La religione mesopotamica
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La religione mesopotamica
SITUAZIONE STORICO - GEOGRAFICA
La Mesopotamia comprendeva quasi tutto il territorio dell’odierno Iraq ed era una fascia di terra molto produttiva, la cosiddetta mezzaluna fertile, situata tra i fiumi Tigri ed Eufrate. Delle prime popolazioni che la occuparono ci rimangono solo resti archeologici e perciò non ne sappiamo molto.
Una di esse, tuttavia, ci è ben nota: sono i Semiti (in seguito chiamati Akkadi) che a quanto pare sarebbero stati seminomadi ed allevatori di bestiame di piccolo taglio. Nel corso del IV millennio un altro popolo, che noi chiamiamo Sumeri, si installò in quest’area e si avvicinò ai Semiti. Questi due gruppi culturali rappresentarono il nucleo fondamentale per il popolamento del paese. Ognuno aveva portato la propria cultura, parlava la propria lingua ma col tempo questi due popoli s’incontrarono, si mescolarono, si frequentarono e misero in comune il loro capitale culturale. Nel II millennio, tuttavia, i Sumeri vennero assorbiti dagli Accadi, etnicamente più vigorosi e numerosi, e scomparvero per sempre.
Nei secoli successivi la Mesopotamia venne invasa continuamente da vari popoli (Gutei, Amorrei, Babilonesi, Assiri…) ed infine divenne una semplice provincia, prima dell’Impero Persiano e poi, dopo Alessandro Magno (330), del regno seleucide.
In questo complesso ed articolato quadro storico, culturale e politico sorse e si sviluppò, profondamente modellata ad esso, la religione mesopotamica.
CARTTERISTICHE DELLA RELIGIONE
Alla base della religione mesopotamica non c’era un fondatore. Le grandi religioni contemporanee hanno tutte un fondatore: il Cristianesimo si riconosce nella predicazione di Gesù Cristo, il Buddismo in quella di Buddah, l’Islamismo in quella di Maometto. La religione mesopotamica, invece, non era stata fondata, ad un certo punto ben definito della storia, da un grande spirito religioso che aveva saputo imporre intorno a sé, per poi diffonderli ed istituzionali, i suoi stessi sentimenti e le sue convinzioni riguardanti il sacro. Le credenze religiose degli abitanti della Mesopotamia si perdevano nella notte dei tempi preistorici; derivavano dalle reazioni comuni degli abitanti nei confronti del sacro: essi non facevano altro che adattare al sovrannaturale le loro abitudini originarie, il loro modo di pensare, di sentire, di vivere.
La religione è un fenomeno sociale, che risente delle forme dell’organizzazione umana e a sua volta influisce su di esse. Un fenomeno colossale come la nascita delle città doveva necessariamente incidere anche sulla religione. Quando i re e i suoi funzionari incominciarono a governare, l’immagine divina si modellò su quella terrena. Gli dèi apparvero agli uomini come re onnipotenti, ai quali si doveva un’obbedienza incondizionata: essi non erano oggetto di amore da parte dei fedeli, ma solo di timore e di rispetto. Gli dèi emanavano le loro decisioni, i cosiddetti “destini”, che guidavano le esistenze dei mortali. Come un suddito non poteva contestare la volontà del suo re, così i mortali non potevano contestare la volontà divina né opporsi ai suoi castighi. L’angoscia, la malattia, il dolore, la fame, erano tutte punizioni comminate dagli dèi sempre e soltanto per giusti motivi. I demoni erano visti come divinità di rango inferiore che eseguivano le punizioni divine. Spesso l’uomo non sapeva in che cosa avesse sbagliato, ma sapeva che la sua sofferenza era comunque l’effetto inevitabile di una colpa. Per scrutare la volontà divina ed evitare terribili punizioni si perfezionarono tecniche d’interpretazione affidate a specialisti (indovini, esorcisti, ecc.) e riti utili a placare l’ira dei padroni del cielo.
