Patrologia

 

 

 

Patrologia

 

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Patrologia

 

 

PATROLOGIA

 

 

quod ubique, quod semper, quod ab omnibus

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Patrologia: termine coniato dal luterano J. Gerhard († 1673) nel suo studio postumo Patrologia sive de primitivae ecclesiae christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum (Patrologia o opuscolo sulla vita e sui pensieri dei dottori della primitiva chiesa cristiana), pubblicato a Jena nel 1653. Il testo tratta il periodo che va da Erma (II sec.) a Bellarmino (XVI sec.). La patrologia è la scienza che studia la vita e le opere dei Padri della Chiesa. È una storia letteraria che mira a far rivivere la fisionomia degli scrittori, mentre ne illumina gli scritti. Limitata ai Padri, è parte della letteratura cristiana antica, che include autori ortodossi ed eterodossi.

Patristica: nasce come aggettivo, poiché nel secolo XVII si distinguevano vari tipi di teologia: biblica, patristica, scolastica, simbolica, speculativa. Privilegia lo studio delle idee e delle dottrine.

 

I Padri: Una definizione tradizionale richiede che nel “padre” si ritrovino: ortodossia della dottrina, santità di vita, approvazione della Chiesa, antichità. In ogni epoca ci sono liste di coloro che sono considerati “padri”; gli altri autori ad essi contemporanei, ma che non abbiano tutti e quattro i requisiti richiesti, sono definiti “scrittori ecclesiastici”. Infine alcuni, che ebbero maggiormente le qualità di padri, sono “dottori della Chiesa”.

Gli antichi non forniscono una frontiera cronologica precisa: le Bibliothecae Patrum dell’epoca moderna arrivavano al XV-XVI secolo, mentre le collezioni di testi preparate da Mabillon (sec. XVIII) e Migne (sec. XIX) si fermano a San Bernardo (1091-1153). Oggi si fa terminare il periodo dei Padri con Gregorio Magno (540-604) e Isidoro di Siviglia (560-636) per i latini e con Giovanni Damasceno (675-749) per i greci. Secondo alcuni studiosi bisognerebbe includere anche Beda e il bizantinismo.

P. Congar, in Les saints pères, organes privilégiés de la Tradition (articolo apparso sul numero 4 della rivista Irenikon del 1962), mette in discussione l’affermazione che attribuisce agli autori dei primi secoli pieno accordo con un’ortodossia definita dopo di loro. I Padri sono dunque organi privilegiati della tradizione; testimoni della definizione dei dogmi trinitario e cristologico, che scrivono quando le verità di fede, in gran parte grazie a loro, prendevano forma ed espressione. Testimoni ed elaboratori della liturgia, di una spiritualità che è contemplazione dogmatica.

Il Concilio di Trento (1546) afferma: «In questioni di fede e di costumi è temerario interpretare la Scrittura contrariamente al sentire della Chiesa e al consenso unanime dei Padri».

Vincenzo di Lerins (†435) pone le basi del principio dell’autorità della Tradizione nel suo Commonitorium, stabilendo il principio per cui è parte della Tradizione «ciò che dovunque, ciò che da sempre, ciò che da tutti» (quod ubique, quod semper, quod ab omnibus) è condiviso. Ancora, nella stessa opera, scrive: «Tutto quello che i santi padri hanno potuto sostenere, in unità di pensiero e di sentire, va considerato come la dottrina vera e cattolica della Chiesa, senza alcun dubbio né scrupolo.….Niente dev’essere creduto dai posteri, eccetto quello che l’antichità sacra dei santi padri ha conservato unanimemente nel Cristo».

Il cardinal Newman (sec. XIX) spiega bene l’importanza di questo consenso, e in che cosa esso differisca dalle opinioni private: «Io seguo gli antichi Padri, ma senza ritenere ch'essi possiedano di per se stessi l'autorità che detengono in materia di dottrina o di precetto. Quando parlano di dottrine, essi ne parlano come di dottrine universalmente accettate. Attestano cioè che queste dottrine sono am­messe, non qua e là, ma dappertutto. Noi riceviamo queste dottrine ch'essi insegnano a questo modo, non semplicemente perché essi le insegnano, ma perché recano testimonianza del fatto che tutti i cri­stiani le accettano in tutti i luoghi. Li prendiamo come onesti infor­matori, ma non come un'autorità sufficiente in se stessi, benché abbiano anche un'autorità propria. Se riferissero queste stesse dottrine dicendo: “Queste sono le nostre opinioni; le abbiamo dedotte dalla Scrittura, e sono vere”, potremmo ragionevolmente esitare a rice­verle dalle loro mani. Potremmo dire che abbiamo gli stessi diritti che hanno loro di trarre deduzioni dalla Sacra Scrittura, e che queste sono semplici opinioni. Potremmo aggiungere che, se le nostre con­cordano con le loro, è 'una fortunata coincidenza, e nel caso contrario non c'è niente da fare e dobbiamo seguire la nostra propria ispira­zione. Certo, nessuno ha il diritto d'imporre ad un altro le sue per­sonali deduzioni in materia di fede. C'è tuttavia un obbligo manifesto per l’ignorante di sottomettersi a coloro che sono meglio informati. È anche naturale che un giovane resti sottomesso per qualche tempo, in modo implicito, all'insegnamento dei più anziani. Ma, a parte que­sto, l'opinione d'un individuo non è migliore di quella d'un altro. Non così accade per ciò che riguarda gli antichi Padri. Essi non rife­riscono la loro opinione personale. Non dicono: “Questo è vero perché noi lo vediamo nella Scrittura” - a proposito della quale si possono verificare differenze di giudizio - ma: “Questo è vero perché di fatto è ritenuto vero ed è sempre stato considerato tale da tutte le Chiese ininterrottamente dall'epoca degli apostoli ai tempi nostri”. Si tratta qui d'una semplice questione di testimonianza: avevano mezzi per sapere che quella tale proposizione era stata ed era accettata così? Se, in realtà, quella era la credenza di Chiese così numerose e nello stesso tempo indipendenti, e se queste la consideravano come pro­veniente dagli apostoli, senza dubbio essa non può non essere vera ed apostolica» (Discussions and Arguments 11, 1).

 

Secondo questo stesso spirito oggi la Chiesa è tornata ai guardare ai Padri, in particolare a partire dagli anni precedenti la celebrazione del Concilio Vaticano II. Il progresso ecclesiologico conciliare può essere sintetizzato quale superamento di una visione parziale della Chiesa (nella quale si accentuava in modo unilaterale il suo aspetto esterno, giuridico e gerarchico) con una visione più completa ed approfondita. I principali fattori teologici e pastorali che hanno portato a questo progresso

Il notevole progresso ecclesiologico del Vaticano II, si ricordi, è stato possibile grazie ad una serie di fattori teologici e pastorali intervenuti nei decenni precedenti:

  • Il movimento biblico

 

 

 

Possiamo concludere queste prima parte tornando a citare le parole che P. Benoit scriveva al termine del suo saggio: «Ecco quanto costi­tuisce l'attualità più significativa della patristica: essa è, nel secolo dell'ecumenismo, il richiamo continuo alla teologia di una Chiesa unita e l'invito costantemente ripetuto a ritrovare l'unità perduta. L'importanza della patristica è nel suo sfociare al centro della ricerca ecu­menica. Non è dunque una disciplina rivolta unica­mente al passato, ma guarda anche all'avvenire, a questo domani nel quale la Chiesa di Cristo ritroverà la sua vera cattolicità. Il patrista è certamente l'uomo che studia i primi secoli della Chiesa, ma ha pure il dovere d'essere l'uomo che prepara l'avvenire della Chiesa. In ogni caso questa è la sua vocazione».

 

 

 

 

 

 

 

 

Storia della storiografia

Fin dall’antichità il mondo cristiano riflette sulla propria storia e cerca di delineare profili dei più eminenti studiosi del pensiero. Eusebio di Cesarea (†339), nella sua Storia ecclesiastica, per primo dà largo spazio alla storia della letteratura. Girolamo (†420) nel suo trattato Sugli uomini illustri, scrive 135 brevi agiografie, da Pietro a lui stesso. Gennadio di Marsiglia, verso il 490, ne prosegue l'opera aggiungendo un centinaio di biografie. Isidoro di Siviglia (†636) ne aggiunge ancora 47 e il suo discepolo Ildefonso di Toledo altre 14. In Oriente, dopo Girolamo, ci sono le vite scritte dal patriarca Fozio nel suo Myriobiblion del 858. Varie biografie si possono trovare anche nel lessico bizantino Suda. Alcune delle vite che si trovano in queste opere proverrebbero comunque dall'Onomasticon di Esichio di Mileto, nella qual opera un anonimo avrebbe inserito varie biografie di cristiani.

In epoca carolingia c'è una buona conoscenza dei Padri, ma, letti e meditati in ambienti scolastici, anche nei secoli seguenti, sono citati dai teologi come autorità, senza indagarne il pensiero individuale.

Col Rinascimento, insieme alle lingue greca e latina, si riscopre il patrimonio patristico e i Padri vengono invocati, da ambo le parti, nella controversia tra Riforma e Chiesa Cattolica (es. le Centurie di Magdeburgo del 1559, opera luterana contro le deviazioni cattoliche, o gli Annali ecclesiastici di Baronio). Il benedettino tedesco Giovanni Tritemio (†1516) e il gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) redassero ciascuno ampie opere dal titolo Gli scrittori ecclesiastici, comprendendo gli autori dalle origini al Medioevo incluso. La Riforma luterana, invece, rinnova, l’amore per i Padri a livello propriamente teologico. I riformatori, infatti, come sottolinea il Benoît, pur mettendo in primo piano l’autorità della Bibbia, non rifiutavano la storia e il suo sviluppo, bensì facevano del principio biblico un criterio di giudizio di essa: pertanto ai Padri, pur non essendo considerati allo stesso livello della Bibbia, veniva attribuita un’autorità proporzionale al loro accordo con la Scrittura. Lutero riteneva che nell’insieme i Padri manifestassero la fede in Cristo della Chiesa antica.

I Padri vengono accettati non per la loro antichità o per la loro santità o per il riconoscimento ecclesiale o per la loro unanimità di vedute, cioè in base ai criteri cattolici di definizione di Padre, ma in virtù dell’omogeneità al pensiero biblico. Questo criterio segna una svolta importante negli studi patristici, perché rende impossibile una citazione meccanica e arbitraria dei testi e implica un serio esame, un’analisi critica. Siamo però ancora sempre su un piano teologico e contenutistico e l’analisi dei testi è funzionale alla polemica nei riguardi della Chiesa cattolica, quindi è soggetta talora a manipolazioni e forzature.

A sua volta, la parte avversa, cioè i teologi cattolici, usa i Padri con scopo opposto, ma secondo la medesima impostazione: si prendono le affermazioni dei Padri per appoggiare questo o quel dogma, questa o quella pratica. L’uso dei Padri resta un capitolo dell’apologetica.
Così nel ‘500, insieme alla tradizione patrologica specifica dell’Umanesimo, si prolunga e si sviluppa anche la tradizione patristica, vale a dire l’utilizzazione teologica dei Padri in vista dell’elaborazione dottrinale. Ma la controversia sui Padri spinge gli storici protestanti e cattolici ad uno studio sempre più serio: già alla metà del ‘500 si trovano i primi importanti lavori consacrati ai dottori della Chiesa antica.

Nei secoli XVII e XVIII si ebbero molti altri lavori individuali, finché i Benedettini Maurini cominciarono a pubblicare sistematicamente le opere dei Padri precedute da una lunga introduzione sulla vita, le opere e la dottrina di ogni autore. In questi secoli si fissano inoltre i limiti cronologici della Patristica e si scoprono moltissimi testi inediti. A tale proposito si possono ricordare gli italiani Muratori (1672-1750) e Mansi (1692-1769). Nel 1729 don Rem Cellier pubblica il primo dei ventitre volumi di una Storia generale degli autori sacri ed ecclesiastici, che arriva fino alla metà del XII secolo.

Nei secoli XIX e XX, fino a tutt'oggi, continua la scoperta e l'edizione dei testi, le cui principali collane sono riportate nella seguente bibliografia.

 

 

 

 

 

 

Trasmissione dei testi

Nel mondo antico tutte le opere erano copiate a mano, pertanto esse, quando sono riuscite a sopravvivere fino all'epoca della stampa, vi sono arrivate piene di errori, contaminazioni, aggiunte e mancanze.

In epoca antica per primo Cassiodoro (485-580), nel suo monastero di Vivarium, fa sistematicamente tradurre dal greco e copiare le opere dei Padri. Nel corso del Medioevo furono i monasteri, specialmente grandi abbazie come Bobbio, S. Gallo, Reichenau, Corbie a conservare il patrimonio patristico. I testi greci erano noti attraverso traduzioni latine e tutti erano trasmessi in raccolte (egloghe, filocalie, catene, florilegi, apoftegmi).

Ai Padri Cappadoci (IV secolo) risale una delle prime raccolte, una Filocalia di testi di Origene. In Occidente, invece, domina Agostino, dalle cui opere Prospero, Eugippo, Floro di Lione, Beda compongono volumi di Sentenze. Addirittura Isidoro di Siviglia compone una summa teologica costituita da citazioni di Agostino e Gregorio Magno. Nel VII secolo “Defensor” di Ligugè, nel suo Liber scintillarum, allarga l'interesse a sentenze morali ed ascetiche, includendo i Greci ed Efrem il Siro. Contemporanei sono gli anonimi Testimonia Divinae Scripturae et Patrum e anche gli omeliari attingono largamente ai Padri.

A partire dal Rinascimento poi, in seguito alla riscoperta di molti testi e, soprattutto, grazie all'invenzione della stampa, gli scritti dei Padri tornarono ad essere letti e diffusi in versione integrale, spesso raccolti in collezioni sistematiche. La prima fu l'opera di Pietro Hallois, costituita da due tomi in folio, apparsa nel 1633 col titolo di Illustrium sciptorum Ecclesiae Orientalis, qui sanctitate iuxta et eruditione I et II saeculo floruerunt et Apostolis convixerunt vitae et documenta (Vite e documenti di illustri scrittori della Chiesa Orientale, che fiorirono nel I e II secolo per santità ed erudizione e vissero con gli Apostoli). Seguirono le raccolte di Suarées, Combéfis, Migne (quest'ultima, apparsa nel secolo XIX, è costituita da centinaia di volumi).

Purtroppo tutte le raccolte fin qui citate non contengono testi editi criticamente (ossia mancano di uno studio filologico che restituisca il testo nella sua forma presumibilmente più vicina all'originale), problema cui si è cominciato a provvedere solo nel secolo XX.

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia generale

 

 

Si indicano solo (con una parziale eccezione per opere italiane) alcune opere fondamentali o recenti, senza alcuna pretesa­ di completezza: in esse si troverà ulteriore bibliografia.

