto ulteriormente lo studioso a caratterizzare le famiglie come sistemi governati da regole. E’ evidente che questo non vuol dire che leggi a priori governano il comportamento della famiglia.
4.4 Famiglia in quanto sistema
La teoria delle regole di famiglia non è certo in contrasto con la definizione di sistema secondo cui un sistema è stabile rispetto a certe sue variabili se tali variabili tendono a restare entro limiti definiti.
D. D. Jackson ha proposto un modello simile per l’interazione della famiglia quando ha elaborato il concetto di omeostasi familiare. Osservò che le famiglie di pazienti psichiatrici manifestavano ripercussioni violente (Es. Depressione, attacchi psicosomatici...) quando il paziente migliorava, per cui postulò che tali comportamenti e forse anche la malattia del paziente erano “meccanismi omeostatici” che operavano per restituire al sistema disturbato il suo precario equilibrio.
4.4.1 Totalità
Il comportamento di ogni individuo all’interno della famiglia è in rapporto con il comportamento di tutti gli altri membri. Quando il membro della famiglia identificato come paziente ha un miglioramento o un peggioramento, di solito questi suoi cambiamenti hanno un effetto sugli altri membri della famiglia.
4.4.2 Non-sommatività
L’analisi di una famiglia non è la somma delle analisi dei suoi membri individuali. Molte “qualità individuali” dei membri, soprattutto il comportamento sintomatico, sono in realtà proprie del sistema.
Secondo W. F. Fry i sintomi di un dei partner sembrano proteggere il coniuge e a sostegno di questa tesi fa notare che l’inizio dei sintomi è tipicamente in correlazione con un cambiamento nella situazione di vita del coniuge, un cambiamento che potrebbe essere una fonte di ansia per il coniuge. Il modello interattivo e il problema caratteristico di queste coppie lo studioso lo definisce “controllo duale”.
<Di solito il matrimonio è infelice e i coniugi freddi e insoddisfatti, ma i sintomi adempiono alla funzione di mantenere unita la coppia. Si potrebbe definire coatto questo tipo di matrimonio...>.
4.4.3 Retroazioni e omeostasi
Il sistema familiare reagisce ai dati in ingresso (azioni dei membri della famiglia o circostanze ambientali) e li modifica. Si deve considerare la natura del sistema e dei suoi meccanismi di retroazione come pure la natura dei dati in ingresso (equifinalità).
Il termine omeostasi equivale ormai a stabilità o a equilibrio, non soltanto quando lo si applica alla famiglia ma anche in altri campi. Ma esistono due definizioni di omeostasi:
- in quanto fine, o stato, specificamente il fatto che esiste una certa costanza di fronte al cambiamento (esterno);
- in quanto mezzo: i meccanismi di retroazione negativa che agiscono per minimizzare il cambiamento.
Attualmente è più chiaro far riferimento allo stato stazionario o alla stabilità di un sistema, che in genere è mantenuta da meccanismi di retroazione negativa.
A caratterizzare tutte le famiglie che rimangono unite deve esserci qualche grado di retroazione negativa che consente loro di resistere alle tensioni imposte dall’ambiente e dai singoli membri. Le famiglie disturbate sono particolarmente refrattarie al cambiamento e spesso dimostrano una notevole capacità di mantenere lo status quo mediante una retroazione prevalentemente negativa.
Ma nelle famiglie esiste anche un processo di apprendimento e di crescita, ed è proprio qui che un modello di pura omeostasi compie gli errori maggiori, perché questi effetti sono più vicini alla retroazione positiva.
4.4.4 Calibrazione e funzioni a gradino
L’analogia classica col termostato della caldaia per il riscaldamento illustrerà i termini di “calibrazione” e “funzione a gradino”. Il termostato viene regolato, o calibrato, per una certa temperatura della stanza, le fluttuazioni al di sotto di tale temperatura attiveranno la caldaia finché la deviazione non viene corretta (retroazione negativa) e la temperatura della stanza non è di nuovo entro l’ambito della calibrazione. Si consideri però che cosa accade quando si cambia la messa a punto del termostato –cioè quando viene regolato per una temperatura più alta o più bassa-; è chiaro che il comportamento del sistema nel suo insieme è diverso anche se il meccanismo di retroazione negativa resta esattamente lo stesso. Questo cambiare la calibrazione, così come il cambiare la messa a punto del termostato o le marce di un’automobile sono “funzioni a gradino”.
Occorre rilevare che una funzione simile ha un effetto stabilizzatore. Inoltre, le funzioni a gradino consentono di ottenere effetti che sono maggiormente adattativi. Per il circuito di retroazione conducente-acceleratore-velocità della macchina esistono precisi limiti per ciascuna marcia, il che rende necessaria una ricalibrazione (cambio di marcia) per accrescere la velocità o per salire una collina. Sembra che anche nelle famiglie le funzioni a gradino abbiano un effetto stabilizzatore: la psicosi è un brusco cambiamento che ricalibra il sistema e può persino essere adattivo. Cambiamenti interni che praticamente sono inevitabili (l’età e la maturazione sia dei genitori che dei figli) possono cambiare la messa a punto di un sistema, sia gradatamente dall’interno sia drasticamente dall’esterno quando l’ambiente sociale incide su questi cambiamenti. E alla fine può portare a una nuova messa a punto del sistema (funzione a gradino).
5. Sommario
Abbiamo descritto l’interazione umana come un sistema di comunicazione, caratterizzato dalle proprietà dei sistemi generali: il tempo in quanto variabile, i rapporti sistema-sottosistema, la totalità, la retroazione, l’equifinalità. La limitazione in generale e lo sviluppo delle regole familiari in particolare ci hanno portato a definire e illustrare la famiglia come un sistema governato da regole.
CAPITOLO V
ANALISI DELLA COMMEDIA “CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF?” IN TERMINI DI COMUNICAZIONE
1. Introduzione
Le ragioni principali che ci hanno fatto scegliere un sistema fittizio, quale una commedia, sono due:
- volevamo disporre di un materiale che fosse di proporzioni controllabili;
- volevamo che i dati di questo materiale fossero ragionevolmente indipendenti, indipendenti cioè dagli stessi autori, in atre parole che fossero pubblicamente accessibili.
I limiti dei dati presentati nella commedia di E. Albee sono stabiliti dalla licenza artistica, anche se è possibile che la commedia sia anche più reale della realtà; inoltre il lettore dispone di tutte le informazioni. Ne consegue che si può interpretare la commedia in molti modi.
1.1 Intreccio
L’azione vera e propria della commedia è assai limitata. Per lo più sono rapidi scambi verbali a creare il movimento.
Tutta l’azione si svolge durante le ore piccole di una domenica mattina nel soggiorno della casa di George e Martha, in un’università del New England. Martha è la figlia unica del rettore; suo marito, George, è professore incaricato nella facoltà di storia.
Quando la commedia comincia, George e Martha stanno tornando da una festa di facoltà che è stata data nella casa del rettore. Sono le due del mattino, ma all’insaputa di George, Martha ha invitato ad unirsi a loro una coppia conosciuta alla festa, Nick e Honey. Questi ultimi mantengono sempre uno stile di comunicazione fin troppo convenzionale.
George e Martha hanno i loro segreti. C’è innanzitutto un fatto singolare: collaborano a mantenere in vita la fantasia di avere un figlio che sta per diventare maggiorenne, e rispettano la regola su questo figlio immaginario, cioè non svelare a nessuno la sua “esistenza”. C’è poi un’altro fatto strano, un capitolo molto triste nella vita di George. Sembra che accidentalmente abbia colpito a morte sua madre con un colpo di fucile e un anno dopo mentre imparava a guidare con l’auto del padre abbia perso il controllo della macchina e il padre sia morto nell’incidente.
Il primo atto è intitolato “Giochi e divertimento” e ci presenta il rissoso stile verbale della coppia, l’argomento del figlio mitico e le pose da seduttrice (stereotipate) che Martha ostenta nei confronti di Nick. Il climax è raggiunto con un attacco sarcastico di Martha al fallimento professionale di George.
L’atto secondo, “Sabba delle Streghe”, comincia con George e Nick che sono rimasti soli nella stanza e fanno quasi gara a farsi le confidenze –George che parla della morte dei suoi genitori, sebbene la presenti camuffata come la storia di una terza persona, e Nick che spiega le ragioni del suo matrimonio. Quando le donne ritornano, Martha comincia a ballare sfacciatamente con Nick per sfidare George. Si passa al primo gioco, etichettato apertamente “Umiliare il padrone di casa”. Martha rivela agli ospiti come sono morti i genitori del marito, dopo di che lui la picchia. Poi George comincia il gioco successivo, “Prendete di mira gli ospiti”, e svela il segreto del matrimonio imposto dalla falsa gravidanza, mortificando profondamente Nick e suscitando l’orrore di Honey. Le conseguenze sono amare: Martha e George si sfidano ancora e si danno ancora battaglia. Il gioco successivo è “Saltare sulla padrona di casa”, che porta Martha a sedurre Nick apertamente, ma la capacità di collaborazione del giovanotto risulta menomata da tutto quello che ha bevuto a cominciare dalla sera prima.
L’atto terzo, “L’esorcismo”, si apre con Martha che è rimasta sola e rimpiange (e se ne rammarica) il suo tentativo sfortunato di essere infedele. Frattanto George ha preparato l’ultimo gioco, “Alleviamo il bambino”, e riunisce gli altri per lo scontro finale. Rivela tutta la storia del mito che hanno creato sul figlio e poi annuncia a Martha, arrabbiata e indifesa, che il ragazzo è rimasto ucciso in un incidente automobilistico. Nick e Honey se ne vanno e la commedia finisce con una nota di spossatezza e ambiguità che non chiarisce se George e Martha continueranno a giocare ai genitori che lamentano la morte del loro unico figlio nel fiore della giovinezza, oppure se è diventato possibile un cambiamento completo dei loro modelli di relazione.
2. Interazione come sistema
Si può sostenere che i personaggi della commedia, soprattutto George e Martha, costituiscano un sistema interattivo caratterizzato, mutatis mutandis, da molte proprietà generali dei sistemi.
2.1 Tempo e ordine, azione e reazione
G. Bateson ha definito la psicologia sociale come <lo studio delle reazioni degli individui alle reazioni di altri individui>, aggiungendo che <occorre considerare non soltanto le reazioni di A al comportamento di B, ma considerare anche come queste reazioni influenzano il comportamento successivo di B e l’effetto che tale comportamento ha su A> -come Martha reagisce a George e come George reagisce a Martha-. Queste operazioni si accumulano durante periodi di tempo abbastanza ampi e assumono un ordine che, sebbene astratto, include però in sostanza processi sequenziali.
2.2 Definizione del sistema
Se ci limitiamo a concentrare l’attenzione sul contenuto di ciò che le persone si comunicano a vicenda, allora spesso sembra che manchi quasi del tutto ogni continuità nella loro interazione.
E. Albee intitola il primo atto “Giochi e divertimento”: per tutta la commedia vengono eseguiti giochi di relazione, le cui regole sono di continuo invocate, seguite e violate. Si tratta di giochi spaventosi, del tutto privi di caratteristiche giocose, e le loro regole sono la loro spiegazione migliore.
Sembra che George e Martha siano così presi nella loro lotta di relazione che il contenuto dei loro insulti non arrivi a toccarli personalmente (tanto è vero che Martha non permette a Nick di dire a George le stesse cose che dice lei né di interferire nel loro gioco; sembra che essi si rispettino a vicenda nel sistema.
2.3 Sistemi e sottosistemi
La diade George-Martha è il centro della commedia e quindi del commento che si può fare su di essa. Ma George e Martha costituiscono un “sistema aperto”. Ciascuno di essi forma una sottodiade con Nick e con Honey. George, Martha e Nick formano un triangolo di diadi mobili. I quattro, considerati come un tutto, costituiscono il sistema totale e manifesto della commedia, sebbene la struttura non sia limitata ai personaggi presenti sulla scena ma coinvolga il figlio mitico, il padre di Martha e il milieu universitario.
3. Proprietà di un sistema aperto
Riteniamo di poter illustrare le caratteristiche generali dei sistemi soprattutto mettendole in contrasto con gli approcci individuali.
3.1 Totalità
Idealmente, vorremmo descrivere la Gestalt, la qualità emergente di questo complesso di personaggi. Quello che è George o Martha, individualmente, non spiega il “composto” che essi costituiscono né come l’hanno costituito. La totalità è una descrizione dei legami triadici sovrapponentisi di stimolo-risposta rinforzo che G. Bateson e D. D. Jackson hanno descritto. E’ dunque possibile a un altro livello descrivere la praticabilità del sistema, mettendo in giusta evidenza gli individui che cercano di adattare i loro comportamenti a tale sistema.
La sola differenza che c’è tra le recriminazioni di George e quelle di Martha è che lui l’accusa per la sua forza e lei lo accusa per la sua debolezza. Si tratta di un sistema di reciproca provocazione che nessuna delle due parti può fermare.
Secondo la punteggiatura che essi condividono è lei la parte attiva e lui quella passiva (sebbene attribuiscano valori diversi all’essere attivi e passivi; George ritiene di essere un uomo che sa ben controllarsi e Martha definisce debolezza un atteggiamento del genere). Ma è soltanto una tattica del gioco; il punto fondamentale è che essi stanno giocando insieme il loro gioco.
La necessità di sottolineare l’importanza della circolarità ci fa trascurare quelli che sono i loro pregi individuali e che in qualche modo li redimono.
3.2 Retroazione
In questo sistema i processi di retroazione corrispondono esattamente alla simmetria (retroazione positiva con deviazione amplificatrice) e alla complementarità (retroazione negativa, stabilizzatrice). La formula della competizione simmetrica “quel che sai fare tu lo so far meglio” porta inesorabilmente a una reazione maggiore della stessa provocazione con “risposte” che si accumulano su uno stato già in crescendo in proporzioni di runaway. Viceversa, quando in questo sistema si ha uno smistamento verso la complementarità di solito questo porta alla chiusura e alla cessazione almeno temporanea della lotta.
La metacomunicazione (che potrebbe essere uno stabilizzatore) dimostra di essere soggetta alla stessa regola di simmetria e –invece di fermare la conflagrazione- la fiamma ulteriormente.
3.3 Equifinalità
Quando si considera che un sistema si è sviluppato durante un periodo di tempo, ha raggiunto un certo stato, è passato da uno stato all’altro, si può spiegare in due modi assai diversi lo stato attuale del sistema. Un modo assai comune è quello di osservare il sistema oppure (e questo è un modo ancor più comune che diventa necessario quando si studiano le persone) di inferire le condizioni iniziali (eziologia, cause passate, storia) che si può presumere abbiano portato alle condizioni attuali.
Il passato non è disponibile se non in quanto riferito al presente per cui il passato non è un puro contenuto ma ha anche un suo aspetto di relazione. Il passato può anche fornire il materiale per il gioco di George e Martha, dal momento che fa la sua comparsa in una interazione reale che si svolge nel presente. Ma per capire la loro interazione è più importante osservare come il materiale viene usato e che tipo di relazione viene stabilita piuttosto che appurare la verità del materiale o stabilire se è selezionato o distorto.
4. Sistema interattivo in corso
Occorre tracciare uno schema delle regole e delle tattiche del gioco interattivo di George e di Martha.
4.1
Si può descrivere il loro gioco come una escalation simmetrica: ciascuno sta al passo con l’altro o cerca di superarlo, dipende da chi stabilisce la punteggiatura. In ogni scontro, il contenuto è sempre diverso, ma la struttura è praticamente la stessa; quando scoppiano a ridere insieme significa che hanno raggiunto una momentanea stabilità. Ma basta che uno impartisca all’altro il minimo ordine per provocare una nuova lotta, con l’altro che subito rende la pariglia per ristabilire una situazione di parità.
Si noti che George e Martha non fanno nient’altro che darsi ordini o controllarsi a vicenda, anche se tutti e due si guardano bene dall’eseguire un ordine o dal prendere in considerazione una qualsiasi iniziativa dell’altro.
Se George ha un comportamento corretto oppure accetta la posizione one-down, Martha lo definisce rammollito oppure (e magari ne ha motivo) sospetta una trappola.