LE DIVINITA’
Ogni gruppo umano insediato nella regione aveva portato con sé le proprie antichissime credenze e aveva imparato a farle convivere con quelle degli altri. La Mesopotamia si ritrovò popolata di dèi: ce ne sono noti molti, più di mille, dai nomi strani e complicati, quasi tutti a carattere antropomorfico (del greco antico ànthropos, “uomo”, e morphè, forma): gli dèi erano dunque immaginati a somiglianza degli uomini e avevano un corpo come il nostro, anche se non conoscevano la vecchiaia e la malattia. Erano maschi e femmine, procreavano figli e vivevano in famiglia. Provavano sentimenti umani: gioia, gelosia, ira, vendetta, amore, odio.
In mezzo a questa folla di entità soprannaturali, gli uomini cercarono di orientarsi e stabilirono identificazioni e fusioni tra varie divinità dai caratteri simili. Le divinità più potenti – vale a dire quelle delle città più potenti – finirono inoltre per oscurare le minori, introducendo alcune linee di semplificazione in questa schiera troppo affollata.
A somiglianza della struttura sociale e politica delle città, s’immaginò che anche in cielo esistessero dèi più importanti e dèi meno importanti, loro dipendenti, proprio come i funzionari di palazzo dipendevano dal re.
A capo del pantheon mesopotamico, dunque, si trovava quella che è stata chiamata una triade: AN (in akkadico ANU), ENLIL ed ENKI (in akkadico EA). AN era il dio del cielo, era il fondatore della dinastia divina ed era il padre del re regnante: ENLIL. Questi (il cui nome letteralmente significa “Signore – Aria/Atmosfera”)era appunto il dio sovrano dell’universo, degli dèi e degli uomini, colui che dominava il Cielo e la Terra, che sapeva tutto e che comprendeva tutto; nel secondo millennio, tuttavia, venne considerato sovrano il dio MARDUK, una divinità dall’impeto furioso e dall’intelligenza insuperabile. ENKI svolgeva il compito dell’astuto consigliere intelligente.
Ecco altre importanti divinità mesopotamiche.
SAMAS (o anche UTU) era il dio del sole; molto venerata e conosciuta era INANNA (ISTAR per i Semiti), la Cortigiana celeste, la Prostituta divina, la protettrice dell’amore libero; NANNA era la dea della luna; NERGAL ed ERESKIGAL erano il dio e la dea sovrani dell’emisfero inferiore, cioè il nostro Inferno; ENBILULU era il dio dei due fiumi; NANSE’ la dea della regione marittima; ENKIMDU il dio dei campi; APSU o ENGUR il dio dell’Acqua dolce; ISKUR la divinità delle piogge e dei temporali; TIAMAT dell’acqua salata; ASNAN del germogliare dei cereali e delle piante; LAHAR della crescita del bestiame minuto; SIRIS della trasformazione dell’orzo in birra (bevanda nazionale); KULLA della fabbricazione dei mattoni; MUSDAMMA della costruzione degli edifici; SUMUQAN degli animali selvaggi; DUMUZI dell’allevamento del bestiame; UTU era responsabile del buon governo, amministrativo e giuridico, del Paese; UTTU dell’intero settore dell’abbigliamento; ARURU della riproduzione della specie umana; NINMUG della lavorazione del legno; e così via.
Si capisce dunque che i popoli mesopotamici (come d’altro canto anche gli egiziani, i greci…) abbiano strettamente collegato le personalità sovrannaturali al funzionamento della natura, della cultura e della società: come se tutti i fenomeni naturali e le attività civili, nell’origine e nella realizzazione, creassero dei problemi e non potessero essere spiegate senza una causa sovrannaturale.
Attraverso il sovrannaturale, il sacro e la mitologia, dunque, i mesopotamici tentarono di rispondere ai grandi enigmi che il mondo circostante poneva loro; col tempo, gli enigmi più urgenti e di maggior rilievo divennero i seguenti: l’origine del mondo e il destino dell’uomo dopo la morte.