 

 

Repertori bibliografici

 

American Theological Library Association, ATLA Bibliography Series, Metuchen N.J. 1974-

 

L‘année philologique. Bibliographie critique et analytique de 1’antiquité gréco-latine, Paris 1924/26-

 

Bibliographia Patristica. Internationale patristùche Bibliographie, Berlin 1956- (con Supplementum tematico dal 1980)

 

Bibliographie biblique. Biblicai Bibliogyaphy. Biblische Bibliographie (P.-E. Langevin), Québec 1972-

 

Bulletin d’ancienne littérature chrétienne latine, Maredsous 1921/28-(suppl. della Revue Bénédictine)

 

Bulletin de littérature ecclésiastique, Toulouse 1899- (in precedenza sotto il tit.: Bulletin théologique, scientifique et littéraire)

 

Bulletin signalétique (du CNRS). 527: Histoire et sciences religieuses, Pa­ris 1970- (in precedenza la teologia era compresa nella sezione: Philosophie)

 

Elenchus of Biblical Bibliography, Roma 1985- (precedentemente: Elenchus bib1iographicus biblicus)

 

Gnomon. Kritische Zeitschrzjft für die gesamte klassiche Altertumswisen­schafi, Mùnchen etc., 1925-

 

New testament Abstracts, Weston Mass. 1956-

 

Religion index, Chicago: 1 Periodicals, 1977-78- (precedentemente: Index to Religious Periodwal Literature, dal 1949); 2. Multi-author WorkS, 1970/75-

 

Revue d’histoire ecclésiastique. Bibliographie, Louvain 1900-

 

Science of Religion, Amsterdam 1980- (precedentemente: Internatio­nai Bibliography of the Histoiy of Religions, Leiden, dal 1952)

 

Zeitschrifteninhaltsdientst Theologie. Universitätsbibliothek Tübingen, Theol. Abteilung, Tübingen 1975- (riproduce gli indici delle riviste ricevute dalla biblioteca)

 

 

 

 

 

 

 

Strumenti di lavoro

 

Bauer, W., Griechisch-deutsches Wörterbuch zu den Schriften des Neuen Testaments und derfruhchristlichen Literatur, 6., völlig  neu bearb. Auflage, hrsg. von K. u. B. Aland, Berlin-New York 1988

 

Baur, C., Initia Patrum Graecorum, 2 v., Città del Vaticano 1955

 

Biblia Patristica. Index des citations et allusions bibliques dans la littéra­ture patristique, Paris 1975-

 

Bibliotheca Hagiographica Graeca. 3. ed. a cura di F. Halkin, 3 v., Bru­xelles 1957; F. Halkin, Auctariurn, Bruxelles 1969; Id., Novum Auctarium, Bruxelles 1984

 

Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, ed. Sodi Bollandiani, 2 v., Bruxelles 1898-1901; H. Fros, Bibliotheca Hagio­graphica Latina antiquae et mediae aetatis. Novum Supplernentum, Bruxelles 1986

 

Blass, F. - Debrunner, A., Grammatik des neutestamentlichen Griechisch, bearb. von F. Rehkopf, Gòttingen 198416 (tr. it. Brescia 1982)

 

Cetedoc Library of Christian Latin Texts (CD.ROM), Turnhout 1991-(concordanza informatica del vocabolario degli autori cristiani latini)

 

Geerard, M., Clavis Patrum Graecorum, 5 v., Turnhout 1974-1987 Dekkers, E., Clavis Patrum Latinorum, Steenbrugge 1961

 

Goodspeed, E. J., Index patristicus sive clavis Patrum apostolicorum ope­rum, Leipzig 1907 (rist. 1960)

 

Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament hrsg. von G. Kittel, Stuttgart 1933-1979 (tr. it. Grande lessico del Nuovo Testamento Brescia 1965-1992)

 

Kraft, H., Clavis Patrum Apostolicorum, München 1963

 

Moulton, J.H. - Milligan, G., The Vocabulary of the Greek Testament Il­lustrated from the Papyri and Other Non-literary Sources, London 1914-1929

 

A Patristic Greek Lexicon, ed. G.W.H. Lampe, Oxford 1961

 

Vattasso, M., Initia Patrum et aliorum scriptorum ecclesiasticorum lati­norum..., 2 v., Roma 1906-1908 (rist. Graz 1959)

 

Vollstädndige Konkordanz zum griechischen Neuen Testament... unter der Leitung von K. Aland, 2 v. in 3 t., Berlin-New York 1978-1983

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Opere di consultazione

 

The Anchor Bible Dictionaiy, ed. D.N. Freedman, 6 v., New York [etc.] 1992

 

Dictionary of the Apostolic Church, ed. J. Hastings, 2 v., Edinburgh 1915-1918

 

Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, ed. F. Cabrol, H. Le­clercq, Paris 1924-1953

 

Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, Paris 1912-

 

Dictionnaire de la Bible. Supplérnent, Paris 1928-

 

Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire, Pa­ris 1937-

 

Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903-1972

 

Dizionario patristico e di antichità cristiane, dir. da A. di Berardino, 3v., Casale Monferrato 1983-1988

 

Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i.Br. 1957-1967

 

Oxford Dwtionary of the Christian Church, ed. F.L. Cross, London 1974

 

Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neu Ausgabe begonnen von G. Wissowa, Stuttgart 1894-1980 (3 serie parallele: 1. Reihe, 2. Reihe, Supplement). L’opera di consultazione fondamentale per l’antichità greca e romana, ivi compreso il cristianesimo.

 

Realencyclopädie für Protestantische Theologie und Kirche, ed. J.J. Herzog, A. Hauck, Gotha 1896-1913

 

Reallexikon fùr Antike und Christentum, Stuttgart 1950-

 

Die Religion in Geschichte und Gegenwart, Tùbingen 1956-1965

 

Theologische Realenzyklopéidie, ed. G. Krause, G. Mùller, Berlin; New York 1976-

 

 

Manuali di Patrologia

 

Altaner, B., Stuiber, A., Patrologie. Leben, Schrzjften und Lehre der Kir chenväter, Freiburg; Basei; Wien l981 (tr. it. con aggiornamenti propri: B. Altaner, Patrologia, Torino 1981)

 

Bosio, G., Dal Covolo, E., Maritano, M., Introduzione ai Padri della Chiesa, 3 v., Torino 1990-1993 (con antologia)

 

Dattrino, L., Patrologia, Casale Monferrato 1991

 

Mannucci, U., Casamassa, A., Istituzioni di patrologia, 2 v., Roma 1948-1950

 

Peters, G., Lire les Pères de l’Eglise. Cours de patrologie, Paris 1988 (tr. it. in 2 v., Roma 1984-1986)

 

Quasten, J., Patrology, 3 v., 1950-1960; tr. it. in 2 v., Torino 1967-1969 e ristampe; vi si è aggiunto: Patrologia III. I Padri latini (seco­li IV-V), a cura di A. Di Berardino, Torino 1978

 

 

Storie della letteratura cristiana antica

 

Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, hrsg. von W. Haase u. H. Temporini, II. Principat, Berlin-New York 1974 (i vv. 25-27 di que­sta sezione, ciascuno in più tomi, ancora in corso di pubblicazio­ne, sono dedicati alla letteratura cristiana precostantiniana)

 

Aune, D.E., The New Testament in its Literary Environrnent, Philadel­phia 1987

 

Amatucci, A.G., Storia della letteratura latina cristiana, Torino 1955

 

Bardenhewer, O., Geschichte der altkirchlichen Literatur, 5 v., 1912-1932 (tra queste date sono comprese le più recenti edizioni dei singoli volumi)

 

Beck H.G., Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, Mùnchen 1977

 

Campenhausen, H. von, Griechische Kirchenvater, Stuttgart 1967 (tr. it.. Brescia 1967)

 

Campenhausen, H. von, Lateinische Kirchenväter, Stuttgart 1986 (tr. it.Firenze 1970)

 

Christ,W. von, Geschichte der griechischen Litteratur, bearb. von O. Stählin u. W. Schmidt. Zweiter Teil: Die nachklassische Periode der griechischen Literatur, 2 v., München 1924, rist. 1961-1981 (sulla lett. cristiana: O. Stählin, p. 1105-1492)

 

D'Elia, S., Letteratura latina cristiana, Roma 1982

 

Dibelius, M., Geschichte der urchristlichen Literatur. Neudruck der Erstausgabe von­ 1926 unter Berücksichtigung der Änderungen der englischen­Übersetzung von 1936, hrsg. von F. Hahn, München 1990

 

Dihle, A. Die griechische und lateinische Literatur der Kaiserzeit. Von Augustus bis Justinian, München 1989

 

Fontaine, J., La letteratura latina cristiana. Profilo storico, Bologna 1973

 

Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, hrsg. von R. Herzog u. P. L. Shmidt, München 1989- (in corso; l’opera esce anche in tr. francese, Turnhout 1993-)

 

Harnack, A. von, Geschichte der altchristlichen Litteratur bis Eusebius. I: Die Überlieferung und der Bestand; II: Die Ghronologie, 4 v., Leipzig 1893-1897 (1958) (resta fondamentale)

 

Koester, H., Introduction to the New Testament, 2 v., Philadelphia; Berlin; New York 1982

 

Labriolle, P. de, Histoire de la littérature latine chrétienne, 3e éd. revue et augm. par G. Bardy, 2 v., Paris 1947

 

Monceaux, P., Histoire littéraire de l’Afrique chrétienne depuis les origi­nes jusqu’à l’invasion arabe, 7 v., Paris 1901-1923

Moricca, U., Storia della letteratura latina cristiana, 3 v. in 5 t., Tori­no 1925-1934

 

Pellegrino, M., Letteratura greca cristiana, Roma 1983 Pellegrino, M., Letteratura latina cristiana, Roma 1985

 

Puech, A., Histoire de la littérature grecque chrétienne depuis les origines jusqu’à la fin du IV siècle, 3v., Paris 1928-1930

 

Salvatorelli, L., Storia della letteratura latina cristiana dalle origini alla metà del VI secolo, Milano 1936

 

Simonetti, M., La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano 1969

 

Strecker, G., Literaturgeschichte des Neuen Testaments, Göttingen 1992

 

Vielhauer, P., Geschichte der urchristlichen Literatur. Einleitung in das Neue Testament die Apokryphen und die Apostolischen Vàter, Berlin-New York 1978

 

 

Importanti collezioni di testi

 

Testo originale (con o senza traduzione):

 

Acta conciliorum oecumenicorum, ed. E. Schwartz, Berlin 1914- (II se­rie dal 1984). Grande edizione critica.

 

Biblioteca patristica, Firenze 1984 (ediz. critica, tr. it., introd., com­mento)

 

Bibliothêkê hellênôn paterôn kai ekklêsiastikôn syngrapheôn, Athènai 1955  (testi greci)

 

Collection des universités de France, Paris 1920- (dedicata ai testi classi­ contiene un certo numero di edizioni critiche, con tr. france­se, di autori cristiani)

 

Corona Patrum, Torino 1975- (ediz. critica, tr. it., commento. Precedentemente era la collezione: Corona Patrum Salesiana)

 

Corpus scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Turnhout: Series Latina, dal 1954; Series Graeca dal 1977 (in entrambe solo ediz. critica dei testi); Series Apocryphorum­ dal 1983 (ediz. critica, tr. in lingue moderne, com­mento); Initia Patrum Latinorum, 2 v., 1971-1979; Instrumenta lexicologica Latina (microfiches), dal 1982. Collezione di grande importanza.

 

Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Wien, 1866- (molto im­portante; alcune delle sue edizioni sono riprese nel Corpus Christianorum)

 

Fontes Christiani, Freiburg i.Br. 1990- (ediz. critica, tr. tedesca, in­trod., note)

 

Die griechischen christlichen Schrzjtsteller (inizialmente: der ersten drei Jahrhunderterte), Berlin 1897- (ediz. critica dei testi originali; collezione di primaria importanza)

 

Kleine Texte fùr (theologische und philologische) Vorlesungen und Übungen, Bonn­ 1902- (testi brevi in edizioni critiche accurate)

 

Loeb Classical Library, London-Cambridge Mass., 1912- (serie greca e latina con numerosi autori cristiani; testo originale e tr. inglese)

 

Oxford Early Christian Texts, Oxford 1971- (ediz. critica, tr. inglese)

 

Patristische Texte und Studien, Berlin 1963- (contiene numerose edi­zioni critiche, con o senza tr. e commento)

 

Patrologiae cursus completus, ed. J.-P. Migne, Paris: Series Graeca, 167 v., 1857-1866, più 2 v. di indici (di Th. Hopfner), 1928-1936; Series Latina, 221 v. compresi gli indici, 1841-1864 (collezione di base; tutti i testi noti all’epoca, secondo le migliori edizioni dei sec. XVI-XIX, di cui si riproducono anche introduzioni e note; una trad. latina accompagna i testi greci; ricca di refusi e non più all’altezza delle esigenze critiche odierne, resta indispensabile per il gran numero di testi non ancora riediti)

 

Patrologiae cursus completus... Series Latina. Supplementum, a cura di A. Hamman, 5 v., Paris 1958-1974 (testi non compresi nell’opera precedente, editi secondo criteri più moderni)

 

Sammlung ausgewählter kirchen- und dogmengeschichtlicher Quellen­schriften, ed. G. Krüger, Tübingen 1891-

 

Society of Biblicai Literature (SBL) Texts and translations, Missoula, Mont. 1972- (testo, tr. inglese; diverse serie parallele)

Sources chrétiennes, Paris 1941- (ediz. critica, tr. francese, introd., no­te, talora approfondito commento; collezione di primaria impor­tanza)

 

Studies and Documents, London, etc., 1934-

 

Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, Berlin, [etc.] 1882- (in più serie successive): fondamentale colle­zione, destinata in origine a ospitare edizioni e studi preparatori per i Griechische christliche Schriftsteller, comprende numerose importanti edizioni di testi cristiani antichi

 

Textes et documents pour l’étude historique du christianisme, Paris 1904-1912 (uscirono 20 v.; testo e tr. francese)

 

Texts and Studies. Contributions to Biblical and Patristic Literature, Cambridge [etc.] 1891-

 

 

Solo traduzione:

 

Ancient Christian Writers, Westminster Md [etc.] 1946- (tr. inglese)

 

Ante-Nicene Fathers, New York 1-10, 1886/87 (tr. inglese)

 

Bibliothek der Kirchenväter, Kempten [etc.] 1869-1938 (tr. tedesca)

 

Collana di testi patristici, Roma 1976- (tr. italiana)

 

Collection Les Pères dans la foi, Paris 1977- (tr. francese)

 

Erbetta, M., Gli apocrifi del Nuovo Testamento, 3 v. in 4 t., Casale Monferrato 1966-1981 (tr. italiana; la raccolta più ampia di apo­crifi cristiani antichi)

 

Letture cristiane del primo millennio, Milano 1987- (precedentemente: Letture cristiane delle origini, Roma; tr. italiana con introd. e note)

 

Library of Early Christianity, Philadelphia, 1986- (tr. inglese)

 

Moraldi, L., Apocrifi del Nuovo Testamento, 3 v., Casale Monferrato 1994 (tr. italiana)

 

Neutestamentliche Apokryphen in deutscher Übersetzung, ed. W. Schnee­melcher, 2 v., Tübingen 1987-1989 (tr. tedesca; 5. ed. della rac­colta fondata da E. Hennecke, 1. ed. 1904)

 

A Select Library of (the) Nicene and post-Nicene Fathers of the Christian Church, ed. Ph. Schaff, Oxford 1887-1900 (tr. inglese).

 

 

PARTE I: LE ORIGINI (SEC. I-II)

 

 

LETTERATURA APOCRIFA

 

La definizione, che ha un'accezione negativa (apocrifo = inautentico, eretico), è utilizzata per distinguere questi scritti da quelli che poi sono stati considerati canonici. Essi sono legati sia all'Antico Testamento, sia al Nuovo. A noi resta poco di queste opere, in quanto, una volta fissato il canone, esse furono emarginate. Vengono prodotte fra il I e i l III secolo, epoca in cui il canone scritturistico venne definito sulla base del pricipio (così formalizzato solo nel V secolo, ma preesistente) quod ubique, quod semper, quod ab omnibus.

 

III ai Corinzi, nel IV secolo era nel canone siriaco. Tra le lettere pseudepigrafe di Paolo, benché non canonica.

