Storia dell’ Ordine cistercense
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Storia dell’ Ordine cistercense
Storia dell’Ordine cistercense
Le riforme monastiche dell’undicesimo secolo
L’anno mille può essere considerato giustamente un momento decisivo di svolta nella storia dell’Europa Cristiana per ragioni molto più importanti che la sua convenienza di presentarsi come cifra tonda.
Era fallito il primo tentativo di stabilire pace, prosperità e ordine civile sulle rovine dell’Impero Romano, effettuato dalla cosiddetta Rinascita Carolingia.
Il glorioso impero di Carlo Magno si frantumava sotto gli antagonismi dei suoi nipoti e le pallide luci dell’insegnamento e della pietà monastica venivano spente da una nuova ondata di invasioni barbariche. I Vichinghi assalivano dal Nord, i Saraceni dal Sud, gli Ungheresi dall’Est. Verso la fine del IX secolo si poneva non tanto il problema della difesa della civiltà cristiana quanto quello della sopravvivenza della stessa cristianità.
I barbari, una volta di più, facevano delle scorrerie, a cavallo o sulle loro navi, per tutto il continente: Roma e Parigi erano esposte all’assalto allo stesso modo di Bordeaux, Marsiglia o Napoli. Rovine ancora fumanti di abbazie un tempo così potenti punteggiavano le distese devastate, mentre il papato affondava per divenire una istituzione dal significato ormai esclusivamente locale.
Ma verso la metà del X secolo, cominciarono a moltiplicarsi dei segni di speranza. L’impeto delle invasioni barbariche diminuì. Sia gli uomini che provenivano dal Nord che gli Ungheresi si insediarono nelle terre recentemente conquistate, si integrarono con il mondo cristiano e divennero dei collaboratori attivi nel lento processo di ricostruzione. Ottone I, un Sassone, tentò di creare una parvenza d’ordine nelle terre germaniche, rinnovò l’Impero e riuscì a risollevare il Papato dalle situazioni incresciose in cui si trovava, oppresso tra le contese delle famiglie più potenti di Roma, perpetuamente in lotta fra di loro. Nel frattempo, Cluny, in rapida espansione, restituiva nell’Europa Occidentale rispetto e fiducia alle istituzioni monastiche.
All’avvicinarsi della fine del secolo, era stato raggiunto un livello elementare di ordine e di sicurezza di fronte alle invasioni. Questo modesto successo poneva le basi per la fioritura di uno spettacolare sviluppo di energie creative su cui si innestò la nuova civiltà dell’Alto Medio Evo. Nel secolo XI le istituzioni feudali raggiungevano un pieno sviluppo. La stessa epoca vedeva la comparsa delle città medioevali e una notevole rinascita del commercio e dello scambio internazionale. Le nuove cattedrali e le scuole municipali ben presto offuscavano lo splendore degli antichi centri di studio delle abbazie, e preparavano la via al sorgere delle università. I laici approfittavano con entusiasmo delle nuove possibilità e dei professionisti, tecnicamente preparati, iniziavano a sostituire vescovi ed abati nelle posizioni chiave del governo e dell’amministrazione. Per non molto tempo ancora artisti, studiosi e poeti resteranno umili ammiratori dell’antichità classica.
La nuova architettura romanica dà prove di sorprendente originalità sia nelle concezioni di ingegneria che nei dettagli decorativi. Sant’Anselmo, Arcivescovo di Canterbury può essere giustamente considerato il padre della Scolastica e il suo contemporaneo, Guglielmo IX, Duca di Aquitania, può essere detto l’iniziatore della poesia di corte (il primo “trovatore”). In Lombardia si riesumò lo studio del diritto romano e questo, a sua volta, ispirò il sorgere del diritto canonico. Non c’è tuttavia esemplificazione o prova più tangibile del sorprendente vigore e della grande fiducia di sé della nuova Europa del contrattacco promosso con successo per respingere gli infedeli: si tratta della eroica riconquista della Spagna e della Prima Crociata, che portò lontano migliaia e migliaia di cavalieri francesi per la liberazione di Gerusalemme.
Tuttavia, la ragione per cui gli storici moderni considerano l’XI secolo epoca di rivoluzione, comparabile nel suo impatto, con la Riforma o con la Rivoluzione Francese, consiste nell’improvviso rovesciamento che ebbe luogo nel campo delle relazioni Chiesa-Stato, comunemente noto come Riforma Gregoriana. Ma il termine dì riforma non è perfettamente adeguato. Non sì trattava soltanto di uno sforzo per sradicare degli abusi e per ritornare a qualche forma più antica della vita della Chiesa: si trattava della esigenza di un cambiamento drastico. Infatti, si trattava di un conflitto ideologico rivolto a sradicare delle tradizioni ormai superate per stabilire nel mondo un ordine nuovo, più adatto alle circostanze in via di mutazione.
Dopo il breve esperimento dell’epoca carolingia, era stato raggiunto un equilibrio apparentemente durevole nelle relazioni tra Chiesa e Stato durante l’Impero degli Ottoni e poi nei primi anni di quello dei Salici: era un equilibrio caratterizzato dalla compenetrazione della ecclesia e del mundus.