LA COSMOGONIA
Per quanto riguarda le origini del mondo gli antichi autori di miti in lingua sumerica non si posero più di tanto il problema di sapere come e perché fosse nato il cosmo.
Il brano seguente è uno dei pochi che sono stati ritrovati inerenti all’argomento.
In quei giorni, in quei giorni arcaici,
In quelle notti, in quelle notti arcaiche,
In quegli anni, in quegli anni arcaici…
Quando l’Alto fu separato dal Basso,
E il Basso fu separato dall’Alto,
Quando An prese per sé l’Alto,
Ed Enlil prese per sé il Basso,
E alla sua parte inferiore assegnò Ereskigal…
Qui appare, a grandi linee, la concezione cosmogonia che il popolo si era fatta dell’Universo, suddiviso in due emisferi: il Cielo in Alto e in Basso l’Anticielo, l’Inferno, immensa sfera vuota (più tardi ci lasceranno intendere che era immerso in una favolosa massa d’acqua), il cui piano diametrale era costituito, nel mezzo, dalla distesa della terra abitata dagli uomini, avente, com’è ovvio, la Mesopotamia stessa per centro. Quest’ultima giaceva su di un’immensa falda d’acqua dolce, che sgorgava da pozzi e fonti ed era circondata, come un’isola, dalle acque amare del Mare. Il mito sopra citato immagina questo stato di cose solo come il risultato di una separazione originaria della massa dapprima confusa ed indistinta dell’universo, ad opera di due grandi dèi, An ed Enlil, entrambi desiderosi di impossessarsi di un emisfero. Enlil provvide poi ad affidare tutto il sottosuolo alla dea Ereskigal che doveva esserne, inizialmente, l’unica sovrana.
Nel secondo millennio, tuttavia, gli autori accadici si dedicarono con molto più interesse alla cosmogonia rispetto ai predecessori sumerici e realizzarono delle esposizioni molto precise ed articolate; tra queste, la più celebre, completa e particolareggiata, si trova nel Poema della Creazione.
L’opera comincia con la teogonia, la nascita degli dèi: poiché nella concezione mesopotamica gli dèi facevano parte del mondo, erano anch’essi sottomessi al passaggio dal non essere all’essere. Prima della loro esistenza c’era soltanto un’immensa distesa acquosa, considerata come l’interminabile accoppiamento della femmina Tiamat, l’Acqua salata del futuro Mare, col maschio Apsu, l’Acqua dolce della futura falda sotterranea. Da essa fuoriescono dapprima divinità solo abbozzate, in qualche modo ancora primitive; poi, coppia per coppia, i grandi dèi, fratelli maggiori della dinastia divina, regnante per l’eternità. Da due di queste divinità nasce, più in là nel tempo, Marduk, il dio perfetto, il più brillante, l’ineguagliabile. Egli divenne in seguito il supremo sovrano degli dèi, poiché li aveva salvati, battendosi eroicamente contro la loro madre primordiale, l’enorme e mostruosa Tiamat, che voleva annientarli. Marduk riesce però a sopprimerla e diviene sovrano assoluto del mondo, perché lui stesso lo crea usando l’enorme cadavere della sua vittima: dopo aver spaccato in due quel corpo smisurato, con la parte superiore forma l’emisfero superiore, cioè il Cielo, dove installa gli astri, ognuno col proprio itinerario e con il rispettivo infallibile ruolo; con la parte inferiore forma l’emisfero Basso, a cominciare dalla nostra terra, prima di tutto dalla Mesopotamia e dai territori con essa confinanti, con tutta la relativa geografia.
Un altro mito attribuisce sempre a Marduk la creazione del mondo ma dice che in origine c’era solo un grande Mare senza fondo né rive: per costituire la piattaforma terrestre Marduk sistemò una zattera sulla superficie dell’acqua e poi produsse la polvere e ve l’ammassò sopra.
Altri racconti attribuiscono la responsabilità dell’universo sia ai tre dèi supremi riuniti (Anu, Enlil ed Ea), sia ad Anu per il Cielo e ad Ea, l’intelligentissimo, per il resto.