 

Vangeli giudeo-cristiani: ci sono noti soltanto attraverso la tradizione indiretta, ossia se ne conoscono soltanto parti citate da altri autori.

dei Nazareni

degli Ebioniti

degli Ebrei

 

Vangelo degli Egiziani: Vangelo di un gruppo di encratiti. II secolo.

 

Vangeli frammentari: pervenuti soprattutto su papiri.

 

Vangelo di Tommaso: ritenuto eretico già da Origene. È costituito da logia (detti) e parabole di Gesù, appartiene al genere dei detti sapienziali (79 in comune coi Sinottici). Didimo in greco e Tommaso in aramaico significano gemello (in senso mistico, iniziato alla stessa conoscenza). Questa tradizione è propria dell'ambiente siriaco. È del II secolo e la sua presenza nella tradizione manoscritta non è inferiore a quella dei Sinottici.

Tommaso appare depositario di una conoscenza concessagli per rivelazione e sarebbe l'unico ad aver capito la vera identità di Gesù (1, 13). Manca la dimensione storica dell'uomo Gesù e la salvezza non viene dalla sua morte e risurrezione, ma dalla sua parola. Il regno non è un entità futura, ma presente e fortemente spiritualizzata: è la conoscenza di se stessi come figli del Padre vivente. Tale conoscenza è identica a quella che il Padre ha del credente, dunque è Sapienza divina. Ad essa possono pervenire solo gli eletti, i solitari (monachòs = colui che ha ritrovato l'unità originaria). C'è un forte ascetismo sessuale, concezione negativa del mondo e delle relazioni interpersonali. Benché ritrovato fra testi gnostici e interpretabile in tal modo, non presuppone i miti dello gnosticismo.

 

 

 

Prologo: Queste sono le parole segrete che Gesù il vivente disse, e che scrisse Didimo Giuda Tommaso.

 

1 Chi trova l'interpretazione di queste parole non gusterà la morte

 

 

Vangelo di Pietro: ortodosso, ha interesse per la divinità di Gesù, anche se tende al docetismo (dal greco dokèo = sembrare, apparire: il corpo di Gesù non sarebbe stato realmente di carne, ma solo un'apparenza. Dunque irreali sarebbero state la sofferenza e la morte in croce). Fa della polemica antigiudaica. Nato nella zona di Antiochia.

 

Ascensione di Isaia: in greco, scritta in Siria all’inizio II secolo. Isaia vede il Cristo, però la salvezza non viene dalla sua morte, ma dalla sua vittoria sulle potenze ribelli (si incarna scendendo di nascosto, si fa uccidere senza rivelarsi, sceso agli Inferi mostra la sua gloria e da lì risalendo conquista tutto).

 

Apocalisse di Pietro: Palestino o Siria Occidentale, II secolo.

 

Dialogo del Salvatore - Epistola di Giacomo - 2 Apocalissi di Giacomo - Libro di Tommaso. L'atleta scrive ai perfetti - Vangelo di Maria - Epistola degli Apostoli: rientrano tutti nel genere dei dialoghi del Risorto. A parte l'ultimo, sono tutti gnostici. Del II - III secolo.

 

Natività di Maria - Infanzia del Signore Gesù - Atti Apocrifi degli Apostoli (di Giovanni, Pietro, Paolo, Paolo e Tecla, Tommaso): del II - III secolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I PADRI APOSTOLICI

 

La stessa definizione di questi scritti è assai problematica, in quanto l'elenco delle opere comprese sotto questa denominazione non è uguale per tutti. Simonetti preferisce usare la definizione di "testi di ispirazione scritturistica", in quanto vari furono trattati come testi canonici (Clemente Romano ai Corinzi, Il Pastore di Erma, la Lettera di Barnaba).

 

 

Lettera di Clemente Romano ai Corinzi: scritta durante la persecuzione di Domiziano nel 96. Clemente, vescovo di Roma dopo Lino e Cleto, avrebbe conosciuto gli Apostoli. C'è una letteratura agiografica su di lui e molti testi gli vengono attribuiti, ma il solo certo è questo. Un manoscritto del NT conserva, dopo l'Apocalisse, due lettere di Clemente in greco, ma la seconda è un'omelia. Parla della gelosia che sconvolge la Chiesa di Corinto. L'occasione è la deposizione dei presbiteri/episcopi a Corinto, senza accuse particolari. Forse, oltre che invidia e gelosia, la causa era anche la presenza di una comunità gnostica contro presbiteri fedeli ad un'ortodossia legata a Pietro e Paolo e dunque gradita a Roma, tuttavia manca ogni polemica dottrinale. La soluzione suggerita da Clemente sarebbe l'emigrazione dei capi dell'iniziativa, che così potrebbero evangelizzare altri luoghi (dunque non si tratterebbe di eretici, se si affida loro una missione). Forse a Corinto si desiderava abolire il presbiterato, che ai tempi di Paolo non c'era.

 

XLII, 1. Gli apostoli predicarono il Vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. 2. Cristo fu inviato da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente secondo la volontà di Dio. 3. Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con l'assicurazione dello Spirito Santo, andarono ad annunziare che il regno di Dio stava per venire. 4. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le primizie del loro lavoro apostolico, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. 5. E questo non era nuovo; da molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti, dice la Scrittura: "Stabilirono i loro vescovi nella giustizia e i loro diaconi nella fede".

 

XLIV, 1. I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. 2. Per questo motivo, prevedendo esattamente l'avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. 3. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero. 4. Sarebbe per noi colpa non lieve se esonerassimo dall'episcopato quelli che hanno portato le offerte in maniera ineccepibile e santa. 5. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse allontanati dal posto loro stabilito. 6. Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore.

 

 

Lettere di Ignazio di Antiochia: secondo successore di Pietro sulla cattedra di Antiochia, al tempo dell'imperatore Traiano (98-117). Dalla Siria fu portato a Roma per subirvi il martirio. Attraversando l'Asia Minore scrisse lettere alla Chiese, perché si attenessero alla tradizione apostolica. Eusebio ne ricorda 7: da Smirne ad Efeso, Magnesia, Tralle, Roma; da Troade a Filadelfia, Smirne e a Policarpo vescovo di Smirne. Le lettere paiono spontanee, ma non manca l'uso di mezzi retorici. Polemizza con gruppi che uniscono docetismo e pratiche giudaizzanti; inoltre rifiutano l'autorità del vescovo, contestano i presbiteri, non rispettano i diaconi. Probabilmente sono carismatici. L'accento è sull'unità, che deve sorgere intorno al Vescovo. La cristologia è incentrata sulla reale umanità e divinità di Gesù e afferma la verginità di Maria. Solo questo può garantire la salvezza e la premessa ne è l'Eucarestia, la partecipazione alla carne di Cristo resuscitata da Dio. Nella lettera ai Romani parla del senso del martirio.

 

La lettera ai Tralliani

II,1. Se siete sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo dimostrate che non vivete secondo l’uomo ma secondo Gesù Cristo, morto per noi perché credendo alla sua morte sfuggiate alla morte. 2. È necessario, come già fate, non operare nulla senza il vescovo, ma sottomettervi anche ai presbiteri come agli apostoli di Gesù Cristo speranza nostra, e in lui vivendo ci ritroveremo. 3. Bisogna che quelli che sono i diaconi dei misteri di Gesù Cristo siano in ogni maniera accetti a tutti. Non sono diaconi di cibi e di bevande, ma servitori della Chiesa di Dio. Occorre che essi si guardino dalle accuse come dal fuoco.

 

III,1. Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il vescovo che è l’immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il collegio degli apostoli. Senza di loro non c’è Chiesa. 2. Sono sicuro che intorno a queste cose la pensate allo stesso modo. Infatti ho accolto e ho presso di me, un esemplare della vostra carità nel vostro vescovo, il cui contegno è una grande lezione, come la sua dolcezza una forza. Credo che anche gli atei lo rispettino. 3. Poiché vi amo mi trattengo, potendo scrivere con più severità sulla cosa. Non arriverei col pensiero a tanto da comandarvi come un apostolo essendo, invece, un condannato.

 

 

La lettera ai Romani

IV,1. Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. 2. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. 3. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla.

 

V,1. Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati. Beneficati diventano peggiori. Per le loro malvagità mi alleno di più «ma non per questo sono giustificato». 2. Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello che mi conviene. 3. Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo.

 

VI,1. Nulla mi gioverebbero le lusinghe del mondo e tutti i regni di questo secolo. È bello per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino. 2. Perdonatevi fratelli. Non impedite che io viva, non vogliate che io muoia. Non abbandonate al mondo né seducete con la materia chi vuol essere di Dio. Lasciate che riceva la luce pura; là giunto sarò uomo. 3. Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio. Se qualcuno l’ha in sé, comprenda quanto desidero e mi compatisca conoscendo ciò che mi opprime.

 

VII,1. Il principe di questo mondo vuole rovinare e distruggere il mio proposito verso Dio. Nessuno di voi qui presenti lo assecondi. Siate piuttosto per me, cioè di Dio. Non parlate di Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo. Non ci sia in voi gelosia. 2. Anche se vicino a voi vi supplico non ubbiditemi. Obbedite a quanto vi scrivo. Vivendo vi scrivo che bramo di morire. La mia passione umana è stata crocifissa, e non è in me un fuoco materiale. Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre. 3. Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda il suo sangue che è l’amore incorruttibile.

 

VIII,1. Non voglio più vivere secondo gli uomini. Questo sarà se voi lo volete. Vogliatelo perché anche voi potreste essere voluti da Lui. Ve lo chiedo con poche parole. 2. Credetemi, Gesù Cristo vi farà vedere che io parlo sinceramente; egli è la bocca infallibile con la quale il Padre ha veramente parlato. 3. Chiedete per me che lo raggiunga. Non ho scritto secondo la carne, ma secondo la mente di Dio. Se soffro mi avete amato, se sono ricusato, mi avete odiato.

 

 

Lettera di Policarpo di Smirne ai Filippesi: Policarpo conobbe Giovanni ed altri discepoli del Signore. Costituito vescovo di Smirne dagli Apostoli, subì il martirio in età avanzata. Venne a Roma al tempo di Aniceto (154-167) per discutere la questione della Pasqua, senza soluzione, ma mantenendo la comunione. Il racconto del martirio, del 155 o 166 o 177 fu scritto appena un anno dopo, dunque è fra i più attendibili.

Nella lettera si congratula con la sua Chiesa per l'assistenza ad Ignazio e la esorta a rimanere nella verità. Seguono una serie di indicazioni morali per diverse categorie di individui; poi polemizza contro il docetismo e esorta alla pazienza, di cui sono esempio i martiri. Infine, dopo altre esortazioni, affronta il caso di Valente, presbitero di Filippi, che ha deviato per cupidigia. Invita alla longanimità con lui e alla preghiera, anche per le autorità, per quanto persecutrici.

 

 

Lettera di Barnaba: prima metà del II secolo. È un trattato la cui cornice epistolare, esile, è artificiale. Nella prima parte c'è la spiegazione di molte profezie per dimostrare che gli Ebrei non hanno capito nulla e l'eredità è passata ai Cristiani, i quali hanno la retta interpretazione delle scritture. Poi, dal cap. 18, si passa ad «un'altra conoscenza e insegnamento»: comincia così un Trattato delle due vie, come la prima parte della Didachè e la Dottrina degli Apostoli. Si tratterebbe di un perduto trattato di etica giudaica, con affinità con la dottrina qumranica dei due spiriti di verità e di perversione costituiti da Dio sul mondo: alla via della luce, governata dagli angeli, corrisponde una serie di comandamenti; la via della tenebra, diretta dagli angeli di Satana, è caratterizzata da una serie di atteggiamenti negativi.

 

Il Signore mediante i profeti ha fatto conoscere le cose passate e le presenti facendoci assaporare le future. Noi, vedendo che si realizzano una ad una le cose, come egli aveva detto, dobbiamo progredire nel suo timore nella forma più generosa e più elevata. Non come un maestro, ma come uno di voi, vi spiegherò poche cose per le quali potrete rallegrarvi nelle attuali circostanze.

 

….Basta così. Passiamo ad un'altra conoscenza e dottrina. Due sono le vie dell'insegnamento e della libertà; quella della luce e quella delle tenebre. Grande è la differenza tra queste due vie. Per l'una sono disposti gli angeli di Dio apportatori di luce, per l'altra gli angeli di Satana. L'uno è il Signore dei secoli nei secoli, l'altro è principe di questo tempo di iniquità.

 

Questa, pertanto, è la via della luce. Se qualcuno vuole pervenire ad un luogo determinato non risparmi le sue fatiche. Questa è l’indicazione dataci per camminare su tale via.

 

La via del nero è tortuosa e piena di maledizioni. E' la via della morte eterna nel castigo, in cui si hanno le cose che rovinano l'anima:..

 

 

Didachè o Insegnamento dei dodici Apostoli: fine I - inizio II secolo. Manuale per le comunità cristiane, che riunisce testi di diversa origine e genere. La prima parte ripropone il Trattato delle due vie. Nella via della luce, fra comandamenti positivi e negativi, sono inseriti alcuni detti di Gesù (presenti nei Vangeli), ma senza essere presentati come tali. La prima parte è presentata come catechesi prebattesimale. Seguono istruzioni per il culto: Battesimo, preghiera (il Padre nostro è simile a quello riportato da Mt, ma deriva da tradizione liturgica), Eucaristia, seguente azione di grazie. L'ultima parte contiene questioni disciplinari, su come valutare apostoli e profeti itineranti, sulla base del loro comportamento. Continua riguardo i salari, la gerarchia locale, la celebrazione domenicale, poi per noi il testo si interrompe.

 

Capitolo 1

1. Due sono le vie, una della vita e una della morte, e la differenza è grande fra queste due vie.

2. Ora questa è la via della vita: innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri.

3. Ecco pertanto l'insegnamento che deriva da queste parole: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici; digiunate per quelli che vi perseguitano; perché qual merito avete se amate quelli che vi amano? Forse che gli stessi gentili non fanno altrettanto? Voi invece amate quelli che vi odiano e non avrete nemici.

4. Astieniti dai desideri della carne. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra e sarai perfetto; se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu prosegui con lui per due. Se uno porta via il tuo mantello, dagli anche la tunica. Se uno ti prende ciò che è tuo, non ridomandarlo, perché non ne hai la facoltà.

5. A chiunque ti chiede, da' senza pretendere la restituzione, perché il Padre vuole che tutti siano fatti partecipi dei suoi doni. Beato colui che dà secondo il comandamento, perché è irreprensibile. Stia in guardia colui che riceve, perché se uno riceve per bisogno sarà senza colpa, ma se non ha bisogno dovrà rendere conto del motivo e dello scopo per cui ha ricevuto. Trattenuto in carcere, dovrà rispondere delle proprie azioni e non sarà liberato di lì fino a quando non avrà restituito fino all'ultimo centesimo.

6. E a questo riguardo è pure stato detto: «Si bagni di sudore l'elemosina nelle tue mani, finché tu sappia a chi la devi fare».

Capitolo 5

1. La via della morte invece è questa: prima di tutto essa è maligna e piena di maledizione: omicidi, adultéri, concupiscenze, fornicazioni, furti, idolatrie, sortilegi, venefici, rapine, false testimonianze, ipocrisie, doppiezza di cuore, frode, superbia, malizia, arroganza, avarizia, turpiloquio, invidia, insolenza, orgoglio, ostentazione, spavalderia.

2. Persecutori dei buoni, odiatori della verità, amanti della menzogna, che non conoscono la ricompensa della giustizia, che non si attengono al bene né alla giusta causa, che sono vigilanti non per il bene ma per il male; dai quali è lontana la mansuetudine e la pazienza, che amano la vanità, che vanno a caccia della ricompensa, non hanno pietà del povero, non soffrono con chi soffre, non riconoscono il loro creatore, uccisori dei figli, che sopprimono con l'aborto una creatura di Dio, respingono il bisognoso, opprimono i miseri, avvocati dei ricchi, giudici ingiusti dei poveri, pieni di ogni peccato. Guardatevi, o figli, da tutte queste colpe.