L’imperatore non era soltanto un governatore secolare, ma era insieme rex et sacerdos, ed aveva l’obbligo sia di proteggere che di propagare la Chiesa, godendo di ampia autorità nelle nomine ecclesiastiche come nelle funzioni clericali. Parallelamente, la gerarchia della Chiesa era pienamente integrata con la nascente società feudale, ed assicurava, oltre alla amministrazione dei sacramenti, una notevole gamma di doveri di governo, di amministrazione della giustizia e perfino militari. In ampi settori, le autorità del papa e dell’imperatore si sovrapponevano: una specie di protettorato dell’imperatore sul papato non era soltanto tollerato, ma spesso perfino auspicato.
Questa situazione di fatto non era mai stata così evidente come sotto Enrico III (1039-1056): questi era un asceta pio ed austero, un monaco pur nelle sue vesti mondane. Al Sinodo di Sutri (1046) egli aveva risolto uno scisma scandaloso: deponeva tre pretendenti al soglio pontificio (Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI) e determinò le tre elezioni papali successive, il terzo papa era suo zio, Leone IX, (1049-1054), il primo promotore della riforma Gregoriana.
Ma, improvvisamente, nel 1059 si ebbe un drastico cambiamento: venne pubblicato un famoso decreto per l’elezione del pontefice, e un altrettanto famoso lavoro del Cardinale Umberto di Silva Candida I Tre Libri contro i Simoniaci. Sotto la bandiera che reclamizzava libertà per la Chiesa ebbe inizio la lotta contro l’influenza dei secolari nell’amministrazione ecclesiastica e contro il coinvolgimento dei chierici negli affari secolari. Il primo di questi conflitti può essere indicato sinteticamente come La Lotta per le investiture e il secondo come le riforme contro la simonìa (comperare o vendere le cariche nella Chiesa) e il nicolaismo (matrimonio dei chierici). Entrambe queste due fasi del conflitto raggiungevano un punto drammatico sotto il pontificato di Gregorio VII (1073-1085): egli si prefiggeva, evidentemente, la ristrutturazione totale della cristianità, per arrivare a una separazione della Chiesa e dello Stato a livello istituzionale. La realizzazione di tali obiettivi compomportava che si togliessero all’imperatore i poteri quasi sacerdotali di cui godeva, per assicurare al Papa una giurisdizione estesa ed effettiva su tutta la Chiesa; il clero doveva essere ricondotto a una integrità morale, in una netta separazione dal mondo; nel caso di conflitti tra il potere secolare e il potere ecclesiastico, l’arbitrato decisivo doveva essere concesso al Papa.
Un programma così rivoluzionario non poté essere pienamente realizzato né da Gregorio né dai suoi successori, ma nel corso di 50 anni, segnati da una incessante discussione; ogni aspetto della vita cristiana, compresa la vita monastica, venne sottoposto a una revisione critica. La rinascita della vita monastica nel secolo XI può essere perciò compresa esattamente solo come parte integrale della Riforma Gregoriana. Il rinnovamento era divenuto inevitabile non tanto a causa della decadenza morale o dell’indebolimento della disciplina, quanto per la necessità in cui versavano i monaci, di ritrovare cioè il loro posto in una società in rapida evoluzione.
I fatti assomigliano alle visioni magiche di un vecchio caleidoscopìo. Quando colui che guarda gira il caleidoscopio, tutte le particelle che contiene devono muoversi per forza, ed assumono ogni volta una posizione diverso nella disposizione dei colori, ma sempre in un perfetto equilibrio ed armonia. Chi cerca di giustificare qualsiasi riforma monastica di un certo rilievo elencando gli incidenti, quali abusi o grossi errori, sta bussando a una porta sbagliata.
Purtroppo, le debolezze degli uomini sono sempre state evidenti anche nei monasteri più perfetti. Ma l’undicesimo secolo non dava segni clamorosi i “decadenza” monastica. Al contrario, durante l’abbaziato di Ugo il Grande (1049-1109), il cosiddetto “impero” di Cluny raggiungeva il suo apogeo, con un numero infinito di filiazioni dirette o indirette. La moda che invalse nel secolo XI di criticare il monachesimo benedettino si può spiegare in gran parte con il fatto che Cluny e le filiazioni dipendenti tardarono a rendersi conto dei cambiamenti che avvenivano attorno a loro e furono ancora più lenti nell’adattarsi alle nuove condizioni.
Infatti, contrariamente a quanto spesso si afferma e si crede, la spiritualità di Cluny non ebbe un ruolo diretto nell’ambito della Riforma Gregoriana. L’abate Ugo era un po’ meno che entusiasta delle idee più avanzate di Papa Gregorio e invece di sostenerle, tentò di farsi mediatore tra il Papa ed Enrico IV. Il compito di questo grande abate nelle conseguenze del famoso incontro di Canossa è stato attentamente considerato.
L’atteggiamento critico verso le forme tradizionali della vita monastica proveniva da varie fonti, ma la maggior parte delle volte derivava dagli stessi monaci.
San Pier Damiani è la più conosciuta e certamente la più influente tra le figure dei critici: nonostante la sua alta posizione nella Curia, parlava di sé come di un monaco pieno di peccati (peccator monachus). Egli accusava molti a abati del suo tempo di esibizionismo mondano: perché trascorrevano più tempo presso le corti dei re che nei loro monasteri; erano più abili in politica che nelle questioni pertinenti la loro funzione abbaziale; erano costantemente coinvolti in litigi a proposito di beni materiali e di rendite. Egli non nutriva nessuna stima per i grandi costruttori che abbellivano le loro chiese ed ingrandivano le loro abbazie. Non poteva resistere dal raccontare una visione avuta sul famoso abate Riccardo di Saint-Vanne nell’inferno, condannato per sempre a costruire delle impalcature come castigo per il suo gusto stravagante per la bella architettura. San Pier Damiani non apprezzava molto lo splendore della liturgia e criticava l’inutilità del suono delle campane, il canto prolungato degli inni e l’uso eccessivo degli ornamenti. In una memorabile visita, fatta a Cluny nel 1063, notò che i vari uffici erano talmente lunghi che nell’orario quotidiano c’era sì e no una mezz’ora libera per fare un discorso con i monaci. Contemporaneamente deplorava la mancanza di mortificazione e di penitenza, soprattutto nel cibo e nella bevanda.
