Stress

 


 

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Stress

 

DEFINIZIONE

 

La parola stress, così comune nel nostro linguaggio quotidiano, si riferisce a un concetto vasto e complesso e può assumere significati diversi secondo il contesto culturale e storico in cui viene impiegata.

Il termine stress può essere utilizzato come sinonimo di stimolo nocivo, riferendosi sia a stimoli esterni che interni all’organismo i quali agiscono sia a livello psicosociale che intrapsichico e fisico (in questo caso più opportunamente viene utilizzato il termine stressor).

La parola stress può indicare una condizione di stimolo-risposta caratterizzata da una stimolazione accompagnata da reazioni psicologiche e fisiologiche, espressioni delle resistenze e delle difese dell’organismo verso quelle forze che ne vogliono mutare l’equilibrio.

Infine, è possibile considerare lo stress come una risposta psicologica e somatica complessa a stimoli diversi(biologici, sociali) di origine interna o esterna all’organismo (Trombini, Baldoni, 1999).

Lo stress viene definito acuto, quando si riferisce a situazioni di carattere intenso e transitorio, oppure cronico, quando si riferisce a condizioni che si protraggono nel tempo logorando gradualmente le capacità di adattamento e di resistenza dell’organismo. Viene poi distinto uno  stress positivo o eustress, da uno stress negativo o distress (Trombini G., Baldoni F., 1999).

Il termine stress non ha alcun senso se viene utilizzato in modo generico al di fuori di una cornice teorica precisa.

 

LE ORIGINI

 

Walter B. Cannon (1871-1945) fu il primo ricercatore che si dedicò allo studio dello stress in una prospettiva fisiologica. Egli introdusse il concetto di reazione d’allarme dimostrando come in alcuni animali sottoposti ad uno stress intenso si attivassero delle risposte di allarme automatiche; tra di esse vi erano: l’aumento della pressione sanguigna, l’aumento del glucosio ematico, la dilatazione delle pupille. Cannon riteneva che le suddette reazioni di carattere fisiologico fossero dei tentativi da parte dell’organismo di ristabilire una condizione di equilibrio cui, egli stesso, diede il nome di omeostasi. L’omeostasi viene mantenuta stabile da numerosi sistemi di controllo che regolano il funzionamento di organi e tessuti, attraverso meccanismi interni ed esterni, i quali riportano le funzioni fisiologiche a livelli medi quando queste risultano alterate (Trombini G., Baldoni F., 1999).

Virtualmente tutte le attività di un organismo, direttamente o indirettamente, sono coinvolte nella difesa dell’omeostasi; per questo motivo, la definizione di stress come ‘minaccia all’omeostasi’ può essere frequentemente priva di significato e deve essere considerata in maniera critica, alla luce delle attuali conoscenze sui sistemi coinvolti (Koolhaas J.M., et al., 2011).

Al problema della definizione dello stress se ne affianca un altro di pari importanza, ovvero, quello della definizione della natura adattiva o maladattiva della reazione allo stress.

Se Cannon dubitava che potesse esistere una sindrome generale di adattamento, Hans Selye (1907-1982), invece, considerava l’adattamento agli stressor ambientali come il principio della vita. Le malattie, dunque, sono il frutto di un cattivo adattamento, che non è semplicemente una carenza di risposta; esistono, infatti, malattie da eccesso di risposta (es. eccesso di cortisolo da stress cronico). Selye definì lo stress come la risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta di adattamento. Egli ipotizzò che l’organismo reagisse ad una varietà di stimoli nocivi con una sindrome generale di adattamento (GAS). Selye sosteneva che una serie molto ampia di stressors fisici, tossici, infettivi, psicologici inducessero in modo aspecifico la reazione biologica GAS, provocando un’attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene con conseguente aumento ematico degli ormoni steroidi corticosurrenali (Trombini G., Baldoni F., 1999).