Capitolo 7

1. Riguardo al battesimo, battezzate così: avendo in precedenza esposto tutti questi precetti, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva.

2. Se non hai acqua viva, battezza in altra acqua; se non puoi nella fredda, battezza nella calda.

3. Se poi ti mancano entrambe, versa sul capo tre volte l'acqua in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

4. E prima del battesimo digiunino il battezzante, il battezzando e, se possono, alcuni altri. Prescriverai però che il battezzando digiuni sin da uno o due giorni prima.

Capitolo 8

1. I vostri digiuni, poi, non siano fatti contemporaneamente a quelli degli ipocriti; essi infatti digiunano il secondo e il quinto giorno della settimana, voi invece digiunate il quarto e il giorno della preparazione.

2. E neppure pregate come gli ipocriti, ma come comandò il Signore nel suo vangelo, così pregate:

Padre nostro che sei nel cielo,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno,

sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

e rimetti a noi il nostro debito,

come anche noi lo rimettiamo ai nostri debitori,

e non ci indurre in tentazione,

ma liberaci dal male;

perché tua è la potenza e la gloria nei secoli.

3. Pregate così tre volte al giorno.

Capitolo 9

1. Riguardo all'eucaristia, così rendete grazie:

2. dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.

3. Poi per il pane spezzato: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.

4. Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli.

5. Nessuno però mangi né beva della vostra eucaristia se non i battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha detto: «Non date ciò che è santo ai cani».

Capitolo 11

1. Ora, se qualcuno venisse a insegnarvi tutte le cose sopra dette, accoglietelo;

2. ma se lo stesso maestro, pervertito, vi insegnasse un'altra dottrina allo scopo di demolire, non lo ascoltate; se invece (vi insegna) per accrescere la giustizia e la conoscenza del Signore, accoglietelo come il Signore.

3. Riguardo agli apostoli e ai profeti, comportatevi secondo il precetto del Vangelo.

4. Ogni apostolo che venga presso di voi sia accolto come il Signore.

5. Però dovrà trattenersi un giorno solo; se ve ne fosse bisogno anche un secondo; ma se si fermasse tre giorni, egli è un falso profeta.

6. Partendo, poi, l'apostolo non prenda per sé nulla se non il pane (sufficiente) fino al luogo dove alloggerà; se invece chiede denaro, è un falso profeta.

7. E non metterete alla prova né giudicherete ogni profeta che parla per ispirazione, perché qualunque peccato sarà perdonato, ma questo peccato non sarà perdonato.

8. Non tutti, però, quelli che parlano per ispirazione sono profeti, ma solo coloro che praticano i costumi del Signore. Dai costumi, dunque, si distingueranno il falso profeta e il profeta.

9. Ogni profeta che per ispirazione abbia fatto imbandire una mensa eviterà di prendere cibo da essa, altrimenti è un falso profeta.

10. Ogni profeta, poi, che insegna la verità, se non mette in pratica i precetti che insegna, è un falso profeta.

11. Ogni profeta provato come veritiero, che opera per il mistero terrestre della chiesa, ma che tuttavia non insegna che si debbano fare quelle cose che egli fa, non sarà da voi giudicato, perché ha il giudizio da parte di Dio; allo stesso modo, infatti, si comportarono anche gli antichi profeti.

12. Se qualcuno dicesse per ispirazione: dammi del denaro o qualche altra cosa, non gli darete ascolto; ma se dicesse di dare per altri che hanno bisogno, nessuno lo giudichi.

 

 

Problemi della tradizione e dell'autorità

 

I Symbola fidei

Fin dal tempo degli apostoli, la pratica della Chiesa richiedeva, prima del battesimo, una esplicita professione di fede nelle dottrine essenziali di Gesù Cristo. I candidati dovevano imparare a memoria una data formula (symbolon = segno di riconoscimento), e recitarla ad alta voce davanti all’assemblea riunita. Da questa consuetudine nacque il rito solenne della traditio (consegna) e della redditio symboli (restituzione del Simbolo). La confessione della fede faceva parte integrante della liturgia battesimale, e senza ammettere pienamente questo fatto è impossibile comprendere la storia del Simbolo.Uno studio della storia primitiva del Simbolo rivela due forme di stinte: la formula cristologica e la formula trinitaria.

 

1 La formula cristologica

La formula più primitiva del Simbolo è conservata in una glossa di Atti 8, 37. Filippo battezzò l’eunuco d’Etiopia quando questi ebbe professato la sua fede: «Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio».Questo passo prova che il Simbolo è cominciato con la professione della fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. Non era necessario esigere di più dai candidati al battesimo. La confessione del messianismo di Gesù bastava, in particolare, per i convertiti dal giudaismo. Col tempo, si aggiungono titoli sempre più numerosi. Poco dopo, la parola «Salvatore» venne ad incorporarsi nella formula. Apparve così l’acrostico ICQUS (pronuncia: ichzùs), simbolo molto in uso nel mondo ellenistico, giacché ICQUS, "pesce", contiene le iniziali delle cinque parole greche significanti «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore». Tertulliano e l’iscrizione di Abercio (fine del II secolo) attestano la popolarità di questa formula nell’ultima metà del II secolo. Assai prima però si trovano nella letteratura cristiana antica professioni di fede in Cristo d’un carattere più formale e insieme di portata più vasta. Già S. Paolo in Rom. l, 3s. presentava il vangelo di Dio come il messaggio del «Figlio suo, uscito secondo la carne dalla stirpe di David, e costituito nella sua potenza di Figlio di Dio, secondo il suo spirito di santità, per la sua resurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore». Formule di questo genere s’incontrano in  1Cor. 15, 3 s., e 1Pietr. 3, 18-22. È possibile ch’esse fossero in uso nella liturgia. Questa conclusione s’impone spontaneamente, soprattutto quando si esamina il sommario dell’opera della Redenzione che s. Paolo traccia in Fil. 2, 5-11. Verso l’anno 100, Ignazio d’Antiochia (Trall. 9) proclamava la sua fede in Cristo in termini che ricordano molto da vicino il secondo articolo del Simbolo degli apostoli (secolo VI): «Gesù Cristo, della stirpe di David (figlio) di Maria, che è veramente nato, che ha mangiato ed ha bevuto, che è stato veramente perseguitato sotto Ponzio Pilato, che è stato veramente crocifisso, ed è morto al cospetto del cielo, della terra e degli inferi, ed è anche veramente risuscitato dai morti. Fu suo Padre che lo risuscitò, lo stesso Padre che ci risusciterà in Gesù Cristo, noi che crediamo in lui, al di fuori del quale non abbiamo la vera vita».

 

2. La formula trinitaria.

Accanto alla formula cristologica esisteva fin dall’epoca apostolica una formula trinitaria per il rito battesimale. Questa appunto finì col diventare la forma predominante; il comandamento del Signore: «Battezzate tutte le genti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», suggeriva questa regola di fede. Verso il 150, il martire Giustino riferisce (Apol. I, 61) che il candidato al battesimo «riceve l’abluzione con l’acqua nel nome di Dio Padre e Signore dell’universo, e del nostro Salvatore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo».

L’Epistola degl Apostoli (scritto apocrifo, ma ortodosso dell metà del II secolo), composta verso la stessa data, estende già questa professione di fede da tre sezioni a cinque. Il suo Simbolo non contiene soltanto la fede nel Padre Onnipotente, e in Gesù Cristo, nostro Salvatore, e nello Spirito Santo, il «Paraclito», ma aggiunge: «E nella Santa Chiesa e nella remissione dei peccati».

 

3. La formula di sintesi.

Con l'Epistola degli Apostoli, vediamo la formula fondamentale a tre elementi estendersi con l’aggiunta di due articoli. Ma questo metodo di sviluppo non è l’unico. Ne esisteva un altro, che consisteva nel dare un’espressione più particolareggiata all’uno o all’altro degli articoli del Simbolo. Questa seconda maniera è rappresentata da un tipo che possiamo chiamare la formula di sintesi, poiché in effetti concilia la formula cristologica con quella trinitaria. La confessione del Cristo, originariamente distinta, entrò nel Simbolo trinitario e ne sconvolse la primitiva simmetria. Ne risultò una formula di otto o nove proposizioni con una regola di fede particolareggiata del genere di quella che era in uso a Roma verso il 200.

Il rito romano del battesimo descritto dalla Tradizione apostolica di Ippolito (II-III secolo) reca il Simbolo seguente, sotto forma di mande:

 

[Credis in Deum Patrem omnipotentem?]                  Credi in Dio Padre onnipotente?

Credis in Christum Iesum, filium Dei                         Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio

Qui natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine             che è nato dallo Spirito Santo da                                                                                           Maria Vergine

et crucifixus sub Pontio Pilato                                               ed è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato

et mortuus est et sepultus,                                          ed è morto ed è stato sepolto

et resurrexit die tertia vivus a mortuis,                                   e, vivo, il terzo giorno è risorto dai morti

et ascendit in caelis,                                                   ed è asceso al cielo

et sedit ad dexteram patris                                          e siede alla destra del Padre

venturus iudicare vivos et mortuos?                           per venire a giudicare i vivi e i morti?

Credis in Spiritum Sanctum et sanctam Ecclesiam,    Credi nello Spirito Santo e la santa Chiesa

et carnis resurrectionem?                                           e nella risurrezione della carne?

 

Questo antico Simbolo romano è già familiare a Tertulliano alla fine del II secolo, ed abbiamo molte ragioni per credere che Fosse comparso molto tempo prima che ne sentissimo parlare per la prima volta. Questa formula romana del Simbolo, come hanno dimostrato ricerche approfondite, va riconosciuta come la madre di tutti i simboli occidentali e del nostro Simbolo degli Apostoli. Durante il III secolo essa passò da una Chiesa all’altra e finì col prevalere universalmente. Ma è impossibile provare (come tentò di fare il Kattenbusch) che questo Simbolo romano fu anche l’archetipo delle forme orientali. Ci troviamo piuttosto alla presenza di due rami indipendenti d’uno stesso tronco comune che aveva le sue radici in Oriente.

Possiamo tuttavia intravedere in Oriente un modo di sviluppo simile a quello seguito in Occidente. Ad una confessione trinitaria semplice sono venute ad aggiungersi delle dichiarazioni cristologiche. Ma mentre l’occidente insisteva sulla nascita dalla Vergine Maria, l’Oriente introduceva nuove proposizioni sulla nascita eterna, anteriore alla creazione del mondo. Queste aggiunte furono ritenute "antieretiche", ma rari e isolati sono i casi in cui è possibile ricollegarle con certezza alla lotta contro l’eresia. La maggior parte di esse deve la propria introduzione ad una necessità interna della Chiesa, quella di fare sempre più entrare nel Simbolo, in forma abbreviata, i principali dogmi del cristianesimo, per l’istruzione dei catecumeni.

Poiché ci furono diverse liturgie, si ebbero anche parecchie formule di Simbolo. Le più note in Oriente sono: quella di Gerusalemme, conservata nelle Istruzioni catechetiche di Cirillo, e di Cesarea, quale la riferisce lo storico Eusebio (IV sec). Si discute se il Simbolo di Nicea sia una forma modificata di quello di Cesarea o di quello di Gerusalemme.

Riportiamo, per un altro esempio, il testo di un Simbolo attestato nella versione etiopica della Epistola degli Apostoli, in cui commentando l'episodio della moltiplicazione dei pani (Mc 6, 39), i cinque pani vengono interpretati allegoricamente come cinque articoli del Simblo:

 

nel Padre dominatore dell'universo

e in Gesù Cristo [salvatore nostro]

e nello Spirito Santo [Paraclito]

e nella santa Chiesa

e nella remissione dei peccati

 

 

 

Papia di Hierapolis, Spiegazione di parole del Signore: una sorta di vangelo e atti degli Apostoli. Non rivendica un valore canonico, ma è attento a sottolineare la catena Gesù - Apostoli - presbiteri - Papia, che rende garante della veridicità di ciò che racconta.

 

 

Erma: pare fosse fratello del vescovo romano Pio (140-155). Antico schiavo, si occupò di commercio, ma perse i suoi guadagni. Ebbe una vita difficile con la moglie, mentre i figli conducevano una vita disordinata. L'opera, Il Pastore, è in 3 parti: 5 visioni, 12 precetti, 10 similitudini. Il Pastore  è l'angelo custode di Erma, inviato come mediatore ed interprete delle visioni. Tuttavia egli compare solo a partire dalla V visione, mentre nella precedenti c'è una donna anziana: la Chiesa, preesistente alla creazione del mondo. Nucleo del messaggio è l'annuncio di una seconda penitenza, dopo il Battesimo. Vuole una comunità in cui permanga il rigore morale, ma senza rigorismo; certo il tempo per il pentimento non è infinito, ma ci si rifiuta di rivelare quanto vicina sia la fine. Rientra nel genere dell'apocalisse, ma manca la storia del mondo. Questo per dare più autorità all'opera, che era considerata quasi canonica.

 

 

Marcione: non sappiamo nulla, fin quando giunge a Roma. Nel 144 taglia con la Chiesa, in seguito ad una disputa in cui non riesce a far accettare la sua dottrina dei due dei e la sua interpretazione di Paolo. Ripartì per l'Oriente, dove fece proseliti (fino al V secolo) e lì morì dopo il 160. Ritiene il Dio creatore inferiore ad un altro e dispotico (AT), che non sa dell'esistenza del vero Dio. Questo, impietosito dagli uomini oppressi, manda il suo Figlio che li riscatta con la morte in croce e rivela la verità , per cui chi crede giungerà al regno del vero Dio. Il punto di forza era l'opposizione paolina fra Legge e Vangelo, dunque concludeva che i discepoli non avevano capito l'insegnamento di Gesù, in quanto lo facevano figlio del creatore ed invitavano ad obbedire alla legge di quest’ultimo. Gesù, tornato al cielo, si rivelò a Paolo, perché annunziasse la verità, ma anche i suoi scritti furono mutati. Marcione si sentì chiamato a porre riparo ed individua il vero Vangelo negli scritti di Paolo e, poiché questi parla di un «mio Vangelo», lo identifica con quello di Luca, che tuttavia deve essere ancora purificato.

Al suo canone premette le Antitesi, in cui spiega le sue tesi. Scrisse anche 38 libri di Sillogismi e delle Rivelazioni.

 

 

 

Letteratura Gnostica: si discute se lo Gnosticismo esista prima del Cristianesimo, in quanto nella stessa epoca si ritrova anche in forme pagane (Ermete Trismegisto), mentre non se ne hanno testimonianze anteriori; si tratterebbe dunque di forme decristianizzate.

La primitiva riflessione cristiana viene inserita in una struttura di pensiero sistematico le cui linee portanti provengono da tradizioni intellettuali anteriori ed estranee. Caratteristico è l'interesse per una salvezza dell'essere umano dipendente da una conoscenza riservata a pochi eletti; questa si ottiene per rivelazione e riguarda la vera natura dell'io, che si riconosce come parte della divinità, scintilla divina la quale, in seguito ad un processo descritto in diversi modi, si è separata dalla sua origine, si è degradata ed è stata imprigionata nel mondo materiale, creazione di divinità inferiori, dal quale non può liberarsi con le proprie forze e nemmeno ricordare la propria origine. Dio invia dunque un Salvatore, che essenzialmente è rivelatore. Conferisce così all'uomo la conoscenza (gnosi) che gli assicura la salvezza sotto forma di liberazione potenziale già in questa vita, e definitiva dopo la morte. Il mondo divino, o dello spirito, è originario e costituisce una totalità autosufficiente (plêroma). Ma lo zampillare della sua vita interna, attività generatrice di entità spirituali sempre più lontane dal centro, finisce per raggiungere un punto in cui si produce una crisi in virtù della quale un'entità si stacca e rimane chiusa in una materia prodottasi fuori e contro l'ordinato dispiegamento del divino. Tra sostanza divina e materiale s'inserisce una sostanza intermedia, angelica o psichica, responsabile della creazione o dell'ordinamento della materia. C'è una svalutazione del logos (il ragionamento razionale) a vantaggio del mythos (mito), che solo può esprimere la realtà di un mondo totalmente altro. L'opposizione fra il Dio vero e quello del creato non è ebraica ne' platonica.