Esiste persino un mito della creazione a catena: Anu creava soltanto il primo elemento, il Cielo, che creava il secondo, più ridotto, la Terra, che a sua volta creava i corsi d’acqua da cui nacquero i ruscelli, e così via.
Varianti simili sono perfettamente in sintonia con un sistema religioso come quello mesopotamico, privo di un complesso di dogmi fissati una volta per tutte e di testi sacri e normativi che definiscano una dottrina precisa ed univoca. Eppure, in fondo ad ognuno dei vari testi sacri si trova una sorta di intuizione comune a tutte, un’intuizione riguardante le origini: il mondo, l’Universo esiste per opera degli dèi, così come dipende da essi per il funzionamento, qualunque sia il modo concreto col quale si immaginava, nei diversi testi, questa dipendenza.
LA MORTE E GLI INFERI
Alle suppliche e alle preghiere rivolte agli dei da parte degli uomini si sottraeva una sola prova, il peggiore dei mali, ma che nessuno poteva evitare, dato che era stato scritto fin dal primo momento nella natura e nel destino dell’uomo: “mùtu”, la morte. La morte naturale e normale, s’intende, alla fine d’una vita sufficientemente lunga e senza circostanze tragiche: esistevano infatti procedimenti esorcistici contro gli incidenti ed il trapasso prematuro, ma nulla poteva valere contro l’attesa conclusione della vita.
IL VIAGGIO DEL DEFUNTO VERSO L’ALDILA’
L’ultimo respiro sottraeva i defunti alla sovranità degli dèi celesti per farli passare sotto la tutela di quelli infernali.
Del morto rimaneva una specie di doppio ombroso, volatile, aereo, un “fantasma”(etemmu) che doveva raggiungere l’infinita schiera dei suoi predecessori nell’aldilà.
Per quanto riguarda l’ingresso dell’Inferno (nèreb Ersetim) non sono state trovate molte informazioni sui vari percorsi di accesso all’Aldilà.
In mancanza di testimonianze esplicite la logica voleva che ogni tomba avesse per il defunto che vi era stato deposto il ruolo di passaggio, di scala per sprofondare sotto terra, di vestibolo, di accesso nell’oltretomba: da qui l’impossibilità per i morti insepolti di raggiungere l’aldilà. Tuttavia ci sono molte altre idee ed ipotesi a proposito delle vie che conducevano negli Inferi: ad esempio sembra si sia immaginato che crepacci, aperture e fori nella crosta terrestre potessero dare accesso al Mondo sotterraneo.
I documenti più espliciti che sono stati ritrovati sull’argomento, tuttavia, collocano la Grande Porta dell’Inferno nell’estremo Occidente del Mondo, laddove il sole ogni notte sprofondava nella Terra prima di riattraversarla sotterraneamente per riapparire il mattino dopo all’opposta estremità dell’orizzonte (e qui è evidente l’analogia con la religione egizia). Lo stesso Samas, il dio del Sole, era spesso strettamente collegato con i trapassati, di cui si doveva occupare nello stesso modo con cui si interessava dei vivi; si pensava che il dio del Sole conducesse un cammino sotterraneo, una sorta di interminabili tunnel che molto probabilmente coincidevano con l’ingresso all’Inferno.
Il defunto, per raggiungere l’estremo Occidente doveva intraprendere un cammino lungo e difficile, in vista del quale era indispensabile munirsi di abiti, sandali, otri d’acqua, bisacce e provvigioni da viaggio. Si prendeva il sentiero dell’Occidente; si attraversava obbligatoriamente il funebre deserto senza fine che portava a ovest, contrada di desolazione, fame e sete, riparo di fiere e di dèmoni, in cui si era esposti a tutti gli attacchi e si era costantemente tentati di tornare indietro. Si raggiungevano, infine, le lugubri sponde di Hubur (o anche Sahan/Irhan), il Mare che circondava la terra separandola dalle oscure rive dell’Aldilà, tanto poco discernibili che non si sapeva neppure con chiarezza se fossero al di là o al di sotto di questo mare cosmico. Molto probabilmente bisognava attraversare quest’immensa massa d’acqua sul battellino del barcaiolo infernale per passare finalmente la frontiera del Paese – senza – ritorno.