 

IL SISTEMA DELLO STRESS

 

Il sistema dello stress è organizzato in due bracci: uno chimico, l’altro elettrico. Esso rappresenta una perfetta integrazione dei quattro sistemi che strutturano la complessa rete psiconeuroendocrinoimmunologica. Il braccio chimico parte dai neuroni paraventricolari dell’ipotalamo, dai quali vengono liberati CRH (ormone del rilascio della corticotropina) e AVP (arginina-vasopressina). Queste sostanze stimolano l’ipofisi a produrre ACTH (ormone adrenocorticotropo). Esso, liberato dall’ipofisi, giunge, attraverso la circolazione sanguigna alla corteccia delle surrenali dal cui strato intermedio, o zona fascicolata, viene rilasciato cortisolo. Il sistema così organizzato prende il nome di asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il braccio elettrico comincia dai nuclei ipotalamici parvocellulari, strettamente collegati, tramite fasci di fibre nervose, a nuclei collocati nella parte iniziale del midollo spinale, nell’area del ponte e della medulla. Questi nuclei definiscono un’area chiamata locus coeruleus, che produce soprattutto noradrenalina. Il locus coeruleus e i nuclei parvocellulari ipotalamici sono reciprocamente intrecciati; fasci di fibre nervose escono ed entrano dalle due aree suddette. Dal locus coeruleus parte quindi una segnalazione che, tramite il sistema nervoso simpatico, arriva a stimolare la parte interna delle surrenali, la cosiddetta midollare del surrene, incentivando la produzione di una miscela di sostanze eccitanti: adrenalina, noradrenalina e dopamina (catecolamine). La stimolazione avviene in quantità variabili secondo un ordine decrescente. La midollare del surrene è capace di produrre neurotrasmettitori perché contiene una popolazione di cellule, chiamate cromaffini, che hanno la stessa origine embriologica del tessuto nervoso. L’unità del sistema dello stress è data dal fatto che il CRH ipotalamico e la noradrenalina prodotti dal locus coeruleus si stimolano reciprocamente. L’asse si autoregola poiché i livelli di cortisolo circolanti vengono letti dall’ipotalamo e anche dall’ipofisi tramite recettori specifici, che consentono l’attivazione o l’inibizione del sistema, in base ai livelli di cortisolo circolanti (Bottaccioli F., 2005).

 

LA SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO (GAS):

 

All’interno della GAS è possibile distinguere tre fasi. Esse sono:

1) fase di allarme (alterazioni di tipo biologico e ormonale)

2) fase di resistenza (aumento della resistenza verso lo stimolo nocivo con riduzione della difesa verso altri stimoli).

3) fase di esaurimento (crollo delle difese e scomparsa dell’effetto di adattamento).

Per Selye lo stress è una reazione adattiva e fisiologica aspecifica, non una condizione patologica.

Per spiegare la relazione tra stressors e reazione corporea Selye aveva ipotizzato la presenza di un mediatore ormonale o nervoso unico, che chiamò first mediator, il quale, in presenza di stimoli nocivi differenti attivava in modo aspecifico la risposta endocrina. L’esistenza di questo mediatore unico non è mai stata dimostrata (Trombini G., Baldoni F., 1999).

L’impossibilità di dissociare gli aspetti maladattivi e adattivi della reazione allo stress ha causato frequentemente una distorsione notevole nell’interpretazione dei risultati emersi dalle ricerche sullo stress (Koolhaas J.M., et al., 2011).

 

ALCUNI CONTRIBUTI PIÙ RECENTI:

 

Mason (1971), partendo dalla teoria di Selye, ha escluso l’esistenza di un fattore endocrino o nervoso comune ed ha introdotto l’idea che lo stress possa essere attivato da una emozione. Stimoli fisici e psicosociali sarebbero in grado di sollecitare le strutture anatomo-fisiologiche responsabili dell’attivazione emozionale (sistema limbico). Queste reazioni per Mason sarebbero solo parzialmente aspecifiche; eventi stressanti che sollecitano l’insorgenza di emozioni comportano risposte psicologiche e biologiche che nei primati sono complesse e personalizzate (Trombini G., Baldoni F., 1999).