La tattica fa parte del gioco; sebbene George e Martha abbiano uno stile ben diverso, mostrano tuttavia una grande coerenza e non c’è dubbio che le loro rispettive tattiche siano interdipendenti.
Essi lottano a livelli completamente diversi, cosa che realtà impedisce la chiusura o la risoluzione: le stesse tattiche servono non soltanto ad eseguire il gioco ma anche a perpetuarlo.
Che ci sia instabilità in un tale stato di cose è inevitabile. Il comportamento aggressivo di Martha può spingersi oltre certi limiti e in queste occasioni George si mette al suo livello, come nel caso limite (“Umiliare il padrone di casa”) in cui Martha rivela il parricidio e il matricidio che si suppongono immaginari e George passa alle vie di fatto.
Dopo George suggerisce la variazione che li terrà occupati fino allo scioglimento finale. Si tratta di un gioco di coalizioni, “Saltare sulla padrona di casa”, che richiede la partecipazione di Nick. Ora, aggiungere un terzo componente ad un’interazione già aggrovigliata aumenta notevolmente la complessità del gioco. Finora l’uso degli ospiti era stato soltanto di quasi-coalizione; erano serviti da sfondo, per così dire, per i colpi di George e di Martha. In questo penultimo scontro –quello della violenza su Martha-, però, il terzo componente è coinvolto più direttamente. Poiché Nick ad un primo momento non sta al gioco, George pone le basi per farlo partecipare ricorrendo ad un altro gioco, “Prendete di mira gli ospiti”, e dopo questo gioco Nick è pronto.
Gli eventi che si scatenano poi sono sempre conformi alle regole fondamentali –e alle rispettive tattiche- di Martha e di George. L’obiettivo della lotta resta sempre quello di denigrare l’altro. Quando Martha minaccia di tradirlo, George annuncia tranquillamente che ha intenzione di leggere un libro. Ora Martha ha davanti a sé due alternative: fermare il suo gioco o continuarlo per vedere fino a che punto George dice seriamente quello che dice. Sceglie la seconda alternativa e comincia a baciare Nick. George è immerso nella sua lettura e non raccoglie la provocazione; ciò porta poi Martha a disgustare il proprio comportamento.
4.1.1
Il gioco di George e Martha non è soltanto un conflitto aperto che ha per unico scopo la distruzione dell’altro. Negli aspetti generali, sembra piuttosto che si tratti di un conflitto collaborativo o di una collaborazione conflittuale. Usano regole che qualificano la regola fondamentale della simmetria e –all’interno del gioco- assegnano un valore alla vittoria (o alla sconfitta); senza tali regole, vittoria o sconfitta sono prive di significato.
Dopo il disinteresse di George verso le provocazioni di Martha per Nick, Nick stesso e Honey appaiono ancora più sbiaditi. Nessuno dei due riesce a diventare un sotto-partner adatto per questo gioco; Nick delude Martha non tanto per l’inefficienza sessuale ma per la sua passività e mancanza di fantasia; e sembra che anche George –che a volte sottopone Nick a dure prove come se fosse il suo allenatore- lo trovi un avversario mediocre.
George e Martha trovano l’uno nell’altro una certa forza, una capacità di portare tutto nel gioco senza paura. Nell’ultimo atto, George si unisce a Martha nel ridicolizzare Nick, anche se il materiale dello scherzo sono proprio le sue corna.
Questa audacia impietosa si trova anche nel loro portare le cose al limite della rottura totale (brinkmanship) quando superare o “prendere di mira” l’altro richiede sempre meno costrizione e sempre più fantasia.
Come la loro rivalità ha aspetti sessuali, anche il loro comportamento sessuale è rivalità, e quando Martha insiste con le sue advances dirette, George si oppone; lei non cede e alla fine lui conseguirà una “vittoria di Pirro” respingendola e criticando la sua scorrettezza (perché gli ospiti sentano) del suo comportamento.
Quindi lo stile che condividono costituisce un’ulteriore restrizione, un’altra regola del loro gioco. Inoltre, è evidente che nell’eccitazione del rischio c’è qualche conferma reciproca dei loro sé.
4.2 Figlio
M. Muggeridge ritiene che <la commedia si disintegri nel terzo atto, quando viene sviluppata la faccenda deplorevole del figlio immaginario>; e H. Taubman contesta che: <E. Albee vorrebbe farci credere che per ventun anni la coppia più anziana ha alimentato la fantasia di avere un figlio, che l’esistenza di questo figlio è un segreto che con la stessa violenza li lega e li divide e che l’annuncio della sua morte da parte di George possa essere un elemento risolutore. Questa parte della storia non suona vera, e la sua falsità indebolisce la credibilità dei personaggi centrali>. Questa è una situazione di folie à deux, in cui un partner distorce la realtà e l’altro condivide tale esperienza. A. Ferreira ha fatto riferimento al “mito familiare”.
In nessun luogo della commedia E. Albee fa capire che George e Martha credono “veramente” di avere un figlio. Quando parlano di questo, è evidente che ne parlano in modo impersonale perché fanno riferimento non ad una persona ma al mito stesso. La distinzione tra il “figlio” e il “gioco del figlio” è così costantemente mantenuta che è impossibile presumere che essi credano, in senso letterale, di avere un figlio. A. Ferreira osserva in proposito: <Il mito familiare rappresenta un punto fermo, un nodo della relazione. Attribuisce i ruoli e prescrive il comportamento che, a sua volta, rafforzerà e consoliderà quei ruoli [...] Il mito costituisce, per il solo fatto che esiste, un frammento di vita, un pezzo di realtà che si pone di fronte –e quindi dà una forma- a ogni bambino che sia nato in esso ed a ogni estraneo che lo abbia sfiorato>.
Mentre il figlio è immaginario, non è affatto immaginaria l’interazione di George e di Martha su di lui. Il requisito primario dell’interazione sul figlio è che George e Martha siano coalizzati; essi debbono restare uniti per portare avanti la fantasticheria sul figlio, contrariamente a quanto avrebbero fatto se avessero avuto un figlio vero che ovviamente ha una sua esistenza concreta, una volta procreato. Spostando un poco l’obiettivo, si deve riconoscere che è solo in questa zona che essi possono essere uniti e collaborare senza competere. Il loro mito del figlio è un meccanismo omeostatico. In quella che sembra essere la zona centrale della loro vita si ritrovano coalizzati e hanno un rapporto simmetrico stabile. Ci sono buone ragioni per supporre che un figlio vero avrebbe dovuto affrontare lo stesso compito. <Il mito familiare viene chiamato in causa ogni volta che certe tensioni raggiungono soglie predeterminate tra i membri della famiglia e che in qualche modo –nella realtà o nella fantasia- minacciano di smembrare le relazioni in corso [...] Come ogni altro meccanismo omeostatico, il mito impedisce che il sistema familiare danneggi e forse distrugga se stesso. Ha perciò le qualità di ogni “valvola di sicurezza”, cioè è una valvola di sopravvivenza [...] Tende a mantenere e talvolta anche ad aumentare il livello di organizzazione della famiglia istituendo modelli che si perpetuano con la circolarità e l’autocorrezione caratteristici di ogni meccanismo omeostatico>.
Anche i figli reali possono sia rimediare che giustificare una matrimonio. Però la commedia non si occupa di tale uso del mito, ma piuttosto del processo di distruzione del mito.
Nelle prime battute della commedia, George dice di non nominare il figlio davanti agli altri. Ma c’è una “regola” più elevata –tutto il loro gioco-, secondo cui nessuno permetterà all’altro di determinare il proprio comportamento; di conseguenza, ogni ordine deve essere squalificato e disobbedito. George alla fine distruggerà il figlio sostenendo che era implicito che entrambi ne avessero il diritto.
Il processo cui assistiamo è dunque l’inizio di una runaway simmetrica che alla fine porta alla distruzione di un modello di relazione di lunga durata. La commedia non definisce un nuovo modello, le nuove regole, descrive semplicemente la sequenza di stati attraverso cui il vecchio modello procede verso la propria distruzione.
A. Ferreira riassume in modo assai persuasivo la situazione nei termini del mito familiare e ne prevede una soluzione: <Un mito familiare favorisce importanti funzioni omeostatiche nella relazione [...] Forse meglio che in qualunque altro luogo, le funzioni del mito familiare vengono alla ribalta nella nota commedia di E. Albee, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, dove un mito familiare di proporzioni psicotiche domina tutta l’azione. Per tutta la commedia, moglie e marito, parlano, litigano e piangono per un figlio assente. In un’orgia di insulti, disputano su ogni aspetto della vita del figlio. Però in seguito veniamo a sapere che il figlio è fittizio, una sorta di patto tra i coniugi, una favola, un mito (che hanno coltivato insieme). Al culmine della commedia, il marito, ribollendo di rabbia, annuncia che il figlio è morto. Con questo gesto, naturalmente, egli “uccide” il mito. Tuttavia la loro relazione continua (apparentemente indisturbata da quest’annuncio) e non trapela nessuna intenzione di un cambiamento che la intralci o ne provochi la dissoluzione. In realtà nulla è cambiato. Perché il marito ha distrutto il mito del figlio vivente solo per iniziare il mito del figlio morto. E’ ovvio che il mito familiare si sia evoluto sotto l’aspetto contenutistico che è forse diventato più complesso, più “psicotico”, ma si ritiene che la sua funzione sia rimasta intatta, come lo è rimasta la loro relazione>. D’altro canto, forse la morte del figlio è una ricalibrazione, un cambiamento che ha una funzione a gradino per un nuovo livello operativo.
4.3 Metacomunicazione tra George e Martha
Nella misura in cui George e Martha parlano o tentano di parlare sul loro gioco, metacomunicano all’interno della commedia stessa. Può sembrare cioè che i numerosi riferimenti che fanno alle regole dei giochi –che nominano e citano di continuo- li rendano una coppia inconsueta il cui modello d’interazione è fondamentalmente una preoccupazione ossessivo-coatta di eseguire e di etichettare giochi bizzarri e crudeli. Ma questo implica sia che il loro comportamento di gioco è pienamente intenzionale –o governato da metaregole diverse- sia quindi che forse i loro principi non possono essere applicati ad altre coppie, soprattutto a quelle reali. La natura della loro metacomunicazione riguarda direttamente tale problema perché anche la loro comunicazione sulla loro comunicazione è soggetta alle regole del loro gioco.
Il primo scambio di metacomunicazione indica quanto ciascuno consideri in modo diverso l’interazione e come si arrivi subito a formulare accuse reciproche di follia o di cattiveria quando sono rivelati tali modi diversi di considerare l’interazione.
Non c’è nulla che distingua la loro metacomunicazione dalla loro comunicazione ordinaria; un commento, una giustificazione, un ultimatum sul loro gioco non sono eccezioni alle regole del gioco e quindi non possono essere accettati o neanche ascoltati dall’altro. Anche alla fine, quando Martha –implorante e patetica- assume una posizione completamente one-down e prega ripetutamente George di fermarsi, il risultato è inesorabilmente lo stesso.
4.4 Limitazione della comunicazione
Ogni scambio di messaggi in una sequenza di comunicazione restringe il numero delle possibili mosse successive. La natura interdipendente del gioco di George e Martha, il mito che condividono, la simmetria che ha pervaso tutto il loro gioco sono esempi di quella limitazione stabilizzata che abbiamo definito regole di relazione.
Certi scambi tra George e Nick sono esempi di limitazione osservabili in un rapporto nuovo. Nick, con il suo comportamento iniziale e con le sue proteste, non vuole essere coinvolto nelle questioni di George e di Martha o nei loro litigi. Tuttavia vi è sempre più trascinato anche quando vuole restarne fuori. Il tentativo di non-comunicare di Nick lo porta ad essere profondamente coinvolto, anche se lo sforzo di George di convincere Nick ad accettare la sua (di George) punteggiatura e il gioco suo e di Martha finisce col dimostrare soltanto come egli (George) riesca a far infuriare gli altri.
4.5 Sommario
La descrizione di un sistema familiare artificiale abbastanza semplice richiede un’elaborazione di notevoli proporzioni, perché le variazioni contenutistiche che si verificano in base ad alcune regole di relazione sono innumerevoli e spesso estremamente dettagliate.
4.5.1
Si dice che un sistema è stabile rispetto a certe variabili se tali variabili restano entro limiti definiti; questo è vero anche per il sistema diadico di George e Martha. “Stabilità” può sembrare il termine meno appropriato per descrivere i loro giochi, ma il punto centrale si basa su variabili prefissate. Sarebbe estremamente difficile in un qualsiasi momento indovinare quello che accadrà tra George e Martha nel momento successivo. E invece abbastanza facile descrivere come accadrà. Perché le variabili che qui definiscono la stabilità sono quelle di relazione, non di contenuto, e secondo il modello della loro relazione George e Martha mostrano un ambito di comportamento estremamente ristretto.
4.5.2
Questo ambito di comportamento è la calibrazione, la “messa a punto” del loro sistema. La simmetria del loro comportamento definisce la qualità e il “limite più basso” assai sensibile di questo ambito (range), cioè raramente si registra un comportamento che non sia simmetrico e solo per periodi brevi. Il “limite più alto” è contrassegnato dal loro stile particolare, da certa retroazione negativa nella complementarità e dal mito del figlio che –poiché impegna tutti e due- pone un limite all’entità dei loro rispettivi attacchi e impone una simmetria ragionevolmente stabile. Ma anche entro l’ambito dei comportamenti simmetrici, George e Matha sono limitati: la loro simmetria è quasi esclusivamente quella del potlatch la cui caratteristica è la distruzione piuttosto che l’accumulazione o il compimento.
4.5.3
Con l’escalation che porta alla distruzione del figlio, il sistema è drammaticamente giunto al termine di quella che può essere una ricalibrazione, una funzione a gradino del sistema di George e di Martha. Essi hanno “scalato” quasi senza limitazione finché non hanno distrutto le loro stesse limitazioni. A meno che il mito del figlio non continui nel modo che suggerisce A. Ferreira, è necessario un nuovo ordine interattivo.
CAPITOLO VI
COMUNICAZIONE PARADOSSALE
1. Natura del paradosso
Il paradosso non solo pervade l’interazione e influenza il nostro comportamento e la nostra salute mentale, ma sfida anche la nostra fede nella coerenza, e quindi nella fermezza ultima, del nostro universo. Il paradosso intenzionale ha un’importante potenziale terapeutico.
1.1 Definizione
Si può definire il paradosso come una contraddizione che deriva dalla deduzione corretta da premesse coerenti.
1.2 Tre tipi di paradosso
La prima classe riguarda le antinomie, che secondo W. Quine <producono un’autocontraddizione, in base alle regole accettate dal ragionamento>. W. Stegmüller è più specifico e definisce un’antinomia come un’asserzione che è sia contraddittoria che dimostrabile.
C’è poi una seconda classe di paradossi che differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici ma derivano piuttosto da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. Ci si riferisce a questo secondo gruppo come alle antinomie semantiche o definizioni paradossali.
Infine, c’è un terzo gruppo di paradossi che si presentano nelle interazioni e determinano il comportamento. Definiremo questo gruppo paradossi pragmatici che si possono dividere in ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.
Ecco quindi i tre tipi di paradossi:
- Antinomie = paradossi logico-matematici;
- Antinomie semantiche = definizioni paradossali;
- Paradossi pragmatici = ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali.
Il primo tipo corrisponde alla sintassi logica, il secondo alla semantica e il terzo alla pragmatica.
2. Paradossi logico-matematici
Il più famoso paradosso di questo gruppo è sulla “classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse”. Una classe è la totalità di tutti gli oggetti che hanno una certa proprietà. Quindi, ad esempio, la classe dei gatti contiene tutti i gatti, passati, presenti e futuri. Avendo stabilito questa classe, tutti gli altri oggetti che restano nell’universo si possono considerare la classe dei non-gatti, perché tutti questi oggetti hanno in comune una proprietà ben definita: essi non sono gatti. Ora ogni asserzione che implichi che un oggetto appartiene ad entrambe queste classi sarebbe una semplice contraddizione, perché nulla può essere nello stesso tempo gatto e non-gatto. Ma non è accaduto niente di straordinario: che ci sia questa contraddizione dimostra semplicemente che è stata violata una legge fondamentale della logica e che la logica stessa non ne soffre.