L’INFERNO
Tradizionalmente i mesopotamici si erano fatti dell’universo un concetto per così dire verticale e bipolare: lo consideravano come un immenso globo, composto da due elementi simmetrici, cioè la Parte alta (an/samù), o, se si preferisce, il Cielo, e la Parte bassa (Ki/ersetu), o Inferno, separati da un piano diametrale nel mezzo nel quale, circondata come un’isola dalle acque amare del mare (tàtmu) e poggiata sulla distese di acqua dolce dell’Apsu, si trovava la terra dei vivi. L’emisfero inferiore venne dato come spazio e cornice all’esistenza dei trapassati.
Il regno dei morti aveva diverse denominazioni, alcune delle quali niente affatto chiare come ad esempio Arallù, Lammù e Ganzer. Si diceva spesso e volentieri Ki, o Kur/Ersetu (“la terra”), nome globale dell’emisfero inferiore, o anche Ki.ta(mes)/Saplàtu (“le regioni di là sotto”), a volte ki.gal/Kigallu (“il grande basso”), Ki Utu.sùa. (“il luogo dove tramonta il sole”) ecc.
E’ probabile che si avesse un’idea molto confusa della disposizione interna dell’Inferno: tutto ciò che riguardava l’aldilà era infatti incontrollabile secondo la mentalità degli antichi mesopotamici e dunque immerso in una zona imprecisa, vaga, indistinta e colma di incongruenze e di elementi variabili e contraddittori.
L’oltretomba veniva considerato uno scialbo Inferno senza fiamme: un’ immensa, tenebrosa, silenziosa e triste caverna. Quando, piuttosto tardi, alcuni teologi vollero riorganizzare la disposizione dell’oltretomba, divisero l’Inferno in tre grandi piani, assegnando quello più profondo, più lontano dalla nostra terra, alla Corte dei potenti Anunnaki, le divinità infernali (quelle celesti erano chiamate Igigi); quello intermedio all’Apsu, la falda d’acqua dolce, e quello superiore, immediatamente al di sotto del nostro suolo e nel quale si aprivano le tombe, alla residenza degli spiriti degli uomini.
LA VITA NELL’OLTRETOMBA
Una volta giunto nell’aldilà il defunto doveva condurre, per l’eternità, un’esistenza scialba e torpida, una vita cupa e negativa in continua soggezione al dominio dispotico degli dèi infernali : addormentato e senza forze, immobile e coperto di terra, simile agli uccelli notturni dei fori e delle caverne, il defunto mangiava solo fango e beveva unicamente l’acqua fangosa degli stagni, comportamento agli antipodi di quello degli esseri viventi sulla terra; questa situazione, tuttavia, non gli impediva, ogni tanto, di tornare a spaventare e tormentare i vivi che lo avevano dimenticato.
Nell’Inferno vi erano le tenebre che sostituivano la nostra luce, l’immobilità e il silenzio sostituivano il nostro frastuono e la nostra agitazione, la polvere e il fango al posto dello splendore di tutto ciò che ci circonda. Ecco un brano spesso citato nella mitologia mesopotamica della morte:
Nel Paese – senza – ritorno, il regno di Ereskigal,
Istàr, la figli di Sìn, decise di recarsi:
Decise di recarsi, la figlia di Sìn,
Nella Dimora oscura, la Residenza d’Irkalla;
Nella Dimora da cui non escono più quelli che vi sono entrati;
Mediante il sentiero la cui andata è senza ritorno;
Nella Dimora in cui coloro che arrivano sono privati di luce,
Nutriti solo di humus e alimentati dalla polvere,
Sprofondati nelle tenebre, senza vedere mai il giorno,
Rivestiti, come uccelli, da un bizzarro manto di piume
Mentre sui battenti e sui catenacci si accumula la polvere… .