Il sistema dello stress annovera tra le strutture interagenti al suo interno anche l’ippocampo e l’amigdala. L’amigdala avvia le reazioni di stress a stimoli minacciosi mediante l’attivazione del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo. Il nucleo paraventricolare ipotalamico rilascia CRH nell’ipofisi, che a sua volta rilascia ACTH nel circolo ematico. L’ACTH provoca la liberazione di cortisolo da parte della corteccia surrenale. Il cortisolo, trasportato al cervello attraverso il flusso sanguigno, compromette il funzionamento ippocampale e facilita la funzione amigdaloidea. Poiché l’ippocampo normalmente inibisce il nucleo paraventricolare ipotalamico mentre l’amigdala generalmente lo eccita, gli effetti del cortisolo possono indurre un ciclo di pre-azione, giacchè la liberazione del cortisolo provoca un ulteriore rilascio dello stesso; dunque, la prerogativa dell’ippocampo di un rilascio lento è compromessa parallelamente alla facilitazione della funzione amigdaloidea di sollecitazione del rilascio.

Come precedentemente affermato,gli eventi stressanti, sollecitando l’insorgenza di emozioni, comportano risposte psicologiche e biologiche che nei primati sono complesse e personalizzate. Per questo motivo certe situazioni, anche intense e pericolose, assumendo un significato differente di persona in persona, possono comportare conseguenze solo per alcuni individui (Le Doux J., 2002).

Sembra che ci sia consenso sul fatto che se c’è qualcosa di comune tra gli stimoli che hanno prodotto lo stato di stress e le reazioni allo stress,tale elemento non corrisponda alle loro caratteristiche fisiche. Se uno stimolo risulti essere gradevole o minaccioso, ciò dipende dalla valutazione individuale della situazione, la quale, a sua volta, dipende dalle precedenti esperienze e dalle aspettative d’esito. Ci sono stimoli stressanti che possono essere valutati come negativi nella maggior parte delle situazioni in cui si presentano, e stimoli che saranno valutati positivamente da alcune persone e negativamente da altre (Ursin H., Eriksen H.R., 2004).

Lazarus (1966) ha utilizzato il concetto di stress psicologico per indicare la situazione nella quale la reazione individuale dipende dalla valutazione cognitiva dello stimolo. Ha utilizzato, poi, il concetto di stress fisico o fisiologico per indicare la situazione in cui lo stimolo agisce direttamente sui tessuti corporei e solo secondariamente sull’apparato mentale. Secondo il modello di Lazarus e Folkman sulle strategie di coping (1984) gli stimoli sarebbero elaborati dal punto di vista cognitivo in modo differente da individuo a individuo sulla base della costituzione genetica e delle proprie esperienze. Secondo tale prospettiva la risposta agli eventi nocivi acquisisce una propria parziale specificità (Trombini G., Baldoni F., 1999).

 

 

 

 

GLI EVENTI STRESSANTI

 

Elliot e Eisdorfer (1982) hanno definito cinque categorie all’interno delle quali è possibile racchiudere gli eventi stressanti. Questa tassonomia, centrata esclusivamente sulla natura dello stimolo stressante, focalizza in particolare due dimensioni degli stressors: la durata e l’andamento (discreto vs continuo). Elliot e Eisdorfer hanno identificato quattro tipi di stressors (Hobfoll S.E., 1989):

  1. acuti, a tempo limitato (una visita dal dentista, l’attesa di un esame diagnostico invasivo)
  2. sequenze di eventi stressanti (divorzio, lutto, perdita del lavoro)
  3. stressors cronici intermittenti (esami universitari, riunioni di lavoro con colleghi poco graditi)
  4. stressors cronici (disabilità, conflitti coniugali prolungati)

 

Engel (1962) ha descritto le cause alle quali sono legati eventi che per la maggior parte degli esseri umani assumono un valore psicologicamente stressante (Trombini G., Baldoni F., 1999).