Lasciamo stare gatti e non-gatti individuali e salendo ad un livello logico più elevato, cerchiamo di capire che cosa sono le classi. E’ evidente che esse possono essere o non essere membri di se stesse. La classe di tutti i concetti, per esempio, è ovviamente essa stessa un concetto, mentre la nostra classe di gatti non è essa stessa un gatto. Dunque, a questo secondo livello, l’universo è ancora diviso in due classi, quelle che sono membri di se stesse e quelle che non lo sono. Inoltre, ogni asserzione che implichi che una di queste classi è e non è membro di se stessa equivarrebbe ad una semplice contraddizione da mettere da parte senza pensarci ulteriormente.
Chiamiamo M le classi che sono membri di se stesse e N le classi che non sono membri di se stesse. Non dimentichiamo che la divisione dell’universo in classi che contengono se stesse (self-membership) e in classi che non contengono se stesse (non self-membership) è esaustiva; non ci possono essere, per definizione, eccezioni di sorta. Quindi se la classe N è membro di se stessa, non è un membro di se stessa, perché N è la classe delle classi che non sono membri di se stesse. D’altra parte, se N non è membro di se stessa, allora soddisfa la condizione di contenere se stessa: è un membro di se stessa proprio perché non è membro di se stessa, perché il non-contenere se stessa è la distinzione essenziale di tutte le classi che compongono N. Questa non è una semplice contraddizione, ma una vera antinomia, perché il risultato paradossale si basa su una rigorosa deduzione logica e non sulla violazione delle leggi della logica.
In realtà si tratta di una fallacia. B. Russell l’ha resa evidente con la sua teoria dei tipi logici. Per dirla assai in breve, questa teoria postula il principio fondamentale che <qualunque cosa comprenda tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione>. Dunque, dire che la classe di tutti i concetti è essa stessa un concetto non è falso, ma privo di significato.
3. Definizioni paradossali
Non sono identici il “concetto” ad un livello più basso (membro) e il “concetto” al livello più elevato immediatamente successivo (classe). Eppure si usa lo stesso nome, “concetto”, sia per membro che per classe e in tal modo l’identità linguistica crea un equivoco. Per evitare questa insidia, si debbono usare indicatori di tipo logico –indici nei sistemi formalizzati, virgolette o corsivi negli altri casi- dovunque esista la possibilità di una confusione dei livelli.
Forse la più famosa delle antinomie semantiche è quella dell’uomo che dice di se stesso: <Io sto mentendo>. Se seguiamo questa asserzione fino alla conclusione logica, troviamo che è vera soltanto se non è vera. In questo caso, non si può più usare la teoria dei tipi logici per eliminare l’antinomia, perché le parole o le combinazioni di parole non hanno una gerarchia di tipo logico.
Ogni linguaggio ha, come dice L. Wittgenstein, <una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura, e che una tale gerarchia di linguaggi può non avere alcun limite>. E’ un’idea che è stata sviluppata, soprattutto da R. Carnap e da A. Tarski, in una teoria che ora è nota come la teoria dei livelli di linguaggio. Per analogia con la teoria dei tipi logici, questa teoria salvaguarda della confusione dei livelli. Postula che al livello più basso del linguaggio le asserzioni vengono fatte sugli oggetti. Questo è il regno del linguaggio oggetto. Ma nel momento in cui vogliamo dire qualcosa su questo linguaggio, dobbiamo usare un metalinguaggio, e un metametalinguaggio se vogliamo parlare su questo metalinguaggio, e così via in una catena regredente teoricamente infinita.
Applicando questo concetto dei livelli di linguaggio all’antinomia semantica del mentitore, ci si rende conto che la sua asserzione, sebbene sia costituita soltanto di tre parole, contiene due asserzioni, una al livello-oggetto, l’altra al metalivello e dice qualcosa su quella al livello-oggetto, cioè che non è vera. Al tempo stesso, quasi con un gioco di prestigio, si indica che questa asserzione nel metalinguaggio è essa stessa una delle asserzioni su cui s’è fatta la meta-asserzione, che è essa stessa un’asserzione nel linguaggio oggetto. Nella teoria dei livelli di linguaggio questo genere di riflessività delle asserzioni che implicano la propria verità o falsità sono l’equivalente del concetto di self-membership di una classe nella teoria dei tipi logici; entrambe sono asserzioni prive di significato.
4. Paradossi pragmatici
4.1 Ingiunzioni paradossali
H. Reichenbach tratta il paradosso del barbiere. Questo è un soldato a cui viene ordinato dal capitano di radere tutti i soldati della compagnia che non si radono da soli, ma nessun altro. Naturalmente, H. Reichenbach giunge alla sola conclusione logica che <non esiste un barbiere simile a quello della compagnia, nel senso che abbiamo precisato>.
Gli elementi essenziali di questo caso sono i seguenti:
- una forte relazione complementare (ufficiale e subordinato);
- entro lo schema di questa relazione, viene data un’ingiunzione che deve essere obbedita ma deve essere disobbedita per essere obbedita (l’ordine definisce il soldato come uno che si rade da solo se e soltanto se egli non rade se stesso, e viceversa);
- la persona che in questa relazione è nella posizione one-down non è in grado di uscir fuori e quindi di dissolvere il paradosso commentandolo, cioè metacomunicando su di esso (sarebbe un atteggiamento di “insubordinazione”).
Una persona presa in una simile situazione è in una posizione insostenibile. Quindi, mentre da un punto di vista puramente logico un barbiere del genere non esiste e l’ordine del capitano è privo di significato, nella vita reale la situazione appare assai diversa.
4.2 Esempi di paradossi pragmatici
ESEMPIO 1
Scrivere <Chicago è una città popolosa>, sintatticamente e semanticamente è corretto. Ma è sbagliato scrivere <Chicago è trisillaba>, perché in tal caso si devono usare le virgolette: <“Chicago” è trisillaba>. La differenza tra questi due usi della parola sta nel fatto che nella prima asserzione la parola si riferisce ad un oggetto, mentre nel secondo la stessa parola si riferisce ad un nome (che è una parola) e quindi a se stessa. La prima asserzione è nel linguaggio oggetto, la seconda nel metalinguaggio.
Proviamo ora ad immaginare una possibilità singolare, ovvero che qualcuno consideri le due asserzioni su Chicago in una sola, (<Chigago è una città popolosa ed è trisillaba>) e la detti alla sua segretaria minacciandola di licenziarla se non può o non vuole scriverla correttamente. Non c’è alcun dubbio che comunicazioni di questo tipo creino una situazione insostenibile. Poiché il messaggio è paradossale, ogni reazione ad esso all’interno dello schema stabilito dal messaggio deve essere ugualmente paradossale. Fino a quando la segretaria rimane entro lo schema stabilito dal suo principale, ha soltanto due alternative: cercare di accondiscendere e naturalmente fallire (incompetenza), o rifiutarsi di scrivere (insubordinazione). Occorre far notare che delle due accuse che ne derivano la prima in qualche modo equivale a quella di debolezza mentale e la seconda a quella di cattiva volontà. Che sono accuse non troppo lontane da quelle classiche di follia e di cattiveria. Ci sono due ragioni possibili per un comportamento simile: o il principale cerca un pretesto per licenziare la segretaria oppure non è sano di mente.
Si ha una situazione completamente diversa se la segretaria non rimane entro lo schema stabilito dall’ingiunzione, ma lo commenta; in altre parole, se non reagisce al contenuto della direttiva del principale ma comunica sulla comunicazione di lui. In tal modo esce fuori dal contesto creato dal principale e non resta presa nel dilemma. La segretaria dovrebbe esporre i motivi che rendono insostenibile la situazione e che effetto ha su di lei una situazione simile; comunque, non sarebbe certo un’impresa da poco. Un’altra ragione per cui la metacomunicazione non è una soluzione semplice è che il principale, usando la sua autorità, può rifiutarsi di accettare la comunicazione della segretaria al metalivello ed etichettarla come una prova ulteriore della sua incompetenza e insolenza.
ESEMPIO 2
Le definizioni di sé paradossali del tipo di quella del mentitore non soltanto trasmettono un contenuto privo di significato da un punto di vista logico, ma definiscono la relazione del sé con l’altro. Perciò, quando si prestano all’interazione umana, non conta tanto che l’aspetto di contenuto (“notizia”) sia privo di significato quanto che l’aspetto di relazione (“comando”) non si possa né eludere né capire chiaramente. Il mentitore salta dentro e fuori lo schema stabilito, infatti, l’uso del termine da parte del “malato” esclude la condizione che il termine denota.
ESEMPIO 3
Esistono ingiunzioni che richiedono un comportamento specifico, che proprio per sua natura non può essere che spontaneo. Il prototipo di questo messaggio è quindi: <Sii spontaneo!>. chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendervi dovrebbe essere spontaneo entro uno schema di condiscendenza e non spontaneità. Analogamente, questo è anche il problema dell’omosessuale che brama un rapporto intenso con un “vero” maschio, per scoprire poi alla fine che quest’ultimo è sempre, deve essere sempre, un altro omosessuale. In termini di simmetria e di complementarità, queste ingiunzioni sono paradossali perché richiedono la simmetria nello schema di una relazione stabilita come complementare. La spontaneità prospera nella libertà e svanisce sotto il vincolo.
ESEMPIO 4
Le ideologie in particolare tendono a restare impigliate nei dilemmi del paradosso, soprattutto se la loro metafisica è l’antimetafisica. I pensieri di Rubashov, il protagonista di “Darkness at Noon” di A. Koestler, sono paradigmatici a questo proposito: <Il Partito negava la libera volontà dell’individuo, e nello stesso tempo ne esigeva il volontario olocausto. Gli negava la capacità di scegliere tra due alternative, e nello stesso tempo chiedeva che scegliesse sempre quella giusta. Gli negava il potere di distinguere il bene dal male, e nello stesso tempo parlava pateticamente di colpevolezza e di tradimento>.
Dove il paradosso contamina i rapporti umani, compare la malattia.
ESEMPIO 5
Se confrontiamo il brano sopra citato con il racconto autobiografico di uno schizofrenico, risulta evidente che il suo dilemma è lo stesso di Rubashov. Il paziente viene messo dalle sue “voci” in una situazione insostenibile e viene poi accusato di mistificazione e di riluttanza quando si trova a non poter accondiscendere alle loro ingiunzioni paradossali. Quello che rende il racconto così straordinario è che sia stato scritto quasi 130 anni fa, molto prima che si cominciasse ad elaborare una moderna teoria psichiatrica (<Quando confessai dentro di me che non sapevo cosa dovessi fare, mi hanno accusato di falsità e di mistificazione>).
ESEMPIO 6
Quando intorno al 1616 le autorità giapponesi cominciarono una persecuzione sistematica dei convertiti al cristianesimo, diedero alle loro vittime la possibilità di scegliere tra una sentenza di morte e un’abiura che era tanto complessa quanto paradossale. Questa abiura aveva la forma di un giuramento. <Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita [...] Venivano fatti giurare, per una logica assai curiosa, chiamando a testimoni proprio le potenze che avevano appena rinnegato: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti gli angeli>.
Di fronte al problema di operare “veramente” un cambiamento nella mente di qualcuno, i giapponesi ricorsero all’espediente del giuramento. Ma capirono con chiarezza che un giuramento simile li avrebbe legati soltanto se lo avessero prestato al Dio cristiano oltre che alle divinità buddiste e scintoiste. Ma era una “soluzione” che li metteva subito alle prese con l’indecidibilità delle asserzioni riflessive. Veniva fatta un’asserzione entro uno schema di riferimento chiaramente stabilito (la fede cristiana) che asseriva qualcosa su questo schema e quindi su se stessa, vale a dire negava lo schema di riferimento, e negando lo schema negava il giuramento stesso. Se consideriamo C come la classe di tutte le asserzioni entro la struttura del cristianesimo, il giuramento è sia un membro di C, poiché invoca la Trinità, sia al tempo stesso una meta-asserzione che nega C –quindi su C-. E’ un’impasse logica che ormai conosciamo bene. Nessuna asserzione fatta entro un dato schema di riferimento può nello stesso tempo uscir fuori dallo schema, per così dire, e negare se stessa. E’ il dilemma di chi è preso da un incubo mentre sogna; non servirà a niente tutto quello che cerca di fare nel sogno. Può sfuggire all’incubo soltanto se si sveglia, il che significa uscir fuori dal sogno. Ma il risveglio non fa parte del sogno, è uno schema completamente diverso; è un non-sogno, per così dire. In teoria, l’incubo potrebbe continuare per sempre, come accade per certi incubi di schizofrenici, perché nulla entro lo schema ha il potere di negare lo schema. Ma questo è proprio l’obiettivo che i giapponesi intendevano raggiungere col giuramento. I convertiti, abiurando, restavano entro lo schema di una formula paradossale e in tal modo venivano presi nel paradosso.
Un giuramento lega di per sé non solo chi lo presta ma anche il dio in nome del quale viene prestato.
Ma il paradosso deve anche aver influenzato gli stessi persecutori. E’ impossibile che non siano stati consapevoli di aver posto con la loro formula il dio cristiano al di sopra delle proprie divinità. Per cui alla fine devono essersi trovati inviluppati dalla loro stessa mistificazione, che negava ciò che asseriva e asseriva ciò che negava.
In linea di massima si può dire che la storia del genere umano mostra che ci sono due tipi di persone che vogliono sottomettere la mente degli altri: coloro che ritengono una situazione accettabile la distruzione fisica dei loro oppositori senza preoccuparsi affatto di quello che pensano “veramente” le loro vittime, e coloro che per un interesse escatologico degno di miglior causa se ne preoccupano moltissimo. Al secondo gruppo interessa anzitutto cambiare la mente dell’uomo, la sua eliminazione fisica è soltanto un aspetto secondario. O’ Brien, il torturatore che G. Orwell presenta in “1984”, è un’autorità esperta sull’argomento. Si tratta del paradosso <sii spontaneo!> nella formula più nuda.
ESEMPIO 7
Una situazione sostanzialmente simile a quella dei convertiti giapponesi e dei loro persecutori è quella che venne a crearsi nel 1938 tra S. Freud e le autorità naziste. I nazisti avevano promesso a S. Freud un visto d’uscita dall’Austria a condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui risultasse che era stato <trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia fama di scienziato>. Anche se nel caso personale di S. Freud la dichiarazione rispondeva a verità, nel contesto più vasto della spaventosa persecuzione degli ebrei viennesi, il documento veniva ad avallare una vergognosa pretesa di equità da parte delle autorità, con lo scopo evidente di usare la fama internazionale di S. Freud per la propaganda nazista. S. Freud deve essersi trovato di fronte al dilemma di sottoscriverlo o rifiutarsi. In termini di psicologia sperimentale, doveva affrontare un conflitto di evitamento-evitamento. Egli riuscì a rovesciare le posizioni intrappolando i nazisti nella loro stessa mistificazione. Quando l’ufficiale della Gestapo gli portò i documenti per la firma,S. Freud chiese se gli era permesso aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì, sicuro com’era della sua posizione one-up, e S. Freud scrisse di suo pugno: <Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia>. Ora la situazione era capovolta. La Gestapo, che in un primo momento aveva costretto S. Freud a lodarla, non poteva certo fare obiezione per aver ricevuto una lode supplementare. Ma per chiunque sapesse sia pure confusamente cosa stava accadendo a Vienna in quei giorni il sarcasmo di quella “lode” era così devastante da rendere il documento privo di ogni valore ai fini della propaganda. In breve, S. Freud aveva invalidato il documento con una asserzione che aderiva al contenuto della dichiarazione ma nello stesso tempo lo negava con il sarcasmo.
ESEMPIO 8
In “Les Plaisirs et les Jours”, M. Proust ci dà un esempio stupendo del paradosso pragmatico che si ha quando c’è contraddizione, come spesso accade, tra un comportamento socialmente approvato e l’emozione individuale. Alexis è un tredicenne che va a trovare lo zio che sta morendo per una malattia incurabile. Il suo precettore gli dice di non parlare allo zio della morte e di non piangere. Alexis pensa però che se nascondo la sua ansia allo zio può sembrare che non lo sia e che quindi non gli voglia bene.