Altre critiche mosse alla vita monastica, che potrebbero essere moltiplicate all’infinito, accusavano la presenza dei secolari fra i monaci, in una convivenza che si giustificava con vari pretesti; andavano contro la presenza dei bambini e il disturbo che ne derivava, così pure contro la presenza di altri individui non desiderati; contro i monasteri costruiti tanto vicini alle città che la loro solitudine ne veniva messa in pericolo; contro i viaggi inutili e contro un diffuso vagabondaggio invalso tra i monaci.
Si faceva notare che la condizione sacerdotale di molti monaci serviva soltanto come pretesto per trascurare il lavoro manuale; l’assunzione di impegni pastorali conduceva a competizioni sconvenienti con il clero secolare. Infatti, continuavano ad aggiungere le critiche, molti abati usurpavano poteri episcopali, acquistavano volentieri delle chiese e molti altri lucrosi benefici, il possesso dei quali era sconveniente per i monaci.
Lo scontento del clero secolare per il modo in cui vivevano i monaci divenne evidente in molti sinodi provinciali, tenuti in Francia, nel corso del secolo XI. Nel 1031 il sinodo di Brouges sottolineava le virtù di obbedienza e di stabilità, e minacciava di scomunica i monaci vagabondi. Il concilio di Tolosa del 1056 accusava gli abati che non osservavano i loro doveri, è dava molta importanza alla virtù della povertà, che veniva trascurata. Nel 1059 una riunione simile a Rouen rimproverava ai monaci la loro vanità nel ricercare posizioni elevate o grandi dignità. Nei sinodi successivi di Tolosa (1068) e di Rouen (1074) il clero secolare ingiunse ai monaci di aderire fedelmente all’osservanza della Regola di san Benedetto senza mitigazioni su quanto vi era prescritto per il silenzio, per le vigilie, per i digiuni e per l’abito.
Sembra che agli occhi di molti contemporanei la radice di questi abusi consistesse nella incoscienza con cui i monaci vivevano il loro ruolo e il loro posto nella Chiesa. Questa convinzione apparve negli scritti di Guglielmo di Volpiano (962-1031), riformatore dell’abbazia di San Benigno di Digione. Egli deplorava che non ci fosse distinzione fra il modo di vivere del clero secolare e della gente del popolo, o tra i monaci e i preti. Giovanni di Fécamp, suo nipote, poneva la stessa cosa in una luce ancora più evidente quando, seguendo Gregorio Magno, insisteva che ci doveva essere una più chiara linea di demarcazione tra il laicato e il clero secolare e un posto ugualmente diverso per i monaci, che dovevano trascorrere la loro vita nell’ascesi e nella solitudine.
Nonostante le loro molte debolezze, bisogna riconoscere ai monaci di quel tempo gli sforzi coraggiosi sostenuti per riformare la loro vita, secondo le direttive ricevute da quanti li criticavano. Nuove ferventi fondazioni si moltiplicarono, dalla Calabria all’Inghilterra, mentre in pratica tutte le abbazie più antiche, che godevano di una certa fama, intrapresero l’arduo lavoro di emendare le loro osservanze.
Le tre idee-forza che guidarono il rinnovamento della vita monastica nell’XI secolo furono la povertà, l’eremitismo e la vita apostolica. Questi tre valori si integravano e si sovrapponevano e tutti, in certa misura, erano già stati integrati nella Regola di san Benedetto: ma il loro riapparire avvenne con la riscoperta delle forme più antiche di vita monastica. L’originalità delle nuove fondazioni consisteva in gran parte in una integrazione particolare di questi tre elementi fondamentali.
I critici del tempo stigmatizzavano, come primo bersaglio, il lusso e la ricchezza, mentre i riformatori esortavano alla più rigorosa povertà come ad un primo passo da compiere per una rinascita significativa. La nuova accentuazione sulla povertà emergeva come reazione spontanea di fronte alla prosperità economica. Il problema era avvertito tanto profondamente, che, nell’XI secolo, alla ricerca di una soluzione, i riformatori oltrepassarono la Regola di san Benedetto per ritornare alla povertà del Cristo sulla Croce, alla povertà degli apostoli e dei loro primi discepoli. Sembrò che il movimento partisse agli inizi del secolo in Italia per diffondersi ben presto in tutto il resto d’Europa. Al riemergere di eresie dualistiche, che disprezzavano le realtà materiali e condannavano le ricchezze e i beni terreni, va aggiunto l’urto dei predicatori della povertà, mezzo-vestiti e con un aspetto stravagante, che vagavano in crescente numero per le campagne.
Non soltanto preti e monaci, ma anche i laici furono affascinati dall’idea di un’assoluta povertà, come dimostra per esempio l’apparire dei Patarini nel Nord-Italia, sui quali sono state fatte molte ricerche.