Il tono è ben chiaro: in qualunque modo si immaginassero l’esistenza che segue la morte e la cornice in cui si svolge, si potevano giudicare soltanto profondamente tristi, scialbe, torpide, agli antipodi della nostra gioia di vivere, chiara e vivace persino nelle peggiori disgrazie.
GLI DEI INFERNALI
Il pantheon infernale era del tutto diverso da quello celeste e le divinità infernali avevano tutte un carattere cupo, severo e ombroso.
La regina dell’oltretomba era ERESKIGAL, affiancata dal terribile marito NERGAL (chiamato anche ERRA); tutte le divinità dell’Oltretomba venivano chiamate ANUNNAKI e, tra queste, di particolare importanza era un gruppo di sette dèi che svolgevano le funzioni di “giudici”: i più importanti erano SAMAS, il dio del Sole, che in virtù del suo percorso notturno sotto la terra assumeva un certo ruolo nei confronti dei trapassati; GILGAMES, un re di Uruk diventato eroe di numerose leggende e successivamente divinizzato; NAMTAR, il Destino; PETU (nome che la maggior parte degli assiriologi legge NEDU), il Portiere infernale e altre divinità secondarie. Da ricordare sono, infine, alcune coppie di divinità: DURI – DARI; LAHMU – LAHAMU; ALALA – BELILI, ecc.
Gli dèi infernali non erano dei morti ed esigevano, proprio come le divinità celesti, onori, una vita fastosa e senza problemi, pur se questa vita era talora a sua volta segnata da elementi negativi. Bisognava fornir loro ad ogni modo, come agli altri dèi, tutti i beni richiesti, il cui lusso e la cui abbondanza erano suggeriti dal Palazzo infernale di lapislazzuli dove si immaginava che dimorassero. Questo Palazzo era stato concepito come situato al centro di una vasta cittadella sotterranea, cinta da un’immensa muraglia e all’interno della quale non si poteva penetrare se non dalla Porta, severamente custodita dallo spietato Pètu, il capoguardia. Tutti i bastioni erano rinforzati sette volte da sette mura concentriche le porte delle quali erano custodite da un cerbero.
In alcuni brani mitologici si racconta che il defunto raggiungeva questa città sotterranea e che per entrarci doveva progressivamente denudarsi, abbandonando presso ciascuna delle sette porte qualcosa di sé, fino ad entrare completamente nudo nell’ultimo muro di cinta: qui sarebbe stato trattenuto dagli dèi per l’eternità. Il denudamento progressivo del nuovo arrivato rappresenta una metafora dell’esistenza di cui la morte ci spoglia sempre.
L’istituzione monarchica, dominante nelle città e nelle campagne della Mesopotamia, dominava anche nelle credenze religiose degli uomini e nella loro concezione dell’aldilà. Seppure avessero cambiato stato, infatti, i trapassati non avevano cambiato condizione: erano sempre sudditi di divinità sovrane, nel loro Anticielo, dove tutto ciò che si trovava di positivo sulla terra era in qualche modo caratterizzato dal segno negativo.
Così, dal Cielo alle profondità degli Inferi, dalla creazione del mondo (se non già da prima) si delineava e si manifestava ovunque quest’ostinata ed universale analogia con l’istituzione monarchica che, nella religione dell’antica Mesopotamia, rappresentava un incrollabile pilastro.
Gli antichi fedeli si sentivano guidati dagli dèi come dai re: si erano adattati a questo tipo di soggezione ed erano tempi lontani in cui gli uomini riconoscevano che non si poteva sfuggire al destino: erano tempi in cui non era stata ancora scoperta la contestazione del potere.
BIBLIOGRAFIA
- BOTTERO’, JEAN, Mesopotamia, Torino, Einaudi, 1987
Fonte: http://old.liceivaldagno.it/ScuoleInRete/trissino_valdagno/mediateca.nsf/
9bc8ecf1790d17ffc1256f6f0065149d/eaa77160c84a9861c12570d7003f023c/Body/M28/mesopotamica.doc?OpenElement
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