Si distinguevano diverse classi di uomini: secondo che avessero in se' la scintilla divina o no: solo i primi potevano naturalmente salvarsi; il risveglio della coscienza ne era la prova. Sul piano etico si potevano avere due atteggiamenti: l'ascetismo e l'indifferentismo. Per i Valentiniani, invece, esistevano tre categorie: spirituali, materiali e psichici (questi ultimi, corrispondenti alla natura del creatore, potevano ricevere una salvezza di livello inferiore, purché obbedissero alla Legge. Identificati con i Cristiani non gnostici).

Assai complessa era l'esegesi scritturistica, molto allegorica.

Le testimonianze in nostro possesso, fino a non molti anni fa, erano indirette, da Ireneo di Lione (Smascheramento e confutazione della gnosi dal falso nome), da Ippolito (Confutazione di tutte le eresie) e da Epifanio di Salamina (Panarion). Opere gnostiche originali furono recuperate in Egitto nel XVIII secolo, in due codici contenenti opere tardive. Il codice di Berlino, edito nel 1955, contiene 4 scritti del II-III secolo: Vangelo secondo Maria, Apocrifo di Giovanni, Sapienza di Gesù, Atto di Pietro. Nel 1946 a Nag Hammadi, in Alto Egitto, furono scoperti 13 codici di papiro del IV secolo, con 53 scritti tradotti dal greco in copto, di cui 41 sconosciuti. L'edizione facsimile è del 1984, mentre l'edizione critica con commento è ancora in corso. Si ricordino: Apocrifo di Giovanni, Vangelo di verità, Sulla resurrezione, Vangelo secondo Filippo.

La gnosi più elaborata fu quella di Valentino, che da Alessandria venne a Roma al tempo del vescovo Igino, verso il 140 e, aperta una propria scuola, forse fu candidato all'episcopato. Restò a Roma fin sotto Aniceto (155-166), poi si recò a Cipro e di nuovo a Roma. Scrisse omelie, lettere e composizioni poetiche. È il ramo dello gnosticismo che ci ha lasciato più testimonianze.

 

 

Montanisti: in Frigia, verso il 155-160, Montano, con Prisca e Massimilla, cominciò a profetare in estasi, affermando che Dio stesso parlava in loro. Non contestava l'autorità delle Scritture, ma affermava che la rivelazione era di nuovo aperta. Provocò così un rilancio dell'entusiasmo escatologico (fine del mondo alla morte di Massimilla), legato a rigorismo morale. Poi rimase solo il secondo. I tre composero numerosi libri e molti ne furono composti contro.

 

Oracoli di Montano

Oracolo 1: « Io sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo »

Oracolo 5 « Ecco, l'uomo è come una lira e io vi scorro sopra come un plettro; l'uomo dorme e io veglio »

 

 

 

Ireneo di Lione, Smascheramento e confutazione della gnosi dal falso nome: nato verso il 126, da famiglia cristiana, forse a Smirne. Frequentò il vescovo Policarpo; giunto in Gallia, vi fu ordinato prete e, dopo il martirio di Potino, divenne vescovo di Lione (177). Della sua opera restano frammenti greci e una fedele traduzione latina. Nel primo libro descrive le dottrine gnostiche, nel secondo le confuta, negli altri tre espone la dottrina cristiana. Oppone alla sapienza gnostica il vero sapere, che è l'insegnamento degli Apostoli e la Tradizione della Chiesa: nel mantenimento della Tradizione sta, per Ireneo, la fonte della vita interiore. Ritiene che sia legittimo fare uno sforzo per conoscere Dio, ma che non sia possibile sapere tutto come lui. La creazione, opera di Dio, è buona ed Egli continua a reggerla con la sua provvidenza. La rivelazione è progressiva, grazie anche ad un'esegesi tipologica di AT. L'uomo è buono, anche se soggetto a cadere, ma può anche perfezionarsi. Inoltre crede nell'unità di anima e corpo. Facoltà principali dell'anima sono l'intelletto e il libero arbitrio.

APOLOGISTI

 

Il termine apologia indica un'arringa giuridica, e infatti queste opere sono arringhe per ottenere dagli imperatori il riconoscimento del diritto legale dei Cristiani a vivere nell'Impero. Al principio non ci furono vere persecuzioni: nei primi decenni il Cristianesimo apparì come una setta giudaica. Tuttavia attirò l'attenzione delle autorità per i disordini che poteva causare all'interno delle comunità ebraiche (vedi gli stessi racconti offerti dai Vangeli e dagli Atti). Ad esempio Svetonio, storico latino, dice che Claudio nel 41 o 49 fece espellere da Roma i Giudei, a causa di tumulti provocati da un certo Chrestus. Dopo l'incendio del 64 Nerone accusò i Cristiani, che, ricercati e messi a morte, cominciarono poi ad essere sospettati, anche per il carattere segreto dei loro culti. Tacito, pur non accusandoli dell'incendio, riteneva che, con il loro «odio del genere umano», fossero comunque colpevoli. Si diceva che, come le associazioni dionisiache soppresse nel 186 a. C., si abbandonassero ad orge incestuose e che mangiassero i bambini a scopo rituale, aggiungendo la voce che si mangiasse carne e sangue di un dio. Si aggiunga l'errata interpretazione dell'atteggiamento politico e dei mestieri non praticati o praticati con limitazioni.

La procedura seguita contro i Cristiani era quella della coercitio, cioè un atto di polizia da parte del magistrato locale; ma se la condanna poteva aver luogo sulla base dell’ostinazione del cristiano, l’accoglimento della denunzia doveva avere un’altra base, che non è chiara, mache è probabilmente da identificarsi nello statuto del cristianesimo come religio illicita. Secondo Eusebio di Cesarea, unaseconda persecuzione ebbe luogo sotto Domiziano (cfr. Svetonio, Domiziano 15; Dione Cassio, Storia romana LXVII, 14, l-5), ma le testimonianze sono vaghe. Documento fondamentale invece è la lettera di Plinio il Giovane a Traiano e la risposta quest’ultimo nel 111-112 (Plinio, Lettere x, 96 e 97): legatus pro praetore della provincia di Bitinia, Plinio aveva ricevuto denunzie contro cristiani e chiedeva direttive. L’imperatore rispose che i cristiani non dovevano essere ricercati, ma dovevano essere puniti se, denunciati in modo non anonimo e convinti di cristianesimo, si rifiutavano di sacrificare al genio dell’imperatore. Queste disposizioni, le quali mostrano tra l’altro la mancanza di una precisa legislazione precedente, vennero confermate da Adriano (117-138) e da Antonino Pio (138-161). Poco chiari sono anche i termini della persecuzione di Settimio vero nel 202-203, tanto più che oggi si tende a non credere più a un editto imperiale in questo senso. L’imperatore Massimino (235-238), ossessionato dalla difesa dell’impero cui iCristiani non collaboravano, ordinò di perseguire i capi delle Chiese; ma la disposizione non sembra avere ottenuto grandi effetti. La prima persecuzione veramente generale fu quella di Decio (249-251) il quale, preoccupato di consolidare l’unità anche religiosa, ordinò nel 249 che tutti i cittadini sacrificassero alle divinità dell’impero; ciò scatenòuna persecuzione breve, maviolenta, nel corso della quale molti cristiani cedettero (lapsi),provocando così una viva discussione e anche uno scisma quando, in seguito, molti chiesero la riammissione nella Chiesa. Un’altra persecuzione generale ebbe luogo sotto Valeriano (257-258). Le ultime persecuzioni furono un’arma politicanelle mani dei tetrarchi durante le loro lotte per il potere, tra il 303 e il 324. Diocleziano, Galerio, Massimino Daia perseguitarono i cristiani in Oriente (dal 303 al 311 Galerio, al 313 Massimino); ma Licinio, successore di Galerio, ricominciò a perseguitare i cristiani, per opposizione al suo rivale in Occidente, Costantino. Quando questi sconfisse uccise Licinio nel 324, sposò definitivamente la causa cristiana.

È nel quadro storico descritto che si sviluppò, nel secondo secolo, l'attività letteraria degli apologisti cristiani. Questi si propo­nevano, da un lato, di mostrare l’infondatezza delle accuse mosse contro i Cristiani, sia dall’odio popolare, sia dai ceti colti, sia dai tribunali dello Stato; dall’altro, di criticare il politeismo, mostrando la superiorità e la verità della religione cri­stiana. Sul secondo punto, riprendevano a proprio vantaggio la tradizione apologetica già largamente sviluppata nel giu­daismo, non invece sul primo, perché il giudaismo non era perseguitato in quanto tale. Gli autori di apologie le indirizzavano spesso agli imperatori o al senato romano, come alle au­torità che potevano e dovevano far cessare le ingiuste perse­cuzioni, e rendersi conto che proprio i cristiani, invece, potevano più di ogni altro contribuire al bene della società che le autorità avrebbero dovuto tutelare; talora invece agli intellettuali pagani, come rappresentanti della tradizione culturale improntata al politeismo, con atteggiamento concilian­te l’autore dell’A Diogneto, o francamente ostile come Taziano o Ermia. Le accuse della classe colta pagana alla reli­gione cristiana sono sintetizzate nel Discorso vero di Celso (177-180), conservatoci in buona parte nella confutazione di Origene: in esso, il disprezzo e il sarcasmo­ contro questa massa di miserabili ignoranti e presuntuo­si si alternano con lo sdegno per l’abbandono delle tradizioni da cui dipende l’identità e la forza della comunità politica, e scarsa affezione nei confronti dell’ordine sociale e poli­tico, garante della civiltà stessa, in un’epoca in cui l’impero comincia ad avvertire la pressione inquietante dei barbari. Contro le accuse di slealtà verso lo Stato e quindi di sabotaggio dell’interesse comune, gli apologisti protestarono il loro lealismo, su di un solo punto restando inflessibili: il rifiuto di adorare l’imperatore o il suo genio. Contro le accuse di novità (assai squalificante, questa, nel mondo antico), di superstizione e d'ignoranza rivolte al cristianesimo, accettarono intrepidamente il confronto con una tradizione culturale veneranda e osarono proporre la loro religione come portatrice in forma piena di quei valori che gli spiriti più elevati della tradizione a avevano potuto, secondo loro, solo intravedere. Que­sto sforzo si collegò con una riflessione fondata sulla teo1ogia del Logos; riprendendo categorie elaborate dal giudaismo alessandrino, gli apologisti approfondirono l’identificazione di Cristo con il Logos, la Ragione divina, mediatrice dellacreazione, per cui la rivelazione biblica, culminante nella predicazione di Gesù, Logos incarnato, metteva a disposizione quella verità ultima e universale che i filosofi pagani avevano cercato attraverso incertezze e deviazioni, attingendola, nel migliore dei casi, solo in maniera estremamente parziale. Quanto il contributo degli apologisti fosse ancora imperfetto dal punto di vista teologico, per quanto la rilevanza dei loro scritti fosse destinata a passare con il mutare della situazione del cristianesimo nell’Impero (il che aiuta a spiegare l’esiguità della tradizione manoscritta delle loro opere), ciò che realizzarono costituì una tappa irrinunciabile nella formazione dell’autocoscienza cristiana e dell’energia che permise alla nuova religione di affermarsi nelle condizioni apparentemente più sfavorevoli.

 

 

È utile soffermarsi inoltre a considerare e conoscere l'ambiente intellettuale che il Cristianesimo dovette incontrare diffondendosi nel mondo mediterraneo. La filosofia compare nella storia del Cristianesimo sol­tanto nel momento in cui alcuni Cristiani prendono posizione nei suoi riguardi, sia per condannarla, sia per assorbirla nella nuova religione, sia per utilizzarla ai fini dell’apologetica cristiana. Il termine «filosofia» presenta fin da quest’epoca il significato di «sapienza pagana», che conserverà per secoli. Anche nel XII e XlII secolo i termini philosophi e sancti significheranno direttamente l’opposizione tra le concezioni del mondo elaborate da uomini privi della luce della fede e quelle dei Padri della Chiesa che parlano in nome della rivelazione cristiana. È nondimeno vero che il Cristianesimo ha dovuto assai presto prendere in considerazione le filosofie pagane e che, secondo il loro personale temperamento, i Cristiani colti dei primi secoli hanno adottato nei loro ri­guardi atteggiamenti assai differenti. Certuni, convertitisi al Cristianesimo soltanto assai tardi e dopo aver ricevuto una educazione filosofica greca, erano tanto meno inclini a condannarla in blocco quanto la propria conversione appariva loro piuttosto come vicenda finale di una ricerca di Dio da loro iniziata assieme ai filosofi. Per un inevitabile effetto di prospettiva, i pensatori pagani dei secoli passati apparivano loro come già impegnati stilla via di cui il Cristianesimo aveva infine rivelato il termine. Altri, al contrario, che nes­sun interesse speculativo inclinava alle ricerche filosofiche, assumevano un atteggiamento assolutamente negativo di fronte a dottrine che non destavano in loro alcun interesse.

 

a) la filosofia antica.

Al giorno d'oggi la filosofia è legata indissolubilmente all’università e lo stile di e quello del professore di filosofia; il quale, come diceva Schopenhauer, insegna secondo l’orientamento di pensiero voluto dal ministero che assegna le cattedre; è un insegnamento che non cerca di formare degli uomini, ma degli specialisti di un particolare discorso teorico. Vi sono stati nell’epoca moderna dei tentativi di una filosofia che inviti a trasformare radicalmente il modo di vivere: Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, Marx, Husserl, Heidegger, senza che il termine filosofia riprendesse la pienezza del significato antico. Abbiamo visto sto che nell’antichità la filosofia era un esercizio non solo del pensiero, ma della volontà e di tutto l’essere. Era un metodo di progresso spirituale che esigeva una conversione radicale: non tanto un conoscere, ma un essere diverso. Polemone, uno dei capi dell’antica Accademia, diceva che «bisogna evitare di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla,… per evitare di essere incoerenti».

Inoltre nell’antichità filosofi non erano solo Epicuro o Crisippo, perché svilup­pavano un discorso filosofico, ma ogni uomo che vivesse secondo i loro precetti: Catone Uticense era considerato filosofo anche se non ha mai insegnato né scritto; lo stesso vale per Rutilio Rufo e Quinto Muzio Scevola; la differenza tra la filosofia antica e la moderna è che la prima propone un’arte di vivere che implica un esercizio di ogni istante del proprio tempo, la seconda si presenta anzitutto come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti. «Ma il discorso sulla filosofia non è la filosofia»; c’è un abisso tra la teoria filosofica e il filosofare come azione vivente, cosi come tra la teoria dell’arte e la creazione artistica concreta; con la differenza che nella filosofia non si tratta solo di creare un oggetto artistico, ma di trasformare se stessi, entrare in un ordine di realtà diverso.

 

b) Dalla filosofia antica alla filosofia cristiana.