Sotto questo aspetto, l’insegnamento di san Pier Damiani, per quanto esigente, non può essere considerato estremo. Egli sostituiva la moderazione benedettina (sufficientia) con la severità (extremitas) e la povertà estrema (penuria) ed incoraggiava i suoi seguaci ad andare scalzi, a dormire su pagliericci molto duri e ad accontentarsi di un minimum per l’abito, il cibo e la bevanda. Egli affermava che Dio deve essere l’unico possesso del monaco: e considerava perciò apertamente peccaminoso conservare del danaro, come se fosse una violazione del voto fatto dal monaco al momento della professione. «Torniamo allora, o miei cari, all’innocenza della Chiesa primitiva, al fine di apprendere ad abbandonare ogni possesso ed a godere della semplicità della povertà regale». Così esortava Pier Damiani i suoi discepoli.
Nessuna istituzione religiosa poteva sottrarsi all’impatto di questa corrente. La frase poveri di Cristo divenne referenza abituale per indicare sia i monaci che i canonici regolari ed era una frase che appariva spesso nella corrispondenza di Gregorio VII. Nulla può documentare meglio la forza e la pressione esercitata da questa idea dello strano tentativo fatto da Pasquale II, già monaco di Vallombrosa, per giungere a una soluzione nella lotta delle Investiture. Nel 1111, davanti allo stupore di tutta l’Europa, egli propose che, in cambio della totale esclusione dei secolari dall’interferire nei problemi della Chiesa, la gerarchia nominata dall’imperatore avrebbe abbandonato le terre che possedeva, perché concesse precedentemente dalla corona.
La rinascita dell’eremitismo, sia come idea che come fenomeno, era strettamente connessa con il nuovo concetto di povertà. Un eremita non solo si ritira dalla società, ma vive in una totale rinuncia, in una totale povertà, sia interna che esterna. Come aveva detto san Gerolamo: “nudos amat eremus: il deserto ama coloro che non hanno nulla”. Le radici del movimento si rifanno alle origini della vita monastica in Egitto, in Siria, dei primi secoli del cristianesimo. L’eremitismo era sopravvissuto, come forma di vita religiosa, soprattutto in Oriente, nonostante la popolarità crescente del cenobitismo. Ma sembra anche, che perfino in Occidente fosse continuata ininterrotta, fino al secolo XI, una tradizione di vita eremitica.
Ma ciò che è nuovo, nell’epoca che stiamo esaminando, è la sua enorme popolarità, la rapida diffusione geografica, la sua penetrazione in tutti gli strati della società contemporanea. Per cercare di spiegare l’oggettività dei fatti, si è proposto di mettere in rapporto questo movimento con i problemi socio-economici dell’XI secolo. Ma le situazioni erano molto diverse secondo le regioni geografiche, mentre la chiamata all’eremitismo sembra essere stata universale. La supposizione che vede un rapporto di causalità fra questi fenomeni resta perciò ambigua.
La rinascita della vita eremitica divenne visibile prima in Italia che negli altri paesi; si pensa allora che il movimento sia stato ispirato da alcuni anacoreti orientali che si stabilirono nella penisola dopo essere stati espulsi dalla loro patria dall’avanzata dell’Islamismo. Contatti di carattere religioso tra l’Italia e l’impero bizantino non erano mai stati interamente interrotti; d’altronde, pochi eremiti non avrebbero potuto facilmente importare delle novità di così grande importanza. Ben di più, anche se l’influenza esercitata in alcuni luoghi da eremiti bizantini come da san Nilo in Calabria, può essere stata considerevole; tali elementi isolati non possono spiegare adeguatamente la diffusione dell’ideale eremitico d’oltr’Alpe. E forse più sicuro affermare che la vita eremitica, al pari della nuova e più rigorosa interpretazione della povertà, emergeva come reazione di fronte ai modelli diffusi di vita monastica, quale protesta spontanea contro le comodità e la quieta routine quotidiana dei monaci delle grandi abbazie, che non offrivano più un ideale di vita sufficientemente valido, e sfidavano perciò le persone che pesavano con nostalgia e desiderio alla vita eroica dei padri del deserto.
Questo atteggiamento comporta chiaramente che, agli occhi della nuova generazione dì riformatori, la vita eremitica appariva come ideale più alto di quella vissuta sotto la Regola di san Benedetto. E di conseguenza il monastero era concepito come campo di addestramento per futuri eremiti.
Così lo affermava san Pier Damiani: “come il sacerdozio è la meta dell’educazione clericale, l’abilità nelle arti è lo scopo per cui si frequentano le scuole dei grammatici, e come le brillanti arringhe sono la vetta cui culmina lo studio monotono di lunghe ore dedite ad approfondire la legge, allo stesso modo la vita monastica con tutte le sue osservanze è solo una preparazione per quella più alta meta, che è la solitudine dell’eremo”. Il monastero, affermava, è accettabile per i malati e gli infermi; e colorò che scelgono di restarvi per sempre possono soltanto essere “tollerati”.
Il durevole influsso dei singoli eremiti fintanto che restano realmente nella solitudine e nell’isolamento, propone un problema particolare. Ovviamente questa gente passa senza lasciare sugli altri nessuna impronta, quale che sia il grado di profondità o di ricchezza interiore della loro vita spirituale. D’altra parte, la presenza di discepoli poteva facilitare la trasmissione di valori monastici, ma avrebbe distrutto l’esperienza di solitudine ed avrebbe coinvolto l’eremita in una qualsiasi forma dì vita organizzata, cioè in qualcosa che appunto egli cercava di evitare. Gli individui sono effimeri. Solo le istituzioni perdurano. I più grandi eremiti dell’ XI secolo risolsero il dilemma venendo a delle concessioni, e finirono con il diventare fondatori dì comunità religiose dove la solitudine era armonizzata con alcuni elementi di vita cenobitica.