 

  1. Una perdita (o una minaccia di perdita). Una perdita reale (o una minaccia di perdita) avviene quando un oggetto esterno non è più disponibile, sia nel presente che nell’immediato futuro. Questa esperienza può riguardare sia la morte di un essere umano (o di un animale) che la perdita di una parte del corpo, oppure di un bene prezioso fondamentale (come la casa o il patrimonio). L’esperienza di perdita può riguardare anche la caduta di un ideale politico o religioso, il fallimento di un progetto, un mutamento nel tenore di vita. Chi vive la perdita avverte la mancanza di quelle interazioni con l’oggetto che gli sono indispensabili per rinforzare e mantenere stabili le sue rappresentazioni psichiche interne che risultano, quindi, indebolite. Queste rappresentazioni contribuiscono, nel loro complesso, alla formazione della nozione di Sé e sono necessarie per un efficace funzionamento dell’Io e per lo sviluppo di un valido senso di integrità accompagnato dalla fiducia che i propri bisogni verranno soddisfatti. Questa dipendenza dagli oggetti fisici rende gli individui vulnerabili alla loro perdita, anche solo minacciata, spingendoli a forme di adattamento compensativo la più comune delle quali è il lutto. Nella perdita o nella separazione immaginaria (anche solo percepita come minaccia), l’individuo è afflitto da una fantasia che non ha riscontro con la realtà. Quest’ultima viene interpretata in modo deformato ed esagerato sulla base di conflitti inconsci e di un uso inadeguato di difese psichiche da parte di un Io fragile e immaturo.

 

  1. Un danno (o una minaccia di danno). Dal punto di vista psicologico la minaccia di un danno, anche solo simbolica, può essere più importante del danno stesso in quanto verso di essa si attivano le stesse reazioni psichiche e biologiche indotte dall’evento reale. Ogni individuo, durante il proprio sviluppo, esperimenta situazioni che vive come pericolose, in quanto provocano un danno (fisico o morale) e sollecitano dolore, angoscia, frustrazione o rabbia. Per ognuna di esse si formano rappresentazioni psichiche basate sia su percezioni specifiche, come ricordi ed emozioni, che su legami di natura simbolica. Queste rappresentazioni hanno il significato adattivo di mettere in guardia, fornendo una traccia basata sul passato, contro il ripetersi di un’esperienza traumatica. Un individuo reagirà ad ogni evento associato, consciamente e inconsciamente, a queste rappresentazioni cercando di evitare il ripetersi del danno originario. Questa associazione a volte è legata alla pericolosità reale dell’evento stesso, ma nella maggior parte dei casi è solo simbolica e inconscia. Le situazioni che assumono un significato traumatico variano da individuo a individuo. Ogni persona sviluppa una propria sensibilità verso eventi da evitare sulla base di come in passato questi abbiano rappresentato un pericolo affrontato con più o meno successo.

 

  1. La frustrazione di una pulsione. Quando un bisogno non trova la possibilità di essere appagato, nell’individuo si genera una tensione che lo spinge a comportamenti finalizzati alla diminuzione del disagio intrapsichico e alla soddisfazione del bisogno stesso. Perché l’ambiente possa agire come fonte di malessere, come nello stress, è necessario che l’individuo avverta la tensione relativa a un bisogno insoddisfatto. D’altro canto per raggiungere l’appagamento è necessaria la presenza nell’ambiente esterno di oggetti adeguati e disponibili. Le situazioni che possono affliggere l’essere umano impedendo una soddisfazione pulsionale adeguata sono le più varie. Esse riguardano non solo i bisogni legati alla sopravvivenza o legati alle pulsioni sessuali, ma anche pulsioni frustrate a causa di un conflitto intrapsichico. Nello specifico, le suddette condizioni possono essere legate sia alla persistenza di pulsioni infantili (accompagnate da fantasie e desideri), sia dall’inibizione di pulsioni più mature per la presenza di conflitti psicologici inconsci (Trombini G., Baldoni F., 1999).

 

 

COPING

 

DEFINIZIONE

 

Lazarus (1966) Quando usiamo il termine coping, ci riferiamo a strategie impiegate per affrontare situazioni minacciose.