ESEMPIO 9
Un giovanotto ebbe il sentore che i suoi genitori non approvavano che filasse con una certa ragazza che aveva intenzione di sposare. Il padre del ragazzo era un bell’uomo, dinamico e ricco, che dominava completamente la moglie e i tre figli. La madre era una donna silenziosa e chiusa in se stessa che in diverse occasioni era andata in clinica “per riposare” (posizione completamente one-down). Un giorno il padre invitò il figlio nel suo studio –una procedura riservata soltanto alle dichiarazioni molto solenni- e gli disse: <Louis, c’è una cosa che dovresti sapere. Noi Alvarados sposiamo sempre donne migliori di noi>.
L’asserzione del padre si presta alle seguenti interpretazioni. Noi Alvarados siamo gente superiore; tra l’altro, la posizione sociale delle donne che sposiamo è altolocata. Ma la prova ultima di tale superiorità e non solo nettamente in contrasto con i fatti che il giovanotto può osservare, ma implica anche che gli uomini Alvarados sono inferiori alle proprie mogli. E questa implicazione nega quanto l’asserzione voleva sostenere.
ESEMPIO 10
Lo psichiatra chiese a un giovanotto che aveva in cura di invitare i genitori a partecipare ad almeno ad una seduta di terapia congiunta. Durante la seduta fu chiaro che i genitori erano d’accordo tra loro soltanto quando si coalizzavano contro il figlio, mentre in molti argomenti importanti non erano affatto d’accordo. La madre, dopo aver giudicato provocatorio un consiglio del terapeuta, disse: <L’unica cosa che vogliamo dalla vita è che il matrimonio di nostro figlio sia felice come il nostro>. Se la questione si pone in questi termini, la sola conclusione è che il matrimonio è felice quando non lo è, ed infelice quando è felice.
ESEMPIO 11
Una madre stava parlando al telefono con lo psichiatra della figlia schizofrenica e si lamentava delle ricadute della ragazza. Ma di solito quando diceva che la figlia era ricaduta voleva dire che la ragazza si era mostrata più indipendente e che aveva battibeccato con lei. Da qualche giorno, per esempio, la figlia era andata a stare per conto suo in un appartamento, una decisione che aveva abbastanza infastidito la madre. Il terapeuta le chiese di fare un esempio di quello che lei definiva comportamento disturbato, e la donna rispose che la figlia aveva rifiutato un suo invito a cena, ma alla fine era riuscita a convincerla. L’opinione della madre è che quando la ragazza dice “no” significa che vuol venire, perché lei sa meglio della figlia quello che passa nella sua mente confusa; e quando la ragazza dice “sì” vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire “no”. Sia la madre che la figlia sono dunque legate da questo modo paradossale di etichettare i messaggi.
ESEMPIO 12
D. Greenburg ha pubblicato recentemente una raccolta incantevole di comunicazioni paradossali di madri. Ecco una perla: <Regala a tuo figlio Marvin due camicie sportive. La prima volta che ne metta una, guardalo con tristezza e digli col tuo Solito Tono di Voce: <Quell’altra non ti piace?>>.
4.3 Teoria del doppio legame
G. Bateson, D. D. Jackson, J. Haley e J. H. Weakland hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nell’interazione umana, in un saggio intitolato “Toward a Theory of Schizophrenia” pubblicato nel 1956. Essi si chiedono quali sequenze di esperienza interpersonale provocherebbero il comportamento (piuttosto che essere causate da esso) che giustificherebbe la diagnosi di schizofrenia. Lo schizofrenico, ipotizzano, <deve vivere in un universo in cui le esperienze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate>. E’ un’ipotesi che li ha portati a postulare e a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui hanno coniato il termine “doppio legame”.
4.3.1
E’ possibile descrivere gli elementi di un doppio legame come segue:
- due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono la vita familiare, l’invalidità, la dipendenza materiale, la prigionia, l’amicizia, l’amore, la fedeltà...;
- in un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che a.) asserisce qualcosa, b.) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e c.) queste due asserzioni si escludono a vicenda. Quindi, se il messaggio è un’ingiunzione, l’ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita; se è una definizione del sé o dell’altro, la persona di cui si è data la definizione è quel tipo di persona soltanto se non lo è, e non lo è se lo è;
- infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso. Egli non può non reagire ad esso, ma non può neppure reagire ad esso in modo adeguato (non paradossale), perché il messaggio stesso è paradossale. Questa situazione spesso si ha quando viene proibito in modo più o meno evidente di mostrare una qualsiasi consapevolezza della contraddizione o del vero problema in questione. Una persona in una situazione di doppio legame è quindi probabile che si trovi punita (o almeno che le si faccia provare un senso di colpa) per aver avuto percezioni corrette, e che venga definita “cattiva” o “folle” per aver magari insinuato che esiste una discrepanza tra ciò che vede e ciò che “dovrebbe” vedere.
La sostanza del doppio legame è dunque questa.
4.3.2
Il problema della patogenesi del doppio legame divenne subito l’aspetto più discusso e frainteso della teoria.
Non c’è alcun dubbio che il mondo in cui viviamo è ben lontano dall’essere un mondo logico e non c’è dubbio che tutti siamo esposti a doppi legami, eppure la maggior parte di noi riesce a conservare la propria salute mentale. Ma molte di queste esperienze sono isolate e spurie, anche se quando accadono possono essere traumatiche. Una situazione molto diversa si presenta invece quando si è esposti al doppio legame per lungo tempo e poco a poco ci si abitua a tale situazione e la si aspetta. Questo, naturalmente, vale soprattutto per l’infanzia, quando tutti i bambini hanno la tendenza a concludere che quello che accade a loro, accade in tutto il mondo. Il doppio legame non può essere un fenomeno unidirezionale. Se esso produce un comportamento paradossale, allora sarà proprio questo comportamento a “legare doppio” il “doppio legatore”.
Dove il doppio legame è diventato il modello predominante della comunicazione, e dove l’attenzione diagnostica viene limitata all’individuo più manifestamente disturbato, si scoprirà che il comportamento di questo individuo soddisfa i criteri diagnostici della schizofrenia. Soltanto in questo senso un doppio legame si può considerare “causativo” e quindi patogeno.
4.3.3
Si possono aggiungere altri criteri per definire la connessione esistente tra il doppio legame e la schizofrenia. Essi sono:
- quando si ha un doppio legame di lunga durata, forse cronico, esso si trasformerà in qualcosa che ci si aspetta, qualcosa di autonomo e abituale, che riguarda la natura delle relazioni umane e del mondo in genere, un’attesa che non ha bisogno di essere ulteriormente rafforzata;
- il comportamento paradossale imposto dal doppio legame a sua volta ha natura di doppio legame, e questo porta ad un modello di comunicazione autoperpetuantesi. Il comportamento del comunicante più manifestamente disturbato, se lo si esamina isolatamente, soddisfa i criteri clinici della schizofrenia.
4.3.4
Negli esperimenti classici in cui si pone un organismo in una situazione di conflitto (approccio-evitamento, approccio-approccio, evitamento-evitamento) la radice del conflitto è sempre rintracciabile in quegli elementi che equivalgono a una contraddizione tra le alternative, che sono state offerte o imposte. Questi esperimenti producono effetti comportamentali che vanno dall’indecisione alla scelta sbagliata, ma tali comportamenti non presentano mai la patologia peculiare che si osserva quando il dilemma è veramente paradossale.
Invece la presenza di tale patologia è evidente nei famosi esperimenti di I. Pavlov in cui in un primo tempo si addestra un cane a differenziare tra un cerchio e una ellisse e in un secondo tempo lo si rende incapace di tale differenziazione quando l’ellisse viene a mano a mano allargata in modo da sembrare sempre più simile a un cerchio. I. Pavlov ha coniato il termine “nevrosi sperimentale” per definire questi effetti comportamentali. Il nodo del problema sta nel fatto che in questo tipo di esperimenti lo sperimentatore prima impone all’animale la necessità vitale di una differenziazione corretta e poi rende impossibile la differenziazione entro tale schema. Il cane viene così gettato in un mondo in cui la sua sopravvivenza dipende dall’osservanza di una legge che viola se stessa: il paradosso alza la sua testa di Gorgone. A questo punto l’animale comincia ed esibire tipici disordini del comportamento.
PER RIASSUMERE
La distinzione più importante tra ingiunzioni contradditori e paradossali è la seguente. Di fronte ad un’ingiunzione contraddittoria si sceglie un’alternativa e si perde –o si patisce- l’altra alternativa. Non è che il risultato sia quello più soddisfacente: abbiamo già accennato che non si può salvare capra e cavoli, e il male minore resta pur sempre un male. Ma l’ingiunzione contraddittoria offre almeno la possibilità di compiere una scelta logica. L’ingiunzione paradossale, invece, fa fallire la scelta stessa, nulla è possibile, e viene messa in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi.
4.3.5
Nel caso di doppi legami, la complessità del modello è particolarmente vincolante e le reazioni pragmatiche possibili sono molto poche.
Di fronte all’assurdità insostenibile della sua situazione, è probabile che un individuo concluda che deve essersi lasciato sfuggire qualche elemento d’importanza vitale che era inerente alla situazione o che le persone che contano in quel contesto gli avevano offerto. In entrambi i casi sarà ossessionato dal bisogno di scoprire tali elementi, di dare un significato a ciò che continua ad accadere in lui e attorno a lui, e alla fine sarà costretto ad estendere la sua ricerca ai fenomeni più improbabili e senza alcuna attinenza col significato e gli elementi che cerca di rintracciare. Questa deviazione dai problemi reali diventa ancora più plausibile se si ricorda che un elemento essenziale di una situazione di doppio legame è la proibizione di essere consapevoli della contraddizione che la situazione comporta.
D’altro canto può scegliere la reazione che le reclute scoprono molto presto e che è la migliore possibile alla logica ottundente (o alla mancanza di logica) della vita militare: prestare osservanza a tutte le ingiunzioni prendendole alla lettera, guardandosi bene dal mostrare di avere idee personali.
La terza reazione possibile potrebbe essere quella di ritrarsi dalle complicazioni della vita. Per mettere in atto una simile “soluzione” occorre isolarsi fisicamente quanto più possibile e inoltre bloccare l’ingresso dei canali di comunicazione perché la comunicazione non consente di isolarsi come si desidera. E’ lecito supporre che praticamente si possa ottenere lo stesso risultato –fuga dai viluppi del doppio legame- con un comportamento iperattivo che sia così intenso e prolungato da sommergere la maggior parte dei messaggi che entrano.
Queste tre forma di comportamento di fronte all’indecidibilità di doppi legami reali o che ci si è abituati ad aspettarsi richiamano alla mente i quadri clinici della schizofrenia, cioè rispettivamente i sottogruppi della schizofrenia paranoide, della ebefrenia e della catatonia (stuporosa e agitata).
4.4 Predizioni paradossali
Nei primi mesi del 1940 fece la sua comparsa un paradosso nuovo e particolarmente affascinante.
4.4.1
Il direttore di una scuola annuncia agli allievi che ci sarà un esame inatteso durante la prossima settimana, cioè in un giorno qualsiasi tra lunedì e venerdì. Gli studenti gli fanno notare che, a meno che non violi i termini del proprio annuncio e non intenda dare un esame inatteso in un certo momento della settimana seguente, non potrà esserci un esame simile. Perché se non si è tenuto nessun esame entro giovedì sera, allora no si può tenerlo inaspettatamente venerdì, perché venerdì sarebbe l’unico giorno possibile che è rimasto. Ma se per questa ragione si esclude venerdì, come possibile giorno d’esame, per la stessa ragione si può escludere anche giovedì. E’ chiaro che mercoledì sera ci sarebbero rimasti soltanto due giorni: giovedì e venerdì. Abbiamo dimostrato che venerdì si può escludere. Resta soltanto giovedì, ma un esame tenuto di giovedì non sarebbe più inatteso. Naturalmente, per la stessa ragione si possono escludere mercoledì, martedì e infine anche lunedì: non ci può essere un esame inatteso. Si può supporre che il direttore ascolti la loro “dimostrazione” in silenzio e poi tenga l’esame giovedì mattina. Dal momento del suo annuncio egli aveva programmato di tenere l’esame quel giovedì mattina. Essi, d’altro canto, sono ora di fronte a un esame completamente inatteso –inatteso proprio perché hanno convinto se stessi che l’esame non poteva essere inatteso-.
L’aspetto più sorprendente del paradosso è questo: se lo si esamina più da vicino ci si rende conto che l’esame poteva tenersi anche il venerdì ed essere ugualmente inatteso. In realtà, ciò che conta è la situazione esistente il giovedì sera (il resto è superfluo). Da giovedì sera resta solo venerdì come giorno possibile, ma questa constatazione rende del tutto prevedibile un esame di venerdì. E’ proprio questo processo deduttivo secondo cui l’esame è atteso e quindi impossibile che rende possibile al direttore di tenere un esame inatteso di venerdì o anche in qualsiasi altro giorno della settimana, rispettando rigorosamente i termini del suo annuncio.
Ecco, dunque, ancora un vero paradosso:
- l’annuncio contiene un predizione nel linguaggio oggetto (“ci sarà un esame”);
- contiene una predizione nel metalinguaggio che nega la predicibilità dell’esame;
- le due predizioni si escludono a vicenda;
- il direttore può impedire agli studenti di uscire fuori dalla situazione creata dal suo annuncio e di ricevere informazione supplementare che potrebbe metterli in grado di scoprire la data dell’esame.
4.4.2
Quando si considerano le conseguenze pragmatiche, si possono trarre due conclusioni assai sorprendenti:
- per realizzare la predizione contenuta nel suo annuncio, il direttore ha bisogno che gli studenti giungano alla conclusione opposta (cioè, che un esame così come è stato annunciato è logicamente impossibile), perché soltanto allora si sarà creata la situazione in cui può diventare operante la predizione di un esame inatteso. Le predizioni paradossali presentano affinità col comportamento che richiama l’abulia e l’inerzia tipiche della schizofrenia semplice;
4.4.3
- il dilemma sarebbe ugualmente impossibile se gli studenti implicitamente non si fidassero del direttore. Tutta la loro deduzione s’impernia sull’ipotesi che ci possa e ci si debba fidare del direttore. Un dubbio sulla sua lealtà non dissolverebbe il paradosso dal punto di vista della logica, ma certamente lo dissolverebbe dal punto di vista della pragmatica. Non soltanto la logicità di pensiero, ma anche la fiducia, dunque, ci rendono vulnerabili a questo genere di paradosso.
4.4.4
Una persona che rechi l’etichetta diagnostica di “schizofrenico” può assumere sia la parte degli studenti che quella del direttore. Come gli studenti è preso nel dilemma di logica e fiducia. Ma viene anche a trovarsi in una posizione assai simile a quella del direttore perché s’impegna come lui in messaggi di comunicazione che sono indecidibili. G. C. Nerlich ha espresso questo stato di cose: <Un modo per non dire niente è contraddirsi. E se uno riesce a contraddirsi dicendo che non sta dicendo niente, allora alla fine non si contraddice affatto. Può salvare capra e cavoli>.
La “soluzione” del suo dilemma è l’uso di messaggi indecidibili che dicono di se stessi che non stanno dicendo niente.
4.4.5
Ma anche in settori diversi da quello delle comunicazioni puramente schizofreniche si può constatare che le predizioni paradossali turbano i rapporti umani. Si presentano, per esempio, ogni volta che una persona P, godendo implicitamente della fiducia dell’altro, O, minaccia di fare qualcosa ad O, che renderebbe P indegno di fiducia.
Un esempio pratico è quello di una coppia in cui il marito, una persona orgogliosa del fatto in vita sua non ha mai dato motivo a nessuno di dubitare della sua parola, risponde al vizio della propria moglie di bere un bicchiere di vino prima di pranzo dicendole che se non la smetteva avrebbe trovato anche lui un vizio, riferendosi ad altre donne.