Camaldoli, Fonte Avellana, Vallombrosa, Fontevrault, Savigny, Grandmont, la Grande Certosa e Obazine sono semplicemente le più conosciute fra molte altre simili fondazioni di tendenza eremitica, dove alcune strutture istituzionali garantirono la sopravvivenza di una spiritualità caratteristica anche per molto tempo dopo la scomparsa degli eremiti che le avevano fondate e la scomparsa della popolarità dell’eremitismo.
Il terzo elemento ispiratore del rinnovamento monastico fu il desiderio di imitare la vita degli apostoli o, più esattamente, la vita della comunità apostolica di Gerusalemme, nella povertà, semplicità e mutua carità.
Bisogna sottolineare però che nell’XI secolo la parola apostolico non comportava nessun significato di predicazione del Vangelo o disimpegno di altri obblighi di carattere pastorale (cura animarum); la “sequela degli apostoli” poteva benissimo realizzarsi all’interno dei programma di vita dei contemplativi come degli eremiti. D’altro lato, il richiamo della vita apostolica si estendeva ben oltre i limiti dell’ambiente monastico. Essa ispirava i canonici regolari, i predicatori itineranti, i movimenti popolari laici e molte caratteristiche della Riforma Gregoriana. Nessun fatto dimostra con più eloquenza la forza elementare del movimento quanto la difficoltà sperimentata dall’autorità della Chiesa nel contenere il numero crescente dei predicatori itineranti entro i limiti della moderazione e della ortodossia. Anche una persona così conosciuta come Roberto di Arbrissel, fondatore di Fontevrault, fu severamente ripreso dal Vescovo di Rennes per il suo aspetto strano e il suo comportamento stravagante.
L’influenza della Chiesa primitiva sulla vita monastica è antica quanto lo stesso monachesimo. La novità era l’urgenza e l’estensione della istanza di riforma, rivolta alle comunità religiose, alla luce del Nuovo Testamento. Pier Damiani obbligava i suoi seguaci a “ritornare all’innocenza della Chiesa primitiva”. Al Concilio di Roma del 1059, Ildebrando usava di fatto le stesse parole, per domandare la restaurazione della vita comune, così come era vissuta nel primo secolo.
Secondo Stefano di Muret, un autentico povero di Cristo della generazione successiva, le regole scritte dagli uomini sono solo di importanza secondaria; perciò, “se qualcuno ti chiede a quale ordine religioso appartieni, rispondigli all’Ordine del Vangelo, che è il fondamento di tutte le regole”. Un trattato dei primi anni del XII secolo Sulla vera vita apostolica (De vita vere apostolica), attribuito a Ruperto, abate di Deutz, andava anche più lontano: “Se vuoi consultare degli importanti passi della Scrittura, troverai che tutti sembrano affermare semplicemente che la Chiesa ebbe origine nella vita monastica”. Infatti la Regola di san Benedetto era un adattamento della “regola degli apostoli” (regula apostolica). Perciò egli continuava affermando che gli apostoli erano stati monaci e che così i monaci erano gli autentici successori degli apostoli.
Le conseguenze di tali affermazioni sono abbastanza chiare. I monaci dovevano liberarsi dal loro coinvolgimento eccessivo nella società feudale; dovevanio abbandonare le loro splendide residenze, i loro cerimoniali complicati, il benessere e le comodità che il lavoro dei loro predecessori aveva reso possibile. I monaci fedeli alla loro eredità apostolica dovevano allontanarsi dal mondo e cercare di rinnovare la loro vita nella semplicità, nella povertà, nel lavoro manuale e nella carità.
Oltre ai tre motivi di rinnovamento monastico esposti fino ad ora, molti autori si: riferiscono a un altro movimento ad essi analogo: il ritorno alle fonti del monachesimo cristiano. È innegabile che tutti i riformatori cercano di giustificare le loro esigenze riferendosi alla Bibbia, ai Padri del Deserto o alla Regola di san Benedetto; ma è molto dubbio che una manifestazione di questo tipo costituisse un “movimento” caratteristico del secolo XI. Riformatori di tutti i tempi e di tutte le designazioni hanno usato la stessa tattica per giustificare nuovi approcci. Cambiamenti, innovazioni, rotture con il passato ben di rado hanno generato grande entusiasmo tra i monaci. Quanti propongono movimenti di questo genere si sentono obbligati a dissimulare le loro intenzioni sotto il tentativo di fare ritorno a tradizioni più antiche e già consacrate dal passato.
Al tempo stesso, le alterazioni radicali nella struttura di una società richiedono delle riforme nelle istituzioni. Intraprendere dei cambiamenti istituzionali che corrispondono a necessità nuove è segno di un salutare istinto di sopravvivenza. In tali circostanze una organizzazione tradizionale non può assicurare in modo sufficiente il proprio aggiornamento semplicemente ritornando a delle osservanze e a dei modi di fare che sono indubbiamente antichi. Il problema può essere risolto grazie a degli accorgimenti che sono davvero fedeli alle tradizioni più valide; ma è molto dubbio che i riformatori monastici dell’XI secolo fossero consapevoli, e fino in fondo, della natura del loro compito e fossero sinceramente dei cultori convinti del passato. È certo che non erano in grado di interpretare esattamente le loro fonti, per il semplice fatto che restavano in certa misura incoscienti delle differenze fondamentali che separavano la mentalità dell’antico mondo romano dalla loro.