Lazarus e Folkman (1984) Definiamo coping gli sforzi cognitivi e comportamentali mirati alla gestione di situazioni stressanti, che comportano la percezione di minaccia, perdita o sfida. La risposta individuale è frutto di un processo di valutazione delle varie opzioni disponibili e delle possibili conseguenze; le strategie di coping, quindi, sono parzialmente determinate dalla fiducia o dal dubbio impliciti sull’utilità di un determinato comportamento rispetto ad altri possibili.

Carver e Scheier (1999) Le strategie di coping sono la risposta alle esperienze di stress, che nascono dagli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi desiderati (o dall’evitamento di mete sgradevoli). Consistono negli sforzi (1) per creare condizioni che permettano di diminuire la distanza rispetto agli obiettivi (o aumentarla in caso di mete sgradevoli) e (2) per riuscire a rinunciare a progetti che si rivelano irrealizzabili.

Si è verificato un progressivo spostamento da una visione dell’essere umano come assediato dagli insulti dell’esistenza (come nelle prime descrizioni di Lazarus) a una visione più adattiva, in cui gli eventi stressanti vengono considerati come sfide o circostanze da governare attraverso l’uso del pensiero o degli strumenti psicologici e sociali a disposizione.

Secondo il suddetto punto di vista, sotto il termine generico di “adattamento” possiamo comprendere tre risposte (Lingiardi V., Madeddu F., 2002):

  1. defense: utilizzo di risposte riflesse associate a situazioni pericolo-salvezza
  2. mastery: capacità di affrontare i propri stati e processi psicologici come problemi da risolvere
  3. coping: sviluppo di manovre strategiche e comportamenti efficaci per affrontare situazioni difficili e insolite.

 

Sotto lo stress di una malattia fisica, per esempio, comportamenti in altri casi gravemente patologici, immaturi e disadattavi possono essere considerati normali o addirittura appropriati e adattivi. Il diniego, difesa primitiva, compare comunemente in pazienti gravemente malati, con una funzione protettiva, soprattutto nella prima fase di adattamento alla minaccia di morte. L’impiego di tale difesa consente all’individuo di ricomporsi secondo i propri tempi, per affrontare in modo graduale la nuova terribile situazione. Se però viene impiegato in misura eccessiva, il diniego può rivelarsi fortemente patologico, spingendo il paziente a evitare controlli medici o addirittura le terapie. È stato quindi suggerito di considerare gli aspetti adattivi del diniego di malattia fisica nell’ambito di uno stile difensivo più maturo, correlabile per certi aspetti al meccanismo della repressione. L’uso di particolari difese esige un preciso costo somatico, oltre che psicologico. Alcune ricerche, infatti, dimostrano l’associazione tra stile di rimozione e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, espressa in termini di compromissione della risposta immunitaria in condizioni di stress, aumento della pressione sistolica, incremento dei livelli salivari di cortisolo e maggiore predisposizione allo sviluppo di una varietà di condizioni somatiche come ulcera, allergia, ipertensione, impotenza ed herpes vaginale (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

 

STILI DI COPING

 

Secondo Carver e Scheier (1999) le strategie di coping corrispondono essenzialmente agli sforzi di autoregolazione nei momenti difficili. L’efficacia dei comportamenti messi in atto ne determina il valore adattivo; l’eventuale disfunzione del processo è interpretata in termini di insuccesso del meccanismo di autoregolazione piuttosto che di difese più o meno patologiche.

Nell’ambito dei modelli cognitivo-comportamentali, per autoregolazione si intende l’insieme dei processi di feedback che regola il comportamento, al fine di realizzare gli obiettivi prefissati. Il processo consiste nell’interazione circolare di quattro elementi (Lingiardi V., Madeddu F., 2002):

  1. stimolo o input con funzione di innesco. Solitamente corrisponde ad una percezione o ad una fonte di informazione su particolari aspetti della realtà.
  2. valore di riferimento. Il termine di paragone utilizzato dal soggetto; ciò che si intende raggiungere oppure evitare.
  3. sistema di comparazione tra input e valore di riferimento di sensibilità variabile.
  4. output o comportamento messo in atto. Non solo gli agiti veri e propri, ma anche le modificazioni interne del modo di pensare e di sentire.