È significativo che una parte della tradizione cristiana abbia presentato il cristia­nesimo come una filosofia, anzi la vera filosofia; anche qui, come vedremo meglio successivamente, Filone di Alessandria ha aperto la strada chiamando filosofi i Tera­peuti; più tardi il monachesimo sarà presentato come una filosofia, e il Medioevo la­tino continuerà a dare il nome “filosofia” alla vita monastica: un testo cistercense dice che i discepoli di San Bernardo erano da lui iniziati «alle discipline della filosofia celeste».

Questa trasfusione del termine è stata opera di una corrente limitata, legata agli Apologisti e a Origene, ma con il merito notevole di avere introdotto nel cristia­nesimo gli esercizi spirituali della filosofia; «con tali esercizi spirituali si è anche introdotto un certo stile di vita, un certo atteggiamento spirituale, una certa tonalità spirituale che non si trovava in origine».

Inoltre, sarebbe errato supporre che il dibattito si svol­gesse tra il rigorismo cristiano e il lassismo pagano. Non è facile nel nostro periodo distinguere fra etica cristiana e l'etica neoplatonica. Per entrambe, come abbiamo visto, lo scopo ideale è l’«assimilazione a Dio»; entrambe si preoccupano della salvezza dell'anima individuale piutto­sto che di fare del mondo un luogo migliore; e quanti precetti pratici esse abbiano in comune lo si può vedere confrontando la versione cristiana e quella pagana del­le Sentenze di Sesto(l'opera, pagana, fu, con pochi rimaneggiamenti, trasformata in un testo cristiano). Celso trova l’etica cristiana banale; essa «non contiene alcun insegnamento notevole o nuovo»; il consiglio di porgere l’altra guancia è roba vecchia, formulata in modo migliore da Platone. Ed Origene non nega questo punto: la differenza, egli dice, sta nel fatto che i predicatori cri­stiani «cucinano per la folla», mentre Platone aromatizza lo stesso piatto per piacere alla piccola nobiltà. La sua ammirazione per Platone non è certo minore di quella di Celso; ma Platone è letto solo dalle persone colte, men­tre il Cristianesimo, egli sembra talvolta suggerire, è Pla­tonismo per le masse.

Qualunque pagano colto del secondo secolo, a cui fosse stato chiesto di esprimere in poche parole la differenza fra la propria concezione della vita e quella cristiana, avrebbe potuto rispondere che si trattava della differenza fra logismos e pistis, fra convinzione ragionata e fede cie­ca. Per chiunque fosse stato educato in seno alla filosofia greca classica, pistis significava il grado più basso della conoscenza: essa era lo stato mentale degl’incolti, che cre­devano alle cose per sentito dire, senza essere in grado di dar ragione della loro credenza. San Paolo, d’altro can­to, seguendo la tradizione ebraica, aveva rappresentato la pistis comeil vero fondamento della vita cristiana. E quel che lasciava stupefatti tutti i primi osservatori pagani, Lu­ciano e Galeno, Gelso e Marco Aurelio, era l’assoluta fi­ducia dei cristiani nelle affermazioni non provate, la loro prontezza a morire per l’indimostrabile. Secondo Ga­leno, un osservatore animato da una certa simpatia, i cri­stiani posseggono tre delle quattro virtù cardinali: essi danno prova di fortezza, temperanza e giustizia; quello di cui mancano è la phronesis, la penetrazione intellettuale, la base razionale delle altre tre. Secondo Celso essi sono nemici della scienza: essi sono come i ciarlatani che mettono in guardia la gente dai medici, dicendo ché la cono­scenza è nociva alla salute dell’anima. Più tardi, sembra che Porfirio abbia ripetuto la medesima protesta contro «una pistis irrazionale e incontrollata», e Giuliano escla­ma: «Non c’è niente nella vostra filosofia oltre a quell’unica parola: Credi!». Ma al tempo di Porfirio, e ancor più a quello di Giuliano, la situazione era cambiata in due maniere.

 

 

 

Giustino: nato a Flavia Neapolis (antica Sichem) da genitori pagani, si convertì al Cristianesimo prima del 123 e fu martirizzato a Roma tra il 163 e il 167. Dei suoi scritti ci restano:

Apologia I: indirizzata all'imperatore Adriano, scritta fra 153 e 157. Ribatte le accuse dei pagani. Il Logos, manifestatosi nelle teofanie di AT e a tutti gli uomini (logos spematicòs). I Cristiani lo hanno ricevuto nella sua interezza. Riprende ed amplia la questione soprattutto nella

Apologia II: indirizata all'imperatore Marco Aurelio.

Dialogo con Trifone: composto verso il 160. Ambientato ad Efeso durante la seconda guerra giudaica: Giustino stesso, passeggiando nel portico del ginnasio, è avvicinato da un gruppo di Giudei profughi guidati da Trifone, il quale, avendo in lui riconosciuto l'abbigliamento del filosofo, lo interroga. Giustino evoca la passata ricerca filosofica fino al Cristianesimo, che lo ha convinto per la realizzazione delle profezie. Segue un dibattito sull'esegesi delle Scritture che gli Ebrei non possono comprendere, perché non hanno aderito a Cristo.

Egli stesso ci ha raccontato la sua evoluzione religiosa, e, an­che se la narrazione che ce ne offre il Dialogo con Trifone è stilizzata, essa esprime nondimeno fedelmente le principali ragioni che un pagano di cultura greca poteva avere, circa nell’anno 130 dopo Cristo, per convertirsi al Cristianesimo. Nella speculazione filosofica greca stessa le preoccupazioni religiose occupavano allora ampio spazio. Convertirsi al Cristianesimo era spesso un passare da una filosofia animata da uno spirito religioso ad una religione capace di prospettive filosofiche. Per il giovane Giustino, la filosofia era «ciò che ci conduce verso Dio e a lui ci riunisce». Dapprima egli frequentò gli stoici, ma questi uomini ignoravano Dio e gli dissero anche che non era necessario conoscerlo. Rivoltosi successivamente ai peripatetici, egli cadde sotto un maestro che gli chiese innanzitutto di accordarsi per la retribuzione,«affinché le loro relazioni non restassero inutili»: non era dunque un filosofo. Giustino volle allora istruirsi da un pi­tagorico, ma questo maestro pretendeva che prima si sa­pesse la musica, l’astronomia e la geometria, e Giustino non poteva risolversi a dedicare a queste scienze il tempo neces­sario. Un miglior successo l’attendeva presso i discepoli di Platone. Là e gli veramente s’istruì su ciò che desiderava apprendere; dice Giustino:

 

L’intelligenza delle cose incorporee mi conquistava al più alto grado; la contemplazione delle idee dava ali al mio spirito, tanto che, dopo un po’ di tempo, credetti d’essere diventato sapiente; fui anche tanto sciocco da sperare d’essere sul punto di vedere Dio immediatamente: perché questo è il fine della filosofia di Platone.

 

            Ciò che Giustino cercava nella filosofia era una religione naturale: non ci si stupirà, dunque, che egli abbia più tardi scambiato il platonismo per un’altra religione. In un luogo isolato dove s’era ritirato per meditare, Giustino incontrò un vegliardo che lo interrogò su Dio e sull’anima, e avendo egli risposto esponendo le opinioni di Platone su Dio e sulla trasmigrazione delle anime, questo vegliardo gliene mostrò l’incoerenza: se le anime che hanno visto Dio debbono in seguito dimenticarlo, la loro felicità non è che miseria, e se quelle che sono indegne di vederlo restano legate a dei corpi come castigo della loro stessa indegnità, poiché non sanno di essere punite, questa punizione è inutile. A questo punto Giustino abbozzò una giustificazione del Timeo, ma il ve­gliardo rispose che egli non si preoccupava del Timeo, né della dottrina platonica dell’immortalità dell’anima. Se l’ani­ma vive immortale non è perché è vita, come insegna Pla­tone, ma perché la riceve, come insegnano i Cristiani: l’anima vive perché Dio lo vuole, e tanto a lungo quanto egli vuole. Questa risposta ci sembra, adesso, di una semplicità che con­fina con la banalità, ma essa segnava nettamente la linea di demarcazione che divide il Cristianesimo dal platonismo. Giustino domandò dunque dove si potesse leggere questa dottrina e poiché gli fu risposto che non si trovava negli scritti di nessun filosofo, ma in quelli dell’Antico e del Nuovo Testamento, Giustino immediatamente bruciò dal desiderio di leggerli:

 

Subito un fuoco s’accese nell’animo mio, m’innamorai dei Profeti e di quegli uomini amici di Cristo, e riflettendo io stesso su tutte que­ste parole, trovai che questa filosofia era la sola sicura e proficua.

 

Questo testo del Dialogo con Trifone è d’importanza capitale in quanto ci fa rilevare, in un caso concreto e storicamente riscontrabile, come la religione cristiana abbia po­tuto assimilarsi immediatamente un dominio fino a quel momento rivendicato dai filosofi. Il Cristianesimo offriva una soluzione nuova dei problemi che i filosofi stessi ave­vano posto. Una religione fondata sulla fede in una rivela­zione divina si mostrava capace di risolvere i problemi filosofici meglio della filosofia stessa; i suoi discepoli avevano dunque il diritto di rivendicare il titolo di filosofi e, poiché si trattava della religione cristiana, di dichiararsi filosofi in quanto Cristiani. Questa pretesa non era tuttavia al riparo da ogni obie­zione. Innanzitutto, se si ammette che Dio non ha rivelato la verità agli uomini che attraverso Cristo, sembra che quelli clic sono vissuti prima di Cristo non siano stati colpevoli d’averla ignorata. Ponendo lui stesso questo problema nella Apologia I, Giustino s’impegnava a definire la natura della rivelazione cristiana e il suo posto nella storia dell’umanità. Il principio della soluzione che egli propone è preso a pre­stito dal prologo del Vangelo di san Giovanni. «Abbiamo imparato», egli dichiara infatti, «che il Verbo illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo e che di con­seguenza tutto il genere umano partecipa del Verbo». C’è dunque una rivelazione universale del Verbo divino, ante­riore a quella prodottasi nel momento in cui il Verbo stesso s’è fatto carne. Questa tesi sarà riesposta da Giustino in ter­mini improntati allo stoicismo, quando dirà, nella sua Apo­logia II,che la verità del Verbo è come una «ragione seminale», cioè un germe, di cui ciascun uomo ha ricevuto una particella. In qualunque maniera ci si esprima, il fatto resta il medesimo, e poiché Cristo è il Verbo fatto carne, tutti gli uomini che sono vissuti secondo il Verbo, fossero Ebrei o pagani, sono vissuti secondo il Cristo, mentre quelli che per i loro vizi sono vissuti contro il Verbo sono vissuti anche contro il Cristo. Ci sono stati dunque dei Cristiani e degli anti-cristiani prima di Cristo, quindi anche dei meriti e dei demeriti. Si aggiunga che spesso i filosofi greci hanno preso a prestito le loro idee dai libri dell’Antico Testamento, e avremo il diritto di concludere che la rivelazione cristiana è il punto culminante di una rivelazione divina antica quanto il genere umano.

 

 ApologiA I, 65-67

Ordunque noi, dopo avere così lavato chi crede e ha aderito, lo conduciamo nell'adunanza dei fratelli, come noi ci chiamiamo, onde pregare in comune fervidamente per noi, per l'illuminato e per tutti gli altri, ovunque siano; per meritare, dopo aver appresa la verità, di riuscire buoni nelle opere della vita, osservanti dei precetti e conseguire così la salvezza eterna. Cessate le preghiere ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi viene recato al preposto dei fratelli un pane e una coppa d'acqua e vino temperato; egli li prende e loda e glorifica il Padre di tutti per il nome del Figlio e dello Spirito Santo; indi fa un lungo ringraziamento [in greco «eucaristia»], per averci fatti meritevoli di questi doni. Terminate le preghiere e il ringraziamento eucaristico, tutto il popolo presente acclama: «Amen!». Amen in lingua ebraica vuol dire «sia». Quando il preposto ha rese le grazie e tutto il popolo in coro ha risposto, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l'acqua consacrati, e ne portano agli assenti.

Questo alimento noi lo chiamiamo eucaristia, e non è dato parteciparne se non a chi crede veri gli insegnamenti nostri, ha ricevuto il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione e vive secondo le norme di Cristo. Poiché noi non lo prendiamo come un pane comune e una comune bevanda; ma come Gesù Cristo salvatore nostro, incarnatosi per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così il nutrimento consacrato con la preghiera di ringraziamento formata dalle parole di Cristo e di cui si nutrono per assimilazione il sangue e le carni nostre, è, secondo la nostra dottrina, carne e sangue di Gesù incarnato. Gli apostoli difatti nelle loro Memorie, dette Evangeli, tramandarono che Gesù Cristo lasciò loro tale legato: preso un pane e rese grazie egli disse loro: Fate ciò in memoria di me; questo è il mio corpo (Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-25; Mt 25,28); e preso similmente il calice e rese grazie, disse: Questo è il mio sangue; e a loro soli li offerse. Ora i funesti demoni ricopiarono un tale atto, introducendolo anche nei misteri di Mitra. Difatti nei riti dell'iniziazione con certe formule pongono innanzi un pane e un calice d'acqua e pronunziano delle frasi, come voi sapete o potete informarvi. Da allora sempre rinnoviamo tra noi la memoria di queste cose; e quelli dei nostri che posseggono, soccorrono gli indigenti tutti, e conviviamo sempre uniti. E in tutte le nostre offerte benediciamo il Fattore dell'universo per il Figlio suo Gesù Cristo e per lo Spirito Santo. E nel giorno chiamato del Sole ci raccogliamo in uno stesso luogo, dalla città e dalla campagna, e si fa la lettura delle Memorie degli apostoli e degli scritti dei profeti, sin che il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, il preposto tiene un discorso per ammonire ed esortare all'imitazione di questi buoni esempi. Di poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; indi, cessate le preci, si reca, come si è detto, pane e vino e acqua; e il capo della comunità nella stessa maniera eleva preghiere e ringraziamenti con tutte le sue forze, e il popolo acclama, dicendo: «Amen!». Quindi si fa la distribuzione e la spartizione a ciascuno degli alimenti consacrati e se ne manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti. I facoltosi e volonterosi spontaneamente danno ciò che vogliono e il raccolto è consegnato al capo, il quale ne sovviene gli orfani, le vedove, i bisognosi per malattie o altro, i detenuti e i forestieri capitati; egli soccorre, in una parola, chiunque si trovi in bisogno. Ci aduniamo tutti dunque il giorno del Sole, perché è il primo giorno in cui Dio, cangiate tenebre e materia, plasmò il mondo, e in cui Gesù Cristo, Salvatore nostro, risorse dai morti.

 

 Apologia II

X - 1. La nostra dottrina dunque appare più splendida di ogni dottrina umana, perché per noi si è manifestato il Logos totale, Cristo, apparso per noi in corpo, mente, anima.

2. Infatti tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos.

3. Ma poiché non conobbero il Logos nella sua interezza, che è Cristo, spesso si sono anche contraddetti.

4. Quelli che vissero prima di Cristo e si sforzarono di investigare e di indagare le cose con la ragione, secondo le possibilità umane, furono trascinati dinanzi ai tribunali come empi e troppo curiosi. Colui che più di ogni altro tendeva a questo, Socrate, fu accusato delle stesse colpe che si imputano a noi: infatti dissero che egli introduceva nuove divinità, e che non credeva negli dei che la città riteneva come tali.

5. Invece egli insegnò agli uomini a rinnegare i demoni malvagi, autori delle empietà narrate dai poeti, facendo bandire dalla repubblica sia Omero sia gli altri poeti; cercava anche di spingerli alla conoscenza del Dio a loro ignoto, attraverso la ricerca razionale. Diceva: "Non è facile trovare il Padre e creatore dell'universo, né è sicuro che chi l'ha trovato lo riveli a tutti".