I riformatori seguirono il loro istinto nell’uso che fecero delle fonti di cui disponevano. Si nota così una sorprendente libertà, una varietà di interpretazioni contraddittorie della regola di san Benedetto. Il testo della Regola, in una forma praticamente identica, era certo disponibile a tutti i monaci, da Benedetto di Aniano fino a Roberto di Molesme. Nessuno osava rifiutarne l’autorità. Alcuni, come Stefano di Mureti praticamente la ignorarono; altri, come san Bruno, ne abbracciarono solo alcuni elementi. La maggior parte dei riformatori, pur professando una altissima fedeltà alla Regola, la interpretarono, senza lasciarsi prendere da scrupoli ermeneutici.
Questo rese possibile un’ampia serie di fondazioni: i monasteri basilicali romani, le abbazie missionarie degli Anglo-Sassoni, i centri di studio monastici, le abbazie liturgiche dell’epoca carolingia, le abbazie centri di pellegrinaggio, le abbazie cluniacensi dedite al culto, e le abbazie di tendenze eremitica dell’XI secolo.
Il più chiaro portavoce delle “abbazie eremitiche” fu certamente san Pier Damiani il quale, mentre venerava la Regola di san Benedetto, riusciva leggerla secondo una propria ottica, particolarmente sensibile alla mortificazione Egli non vedeva nessuna incompatibilità fra le concezioni monastiche di san Benedetto e quelle dei suoi predecessori, specie i padri del deserto, perché egli sollecitava i suoi discepoli a conformarsi a “tutto ciò che si trova nella regola di san Benedetto o negli Istituti o nelle Conferenze dei Padri”.
Di fronte alla evidente moderazione della regola benedettina, egli argomentava che la Regola era stata scritta per condurre anime innocenti, che san Benedetto non aveva nessuna intenzione di sostituirsi ai canoni penitenziali che dovevano esser applicati ai pubblici peccatori, e che quindi la Regola non invalida i precetti dei Padri che l’avevano preceduta”. Egli stesso, comunque, era molto disposto a passar sopra, in pratica, ai primi settantadue capitoli della Regola per poi vivere secondo il pieno significato del capitolo settantatrè, che, infatti, rimanda agli esempi dei Padri del deserto.
I riformatori della seconda generazione, molto probabilmente, si resero conto delle contraddizioni interne di un simile approccio e reagirono riaccostandosi in modo più autentico e più reale al testo della Regola. Non fu solo Vallombrosa l’unica fondazione realizzata per una reale sequela della autorità della Regola di san Benedetto, ma Giovanni Gualberto “incormiciò con molta diligenza a discernere il significato della Regola, con l’intenzione di metterla in pratica in tutta la sua forza”, mentre sollecitava i suoi discepoli a seguirla in ogni cosa. Anche Bernardo di Tiron e Vitale di Mortain (di Savigny) assunsero degli atteggiamenti analoghi; lo zelo per una ancora più esatta osservanza della Regola fu l’autentica ragione della fondazione di Cîteaux.
Il denominatore comune di tutti i tentativi di riforma del secolo XI fu il desiderio di istituire una vita di mortificazione eroica, consumata nella separazione da ogni coinvolgimento negli affari del mondo. E in questo i fondatori delle nuove istituzioni monastiche riscossero un grande successo. Tuttavia, fu proprio il successo dei riformatori a favorire anche il germe di una nuova epoca di relativa decadenza. Pier Damiani e i suoi eredi riuscirono a istituire una vita di ascetismo eroico ed elevarono le loro nuove abbazie a un livello di perfezione monastica che mai prima di allora era stato raggiunto: ma simili strutture e modelli di vita non possono essere mantenuti indefinitamente. Insistendo sull’osservanza meticolosa di alcuni passi della Regola, essi avevano perso di vista il suo fondamentale equilibrio nello spirito di moderazione. San Benedetto era disposto ad andare incontro alla fragilità dell’uomo, mentre non lo erano molti tra i nuovi riformatori. Questi avevano rifiutato di riconoscere la verità nel rispetto delle istituzioni che devono fare i conti con i limiti dell’uomo medio e non con le ambizioni di santità di uomini eroici. Ancora una volta, la sapienza di san Benedetto si dimostrò molto più durevole dello zelo e degli entusiasmi di uomini “spirituali”. La maggior parte delle fondazioni eremitiche o semi-eremitiche si disintegrarono o furono assimilate in riforme successive oppure si insabbiarono e divennero insignificanti. Tra il nuovo gruppo di monaci, i Cistercensi rimasero in prima linea nella storia della vita religiosa dei secoli successivi.
Da Molesme a Cîteaux
La storia della fondazione di Cîteaux non può essere esposta senza una presentazione previa del tentativo di riforma, fatto con la fondazione di Molesme nel 1075 da san Roberto. Fu a Molesme che un gruppo di monaci disillusi concepì l’idea di procedere ad un’altra fondazione, da realizzare dopo una migliore pianificazione e con migliori risultati, nel luogo impervio di Cîteaux.
I primi anni della vita di Roberto sono avvolti dall’oscurità e gli scarsi dettagli che si ritrovano nella sua Vita sembrano essere stati colorati molto dai ruoli che egli svolse più tardi a Molesme e a Cîteaux.