 

Il confronto tra stimolo inteso come ciò che è, e valore di riferimento, ciò che dovrebbe essere, secondo il soggetto, innesca le condotte finalizzate a ridurre la discrepanza percepita oppure ad aumentarla, in base all’attrazione o alla repulsione esercitata dal valore di riferimento. Gli obiettivi, dunque, danno significato alla vita. Secondo il modello di autoregolazione gli obiettivi sono organizzati gerarchicamente, in base al livello di astrazione. I valori di riferimento, quindi, diventano progressivamente più concreti, muovendosi dall’alto verso il basso della gerarchia: si passa, cioè, dall’intenzione dell’essere a quella del fare. L’importanza attribuita ai diversi obiettivi è parallela ai loro livelli di astrazione: le mete più elevate, fondanti la concezione del Sé, tendono ad essere considerate irrinunciabili. Può accadere che più strategie servano ad un obiettivo o una strategia per più obiettivi. I sentimenti sono regolati da processi di feedback paralleli e simultanei a quelli che guidano la condotta: la velocità di riduzione della discrepanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere origina affetti positivi o negativi a seconda delle aspettative in proposito. È interessante notare la differenza dei sentimenti generati dai sistemi di approccio e quelli generati dai sistemi di evitamento. La risposta emotiva correlata al raggiungimento o meno della meta va dall’euforia alla depressione. Il grado di evitamento del repulsore produce risposte variabili dall’ansia al sollievo.

In merito al concetto di coping, cioè ai meccanismi di autoregolazione in situazioni difficili, Carver e Scheier descrivono la tendenza a interrompere il flusso d’azione e valutare le possibilità di successo, in base alle informazioni disponibili. Se le aspettative sono sufficientemente favorevoli, la risposta più adeguata dovrebbe essere l’intensificazione dello sforzo per raggiungere l’obiettivo desiderato. In caso contrario, si dovrebbe osservare una reazione di disimpegno totale o parziale, cioè di abbandono o ridimensionamento dell’obiettivo. Le strategie di coping, quindi, consistono sia nello sforzo per continuare a muoversi verso le mete desiderate, se effettivamente raggiungibili, sia per riuscire a modificarle, ridimensionarle o sostituirle, nel caso siano del tutto fuori portata (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

Comunemente, si descrivono tre classi di coping:

  1. coping focalizzato sul problema: insieme dei tentativi di rimuovere l’ostacolo o minimizzarne l’impatto.
  2. coping focalizzato sulle emozioni: insieme dei tentativi per ridurre la sofferenza emotiva causata dalle avversità, lavorando sulla riconsiderazione dell’ostacolo o sull’emozione in sé
  3. coping di evitamento: insieme delle risposte finalizzate a evitare la consapevolezza dell’ostacolo (autodistrazione, diniego, abuso di sostanze, fantasie autistiche), oppure a bloccare qualsiasi tentativo di affrontare il problema (rinunce precoci)

La scelta tra queste risposte di coping differisce in base alle situazioni, alle aspettative individuali e all’atteggiamento generale considerato secondo la dimensione ottimismo-pessimismo. Gli ottimisti tendono a utilizzare con maggiore frequenza strategie attive di coping focalizzato sul problema, privilegiando il pensiero costruttivo, l’accettazione della realtà e meccanismi di difesa maturi come l’umorismo; i pessimisti, invece, utilizzano con maggiore frequenza il coping di evitamento, con una marcata tendenza alla passività e al diniego (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

L’insuccesso delle strategie di coping, con le conseguenze disadattive e patologiche ad esso associate, viene spiegato dagli Autori in termini di:

  1. Misregulation,cioè funzionamento inadeguato di una qualsiasi delle componenti del processo di feedback di autoregolazione. Ciò si traduce nel basare azioni e sentimenti a riguardo su informazioni sbagliate o irrilevanti, con la conseguente distorsione più o meno massiva della realtà. La misregulation di per sé non produce stress, dal momento che il soggetto non ne è consapevole.