La struttura della minaccia del marito è identica alla struttura dell’annuncio del direttore. Secondo la moglie lui sta dicendo:
- sono del tutto degno di fiducia (trustworthy);
- ora ti punirò con l’essere indegno di fiducia (infedele, traditore);
- perciò, resterò degno di fiducia con l’essere indegno di fiducia, perché se adesso non distruggessi la tua fiducia nella mia fedeltà (trustworthiness) coniugale, non sarei più degno di fiducia.
Da un punto di vista semantico il paradosso sorge sui due diversi significati di “degno di fiducia”. Al primo punto il termine è usato nel metalinguaggio per denotare la proprietà comune di tutte le sue (del marito) azioni, promesse e attitudini. Al secondo punto è usato nel linguaggio oggetto e si riferisce alla fedeltà coniugale.
4.4.6 La fiducia. Il dilemma dei prigionieri
Nei rapporti umani, ogni predizione è in qualche modo collegata col fenomeno della fiducia. Nella comunicazione umana non c’è alcun modo di far partecipare l’altro all’informazione o alle percezioni di cui uno dispone esclusivamente per sé. Nella migliore delle ipotesi l’altro può avere fiducia o diffidenza, ma non può mai sapere. D’altra parte, l’attività umana sarebbe praticamente paralizzata se la gente agisse soltanto in base all’informazione di prima mano o alle percezioni.
Il direttore sa che darà l’esame giovedì mattina; il marito sa che non intende tradire la moglie. In ogni interazione del tipo “dilemma dei prigionieri”, nessuno dei due ha qualche informazione di prima mano. Entrambi devono fare assegnamento sulla fiducia che hanno nell’altro. Tali predizioni diventano invariabilmente paradossali.
Il “dilemma dei prigionieri” si può rappresentare mediante una matrice come la seguente:
|
b1 |
b2 |
a1 |
5, 5 |
-5, 8 |
a2 |
8, -5 |
-3, -3 |
in cui due giocatori, A e B hanno ciascuno due mosse alternative (A = a1, a2, B = b1, b2). Entrambi sono pienamente consapevoli dei guadagni e delle perdite stabiliti dalla matrice. Il loro dilemma è costituito dal fatto che ciascuno non sa che alternativa sceglierà l’altro. Di solito si presume che, indipendentemente dal fatto che il gioco venga giocato una sola volta o cento volte di seguito, la decisione a2, b2 è quella più sicura. Naturalmente una soluzione più ragionevole sarebbe a1, b1 perché assicura ad entrambi i giocatori un guadagno. Ma si può fare questa scelta soltanto a condizione che ci sia una fiducia reciproca.
Questo è il punto dove quasi tutte le coppie (o anche quasi tutte le nazioni) si fermano a valutare e definire la loro relazione.
5. Sommario
Un paradosso è una contraddizione logica che deriva dalle deduzioni coerenti di premesse corrette. I paradossi pragmatici si distinguono dalla semplice contraddizione soprattutto per questo motivo: mentre nel caso di una contraddizione la scelta è una soluzione, nei paradossi la scelta non è neanche possibile.
CAPITOLO VII
PARADOSSO IN PSICOTERAPIA
1. Illusione di alternative
1.1
In “The Wife of Bath’s Tale” G. Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù che <a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla caccia col falcone> s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa violenza. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se riuscirà a rispondere alla domanda: <Che cosa desiderano di più le donne?>. il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte, s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa volta s’imbatte in una vecchia che, dopo che viene a conoscenza dei fatti, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a svelargliela se egli giura che <qualunque cosa io poi vi chieda, la farete se potrete farla>. Posto di nuovo di fronte ad una scelta tra due alternative, naturalmente il cavaliere accetta l’alternativa offerta dalla strega che gli rivela il segreto (<Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore>). La risposta soddisfa poi pienamente le dame di corte e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Giunge la notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza. Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere: o lui l’accetta orrenda com’è, e lei per tutta la vita sarà una moglie sottomessa ed esemplare, oppure si trasformerà in una fanciulla giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna delle due, ma rifiuta la scelta stessa. A questo punto la strega diventa una fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.
La donna esercita su di lui potere finché egli non si sente più costretto a scegliere e ad essere trascinato in una ulteriore situazione difficile; infatti alla fine contesta la stessa necessità di scegliere. Finché questo tipo di donna è capace di “legare doppio” il maschio con l’illusione di alternative che non finiscono mai neppure lei può essere libera e resta presa nell’illusione di alternative che comportano bruttezza e promiscuità come uniche scelte.
1.2
J. H. Weakland e D. D. Jackson hanno usato per primi il termine “illusione di alternative” in uno scritto sulle circostanze interpersonali di un caso di schizofrenia. Notarono che, nel tentativo di fare la scelta giusta tra due alternative, i pazienti schizofrenici incontrano un dilemma tipico: non possono –per la natura della situazione di comunicazione- prendere la decisione giusta, perché entrambe le alternative sono parte integrante di un doppio legame e quindi il paziente “è dannato se la prende ed è dannato se non la prende”. Il blocco di ogni via d’uscita dalla situazione di doppio legame, e l’impossibilità che ne deriva di guardarla dall’esterno, sono elementi fondamentali del doppio legame stesso. Le comunicazioni paradossali legano quasi sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: la strega è presa quanto il cavaliere, il marito quanto la moglie. Dall’interno non si può provocare nessun cambiamento; può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello.
2. “Gioco senza fine”
Due persone decidono di fare un gioco che consiste nel sostituire la negazione con l’affermazione, e viceversa, in ogni frase che si comunicano. I giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, “normale”, modulo di comunicazione, una volta che il gioco sia avviato. Per arrestare il gioco è necessario uscir fuori dal gioco e comunicare su di esso. Un messaggio simile dovrebbe essere chiaramente costruito come un metamessaggio, ma qualunque qualificatore si adotti sarebbe esso stesso soggetto alla regola d’inversione del significato, e quindi inutile. Il messaggio: <Smettiamo di giocare> è indicibile perché a.) ha un significato sia al livello oggetto (in quanto parte del gioco), b.) i due significati sono contraddittori e c.) la natura peculiare del gioco non fornisce una procedura tale da mettere in grado i giocatori di decidere su un significato o sull’altro. L’indecidibilità rende impossibile arrestare il gioco una volta avviato. Etichettiamo situazioni simili giochi senza fine.
Anche se un giocatore emettesse il messaggio: <Continuiamo a giocare> e –per la regola dell’inversione- l’altro capisse che significa di smettere, egli si troverebbe di fronte ad un messaggio indecidibile, a condizione che il suo ragionamento su di esso resti perfettamente logico, perché le regole del gioco non tengono nel debito conto i metamessaggi e un messaggio che proponga la fine del gioco è necessariamente un metamessaggio.
Ciò significa che in un sistema simile nessun cambiamento può essere provocato dall’interno.
2.1
Per evitare il dilemma ci sono tre possibilità:
- i giocatori, prevedendo la necessità di comunicare sul gioco una volta che fosse cominciato, avrebbero potuto accordasi di giocarlo in una lingua ma di metacomunicare in un’altra. Per questo gioco sarebbe una procedura di decisione di grande efficacia, ma sarebbe inapplicabile nella comunicazione umana perché non esiste un metalinguaggio che venga usato soltanto per le comunicazioni sulla comunicazione. Infatti, il comportamento e, più precisamente, il linguaggio naturale sono usati per comunicazioni sia al livello-oggetto che a livello di metalinguaggio;
- i giocatori avrebbero potuto fissare in anticipo di comune accordo un limite di tempo, superato il quale sarebbero tornati al loro modulo di comunicazione normale. Vale la pena di notare che questa situazione, inattuabile nella comunicazione umana reale, implica il ricorso a un fattore esterno –il tempo- che non rientra nel gioco;
- i giocatori potrebbero trasferire il loro dilemma su una terza persona con la quale entrambi hanno mantenuto il loro modulo di comunicazione normale e farle decidere la chiusura del gioco.
Un’altro esempio può essere la costituzione di un paese immaginario che garantisce il diritto di un dibattito parlamentare illimitato. Si scopre subito che questa norma non è pratica, perché basta che i membri di un partito comincino a fare discorsi interminabili per impedire che si prenda qualunque decisione. E’ chiaro che è necessario un emendamento della costituzione, ma l’adozione dell’emendamento stesso è soggetta allo stesso diritto di dibattito illimitato che si progetta di emendare per cui l’emendamento può essere rinviato a tempo indeterminato. L’organizzazione dello stato di questo paese è di conseguenza paralizzata e incapace di produrre un cambiamento delle proprie norme, perché è presa in un gioco senza fine.
In questo caso non esiste ovviamente un mediatore che potrebbe restare fuori delle regole del gioco che la costituzione prevede. L’unico cambiamento immaginabile che si possa operare è soltanto un cambiamento violento, una rivoluzione che dia a un gruppo il potere sugli altri partiti e imponga una nuova costituzione. Gli equivalenti di un simile cambiamento violento nel settore delle relazioni tra individui presi in un gioco senza fine possono essere la separazione, il suicidio o l’omicidio.
2.2
La terza possibilità, quella di un intervento esterno, è il paradigma dell’intervento psicoterapeutico. In altre parole, il terapeuta in quanto outsider è in grado di provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento delle proprie regole.
3. Prescrivere il sintomo
3.1
Per sua natura il sintomo è qualcosa di involontario e quindi di autonomo. Ma questo non è che un altro modo per dire che un sintomo è una forma di comportamento spontaneo, così spontaneo, in realtà, che anche lo stesso paziente lo esperisce come qualcosa di incontrollabile. Ed è questa oscillazione tra spontaneità e coercizione che rende paradossale il sintomo, sia nell’esperienza del paziente che negli effetti sugli altri.
Se un terapeuta insegna al paziente a rappresentare il proprio sintomo, egli gli sta insegnando un comportamento spontaneo e con questa ingiunzione paradossale impone al paziente di cambiare comportamento. Il comportamento sintomatico non è più spontaneo; assoggettandosi all’ingiunzione del terapeuta il paziente è uscito fuori dallo schema del suo sintomatico gioco senza fine, che fino a quel momento non aveva metaregole per cambiare le proprie regole.
3.2
La tecnica di prescrivere il sintomo (in quanto tecnica di doppio legame per eliminarlo) sembra che contraddica nettamente quei dogmi della psicoterapia di orientamento psicoanalitico che vietano ogni interferenza diretta con i sintomi. Comunque, negli ultimi anni sono state raccolte molte prove a sostegno della tesi che se si elimina solo il sintomo non ci saranno conseguenze disastrose.
Nella vita reale il fenomeno sempre presente del cambiamento assai di rado è accompagnato da “insight”; il più delle volte si cambia senza sapere il perché. Dal punto di vista della comunicazione, è probabile che le forme più tradizionali di psicoterapia siano molto più attente ai sintomi di quanto non appaia in superficie. Il terapeuta, che trascura di proposito le lagnanze del paziente sul suo sintomo, sta segnalando in modo più o meno evidente, che per il momento la presenza del sintomo non è un fattore negativo e che ciò che conta è individuare cosa c’è “dietro” di esso.
3.3
Un cambiamento nel paziente è il più delle volte accompagnato dalla comparsa di un nuovo problema o dalla esacerbazione della condizione di un altro membro della famiglia. Dalla letteratura sulla terapia del comportamento si trae l’impressione che il terapeuta (interessato com’è soltanto al suo paziente singolo) non vede tutte le connessioni reciproche tra questi due fenomeni e, se consultato, consideri isolatamente anche i nuovi problemi.
3.4
Il termine “prescrivere il sintomo” è stato introdotto per la prima volta nel lavoro del progetto G. Bateson “Terapia della famiglia in schizofrenia”. Questo gruppo di lavoro chiarì esplicitamente la natura paradossale, di doppio legame, di tale tecnica.
4. Doppi legami terapeutici
Prescrivere il sintomo è soltanto uno dei molti e svariati interventi paradossali che si possono classificare con il termine di doppio legame. Le comunicazioni paradossali possono essere fattori terapeutici.
Sul piano strutturale, un doppio legame terapeutico è l’immagine allo specchio di quello patogeno:
- presuppone una relazione intensa (nella fattispecie, la situazione psicoterapeutica) da cui il paziente si aspetta una ragione per sopravvivere;
- in questo contesto, viene data un’ingiunzione che è strutturata in modo tale da:
- rinforzare il comportamento che il paziente si aspetta che sia cambiato;
- implicare che questo rinforzo sia un veicolo del cambiamento;
- creare il paradosso perché al paziente si dice di cambiare restando com’è.
- Il paziente viene messo in una situazione insostenibile, riguardo alla sua patologia. Se egli accondiscende non può più “non farci niente”; egli può farci qualcosa, e questo rende impossibile la situazione di non poterci fare niente (il che è lo scopo della terapia). Se si oppone all’ingiunzione, può farlo soltanto non comportandosi sintomaticamente (che è lo scopo della terapia). In un doppio legame patogeno il paziente è “dannato se può farci qualcosa ed è dannato se non può farci niente”, in un doppio legame terapeutico è “cambiato se può farci qualcosa ed è cambiato se non può farci niente”;
- la situazione terapeutica impedisce al paziente di chiudersi in se stesso o altrimenti di dissolvere il paradosso commentandolo. Perciò anche se l’ingiunzione è assurda da un punto di vista logico, è una realtà pragmatica: il paziente non può non reagire ad essa, ma non può neppure reagire ad essa nel suo modo consueto, sintomatico.
Un doppio legame terapeutico costringe sempre il paziente ad uscir fuori dallo schema stabilito dal suo dilemma.
5. Esempi di doppi legami terapeutici
ESEMPIO 1
Il paziente paranoide, come già accennato, estende la sua ricerca del significato a fenomeni del tutto marginali e non pertinenti, poiché la percezione corretta, e il commento, del problema centrale -il paradosso-, gli sono stati preclusi. La presenza continua dell’ingiunzione che gli preclude la percezione corretta ha un doppio effetto: gli impedisce di colmare queste lacune con una informazione adeguata e rafforza i suoi sospetti. D. D. Jackson lo definisce <un modo d’insegnare al paziente ad essere più sospettoso>.
ESEMPIO 2
Non soltanto quella psicoanalitica ma in genere quasi tutte le situazioni psicoterapeutiche sono ricche di impliciti doppi legami. A rendersi conto della natura paradossale della psicoanalisi fu uno dei primi collaboratori di S. Freud, H. Sachs, a cui si attribuisce la frase: <Un’analisi termina quando il paziente si rende conto che potrebbe continuare per sempre>; un’asserzione che in modo assai curioso richiama alla mente la credenza Zen secondo cui l’illuminazione giunge quando l’allievo si rende conto che non c’è nessun segreto, nessuna risposta ultima, e quindi nessuna ragione di continuare a far domande.
Alcuni dei paradossi più rilevanti che il contesto comporta sono i seguenti:
- al paziente viene detto: <Sii spontaneo>;
- in questa situazione, qualunque cosa faccia, il paziente si trova di fronte ad una risposta paradossale. Se fa notare che non sta migliorando, gli si dice che questo è dovuto alla sua resistenza, ma che è un bene perché gli offre un’occasione migliore di capire il proprio problema. Se dichiara che crede di star migliorando, gli si dice che sta resistendo al trattamento cercando di fuggire prima che il suo vero problema sia stato analizzato;
- il paziente è in una situazione che non gli consente di comportarsi da adulto, ma quando non si comporta d’adulto l’analista interpreta il suo comportamento infantile come un residuo dell’infanzia e quindi come un comportamento inappropriato;
- da una parte, si dice continuamente al paziente che la sua relazione è volontaria e perciò simmetrica. Tuttavia se il paziente arriva in ritardo, non va ad una seduta o viola in qualche modo qualche regola, risulta evidente che la relazione è coercitiva, complementare, con l’analista nella posizione one-up;
- la posizione one-up dell’analista diventa particolarmente chiara ogni volta che ci si richiama al concetto di inconscio. Se il paziente respinge un’interpretazione, l’analista può sempre spiegare di stare indicando qualcosa di cui il paziente per definizione non deve aver consapevolezza perché si tratta di qualche processo inconscio. Se d'altra parte il paziente cerca di appellarsi all’inconscio per giustificare qualcosa, l’analista può respingere tale rivendicazione dicendo che se si trattasse di qualche processo inconscio il paziente non potrebbe farvi riferimento.