6. Questo è quanto fece il nostro Cristo con la Sua potenza. Infatti a Socrate nessuno credette fino al punto di morire per questa dottrina. A Cristo invece, conosciuto, almeno in parte, anche da Socrate (Egli infatti era ed è il Logos che è in ogni cosa, che ha predetto il futuro per mezzo dei Profeti e per mezzo di se stesso, che si è fatto come noi ed ha insegnato questa verità), credettero non solo i filosofi e dotti, ma anche operai e uomini assolutamente ignoranti, che sprezzarono i giudizi altrui, la paura, la morte. Poiché è potenza del Padre ineffabile e non costruzione di umana ragione.

 

XII. - l. Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza.

2. Infatti quale uomo libidinoso o intemperante o che reputi un bene il cibarsi di carne umana potrebbe abbracciare la morte, per essere privato di questi suoi beni, e non cercherebbe invece di vivere sempre la vita di quaggiù e di sfuggire ai magistrati, anziché autodenunciarsi per essere ucciso?

 

 

 

A Diogneto: si presenta come una lettera, scritta tra la metà del II e l'inizio del III. Ci si rivolge ad un colto pagano, il quale avrebbe posto domande sul Dio e sul culto per cui i Cristiani si sentono superiori agli altri. La risposta comincia con una critica del politeismo, inganno umano e del giudaismo, pieno di superstizioni e pratiche rituali. Il Cristianesimo è un mistero, su cui non si può essere istruiti dagli uomini. I Cristiani, poi, non sono un popolo a parte, ma come stranieri, come l'anima è nel corpo. Il Cristianesimo è l'unica religione non inventata, ma da Dio e trasmessa dal suo Logos creatore. Il coraggio dei martiri ne è la prova. Singolarmente la novità del Cristianesimo viene qui come qualcosa di buono, dicendo che nessuno ha mai conosciuto Dio prima dell'invio del Figlio.

V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio.

 

VI. 1. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5. La carne odia l'anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6. L'anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7. L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8. L'anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l'incorruttibilità nei cieli. 9. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l'anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare.

 

 

 

Tertulliano: nato a Cartagine verso la metà del II sec. da genitori pagani. Studiò retorica e diritto, dove apprese anche il greco. Forse esercitò l'avvocatura. Conversione in età avanzata, verso il 195. Divenne prete, con posizioni molto rigorose, tanto che nel 213 aderì al Montanismo. Negli ultimi anni se ne distaccò per fondare un nuovo gruppo, dei Tertullianisti, caratterizzato da rigore morale. Morì dopo il 220. Pervenuti oltre 30 scritti., di orientamento teologico e polemico (sia verso i Pagani sia verso i Cristiani).

Ai martri, esortazione ad un gruppo di Cristiani incarcerati in attesa del martirio.

Ai pagani, Apologetico, La testimonianza dell'anima, del 197, apologie per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani. Usa argomentazioni tradizionali, come l'antichità partendo dai presupposti giudaici, la purezza, il rigore morale, la lealtà politica, rinfacciando ai pagani la vita immorale e dissoluta. Propone un sunto della dottrina cristiana, con l'impiego di elementi stoici, per mostrare che il Cristianesimo è il compimento delle filosofie pagane. Ma Tertulliano viene in piena luce con la sua impetuosa personalità là dove dimostra in modo irrefragabile l’assurdità della procedura legale applicata dai governatori delle provin­cie nella loro persecuzione anticristiana, il loro seguire cioè il rescritto di Traiano, che proibisce la ricerca d’ufficio dei cristia­ni da parte delle autorità pagane, ma impone la loro condanna, quando siano denunciati e convinti tali. Essi sarebbero, infatti, colpevoli solo di essere cristiani, e non di qualsivoglia viola­zione della legge. Questa polemica è posta all’inizio dell’opera ­e serve a introdurre il lettore in un trattato apologetico sa­pientemente costruito secondo le regole della retorica, a differenza di quelli dei Greci, per lo più disordinati e prolissi. Fondamentale, in Tertulliano, e sostanzialmente assente nella apologetica greca, è la riconsiderazione della realtà politica un nuovo punto di vista, quello cristiano: in essa lo scrittore reintroduce tutte le ambiguità e le incertezze della sua stes­sa fede religiosa, oscillando tra un aperto e leale riconoscimento della validità dell'istituzione statale e una negazione della sua intrinseca bontà.

Il trattato Sulla prescrizione degli eretici, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico, risolvendo la questione sul piano giuridico: secondo la legge romana, ogni persona che di un bene per un tempo sufficiente, poteva considerarsene proprietaria. Se qualcuno gliene contestava la proprietà, poteva opporre come titolo il diritto di prescrizione. Applicando questa regola alle Scritture, respinge gli gnostici dalle loro pretese di interpretarle, riconducendo così il problema a quello della Tradizione.  Ogni cristiano deve accettare la fede come tale, senza giudicarla e senza troppi ragionamenti razionali: si è cristiani per fede nella parola di Gesù. Così Tertulliano si impegna in un atteggiamento di opposizione nei confronti della filosofia, responsabile delle sette gnostiche e delle eresie. Il più illetterato dei cristiani supera, in sapienza , Platone, rispondendo a ciò che egli non sa. Le verità intraviste dai filosofi o sono state prese dalla Bibbia, più antica, o sono state insegnate da un demone, oppure si tratta di nozioni comuni. L'antifilosofismo diviene infine antirazionalismo, sulla scia di Paolo, ma con effetti opratori che rendono le affermazioni assai più lapidarie.

Il trattato Sull'anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; egli si esprime da materialista e pensa da stoico, ritenendo che l'anima sia un corpo tenue e sottile, che sposa la forma del corpo. L'anima si trasmette nell'uomo al momento del concepimento e così essa porta il segno dl peccato originale. Ma anche la somiglianza divina si è trasmessa con la generazione, per questo l'anima è naturalmente cristiana, come emerge dagli spontanei appelli a Dio. Poiché tutto ciò che esiste è corporeo, e Dio esiste, Dio è corporeo. È senza dubbio il corpo più sottile e tenue di tutti. È anche il più brillante, al punto che il suo stesso splendore ce lo rende invisibile, ma, insomma, è un corpo. Non pos­siamo rappresentarcelo in se stesso, ma sappiamo che è uno, che è naturalmente ragione, e che la ragione fa in lui tutt’uno con il bene. Quando fu venuto il momento di creare, Dio generò da se stesso una sostanza spirituale, che è il Verbo. Poiché questa sostanza sta a Dio allo stesso modo che i raggi stanno al sole, essa è Dio come i raggi del sole sono luce. È Dio da Dio, Luce da Luce, che scaturisce dal Padre senza diminuirlo. Ma il Verbo non è tutto il Padre e lui stesso più tardi lo confermerà quando dirà per bocca di Cristo: «Mio Padre è più grande di me»(Gv 14, 28). Giustificata in questo modo l’esistenza del Verbo, Tertulliano si trova a proprio agio per provare agli stoici che tutta la loro dottrina del Lògos conferma la verità cristiana. Dio ha creato il mondo dal nulla, ma il Verbo è la ragione stessa secondo la quale egli l’ha creato, ordinato e governato. Non era questo che affermavano gli stoici Zenone e Cleante, quando parlavano del Lògos come di una ragione o di una saggezza costrut­trice del mondo e che lo penetra da ogni parte? Quanto allo Spirito Santo, esso s’aggiunge al Padre e al Verbo senza rompere l’unità di Dio, come il frutto fa tutt’uno con la ra­dice e il fusto, o l’estuario con il fiume e la sua sorgente. La generazione del Verbo dal Padre provocata dalla sua creazione non è, per essere esatti, eterna, poiché il Padre è esistito senza di Lui. Però il tempo è solo delle creature, dunque è una relazione che non si sa come esprimere.

L’A Scapula, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: Sugli spettacoli, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; L'abbigliamento delle donne, sui vestiti delle donne, che debbono essere parti­colarmente discreti; Le donne devono portare il velo, sull’opportunità che le donne non esca­no di casa a volto scoperto; Sulla pudicizia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; Sulla corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; Sull'idolatria, contro tutte le attività economi­che che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguarda­no argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Contro Marcione,Contro Praxea, ecc.).

Non piccolo merito è anche l'aver ampiamente contribuito a creare una nuova lingua cristiana, capace di esprimere a livello letterario i dogmi di fede e la problematica della prassi quotidiana del credente. Ad esempio introduce il termine substantia che, ripreso dallo stoicismo, indica il sostrato materiale proprio di ogni essere individuale.

 

Apologetico

Ciò che adoriamo è l’unico Dio, il quale, mediante il verbo che comandò. ne che dispose e la onnipotente sua virtù, questa mole immensa con tutti gli elementi, i corpi, gli spiriti che la compongono, espresse dal nulla a ornamento della sua maestà, si che anche i Greci adattarono al mondo il nome di Cosmo. Dio invisibile, benchè si veda; incomprensibile, benché la grazia lo faccia sempre presente; inestimabile, benché i nostri sensi ce ne rivelino il pregio infinito: perciò egli è vero e di tanta grandezza. Le cose che si possono vedere, comprendere, apprezzare, sono da meno degli occhi che le colgono, delle mani che le toccano, dei sensi che le percepiscono. Ciò che è infinito è noto soltanto a sé. Il valore di Dio si misura per la impossibilità di misurarlo e l’immensità della sua grandezza nello stesso tempo lo svela agli uomini e lo nasconde. Ed è qui tutta la colpa di quanti non vogliono riconoscere colui che non possono ignorare. Volete che ne comproviamo l’esistenza dalle sue stesse opere, da quelle tante e tali opere che ci conservano, ci sostengono, ci dilettano; da quelle che ci atterriscono? Volete a conferma la testimonianza stessa dell’anima? La quale, anche rinchiusa nel carcere del corpo, anche ingannata da insegnamenti malvagi, anche svigorita concupiscenze e libidini, anche asservita ai falsi dei, tuttavia quando — come uscita dall'ebbrezza o dal sonno o da malattia — ritorna in sé e ricupera la salute, allora nomina Dio con questo solo nome, perché proprio del Dio vero: «Dio grande», «Dio «quello che Dio vorrà»; è questa la voce universale. Ed anche come giudice essa lo invoca: «Dio vede», «Dio aiuta», «Dio mi renderà». O testimonianza dell’anima naturalmente cristiana! E pronunciando queste parole essa non al Campidoglio si rivolge, ma al cielo, giacché conosce la sede del Dio vivente. Da lui, di là essa è discesa.

 

Sulla carne di Cristo

Il Figlio di Dio è stato crocifisso, io non ne ho vergogna, perché bisogna averne vergogna. E che il Figlio di Dio sia morto è veramente credibile, perché è assurdo. E che, sepolto, sia risuscitato, è certo, perché è impossibile.

 

 

 

 

Minucio Felice, Octavius: nell'introduzione alla sua opera, lo stesso Minucio ci dice di essere stato avvocato a Roma e di essersi convertito in età matura. Egli intende ricordare il suo amico Ottavio e narrare il dialogo per mezzo del quale questi convertì il comune amico Cecilio Natale, nemico del Cristianesimo ed originario di Cirta, in Numidia. I tre si erano recati ad Ostia, in occasione delle ferie di tribunali romani, e sul lido si svolge il dialogo: dopo alcune battute, Cecilio, adoratore del dio egiziano Serapide, propone di intavolare una discussione di ar­gomento religioso con Ottavio; giudice di essa sarà, appunto, Minucio. In breve: Cecilio ripete contro i cristiani le accuse usuali, sia quelle diffuse tra il volgo degli ignoranti (immorali­tà, crudeltà, cene tiestee, adorazione di una testa d’asino) sia quelle proprie della gente colta (ignoranza dei cristiani, assur­dità della loro religione e delle loro dottrine, del loro com­portamento testardo e ribelle; mancanza, nella loro visione del mondo e nel loro modo di vivere, di ogni atteggiamento filosofico). Cecilio, per difendere il paganesimo ed accusare i cristiani, si serve di dottrine ricavate da Cicerone, da Seneca e da Varrone, né mancano riferimenti, sia pure mediati attra­verso scrittori più recenti, alla filosofia di Platone. Egli appa­re difensore dello scetticismo e negatore della provvidenza divina, e, per sostenere le sue idee, impiega ampiamente il terzo libro de La natura degli dei, di Cicerone. Ciò è interes­sante: essendo stata impostata in tal modo la polemica da parte del pagano, sarebbe fuori luogo la tradizionale accusa di ateismo nei confronti dei cristiani; infatti, ateo potrebbe apparire, se mai, proprio Cecilio. Questo atteggiamento di scetticismo costituisce una novità nella polemica anticristiana delle persone colte; Ottavio nella sua replica non insiste, come pure avrebbe potuto, a mettere in ridicolo il politeismo dei pagani, dato che nemmeno Ceci­lio lo sosteneva. Accanto a tale scetticismo di fondo Cecilio propone, come Cicerone, di percorrere l’unica strada consi­derata valida dalle persone civili e colte, da questi pagani di un’epoca in cui l’antica tradizione romana stava acquistando sempre maggior valore, quasi fosse una forma di religione, nel tentativo di reagire alle calamità dei tempi presenti. Essa implicava l’adesione, anche se non convinta, comunque fedele ­e senza discussioni, perché giustificata dalla obbedienza al­le leggi dello Stato, alle antichissime tradizioni cultuali e reli­giose di Roma, che erano state le artefici dell’impero. Alle accuse di Cecilio, Ottavio replica scardinando, innanzitutto, la contrapposizione tra la presunta sapienza della filosofia e ignoranza dei cristiani: la sapienza deve essere alla portata di tutti. Le accuse vengono quindi confutate con argomentazioni tradizionali. Si tratta di contrapporre allo scetticismo dei pagani la verità cristiana: essa non si differenzia da quanto di nobile è nella cultura pagana. Ottavio, facendo buon uso della filosofia stoica, richiama l'attenzione alle meraviglie dell'universo creato. Evita appositamente ogni dogma cristiano e non nomina Gesù, cui solo una volta accennano Cecilio ed Ottavio. Tutto il Cristianesimo è ridotto al monoteismo, senza citare la Scrittura; solo, si accenna al dogma della risurrezione finale. Questo perché l'opera era per i pagani. Infine Cecilio, felice, abbraccia la religione di Ottavio.

 

Per il soverchio della meraviglia, ero quasi fuori di me stesso nel considerare ch’egli era riuscito a ribadire con argomenti, con esempi, con l’autorità dei testi ciò che è più facile sentire che esprimere ed era riuscito a rimandare addosso ai denigratori ­quegli strali di filosofica presunzione dei quali essi sogliono armarsi contro di noi, mostrando per giunta che la verità non è solo facile ad essere intuita, ma addirittura amorevolmente disposta verso di noi e letificante.