Roberto, era nato verso il 1028 in un paesino non identificato della Champagne. I suoi nobili genitori, Ermengarda e Teodorico, erano probabilmente parenti dei conti di Tonnerre e del casato di Rainaldo, visconte di Bearne. Roberto, negli anni della sua prima giovinezza, era entrato nell’abbazia di Montier-la-Celle vicino a Troyes, dove, qualche tempo dopo il l053, divenne Priore. Tra il 1068 e il 1072 svolse l’ufficio di abate a Saint-Michel-de-Tonnerre, una abbazia di osservanza cluniacense, nella diocesi di Langres.
Per ragioni ignote il suo servizio abbaziale fu bruscamente interrotto e Roberto ritornò a Troyes come semplice monaco. Tuttavia la sua permanenza nella comunità dove aveva fatto professione fu breve; dopo alcuni mesi venne nominato o eletto Priore a Saint-Ayoul, un priorato alle dipendenze di Montier-la-Celle, a Provins, nella diocesi di Sens. Ma questo posto si dimostrò ancora meno congeniale di Saint-Michel alla sua vocazione e nel 1074 si univa a un gruppo di eremiti nei boschi di Collan. Fu con la partecipazione di questi eremiti che Roberto fondò nel 1075 il monastero di Molesme, nella diocesi di Langres, in una proprietà ben adatta, donata a questo scopo da Ugo, Signore di Maligny.
Roberto aveva avuto una notevole esperienza di vita monastica. Sebbene insoddisfatto dalle strutture della disciplina cluniacense ed attratto dalla vita solitaria, come indica l’iniziativa intrapresa a Molesme, rimase fermo nella sua convinzione che gli esempi ascetici della vita del deserto, attualizzati e vissuti all’interno di una vita monastica, erano più fedeli all’ideale della vita religiosa. La sincerità evidente che lo muoveva attirò presto molti discepoli e, con il sostegno economico dei nobili del luogo, Molesme divenne una delle abbazie riformate meglio riuscite della fine dell’XI secolo. Di fatto, l’afflusso di nuove vocazioni e donazioni generose resero possibili molte fondazioni. Alcune erano solo dei piccoli eremitaggi, altre erano dei priorati dipendenti o delle abbazie. Verso il 1100 erano circa una quarantina, sparse in dodici diocesi.
La rapida crescita di questa nuova congregazione monastica attesta chiaramente il vigore e l’originalità delle intuizioni di Roberto, ma i problemi crescenti di organizzazione e di controllo superavano dì molto i talenti del santo fondatore.
Nel 1082 Molesme attraeva san Bruno e i suoi compagni, che vi trascorsero qualche tempo prima dì partire per le montagne di Grenoble, luogo di origine dell’Ordine dei Certosini.
Ma verso il 1090 lo stesso Roberto era giunto alla conclusione che il suo posto non era più nella sua abbazia e si unì a un gruppo di eremiti a Aux, vicino a Riel-les-Eaux. I monaci di Molesme, rimasti in difficoltà, ben presto riuscirono a persuaderlo e Roberto ritornò alla sua abbazia. Ma, se bisogna dar credito alla Vita, tempo addietro, quattro fra i più vicini collaboratori di Roberto, tra i quali Alberico e Stefano, avevano tentato un’altra fuga, dimorando per qualche tempo a Vivicus, una località peraltro conosciuta.
Questi incidenti poco fortunati non implicano necessariamente la decadenza morale di Molesme. La stima pubblica non ne risentì e l’espansione della abbazia sembra contraddire una supposizione di questo genere. Il problema fondamentale consiste nel fatto che il piccolo gruppo egli eremiti fondatori si trovò così schiacciato dalla quantità delle nuove vocazioni che perse il controllo della disciplina, e di conseguenza Molesme iniziò a rassomigliare sempre di più alle altre fiorenti abbazie, dei dintorni, tutte poste sotto la irresistibile influenza di Cluny, che Roberto di Molesme aveva appunto cercato di sfuggire. Verso gli anni 1090 Molesme aveva accumulato benefici ecclesiastici e decime, rendite di chiese, villaggi e servi, e l’abbazia stessa pullulava di servitori laici (famuli), di fratelli (conversi), di bambini (oblati) e di praebendarii, cioè di gente che offriva i propri beni all’abbazia in cambio di vitto è di alloggio per tutto il resto della sua vita.
Tutto questo rientrava normalmente negli schemi usuali delle tradizioni monastiche, ma era ben diverso dal sogno di Roberto, che desiderava separazione dal mondo e povertà, in una vita libera dalle preoccupazioni del mondo e dedicata soltanto al servizio di Dio.
Emersero conflitti a proposito di questi problemi e si accesero dibattiti ostili, con quell’amarezza che comportano talora le controversie di carattere religioso, protratte per anni. Se si può fare affidamento ai famosi cronisti della generazione successiva, Orderico Vitale e Guglielmo di Malmesbury, Roberto credette opportuno sostenere il valore delle proprie argomentazioni facendo frequenti allusioni alla Regola di san Benedetto, mentre la maggioranza dei monaci che gli erano ostili insisteva sulla legittimità delle usanze di Cluny e rifiutava le proposte dell’abate come se fossero delle novità pericolose e impraticabili.
Sembrò impossibile poter giungere a un compromesso durevole e valido, ma la polarizzazione delle posizioni contribuì a dar forma a un programma di riforma, che avrebbe potuto essere realizzato in seguito con risultati migliori di quelli ottenuti a Molesme. In tal mondo si approfondì nella mente dei futuri fondatori di Cîteaux l’intuizione di una totale fedeltà alla Regola, come possibilità alternativa, e questo andava di pari passo con una profonda diffidenza nei confronti di Cluny, insieme ad una acuta consapevolezza delle conseguenze poco felici che derivavano da un rapporto troppo stretto con la società feudale.