ESEMPIO 3
I medici dovrebbero guarire. Da un punto di vista interattivo tale premessa li pone in una posizione assai curiosa: occupano la posizione complementare one-up nella relazione dottore-paziente finché il malato non è guarito. D’altra parte, quando falliscono i loro sforzi le posizioni si rovesciano: la natura della relazione dottore-paziente è allora dominata dalla refrattarietà della condizione del paziente e il medico viene a trovarsi nella posizione one-down. E’ allora probabile che venga “legato doppio” da quei pazienti che per ragioni spesso assai recondite non possono accettare di migliorare o da quelli che trovano che essere one-up su ogni partner (medico compreso) sia più importante del dolore o del disagio che una scelta simile può procurare. In entrambi i casi è come se questi pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: <Aiutami, ma io non te lo permetterò>.
ESEMPIO 4
L’imposizione di un doppio legame terapeutico può cominciare spesso anche dalla richiesta telefonica di un appuntamento fatta da un nuovo paziente. Se il paziente non avverte nessuna diminuzione del dolore nel periodo di tempo tra la telefonata e il primo appuntamento, non si è fatto alcun danno, e il paziente apprezzerà l’interesse e la prudenza del terapeuta. Ma se si è sentito meglio, si è superato il primo stadio per l’ulteriore strutturazione del doppio legame terapeutico. Come passo successivo si può spiegare che la psicoterapia non allevia il dolore, ma che il paziente stesso di solito può “spostare il dolore nel tempo” e “condensare la sua intensità”. I pazienti di solito riescono a sentirsi peggio seguendo il suggerimento del terapeuta, e subendo questa esperienza non possono fare a meno di rendersi conto di avere un poco controllato il loro dolore. Naturalmente, il terapeuta non suggerisce mai che dovrebbero cercare di sentirsi meglio.
ESEMPIO 5
Una ragazza che studiava in un college correva il pericolo di essere bocciata perché non riusciva ad alzarsi in tempo per seguire le lezioni delle otto. Il terapeuta allora le disse di mettere la sveglia alle sette. Il mattino seguente, quando la sveglia avesse suonato, si sarebbe trovata di fronte a due alternative: poteva alzarsi, fare la prima colazione e trovarsi in classe alle otto, nel qual cosa non si sarebbe dovuto fare più nulla; oppure, poteva restare a letto come al solito. In questo caso, però, non le avrebbe permesso di alzarsi poco prima delle dieci, come di solito faceva, ma avrebbe dovuto rimettere la sveglia alle undici e continuare a restare a letto (riposo forzato), quella mattina e la mattina seguente, finché non avesse suonato. Tre giorni dopo riprese a seguire le lezioni del mattino.
ESEMPIO 6
Nella psicoterapia congiunta di una famiglia, la figlia disse al terapeuta di non voler più collaborare alla terapia in alcun modo. Il terapeuta per controbattere questa presa di posizione, disse che la sua ansia era comprensibile e che lui voleva che continuasse quanto più possibile col suo atteggiamento disfattista. Con questa semplice ingiunzione la mise in una situazione insostenibile: se lei continuava a sabotare il corso della terapia era chiaro che stava cooperando (e lei era decisa a non farlo), ma se voleva disobbedire all’ingiunzione poteva farlo soltanto assumendo un atteggiamento che non fosse disfattista (e questo avrebbe reso possibile continuare la terapia). Naturalmente, avrebbe potuto smettere di andare alle sedute, ma il terapeuta aveva bloccato questa via di scampo insinuando che in tal caso lei sarebbe stata l’unico argomento di discussione della famiglia, una prospettiva che sapeva che la ragazza non poteva assolutamente affrontare.
ESEMPIO 7
Il coniuge che beve mantiene di solito con l’altro partner un modello di comunicazione piuttosto stereotipato. La principale difficoltà è spesso una discrepanza nella punteggiatura della sequenza di eventi. Il marito, ad esempio, può asserire che la moglie lo domina e che lui si sente un po’ più uomo soltanto dopo qualche bicchierino. La moglie controbatte prontamente che rinuncerebbe volentieri a comandare se il marito mostrasse un maggior senso di responsabilità, ma visto che si ubriaca tutte le sere è costretta ad avere cura di lui. Dietro la facciata di scontento, frustrazioni e accuse, si stanno confermando a vicenda mediante un quid pro quo; il marito dà alla moglie la possibilità di essere sobria, ragionevole e protettiva e la moglie rende possibile a suo marito di essere irresponsabile, infantile e in genere un fallito incompreso.
Uno dei possibili doppi legami terapeutici che si potrebbe imporre ad una coppia simile sarebbe quello di presecrivere ai coniugi di bere insieme, a condizione però che la moglie beva sempre un bicchierino più del marito. L’introduzione di questa nuova regola nella loro interazione praticamente distrugge i vecchi modelli. Primo, il bere ora è un compito e non più qualcosa di cui lui “non può fare a meno”. Secondo, tutti e due devono controllare di continuo il numero dei bicchierini bevuti. Terzo, la moglie, che di solito è una bevitrice assai moderata, raggiunge subito un grado di ubriachezza che richiede che sia lui a prendersi cura di lei. Non si tratta soltanto di un rovesciamento totale dei loro ruoli abituali; questa situazione pone il marito in una posizione insostenibile: se riesce a seguire le istruzioni del terapeuta o deve smettere di bere o deve costringere la moglie a bere di più, con il rischio di renderla ancor più vulnerabile, malata, etc...
Quando la moglie non vuol più bere, se lui ha intenzione di violare la regola (che lei debba essere avanti di un bicchierino) continuando a bere da solo, deve affrontare la situazione non certo familiare di restare senza il suo angelo custode e di assumersi sia la responsabilità del suo comportamento che di quello della moglie.
ESEMPIO 8
Uno coppia ricorre allo psichiatra perché ritiene di litigare troppo. Piuttosto che concentrare l’attenzione sull’analisi dei loro conflitti, il terapeuta dà una nuova definizione dei loro litigi, sostenendo che essi si amano e tanto più litigano tanto più si amano perché sono così importanti l’uno per l’altra da non potersi lasciare in pace e perché lottare come lottano presuppone uno stato emozionale che li coinvolge profondamente. Per quanto questa interpretazione possa sembrare ridicola ai coniugi, proprio perché è così ridicola per loro, si metteranno a dimostrare al terapeuta quanto si sbaglia. Ma è una cosa che non si può far meglio che smettendo di litigare.
ESEMPIO 9
Che l’effetto terapeutico della comunicazione paradossale non sia affatto una scoperta recente lo mostra il seguente racconto Zen che contiene tutti gli elementi di un doppio legame terapeutico.
Una giovane moglie si ammalò e sul punto di morte disse al marito che se avesse avuto un’altra donna, il suo fantasma lo avrebbe perseguitato. Ben presto la donna passò a miglior vita. Per tre mesi il marito rispettò l’ultima volontà della moglie, ma poi conobbe un’altra donna, s’innamorò di lei e si scambiarono promessa di matrimonio. Subito dopo il fidanzamento, un fantasma cominciò ad apparire all’uomo ogni notte, illustrando tutto sulla sue esistenza presente e a biasimarlo per non essere restato fedele. All’uomo fu consigliato di sottoporre il suo problema a un maestro Zen che viveva vicino al villaggio. Egli gli disse di dire al fantasma che erano tante le cose che sapeva (il fantasma) su di lui (l’uomo) perché non poteva nascondergli nulla, e che se avrebbe risposto ad una sua domanda avrebbe rotto il fidanzamento e sarebbe restato vedovo. L’uomo chiese al maestro Zen qual’era la domanda ed egli gli rispose dicendo di prendere una manciata di semi di soia e dire poi al fantasma di indovinare il numero senza sbagli. Se non avesse risposto l’uomo avrebbe capito che era solo un’invenzione della sua fantasia e non l’avrebbe mai più importunato. Quando incontrò il fantasma seguì il consiglio del maestro, ma non ci fu più nessun fantasma a rispondere a questa domanda.
6. Paradosso nel gioco, nell’humour e nella creatività
La fantasia, il gioco, l’humour, l’amore, il simbolismo, l’esperienza religiosa e soprattutto la creatività, sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali.
<Nella fase in cui l’humour si sviluppa, ci si trova all’improvviso di fronte a un capovolgimento implicito-esplicito quando viene liberata la battuta finale [...] I capovolgimenti improvvisi come quelli che nell’humour caratterizzano il momento della battuta finale sono dirompenti ed estranei al gioco. Ma solo il capovolgimento può avere l’effetto di costringere coloro che partecipano all’esperienza dell’humour a dare una nuova definizione interna della realtà [...] Anzitutto si riceve la comunicazione esplicita della battuta finale; poi, ad un livello più elevato di astrazione, la battuta finale trasmette una metacomunicazione implicita su se stessa e sulla realtà che viene esemplificata dalla barzelletta [...] questo materiale della battuta finale implicito-ora-esplicito diventa un messaggio di metacomunicazione che riguarda il contenuto della barzelletta in generale [...] Il reale è irreale, l’irreale è reale. La battuta finale fa precipitare il paradosso interno specifico del contenuto della barzelletta e stimola una riverberazione del paradosso che lo schema del gioco ha generato>.
In “The Act of Creation” di A. Koestler, si avanza la proposta che l’humour, la scoperta scientifica e la creazione artistica siano il risultato di un processo mentale a cui si dà il nome di “biassociazione”. La biassociazione viene definita come la <percezione di uno stato o di un’idea [...] in due schemi di riferimento coerenti ma, di solito, incompatibili...>.
CAPITOLO VIII
ESISTENZIALISMO E TEORIA DELLA COMUNICAZIONE UMANA
1.
L’uomo non può andare oltre i limiti stabiliti dalla sua mente; soggetto e oggetto alla fine sono identici, la mente studia se stessa, e ogni asserzione che si faccia sull’uomo, considerato nel suo nesso esistenziale, tende ad incorrere nello stesso fenomeno di riflessività che genera il paradosso.
2.
Nella biologia moderna sarebbe impensabile studiare anche l’organismo più primitivo isolandolo artificialmente dal suo ambiente. Come la Teoria Generale dei Sistemi postula in modo specifico, gli organismi sono sistemi aperti che mantengono il loro stato stazionario (stabilità) e magari si evolvono verso stati di complessità più elevata mediante uno scambio costante sia di energia che di informazione con il loro ambiente. Comunicazione ed esistenza sono quindi concetti inseparabili. Le reazioni dell’organismo a loro volta influenzano l’ambiente; è chiaro che anche a livelli di vita molto primitivi hanno luogo interazioni complesse e continue che non sono mai casuali e che sono quindi governate da un programma o, per usare un termine esistenzialista, da un significato.
L’esistenza è una funzione della relazione tra l’organismo e il suo ambiente.
3.
La vita è un partner che accettiamo o respingiamo, e da cui ci sentiamo accettati o respinti, sostenuti o traditi. A questa partner esistenziale, forse come al partner umano, l’uomo propone la sua definizione di sé che trova poi, dunque, confermata o disconfermata; e da tale partner l’uomo si sforza di ricevere dei segni sulla “vera” natura della loro relazione.
4.
Esistono due tipi di conoscenza: la conoscenza delle cose e la conoscenza sulle cose. La prima è la consapevolezza che ci viene trasmessa dai sensi. E’ il tipo di conoscenza che ha il cane di I. Pavlov quando percepisce il cerchio o l’ellisse. Ma durante gli esperimenti il cane impara anche qualcosa sulle due figure geometriche, vale a dire che in qualche modo indicano rispettivamente il piacere e il dolore e che quindi hanno un significato per la sua sopravvivenza. Se, dunque, la consapevolezza dei sensi si può definire conoscenza di primo ordine, questo secondo tipo di conoscenza (su un oggetto) e conoscenza di secondo ordine; è conoscenza sulla conoscenza di primo ordine e quindi metaconoscenza. Una volta che il cane ha capito il significato del cerchio e dell’ellisse per la sua sopravvivenza, egli si comporterà come se avesse concluso: <Questo è un mondo in cui io sto al sicuro finché riesco a differenziare tra il cerchio e l’ellisse>. Una conclusione simile, però, non sarebbe più di secondo ordine; sarebbe una conoscenza a cui si è giunti grazie a una conoscenza di secondo ordine: sarebbe quindi una conoscenza di terzo ordine. In sostanza è lo stesso processo mediante il quale l’uomo acquisisce la conoscenza e attribuisce livelli di significato all’ambiente e alla realtà.
L’uomo non smette mai di cercare di conoscere gli oggetti della sua esperienza, di capire che significato hanno per la sua esistenza e di reagire ad essi a seconda di quello che capisce. Infine, dalla somma totale dei significati che ha dedotto dai contatti con numerosi oggetti singoli del suo ambiente si sviluppa una visione unitaria del mondo in cui si trova “gettato”, e questa visione è di terzo ordine.
4.1
Concetti equivalenti o analoghi alle premesse di terzo ordine sono stati formulati da altri studiosi delle scienza comportamentistiche. Questa branca della teoria dell’apprendimento postula che insieme con l’acquisizione della conoscenza o di una certa destrezza si verifica anche un processo che rende l’acquisizione stessa progressivamente più facile. In altre parole, uno non si limita ad imparare, ma impara ad imparare. Per questo tipo di ordine più elevato di apprendimento, G. Bateson ha coniato il termine “deutero-apprendimento”. G. A. Miller, E. Galanter e K. H. Pribram nel loro “Plans and the Structure of Behavior” hanno proposto che il comportamento intenzionale è guidato da un progetto, così come un calcolatore è guidato da un programma.
5.
L’uomo ha una capacità quasi incredibile di adattarsi ai cambiamenti al secondo livello, ma sembra che la resistenza umana sia possibile finché restano intatte le premesse di terzo ordine sulla sua esistenza e il significato del mondo in cui vive.
L’uomo non può sopravvivere psicologicamente in un universo che le sue premesse di terzo ordine non riescono a spiegare, in un universo che per lui è assurdo. E’ proprio questo il risultato disastroso del doppio legame; ma c’è la possibilità che si abbia lo stesso risultato anche in circostanze (e attraverso sviluppi) che sfuggono completamente al controllo e alle intenzioni dell’uomo.
Dovunque questo tema si presenti, implica il problema del significato, e qui il significato va inteso non nella sua connotazione semantica ma esistenziale. L’assenza di significato è l’orrore del nulla esistenziale. E’ la soggettività in cui la realtà si è allontanata o è completamente scomparsa, e con essa ogni consapevolezza del sé e degli altri.
Che la vita abbia perso il suo significato (o ne sia priva) è forse il denominatore comune di tutte le forme di angoscia.
La definizione più esatta dell’angoscia esistenziale si trova nella discrepanza dolorosa tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra le proprie percezioni e le proprie premesse di terzo ordine.
6.
Se l’uomo vuole cambiare le sue premesse di terzo ordine, il che ci sembra una funzione essenziale della psicoterapia, egli può farlo soltanto da un livello quarto.
Si dubita che la mente umana possa essere in grado di affrontare livelli di astrazione più elevati senza l’aiuto del simbolismo matematico o dei calcolatori.
Il livello quarto sembra assai vicino ai limiti della mente umana e a questo livello è raro che la consapevolezza sia presente, ammesso che si tratti di consapevolezza. Ci sembra che questa sia la zona dell’intuizione e dell’empatia, forse della consapevolezza immediata che danno l’LSD o allucinogeni di questo tipo, ed è la zona dove si verifica il cambiamento terapeutico, cambiamento di cui, dopo una terapia riuscita, non si è in grado di dire come e perché è avvenuto e in che cosa consiste veramente.
Soltanto da questo livello si può vedere che la realtà è costituita dall’esperienza soggettiva che ci facciamo dell’esistenza, dalle nostre intenzioni e dai nostri scopi.