Dal punto di vista psicodinamico, cioè allontanandoci dalla prospettiva di Carver e Scheier, potremmo paragonare l’effetto a quello del diniego, in particolare alla negazione o alla razionalizzazione. L’esperienza di stress è dovuta alle conseguenze, spesso francamente patologiche dei comportamenti messi in atto, di cui si disconosce ogni responsabilità.

  1. Conflitto tra obiettivi.Il desiderio di raggiungere più obiettivi gerarchicamente allo stesso livello, può produrre stress quando non è possibile perseguirli contemporaneamente con lo stesso impegno e successo. Le strategie messe in atto per evitare o ridurre il conflitto consistono nel tentativo di:
  1. alternare tra obiettivi conflittuali( faticoso e strettamente legato alla sensazione di non fare niente adeguatamente)
  2. scegliere tra obiettivi riorganizzando di conseguenza la gerarchia personale di valori.

La seconda strategia, sostanzialmente risolutiva, è però la più difficile da applicare, specie in caso di mete di livello molto elevato, fondanti l’immagine del Sé. Anche in questo caso, si può prevedere che il fallimento della mediazione o della scelta tra obiettivi contrastanti sia potenzialmente in grado di indurre meccanismi di difesa di livello diverso, a seconda della capacità individuale di liberare l’ansia e il vissuto persecutorio legato alle richieste interne ed esterne eccessive e contrastanti. Inoltre è stata dimostrata l’associazione significativa tra conflitto di obiettivi e sintomi somatici.

  1. Dubbi automatici. Si tratta della sensazione residua di dubbio o di inadeguatezza, dopo ripetuti fallimenti in una certa area dell’esperienza. Se il dubbio è forte abbastanza, la persona sperimenta l’impulso ad arrendersi ai primi segnali di avversità, date le aspettative negative e francamente “catastrofiche” sulle proprie possibilità di riuscita. Si crea, dunque, un impedimento interno, più o meno paralizzante, a muoversi verso il raggiungimento delle mete desiderate. L’intensità del dubbio può indurre la messa in atto di difese diverse, da meccanismi maturi di autosservazione e anticipazione a risposte più primitive e disadattive  di autosvalutazione o diniego di desideri, considerati comunque irrealizzabili.
  2. Interruzione prematura dello sforzo. I dubbi possono indurre il ridimensionamento degli obiettivi oppure il loro completo abbandono. Un senso di inadeguatezza pervasiva in un’area dell’esperienza può sviluppare un comportamento ripetitivo di rinunce precoci e passaggio ad altro con la difficoltà conseguente a raggiungere qualsivoglia obiettivo. Talvolta la rinuncia è solo temporanea e parziale, è una fuga dalle avversità. Vengono messi in atto comportamenti di interferenza cognitiva e distanza anche fisica da quanto associato all’obiettivo in questione, che però non viene disinvestito di importanza e pregnanza affettiva. Nei suddetti casi si può instaurare un circolo vizioso, profondamente stressante, di tentativi-dubbio-fuga-nuovi tentativi.
  3. Incapacità di abbandonare o sostituire mete irrealizzabili. È la situazione opposta alla precedente. Il soggetto continua a perseguire obiettivi fuori dalla propria portata, collezionando fallimenti e impedendo a se stesso di notare, riconoscere, abbracciare nuove opportunità. Questo è un comportamento frequente in relazione ad obiettivi di livello gerarchico elevato, strettamente legati a nuclei significativi del Sé (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

 

MECCANISMI DI DIFESA E STILI DI COPING

 

Nel quadro generale dell’adattamento sembra difficile cercare di stabilire confini precisi tra coping e difese.