Mentre io in silenzio formulavo queste considerazioni, Cecilio proruppe: « Io, oltre a congratularmi il più possibile con Ottavio, mi congratulo anche con me stesso e non aspetto la sentenza. Abbiamo vinto insieme: giudicatemi pure sleale, ma io vi dico che mi arrogo una parte della sua vittoria. Infatti, come egli ha vinto me, così io celebro la vittoria sul mio errore. Adunque, per quanto concerne la sostanza della nostra disputa, riconosco che esiste la provvidenza, mi inchino al vero Dio, testimonio anch’io la purezza di quella comunità di credenti che è ormai anche la mia. Tuttavia rimangono ancora nel mio spirito alcuni punti oscuri, che non dico facciano un clamoroso ostacolo alla verità, ma che bisogna soltanto chiarire perché la mia iniziazione sia completa; poiché il sole ormai precipita all’occaso, li esamineremo domani, e con rapidità, dato che già conveniamo in pieno sull’essenziale». «Ma io poi — soggiunsi— godo la gioia più perfetta fra tutti noi, in quanto Ottavio ha vinto anche per me e mi ha dispensato dall’odioso obbligo di pronunziare la sentenza. Eppure non posso giustamente compensare i suoi meriti con le mie povere parole di lode; ché l’attestato di un uomo, e di un solo uomo, è cosa troppo meschina; ma egli ha il remuneratore supremo in Dio, che lo ha ispirato nel suo discorso e lo ha aiutato nell’ottenere la vittoria». Dopo queste parole ci allontanammo di lì in grande letizia: Cecilio e­ra felice di aver conquistato la fede, Ottavio era felice di avergliela ispirata, vincendo la disputa, io ero felice sia che l’uno l’avesse raggiunta, sia che l’altro gliela avesse ispirata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LETTERATURA SUI MARTIRI

 

Letteratura sui martiri: Solitamente si distinguono gli Atti dalle Passioni dei martiri. I primi hanno la forma dei verbali ufficiali di un processo, stenografato da qualcuno che era stato presente, mentre le Passioni sono resoconti di testimoni oculari. La spiritualità del martirio, che pervade i documenti più antichi è, sostan­zialmente, la medesima che percorre anche alcuni documenti letterari contemporanei, ad esempio le opere dedicate al martirio da Tertulliano (Ai martiri; Scorpiace) e da Cipriano (alcune epistole; A Fortunato). In tale spiritualità è ancora pre­sente in parte la tradizione giudaica, che culmina nella inter­pretazione della morte del profeta perseguitato (i grandi pro­feti sono, per Tertulliano, i modelli del martire cristiano), ma soprattutto è forte la convinzione, tipicamente cristiana, della ‘imitazione di Cristo’, per cui il martire riproduce la passione di Cristo e Cristo è presente in lui. Ciò è ben attestato dalla Lettera dei Martiri di Lione e dalla Passione di Perpetua e Felici­ta: Blandina e Felicita sanno che se le sofferenze come esseri umani sono soltanto loro, le sofferenze come martiri saranno di Cristo presente in loro, ed esse non le sentiranno più. Fon­damentale per il cristiano è anche ‘il testimoniare’ Cristo. Se questo era il significato iniziale della parola ‘martire’, derivata dal greco, successivamente il termine designa colui ‘che e morto per Cristo’. Come Cristo ha dato la vita per l’uomo, così l’uomo dà la vita per Cristo di fronte agli uomini (cf. Mt 10, 32-33); tale spiritualità ha fatto sì che il termine greco (pathos) e quello latino (passio), che indicano, nella lingua comu­ne, la sofferenza, si rivestano di un significato più profondo, che è, appunto, quello del martirio (‘passione’). Un altro elemento tipicamente cristiano, che caratterizza l'agiografia, è lo spirito commemorativo, il desiderio di ricordare ai fedeli, ovunque fossero, la morte gloriosa del martire e all’intento commemorativo si unisce quello dell’esortazione ad affrontare il martirio. Per questo motivo gli Atti e le Passioni dei martiri erano spesso letti anche nel corso del servizio li­turgico, soprattutto nell’Africa cristiana. Scritti sotto l’impressione dell’avvenimento, essi colpiscono per la loro semplicità e immediatezza, capaci di suscitare nei fedeli entusiasmo e ammirazione, mentre i testi agiografici composti più tardi, durante l’epoca della Chiesa vittoriosa sul paganesimo, sono inficiati da un acceso trionfalismo e risultano spesso ripetitivi e lontani da ogni realismo; abbondano di luoghi comuni e d’artifici, propri della letteratura devozionale. In generale il martire è anonimo; si ricorda il suo nome, ma non si fornisce nessun altro elemento della sua vita anteriore (famiglia, pa­tria, educazione); spesso appartiene ad un gruppo nel qual non esistono differenze di classe, tra padroni e schiavi. In epoca post-costantiniana fiorirà la "passione epica", in cui il martire è un eroe e in realtà sconfigge il carnefice, dimostrando la cosa con vicende fantasiose, colpi di scena, miracoli.

 

Martirio di Policarpo: l'opera è contenuta in una lettere della Chiesa di Smirne a quella di Filomelio, parla al futuro dell'anniversario dell'episodio, dunque è stata scritta meno di un anno dopo, comunque 156, 167 o 177. In stile semplice, vengono narrati l'arresto dell'ottantaseienne vescovo nel corso di una persecuzione, il suo processo nello stadio sotto gli occhi di una folla eccitata contro i Cristiani, il rifiuto di cedere a preghiere e minacce, la condanna, l'intensa preghiera del martire, il rogo. Alcuni elementi di tendenza sono evi denti. Le persecuzioni sono opera del diavolo, e i giudei sono suoi zelanti collaboratori. Vi è una polemica contro la ricerca del martirio: Po­licarpo accetta di nascondersi, insegnando così ad anteporre il bene del prossimo al proprio (cioè al martirio); e so­rattutto, viene stigmatizzato come contrario al vangelo il comportamento di un certo Quinto, venuto di recente dalla zia, che si era autodenunciato e aveva indotto altri a seguire­ il suo esempio, ma poi per paura aveva sacrificato agli dèi. Policarpo è descritto come dotato di spirito profetico, in particolare nell’imminenza del martirio (5, 2). La morte è caratterizzata da eventi prodigiosi e simbolici: le fiamme formano una nicchia intorno al corpo, sì che il martire è come pane cotto in forno (allusione forse all’eucaristia) e un profumo soave se ne sprigiona (15, 2). In particolare, mol­ti elementi assimilano la passione di Policarpo a quella di Cri­sto (egli è tradito; l’irenarco che lo arresta si chiama Erode, etc.; tali coincidenze sono sottolineate esplicitamente).

 

Martiri di Lione: pure in forma epistolare (lettera dei cristiani di Lione e Vienne a quelli d’Asia e di Frigia) è la relazione del feroce po­grom anticristiano scatenato a Lione sotto Marco Aurelio, i 177, conservata quasi per intero da Eusebio, Storia della Chiesa V, 1, 3-2, 8; autore ne è forse Ireneo stesso, già vescovo di Vienne, poi anche di Lione. Molto probabilmente si trattò di un’iniziativa della popolazione di Lione, e trascinò i cristiani davanti alle autorità cittadine e li fece imprigionare sino all’arrivo del governatore; questi finì poi col cedere alla pressione della folla, ordinando la ricerca e l'arresto dei cristiani — tra cui il vescovo Potino, più che no­vantenne, che morì in carcere — contro le disposizioni risalenti Traiano. Diversamente dal Martirio di Policarpo, incentrato sul­la figura del vescovo, il presente scritto ha un andamento corale ; risaltano peraltro figure luminose, come quella del diacono Santo; di Attalo, sottoposto ai peggiori supplizi nonostante la la sua qualità di cittadino romano; del quindicenne Pontico; e soprattutto di Blandina, esile schiava giovinetta che incoraggia e conforta ic ompagni, e muore per ultima dopo aver subito eroicamente torture spaventose.

 

Il Martirio dei santi Giustino, Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone, Liberiano e della loro comunità:l’interrogatorio del gruppo si svolse davanti al pref­etto di Roma Quinto Giunio Rustico (in carica in un periodo compreso tra il 163 e il 167). Giustino aveva aperto a Roma una «scuola di filosofia» cristiana e osserva in uno scritto (II Apol. 3) che si attende di essere denunciato dal filosofo cinico Crescente, suo rivale; probabilmente le cose andarono appunto così. Alcuni dettagli sono interessanti: al prefetto che cerca di sapere il luogo di riunione dei Cristiani Giustino, eludendo la domanda, si limita a comunicare il proprio indirizzo e a osservare che esponeva le parole della verità a chiunque volesse venire a trovarlo. I suoi compagni, a precisa domanda del magistrato, evitano di dichiarare che è stato Giustino a convertirli e istruirli. Sepoltura dei martiri a cura della comunità.

 

Atti dei Martiri Scillitani: succinto resoconto del processo, conclusosi con la condanna a morte di alcuni cristiani. Come ci fa sapere anche Tertulliano, Vigellio Saturnino, proconsole d’Africa, sarebbe stato il primo persecutore dei cristiani in quella regione. Ed in effetti, il 17 luglio 180 egli giudicò alcuni cittadini di Scilli o Scillium, una città della provincia; i condannati stessi erano sicuramente di umile origine o addirittura punici, stando ai nomi (Sperato, Nartzalo, Cittino, Donata, Seconda e Vestia). Il contenuto di questo dibattito processuale è estremamente interessante. Esso già ci presenta con estrema nettezza alcuni dei motivi tipici del cristianesimo, come l’estraneità al mondo terreno e il rifiuto di ogni compromesso con il paganesimo, in particolare del culto dell’imperatore. Gli Atti, dopo una breve introduzione che informa sul processo, ci presentano il contraddittorio che ebbe luogo tra la personalità più autorevo­le, tra i martiri, ed il proconsole. Questi offre ai cristiani il per­dono dell’imperatore, se essi si pentono, ma i Cristiani non prendono nemmeno in considerazione la proposta: si limitano ad asserire di essersi sempre comportati irreprensibilmente. Essi sono, dunque, condannati per il solo essere cristiani. Con questi Atti ha inizio, in Occidente, la letteratura di atti e di passioni. A rigore, tuttavia, gli Atti dei Martiri Scillitani so­no solo il resoconto di un processo, quindi un puro e sempli­e documento, analogo a tanti altri, che (dobbiamo immagi­nare) venivano stilati in situazioni del genere. Nuova è, però, l'intenzione che animava il redattore di questi Atti, per cui si può parlare di un genere letterario nuovo. Il resoconto, infatti, ­serve a tener desta presso la comunità dei fedeli l’ammira­zione e la memoria di coloro che sono morti per la fede; di più, è implicita in esso l’esortazione a emulare quei martiri, volta a tutta la comunità ecclesiale.

 

Sotto il consolato di Presente (per la seconda volta) e Claudiano, il 17 luglio, in Cartagine, essendo stati condotti nell’ufficio giudiziario Sperato, Nartzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia, il proconsole Saturnino disse: «Voi potete ottenere l’indulgenza del governatore nostro signore se volete ritornare a propositi saggi».

Sperato disse: «Noi non abbiamo mai fatto del male, e non abbiamo atteso ad alcuna azione malvagia, giammai detto male di qualcuno, ma, pur se trattati male, ne abbiamo reso grazie; per la qual cosa onoriamo il nostro imperatore».

Saturnino proconsole disse: «Anche noi siamo religiosi, e semplice è la nostra religio­ne, e giuriamo per il genio dell’imperatore nostro signore e preghiamo per la sua salute, e anche voi dovreste fare così».

Sperato disse: «Se mi presterai ascolto tranquillamente, ti spiego il mistero della semplicità».  Saturnino disse: Se ti proponi d’insolentire contro i nostri culti, non ti presterò ascolto; ma piuttosto giura per il genio dell’imperatore nostro signore».

Sperato disse: «Io non conosco impero di questo mondo, ma piuttosto sono servitore di quel Dio, che nessun uomo vide né può vedere con questi occhi. Io non ho mai rubato, e se faccio qualche commercio, pago regolarmente la tassa; perché conosco il mio Signore, re dei re e imperatore di tutte le genti».

Saturnino proconsole disse agli altri: «Smettete dal professare siffatte opinioni».

Sperato disse: «È cattiva opinione (ammettere che si possa) commettere omicidio o fare falsa testimonianza».

Saturnino proconsole disse: «Non vogliate farvi complici di questa follia».

Cittino disse: «Noi non abbiamo altri da temere, all’infuori di Dio, nostro Signore che sta nei cieli».

Donata disse: «A Cesare l’onore in quanto Cesare, ma il timore (solo) per Dio».

Vestia disse: «Sono cristiana».

Seconda disse: «Quel che sono voglio rimanere».

Saturnino proconsole disse a Sperato: «Persisti nell’essere cristiano?».

Sperato disse: «Sono cristiano. E a lui tutti si associarono».

Saturnino proconsole disse: «Desiderate una certa dilazione per deliberare?».

Sperato disse: «In una causa così giusta non v’è nulla da deliberare».

Saturnino proconsole disse: «Che cosa conservate nella vostra cassetta?»

Sperato disse: «I libri sacri e le lettere di Paolo, uomo giusto».

Saturnino proconsole disse: «Accettate una dilazione di trenta giorni e ripensateci».

Sperato di nuovo disse: «Sono cristiano. E tutti gli fecero eco».

Saturnino proconsole lesse sulla tavoletta la sentenza: «Sperato, Nartzalo, Cittino, Donata, Vestia, Seconda e tutti gli altri che hanno ammesso di vivere secondo la religio­ne cristiana, poiché, pur essendo loro offerta la possibilità di tornare ai costumi romani, ostinatamente perseverarono, sono condannati a morire di spada».

Sperato disse: «Rendiamo grazie a Dio».

Nartzalo disse: «Oggi siamo martiri in cielo: grazie a Dio».

Saturnino proconsole fece annunziare per mezzo dell’araldo: «Ho ordinato che Sperato, Nartzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio, Ianuaria, Generosa, Vestia, Donata, Seconda siano condotti al luogo del supplizio».

Tutti dissero: «Grazie a Dio».

E così tutti insieme furono incoronati del martirio, e regnano col Padre e col e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

 

Atti del martirio di S. Cipriano (258), Atti di Fruttuoso, Atti di Marcello, Atti di Massimiliano (259).

 

Passione di Perpetua e Felicita: narra dell'arresto, incarcerazione e martirio di alcuni catecumeni, fra cui vi erano alcuni schiavi, e di Vibia Perpetua, donna di nobile origine, con l'ancella Felicita. Ad essi si aggiunge Sàturo loro maestro. Il testo è presentato, nella prima parte, come opera della stessa Perpetua, che rac­conta i tentativi del padre per farle rinnegare il Cristianesimo in cambio della libertà promessa dai giudici, o le difficoltà che il carcere comportava per una giovane ma­dre che aveva con sé il figlio ancora lattante, o i sogni premonitori del futuro marti­rio e della gioia in paradiso; seguono alcune parti composte verosimilmente da Sàtu­ro, il quale racconta alcune sue visioni; l’opera si conclude con la narrazione del martirio nei giochi dell’anfiteatro fatta da un redattore, a cui va anche attribuito il coordinamento fra le diverse parti di cui questa Passio si compone. La descrizione della vita del carcere, impensabile, in quelle forme, per uno scrittore classico, è un'innovazione introdotta in letteratura dal Cristianesimo e il personaggio del fratellino morto per malattia a sette anni, poteva acquistare la rilevanza che ha qui soltanto in una letteratura venata di forti esigenze popolari, e educata alla scuola di retorica. Le visioni hanno, secondo tradizione, intento catechetico, pertanto il testo deve essere considerato diretto a tutta l'assemblea dei fedeli. Di questo testo, cosa rarissima, si fece anche una traduzione greca.

 

 

 

 

 

1 Nel 1983 venne nominato cardinale.

2 Nel 1969 venne consacrato vescovo e nominato cardinale. Nel 1941 diede inizio insieme a H. de Lubac alla grande opera Sources Chrétiennes con la collaborazioe di molti altri patrologi.

3 Il suo dottorato è su sant’Agostino (tema ecclesiologico), mentre che l’abilitazione è su san Bonaventura (tema di teologia fondamentale). Dal 2005 è Papa di Roma col nome di Benedetto XVI.

 

Fonte: http://www.niccolov.it/dispense/Patrologia.zip

 

Autore del testo: ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGOSE "NICCOLÒ V"

 

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