6.1
Nella teoria della dimostrazione, il termine “procedura di decisione” si riferisce ai metodi per trovare dimostrazioni di verità o di falsità di un’asserzione fatta all’interno di un dato sistema formalizzato. Il termine correlato “problema di decisione” si riferisce al problema che si pone per stabilire se esiste o no una procedura del tipo che abbiamo appena descritto. Di conseguenza, ai problemi di decisione ci si riferisce o come a problemi computabili o come a problemi irrisolvibili.
C’è però una terza possibilità. Soluzioni ben definite (positive o negative) di un problema di decisione sono possibili soltanto dove il problema in questione si trova entro il dominio (l’area di applicabilità) di una particolare procedura di decisione. Se tale procedura di decisione viene applicata a un problema fuori dal suo dominio, il calcolatore continuerà all’infinito senza mai dimostrare che non potrà dare una soluzione (positiva o negativa). E’ a questo punto che incontriamo ancora il concetto di indecidibilità.
6.2
Questo concetto è il punto centrale del lavoro di K. Gödel che tratta delle proposizioni formalmente indecidibili.
K. Gödel ha dimostrato che in questo sistema o in uno equivalente è possibile costruire una formula, G, che a.) è dimostrabile partendo dalle premesse e dagli assiomi del sistema, ma che b.) dice di se stessa che non è dimostrabile. Ciò significa che se G è dimostrabile nel sistema, è dimostrabile anche la sua indimostrabilità.
Ma se sia la dimostrabilità che la indimostrabilità si possono dedurre dagli assiomi del sistema, e gli assiomi stessi sono coerenti, allora G è indecidibile nei termini del sistema. Questo teorema dimostra una volta per tutte che ogni sistema formale (matematico, simbolico, etc...) è necessariamente incompleto e che, inoltre, la coerenza di un sistema simile può essere dimostrata soltanto ricorrendo a metodi di dimostrazione più generali di quelli che il sistema stesso può produrre.
6.3
Il lavoro di K. Gödel costituisce l’analogia matematica di ciò che vorremmo chiamare il “paradosso ultimo dell’esistenza umana”. L’uomo, in definitiva, è soggetto e oggetto della sua ricerca, che egli compie per capire il significato della sua esistenza: è un tentativo di formalizzazione.
Ma dieci anni prima che K. Gödel presentasse il suo brillante teorema, un’altra grande mente del nostro secolo aveva già formulato questo paradosso in termini filosofici: alludiamo a L. Wittgenstein e al suo “Tractatus Logico-Philosophicus”, dove mostra che potremmo sapere qualcosa sul mondo nella sua totalità soltanto se potessimo uscire fuori da esso; ma se ciò fosse possibile, questo mondo non sarebbe più tutto il mondo.
Il mondo, dunque, è limitato e al tempo stesso senza limiti, senza limiti proprio perché non c’è nulla fuori e non c’è nulla dentro che possa costituire un confine. Ma se è così ne consegue che <mondo e vita sono una cosa sola. Io sono il mio mondo> . Soggetto e mondo non sono più, dunque, entità la cui funzione relazionale è in qualche modo governata dall’ausiliare “avere” (uno ha l’altro, lo contiene o gli appartiene) ma dal verbo essenziale essere: <Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo>.
Non c’è nulla dentro uno schema, o anche chiedere, qualcosa su quello schema. La soluzione, dunque, non sta nel trovare una risposta all’enigma dell’esistenza, ma nel prendere atto che non c’è nessun enigma.
A. D. Hall, R. E. Fagen
W. F. Fry
G. Bateson
G. Bateson
M. Muggeridge
H. Taubman
A. Ferreira
A. Ferreira
A. Ferreira
Rituale di certe tribù indiane nordoccidentali in cui i capi gareggiano a distruggere tutto quanto possiedono, bruciando in modo simbolico i loro beni materiali.
W. Quine
B. Russell
L. Wittgenstein
H. Reichenbach
A. Koestler
A. Koestler
G. B. Sansom
E. Jones
S. Freud
D. Greenburg
G. Bateson, D. D. Jackson, J. Haley e J. H. Weakland
G. C. Nerlich
G. Chaucer
G. Chaucer
G. Chaucer
D. D. Jackson
H. Sachs
W. F. Fry
A. Koestler
L. Wittgenstein
L. Wittgenstein
Fonte: http://www.scicom.altervista.org/psicologia/001_Pragmatica%20Della%20Comunicazione%20Umana.doc
Pragmatica della comunicazione umana
L’uso strategico della comunicazione umana
La comunicazione è un aspetto essenziale della vita. Sarebbe arduo cercare di mettere in dubbio la fondatezza di tale affermazione, specialmente nel caso degli esseri umani: tutti noi, attraverso una serie di segnali che si sono sviluppati ed evoluti nel corso dei secoli, comunichiamo costantemente con gli altri esseri viventi e con l’ambiente circostante. Fin dalla nascita ci troviamo immersi come soggetti attivi e dotati di capacità comunicative all’interno di una situazione relazionale che coinvolge le nostre primarie figure d’attaccamento e, nello stesso tempo, siamo inconsapevolmente coinvolti in un continuo processo di acquisizione delle regole della comunicazione.
La comunicazione umana è generalmente definita dalle teorie classiche come uno scambio di informazioni tra le persone. In una prospettiva che faccia riferimento alla Teoria dei Sistemi possiamo altresì definirla come l’insieme delle relazioni che intercorrono e che si sviluppano tra gli individui e tra questi ultimi e il loro ambiente naturale. Come si arriva a questa definizione? Essenzialmente partendo dalla considerazione che, per studiare il comportamento umano, non possiamo isolare l’individuo dal suo contesto, ma dobbiamo sempre considerare gli effetti che il suo comportamento ha sugli altri, le loro reazioni e il contesto in cui avviene l’interazione. Ne consegue che, se pensiamo che per studiare il comportamento umano dobbiamo prendere in considerazione la relazione tra le parti all’interno di un sistema, allora studieremo la comunicazione umana come veicolo delle manifestazioni comportamentali osservabili nella relazione stessa.
Secondo Gregory Bateson la comunicazione si crea attraverso le incessanti alchimie e trasformazioni che si generano all’interno delle relazioni tra gli elementi che compongono il sistema; la comunicazione, dunque, nasce e si sviluppa nel segno delle differenze e del cambiamento, in un universo di messaggi che acquisiscono un chiaro significato solamente se collocate nel loro contesto relazionale e ambientale.
Lo studio della comunicazione umana si realizza all’interno delle seguenti aree d’indagine:
- lo studio della sintassi, che ha a che fare con la trasmissione dell’informazione, ovvero con la codifica sintattica dei messaggi, ai canali, alla capacità, alla ridondanza ed altre proprietà statistiche del linguaggio, che non prende in considerazione l’analisi dei significati insiti nelle unità di comunicazione;
- lo studio della semantica, che si occupa appunto dell’analisi del significato dei simboli che vengono trasmessi da un individuo all’altro nell’interazione comunicativa, presupponendo l’esistenza di convenzioni semantiche che permettano la trasmissione delle informazioni;
- lo studio della pragmatica, che tratteremo in maniera approfondita, si basa su due concetti molto semplici: la comunicazione influenza il comportamento e tutto il comportamento è comunicazione. I dati che vengono presi in esame saranno dunque: le parole, le loro configurazioni, i loro significati, tutto il non-verbale concomitante ad esse, il linguaggio del corpo e i segni di comunicazione inerenti al contesto della comunicazione.
Nel nostro studio della pragmatica della comunicazione umana non ci occuperemo dunque dell’unità del messaggio monofonico, ma di “un composto fluido e poliedrico di molti moduli comportamentali – verbali, timbrici, posturali, contestuali, eccetera – che qualificano, tutti, il significato di tutti gli altri” (P. Watzlawick, 1967). Un effetto di tali considerazioni è la tendenza a considerare equivalenti le parole “comunicazione” e “comportamento”, senza doverlo rimarcare ogni volta che esse vengono usate; tenere in considerazione questa precisazione ci aiuterà a risultare più chiari nell’esposizione.
La scuola di Palo Alto
Il nostro principale riferimento teorico è rappresentato dalla Scuola di Palo Alto, o meglio dal suo gruppo di ricerca che, nelle persone di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson ed altri, negli anni sessanta definì la funzione pragmatica della comunicazione, vale a dire la capacità di provocare degli eventi nei contesti di vita attraverso l’esperienza comunicativa, intesa sia nella sua forma verbale che in quella non-verbale. La scuola di Palo Alto fissò tutta una serie di nozioni teoriche elaborate a partire dalla sperimentazione sul campo. Esporremo adesso brevemente alcuni concetti introduttivi che riteniamo particolarmente innovativi ed interessanti, dopodiché andremo a passare in rassegna quelli che vennero definiti i cinque assiomi fondamentali della comunicazione umana.
Facendo riferimento al concetto di retroazione sviluppato dalla teoria della cibernetica, si può affermare che, all’interno di un qualsiasi sistema interpersonale (come una coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro, una diade terapeuta-paziente), ogni persona influenza le altre con il proprio comportamento ed è parimenti influenzata dal comportamento altrui. La stabilità e il cambiamento inerenti al sistema sono determinati da tali circuiti di retroazione: l’informazione in ingresso può venire così amplificata (è il caso della retroazione positiva) e provocare un cambiamento nel sistema, oppure può venire neutralizzata (e allora si parla di retroazione negativa) e mantenere la stabilità dello stesso. I sistemi interpersonali caratterizzati da un tipo di comunicazione patologica, vedi il caso delle famiglie con un membro schizofrenico, sono di solito estremamente stabili, quasi cristallizzati; il ruolo e l’esistenza del paziente sono indispensabili per la stabilità del sistema familiare, che reagirà con un loop di retroazioni negative in risposta a qualsiasi tentativo di cambiamento della sua organizzazione (omeostasi del sistema familiare).
Quando non usiamo più la comunicazione per comunicare ma per comunicare sulla comunicazione, gli schemi concettuali che adopriamo non fanno parte della comunicazione ma vertono su di essa. Definiamo metacomunicazione la comunicazione sulla comunicazione. L’interazione umana può essere definita come sequenze di mosse rigidamente governate da regole, delle quali i comunicanti possono essere consapevoli o meno; è importante che su tali regole si possano fare delle asserzioni di metacomunicazione dotate di significato. In altre parole, “esiste un calcolo della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata”.
I cinque assiomi della comunicazione umana
- L’impossibilità di non comunicare
Il primo assioma sancisce l'impossibilità di non comunicare: qualsiasi comportamento, in situazione di interazione tra persone, è ipso facto una forma di comunicazione. Di conseguenza, quale che sia l'atteggiamento assunto da un qualsivoglia individuo (poiché non esiste un non-comportamento), questo diventa immediatamente portatore di significato per gli altri: ha dunque valore di messaggio. Anche i silenzi, l’indifferenza, la passività e l’inattività sono forme di comunicazione al pari delle altre, poiché portano con sé un significato e soprattutto un messaggio al quale gli altri partecipanti all’interazione non possono non rispondere. Ad esempio, non è difficile che due estranei che si trovino per caso dentro lo stesso ascensore si ignorino totalmente e, apparentemente, non comunichino; in realtà tale indifferenza reciproca costituisce uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui può lo è un’animata discussione. Non è necessario, inoltre, che all’interno di un’interazione tra persone si verifichi la comprensione reciproca perché possiamo definire comunicazione i loro comportamenti reciproci; riguardo a questo aspetto si può parlare di comunicazione intenzionale o non-intenzionale, consapevole o inconsapevole, efficace o inefficace; si tratta di un altro ordine d’analisi, che approfondiremo affrontando le varie forme della comunicazione patologica. Ogni assioma può venire distorto dalla presenza di disturbi della comunicazione e portare allo sviluppo di patologie strettamente correlate allo specifico principio. Per quanto riguarda l’impossibilità di non–comunicare, riteniamo che sia interessante esporre ciò che è stato definito “il dilemma dello schizofrenico”. Lo schizofrenico, almeno apparentemente, cerca di non comunicare attraverso tutta una serie di messaggi come il silenzio, le assurdità, l’immobilità, il ritrarsi; ma, poiché tutti questi comportamenti costituiscono comunque atti comunicativi, egli è preso in pieno in una situazione paradossale nella quale cerca di negare di stare comunicando e al tempo stesso di negare che il suo diniego sia comunicazione. Parlando in termini più generali, si verifica la distorsione del primo assioma tutte le volte che qualcuno cerca di evitare l’impegno inerente ad ogni comunicazione attraverso tentativi di non-comunicare (ad es. il rifiuto o la squalificazione della comunicazione), finendo per generare un’interazione paradossale, assurda o “folle”. In questa prospettiva, un comportamento etichettato come patologico può essere considerato come l’unica reazione possibile ad un contesto di comunicazione assurdo e insostenibile. Il sintomo (che sia nevrotico o psicotico) assume perciò il valore di messaggio non verbale; anche un sintomo è dunque comunicazione. - I livelli comunicativi di contenuto e relazione
Ogni comunicazione comporta di fatto un aspetto di metacomunicazione che determina la relazione tra i comunicanti. Ad esempio, un individuo che proferisce un ordine esprime, oltre al contenuto (la volontà che l'ascoltatore compia una determinata azione), anche la relazione che intercorre tra chi comunica e chi è oggetto della comunicazione, nel caso particolare quella di superiore/subordinato. Bateson definisce due aspetti caratteristici di ogni comunicazione umana: uno di notizia e uno di comando; in sostanza si parla di un aspetto di contenuto del messaggio e di un aspetto di relazione dello stesso. In altre parole, ogni comunicazione, oltre a trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti e definisce la natura della loro relazione. Il ricevente accoglie un messaggio che possiamo considerare oggettivo per quanto riguarda l’informazione trasmessa, ma che contiene anche un aspetto metacomunicativo che definisce un modello che rientra in un’ampia gamma di possibili relazioni differenti tra i due comunicanti. Pare che gli scambi comunicativi “patologici” siano caratterizzati da una lotta costante per definire i rispettivi ruoli e la natura della relazione, mentre l’informazione trasmessa dai comunicanti passi nettamente in secondo piano (anche se questi ultimi sono inconsapevoli di ciò). L’aspetto di relazione di una comunicazione è definito dai termini in cui si presenta la comunicazione stessa, dal non-verbale che ad essa si accompagna e dal contesto in cui questa si svolge. In un contesto comunicativo patologico si può avere spesso a che fare con episodi di confusione tra contenuto e relazione; questo accade quando, ad esempio, tra i comunicanti c’è un oggettivo accordo a livello di contenuto, ma non a livello di definizione della relazione, che porta ad una pseudo-mancanza di accordo in cui i partecipanti cercano, inutilmente peraltro, di accordarsi sul contenuto dei messaggi scambiati, ignorando che il disaccordo si situa in realtà su un piano di metacomunicazione. Perché l’aspetto di relazione della comunicazione umana è così importante? Perché, con la definizione della relazione tra i due comunicanti, questi definiscono implicitamente sé stessi. Una delle funzioni della comunicazione consiste nel fornire ai comunicanti una conferma o un rifiuto del proprio Sé; attraverso la metacomunicazione si sviluppa dunque la consapevolezza del Sé, la coscienza degli individui coinvolti nell’interazione. E’ essenziale che ognuno dei comunicanti sia consapevole del punto di vista dell’altro e del fatto che anche quest’ultimo possieda questa consapevolezza (concetto di percezione interpersonale); la mancanza di coscienza della percezione interpersonale è definita impenetrabilità da Lee. E’ stato osservato che nelle famiglie con un membro schizofrenico si possono rilevare modelli comunicativi caratterizzati da impenetrabilità e da disconferma del Sé, che solitamente risultano devastanti per colui che si trova a ricevere messaggi che, sul piano della relazione, trasmettono comunicazioni del tipo “tu non esisti”. - La punteggiatura della sequenza di eventi