Cramer (1998) suggerisce di utilizzare il termine generale di “processo adattivo” in riferimento a qualsiasi strategia di risposta alle avversità, interne o esterne, considerando il coping e le difese come due tipi diversi di meccanismo adattivo, attivati da situazioni di “squilibrio psicologico”. I propositi delle risposte di coping sarebbero:

  1. ridurre l’affetto negativo
  2. tornare il più velocemente possibile al funzionamento di base
  3. affrontare o risolvere il problema.

I meccanismi di difesa, invece, avrebbero le due funzioni fondamentali di:

  1. evitare ansia eccessiva o altre risposte emotive dirompenti
  2. restaurare un livello di funzionamento confortevole.

Secondo questo approccio, quindi, la differenza più forte tra i due processi consisterebbe nel terzo proposito del coping, cioè nelle strategie messe in atto per affrontare le situazioni difficili, spesso agendo direttamente sul problema, contrariamente a quanto osservato relativamente ai meccanismi di difesa, la cui azione è caratteristicamente finalizzata alla modificazione di stati interni (affetto negativo) piuttosto che della realtà esterna. Cramer propone di analizzare il rapporto tra coping e meccanismi di difesa secondo cinque criteri (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

  1. Processi consci versus inconsci. Le difese sono generalmente considerate inconsce o con un livello minimo di consapevolezza. Il coping nasce da decisioni del tutto consapevoli.
  2. Intenzionalità. Il discorso sull’intenzionalità è strettamente associato a quello relativo alla consapevolezza. Le strategie di coping consistono in “tentativi cognitivi o comportamentali di affrontare uno stressor” e prevedono pertanto decisioni razionali e atti intenzionali. Al contrario, i meccanismi di difesa non sono frutto di scelta e sono definiti come involontari.
  3. Concettualizzazione gerarchica delle difese. Un’altra dimensione che tende a differenziare i processi di coping dalle difese è il generale disinteresse verso l’ordinamento gerarchico delle strategie di coping, contrariamente a quanto si osserva frequentemente nella letteratura sulle difese. Molti modelli difensivi, infatti, costituiscono una gerarchia dei meccanismi di difesa, basata su criteri di maturità psicologica, complessità cognitiva o continuum evolutivo, a differenza di gran parte delle teorizzazioni sul coping, in cui le differenze evolutive non vengono prese in considerazione.
  4. Costrutti disposizionali o situazionali. Il concetto di meccanismo di difesa è chiaramente disposizionale: lo stile difensivo, infatti, viene generalmente considerato come una caratteristica individuale relativamente stabile e persistente. Al contrario, le strategie di coping sono solitamente ritenute dipendenti dalla situazione.
  5. Normalità versus patologia. Un criterio frequentemente utilizzato per distinguere le difese dal coping è l’idea che le prime appartengano all’area della psicopatologia, mentre il secondo sia espressione del funzionamento psicologico normale. Ciò nonostante la letteratura psicoanalitica ha più volte sottolineato il carattere adattivo dei meccanismi di difesa nello sviluppo psicologico, evidenziando la natura patologica del loro abuso e non delle difese in sé (Lingiardi V., Madeddu F., 2002).

 

BIBLIOGRAFIA

 

Bottaccioli, F., (2005). Psiconeuroendocrinoimmunologia. II ed., Milano: Red Edizioni.

 

Hobfoll, S.E., (1989). Conservation of Resources. A new attempt at conceptualizing stress. American Psychologist, 44, 3, 513-524.

 

Koolhaas, J.M., Bartolomucci, A., Buwalda, B., et al. (2011). Stress revisited: A critical evaluation of the stress concept. Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 35: 1291-1301.

 

Le Doux, J. (2002). Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quello che siamo. Milano: Raffaello Cortina Editore.

 

Lingiardi, V., Madeddu, F., (2002). I meccanismi di difesa. Milano: Raffaello Cortina Editore.

 

Ursin, H., Eriksen, H.R., (2004). The cognitive activation theory of stress. Psychoneuroendocrinology, 29: 567-592.

 

Fonte: http://147.163.40.2/old/doc/40/Dispensa_stress_e_coping.doc

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