La natura di una relazione dipende anche dalla punteggiatura delle sequenze di scambi comunicativi tra i comunicanti. Questa tende a differenziare la relazione tra gli individui coinvolti nell’interazione e a definire i loro rispettivi ruoli: essi punteggeranno gli scambi in maniera che questi risultino organizzati entro modelli di interazione più o meno convenzionali. La punteggiatura di una sequenza di eventi, in un certo senso, non è che una delle possibilità d’interpretazione degli eventi stessi, per cui anche i ruoli dei comunicanti sono definiti dalla propensione degli individui stessi ad accettare un certo sistema di punteggiatura oppure un altro. Watzlawick fa l’esempio della cavia da laboratorio che dice: “Ho addestrato bene il mio sperimentatore. Ogni volta che io premo la leva lui mi dà da mangiare”; quest’ultimo non accetta la punteggiatura che lo sperimentatore cerca di imporgli, secondo la quale è lo sperimentatore stesso che ha addestrato la cavia e non il contrario. Il terzo assioma decreta dunque la connessione tra la punteggiatura della sequenza degli scambi che articolano una comunicazione e la relazione che intercorre tra i comunicanti: il modo di interpretare la punteggiatura è funzione della relazione tra i comunicanti. Infatti, poiché la comunicazione è un continuo alternarsi di flussi comunicativi da una direzione all'altra e le variazioni di direzione del flusso comunicativo sono scandite dalla punteggiatura, il modo di leggerla sarà determinato dal tipo di relazione che lega i comunicanti. Per quanto riguarda le manifestazioni patologiche collegate alla distorsione di questo concetto, i problemi insorgono quando si presentano delle discrepanze relative alla punteggiatura (in sostanza delle visioni diverse della realtà), determinate dal fatto che i comunicanti non possiedono lo stesso grado d'informazione senza tuttavia saperlo o che, dalla stessa informazione, traggano conclusioni diverse; in questi casi si creano una sorta di malintesi che inevitabilmente portano a circoli viziosi che incidono pesantemente sulla natura della relazione. L'unica maniera per risolvere questo tipo di situazione è fare sì che i comunicanti riescano ad uscire da una visione univoca e radicata della realtà e accettino la possibilità che l'altro possa interpretare quest'ultima in maniera differente; in una parola, è necessario che i comunicanti riescano a metacomunicare. In tale contesto possiamo collocare il concetto di profezia che si autodetermina, che nella comunicazione ha il suo equivalente nel dare la cosa per scontata; stiamo parlando del caso in cui un individuo assume un comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel certo comportamento sarebbe la risposta adeguata: l’individuo in questione, dunque, crede di reagire ad un atteggiamento che in realtà è stato da lui stesso provocato. - Comunicazione numerica e analogica
Il quarto assioma attribuisce agli esseri umani la capacit di comunicare sia tramite un modulo comunicativo digitale (o numerico) sia con un modulo analogico. In altre parole se, come ricordiamo, ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, il primo sarà trasmesso essenzialmente con un modulo digitale e il secondo attraverso un modulo analogico. Quando gli esseri umani comunicano per immagini la comunicazione è analogica; questa comprende tutta la comunicazione non-verbale. Quando comunicano usando le parole, la comunicazione segue il modulo digitale. Questo perchè le parole sono segni arbitrari e privi di una correlazione con la cosa che rappresentano, ma permettono una manipolazione secondo le regole della sintassi logica che li organizza. Nella comunicazione analogica questa correlazione invece esiste: in ciò che si usa per rappresentare la cosa in questione è presente qualcos'altro di simile alla cosa stessa. La comunicazione numerica possiede un grado di astrazione, di versatilità, nonché di complessità e sintassi logica enormemente superiore rispetto alla comunicazione analogica, ma anche dei grossi limiti per quanto riguarda la trasmissione dei messaggi sulla relazione tra i comunicanti; al contrario, mentre la comunicazione analogica risulta molto più ricca e significativa quando la relazione è il problema centrale della comunicazione in corso, al tempo stesso può risultare ambigua a causa della mancanza di sintassi, di indicatori logici e spazio-temporali. I problemi possono insorgere quando si verifica una traduzione del materiale analogico in materiale digitale, ovvero un'acquisizione della valenza relazionale contenuta nella comunicazione (messaggio)dell'altro. La principale difficoltà, come abbiamo già accennato, consiste nella natura ambigua del modulo analogico di trasmissione dell'informazione dovuta all'impossibilità di rappresentare le principali funzioni di verità logiche (negazione e congiunzione); ciò può dare luogo a innumerevoli conflitti di relazione dovuti all'errata interpretazione digitale del messaggio analogico. Osservando il comportamento degli animali apprendiamo che essi risolvono il problema della corretta interpretazione dei messaggi analogici tramite rituali che recano con sù una valenza simbolica. Nelle patologie di natura isterica si verifica probabilmente il processo opposto a quello descritto precedentemente: un'errata traduzione del messaggio dal modulo digitale a quello analogico provoca i sintomi di conversione, che hanno un'innegabile valenza simbolica, in un contesto in cui non era più possibile comunicare con il modulo digitale. - L’interazione complementare e simmetrica
Quest’ultimo assioma si riferisce ad una classificazione della natura delle relazioni che le suddivide in relazioni basate sull’uguaglianza oppure sulla differenza. Nel primo caso si parla di relazioni simmetriche, in cui entrambi i partecipanti tendono a rispecchiare il comportamento dell’altro (ad es. nel caso della diade dirigente-dipendente), nel secondo si parla di relazioni complementari, in cui il comportamento di uno dei comunicanti completa quello dell’altro (ad es. tra due dipendenti o tra due dirigenti). Nella relazione complementare uno dei due comunicanti assume la posizione one-up (superiore) e l’altro quella one-down (inferiore); i diversi comportamenti dei partecipanti si richiamano e si rinforzano a vicenda, dando vita ad una relazione di interdipendenza in cui i rispettivi ruoli one-up e one-down sono stati accettati da entrambi (ad es. le relazioni madre-figlio, medico-paziente, istruttore-allievo, insegnante-studente). Va da sé, comunque, che”i modelli di relazione simmetrica e complementare si possono stabilizzare a vicenda” e che “i cambiamenti da un modello all’altro sono importanti meccanismi omeostatici”. E’ fondamentale, per andare avanti, avere chiaro il concetto che le relazioni simmetriche e quelle complementari non devono assolutamente essere equiparate a “buona” e “cattiva”, né le posizioni one-up e one-down vanno accostate ad epiteti quali “forte” e “debole”; si tratta solo di una suddivisione che ci permette di classificare ogni interazione comunicativa in uno dei due gruppi. In ogni relazione simmetrica è presente un rischio potenziale legato allo sviluppo della competitività; accade così che, quando in un’interazione di tipo simmetrico si perda la stabilità o sopraggiunga una situazione di disputa o litigio, si possa verificare un’escalation simmetrica da cui ci si può aspettare l’instaurarsi di uno stato di guerra più o meno aperto (o scisma) e un rifiuto reciproco del Sé dell’altro da parte dei due partecipanti. Tipico in questo caso è il conflitto coniugale che s’instaura con la persecuzione di un modello di frustrazione da parte dei due coniugi. I problemi legati alle relazioni complementari si hanno, ad esempio, quando uno dei comunicanti chiede la conferma di una definizione del Sé per cui il partner si trova costretto a cambiare la propria; ciò si rende necessario perché, all’interno di una relazione complementare, una definizione del Sé si può mantenere solamente se il partner assume un ruolo complementare. Uno dei rischi possibili è che a una richiesta di conferma del Sé corrisponda una disconferma, che porta ad un crescente senso di frustrazione e disperazione in uno o in entrambi i partecipanti. A volte, inoltre, capita che certi individui sembrino molto ben adattati al di fuori del contesto comunicativo con il partner e solo osservati insieme al loro “complementare” mostrino la patologia della loro relazione con esso. A questo proposito è perfettamente calzante la teorizzazione della “folie à deux” ad opera di due psichiatri francesi, Lasègue e Falret, pubblicata nel 1877.
Il concetto di sistema
L’interazione può essere considerata come un sistema aperto, che scambia cioè materiali, energie o informazione con il proprio ambiente. Si possono definire sistemi interattivi “due o più comunicanti impegnati nel processo di definire la natura della loro relazione (o che si trovano a un livello tale per farlo)”. Quando si definisce un sistema aperto è importante definire anche il suo ambiente.
Secondo Hall e Fagen “l’ambiente di un dato sistema è costituito dall’insieme di tutti gli oggetti che sono tali che un cambiamento nei loro attributi influenza il sistema e anche di quegli oggetti i cui attributi sono cambiati dal comportamento del sistema”.
Ogni sistema si può ulteriormente suddividere in sottosistemi e gli oggetti che appartengono a un sottosistema si possono benissimo considerare che facciano parte dell’ambiente di un altro sottosistema. Tale precisazione ci consente quindi di collocare facilmente un sistema diadico interattivo in sistemi più ampi, come la famiglia con figli, la famiglia con i parenti acquisiti, la comunità, la cultura. Inoltre, questi sottosistemi possono sovrapporsi ad altri sottosistemi, perché ogni membro della diade è coinvolto in sottosistemi diadici con altre persone e anche con la vita stessa. Gli individui che comunicano, quindi, vengono considerati sia nelle relazioni orizzontali che in quelle verticali che essi hanno con altre persone e altri sistemi. Secondo il principio di totalità ogni parte di un sistema aperto è in rapporto tale con le parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema. Un sistema, quindi, si comporta come un tutto inscindibile e non può essere fatto coincidere con la semplice somma delle sue parti (principio di non-sommatività).
I sistemi interpersonali (gruppi di estranei, coppie sposate, famiglie, relazioni psicoterapeutiche ecc.) possono essere considerati circuiti di retroazione, poiché il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra persona. In un sistema simile i dati in ingresso si possono amplificare fino a produrre un cambiamento oppure neutralizzare per mantenere la stabilità, a seconda che i meccanismi di retroazione siano positivi o negativi. Poiché sia la stabilità che il cambiamento contraddistinguono le manifestazioni della vita, i meccanismi di retroazione negativa o positiva agiscono in essa come forme specifiche di interdipendenza o di complementarità. A caratterizzare tutte le famiglie che rimangono unite, ad esempio, deve esserci qualche grado di retroazione negativa, che consente loro di resistere alle tensioni imposte dall’ambiente e dai singoli membri, ma anche qualche grado di retroazione positiva, che favorisce invece un processo di apprendimento e di crescita.
In un sistema aperto, circolare ed autoregolantesi, i “risultati” (da intendersi come modificazioni dello stato dopo un certo periodo di tempo) non sono determinati tanto dalle condizioni iniziali quanto dalla natura del processo o dai parametri del sistema. Secondo il principio di equifinalità infatti, gli stessi risultati possono avere origini diverse perché ciò che è determinante è la natura dell’organizzazione. Se il comportamento equifinale dei sistemi aperti è basato sulla loro indipendenza dalle condizioni iniziali, allora non soltanto condizioni iniziali diverse possono produrre lo stesso risultato finale ma risultati diversi possono essere prodotti dalle stesse “cause”.
Il paradosso e il doppio legame
Si può definire il paradosso come una contraddizione che deriva dalla deduzione corretta da premesse coerenti. Esistono paradossi logico-matematici (antinomie), definizioni paradossali (antinomie semantiche) e paradossi pragmatici (ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali), che, nell’ambito della struttura della teoria della comunicazione umana, corrispondono chiaramente ai tre settori principali di questa teoria: il primo tipo di paradosso alla sintassi logica, il secondo alla semantica e il terzo alla pragmatica.
I paradossi logico-matematici si presentano nei sistemi logici e matematici e si fondano quindi su termini come numero o classe formale. Le definizioni paradossali differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici ma derivano piuttosto da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. I paradossi pragmatici, infine, sono quei paradossi che si presentano nelle interazioni in corso e che quindi determinano il comportamento. Bateson, Jackson, Haley e Weakland hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nella interazione umana.
Studiando il fenomeno della comunicazione schizofrenica, questo gruppo di ricerca ha compiuto il passo concettuale dalla “schizofrenia come misteriosa malattia della mente individuale” alla “schizofrenia come modello specifico di comunicazione” ed è arrivato a ipotizzare che lo schizofrenico “deve vivere in un universo in cui le sequenze di eventi sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate”.
Questa ipotesi li ha portati a postulare e a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui hanno coniato il termine doppio legame. È possibile descrivere gli elementi di un doppio legame come segue:
- due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte;
- in un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni si escludono a vicenda;
- infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso.
Una persona in una situazione di doppio legame è quindi probabile che si trovi punita (o almeno che le si faccia provare un senso di colpa) per avere avuto percezioni corrette, e che venga definita “cattiva” o “folle” per aver magari insinuato che esiste una discrepanza tra ciò che vede e ciò che “dovrebbe” vedere. Per la natura della comunicazione umana il doppio legame non può essere un fenomeno unidirezionale. Se un doppio legame produce un comportamento paradossale, allora sarà proprio questo comportamento a “legare doppio” il “doppio legatore” e questa reciprocità esiste anche quando tutto il potere sembra essere nelle mani di una parte mentre l’altra è del tutto indifesa perché alla fine, come spiega Sartre, “il torturatore è degradato quanto la vittima”.
Per definire la connessione esistente tra il doppio legame e la schizofrenia possiamo dunque aggiungere altri due criteri:
- quando si ha un doppio legame di lunga durata, forse cronico, esso si trasformerà in qualcosa che ci si aspetta, qualcosa di autonomo e abituale, che riguarda la natura delle relazioni umane e del mondo in genere, una attesa che non ha bisogno di essere ulteriormente rafforzata;
- il comportamento paradossale imposto dal doppio legame a sua volta ha natura di doppio legame, e questo porta a un modello di comunicazione autoperpetuantesi.
Il doppio legame, quindi, non è semplicemente un’ingiunzione contraddittoria, che offre almeno la possibilità di compiere una scelta logica tra due alternative, ma un vero e proprio paradosso, che fa fallire la scelta stessa (illusione di alternative) e mette in moto una serie oscillante e autoperpetuantesi (un vero e proprio modello paradossale). Le comunicazioni paradossali legano quasi sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: dall’interno, quindi, non si può provocare nessun cambiamento (gioco senza fine) e può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello. La possibilità di interrompere un gioco senza fine (e quindi una comunicazione paradossale) attraverso un intervento esterno costituisce il paradigma dell’intervento psicoterapeutico.
In altre parole, il terapeuta in quanto outsider è in grado di provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento delle proprie regole. L’intervento psicoterapeutico dovrebbe quindi consistere sostanzialmente nel formare un sistema nuovo e allargato in cui non solo è possibile guardare il vecchio sistema dall’esterno ma è anche possibile che il terapeuta usi il potere del paradosso per ottenere un miglioramento (utilizzando interventi di doppio legame come ad esempio la prescrizione del sintomo).
Sul piano strutturale, un doppio legame terapeutico è l’immagine allo specchio di quello patogeno:
- presuppone una relazione intensa (nella fattispecie, la situazione psicoterapeutica) da cui il paziente si aspetta una ragione per sopravvivere;
- in questo contesto, viene data un’ingiunzione che è strutturata in modo tale da (a) rinforzare il comportamento che il paziente si aspetta che sia cambiato, (b) implicare che questo rinforzo sia un veicolo del cambiamento, e perciò (c) creare il paradosso perché al paziente si dice di restare com’è;
- la situazione terapeutica impedisce al paziente di chiudersi in se stesso o altrimenti di dissolvere il paradosso commentandolo.
Perciò anche se l’ingiunzione è assurda da un punto di vista logico, è una realtà pragmatica: il paziente non può non reagire ad essa , ma non può neppure reagire ad essa nel suo modo consueto, sintomatico. Il paziente viene messo in una situazione insostenibile, riguardo alla sua patologia. Se egli accondiscende non può più “non farci niente”; egli può farci qualcosa, e questo rende impossibile la situazione di non poterci fare niente (il che è lo scopo della terapia).
Se si oppone all’ingiunzione, può farlo soltanto non comportandosi sintomaticamente (che è lo scopo della terapia). Per concludere, quindi, mentre in un doppio legame patogeno il paziente è “dannato se può farci qualcosa ed è dannato se non può farci niente”, in un doppio legame terapeutico è “cambiato se può farci qualcosa ed è cambiato se non può farci niente”.
Fonte: http://www.scicom.altervista.org/psicologia/002_Appunti_sulla_PRAGMATICA.doc
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