Alcuni dei monaci-eremiti si stancarono dei continui alterchi. Lasciarono Molesme per a fondazione di Aulps, un piccolo eremitaggio nella diocesi di Ginevra, che verso la fine del 1096 o all’inizio del 1097, venne eretto in abbazia. È significativo il fatto che il documento di erezione sottolineava la scelta dei monaci di consacrarsi ad una rigorosa osservanza della Regola di san Benedetto. Più importante ancora è il fatto che l’amanuense che redasse questo documento fu Stefano, il segretario di lingua inglese dell’abate Roberto, e il fatto storico veniva riconosciuto legalmente da alcuni testimoni tra cui Alberico, il Priore di Molesme, entrambi futuri abati di Cîteaux.
Fu probabilmente verso l’autunno dei 1097 che l’abate Roberto, accompagnato da un certo numero dei suoi monaci, tra cui Alberico e Stefano, fecero visita all’Arcivescovo Ugo de Die di Lione, legato pontificio in Francia e uno tra i più attivi sostenitori della Riforma Gregoriana. Davanti al prelato, pieno di comprensione, Roberto presentava il suo piano per una nuova fondazione, e ne dava come ragione principale l’osservanza tiepida e negligente della Regola, così come era vissuta a Molesme, mentre egli prometteva di “seguirla da allora in poi più strettamente e con maggiore perfezione”.
Ovviamente, Ugo ne fu impressionato, diede al progetto la propria benedizione, ed incoraggiò i latori della proposta a “perseverare nel loro santo proposito” e, dato che la cosa sembrava favorire la causa di entrambe le parti contendenti di Molesme, autorizzò Roberto e i suoi sostenitori a ritirarsi dall’abbazia e a stabilirsi in un altro luogo, dove essi avrebbero potuto “servire Dio in condizioni più pacifiche e in un modo più salutare”.
Roberto, vescovo di Langres, nella cui diocesi era situata l’abbazia di Molesme, non sembrava coinvolto nell’iniziativa. Ma probabilmente non desiderava immischiarsi molto in un problema che comportava delle conseguenze sconcertanti e non sembra che neppure l’abate Roberto considerasse necessario ottenere il suo permesso. I monaci di Molesme assistevano ai preparativi dei dissidenti con un sospiro di sollievo, e dopo la loro partenza elessero subito un nuovo abate nella persona di un certo Goffredo che venne installato debitamente dal Vescovo di Langres.
Agli inizi del 1098, 21 monaci si apprestarono a seguire Roberto nella proprietà di un Nuovo Monastero, donato a questo scopo da Rainaldo, visconte di Beaune, già parente e benefattore dell’abate. Sebbene egli fosse un vassallo dì Odone, duca della Borgogna, la terra che Rainaldo donava per la fondazione era di sua proprietà, una terra che non era gravata da tasse feudali o da servigi da rendere a terzi. Era collocata a circa venti km. a sud di Digione, in una zona molto boscosa che l’autore dell’Esordio di Cîteaux, prendendo a prestito una frase pittoresca del Deuteronornio (32, 10) dipingeva come “luogo orrido e di vasta solitudine”. Non v’è dubbio che quel piccolo gruppo di monaci-eremiti aveva scelto appositamente un luogo del genere, ma di fatto quella proprietà, situata nella diocesi di Chalon-sur-Saône, comprendeva alcuni contadini che dimoravano sul posto e molto probabilmente anche un’antica cappella, dove i nuovi arrivati potettero celebrare i loro primi uffici religiosi.
Il luogo aveva già un nome: Cîteaux (in latino, Cistercium) la cui etimologia veniva spiegata in diversi modi: il più probabile era in rapporto alla posizione geografica, dato che si trovava “al di qua della terza pietra miliare” (cis tertium lapidem miliarium) sulla antica strada romana tra Langres e Chalon-sur-Saóne. Per alcuni anni la nuova fondazione non venne chiamata con questo nome, ma la si conosceva semplicemente come Il Nuovo Monastero (Novum Monasterium). La data tradizionale della fondazione, scritta nei documenti più recenti, era quella del 21 marzo del 1098. Quell’anno ricorreva la Domenica delle Palme e la festa di san Benedetto: venne scelta più che altro per il suo significato simbolico e non per qualche altro particolare evento esterno, verificatosi nella dura vita quotidiana dei nuovi venuti, che si erano certamente insediati sul posto tempo addietro. È, possibile che sia l’erezione canonica in abbazia delle primitive costruzioni, sia il giuramento di obbedienza di don Roberto nelle mani di Walter, Vescovo di Chalon-sur-Saône o infine il voto di stabilità dei monaci nel Nuovo Monastero, menzionati nell’Esordio di Cîteaux, si siano svolti tutti in quella data, ma è più logico supporre che tutti quegli importanti atti giuridici abbiano avuto luogo nel corso dell’estate del 1098.
Roberto e i suoi compagni desideravano vivere una vita ascetica in povertà e in perfetta solitudine, procurandosi il necessario per vivere, con il proprio lavoro, come gli apostoli di Cristo. In questo non furono delusi, in quanto la loro sopravvivenza in quella foresta dovette di fatto essere ben dura. I primi mesi trascorsero senza dubbio nell’abbattere alberi, nel costruire alcuni ripari temporanei e nel piantare i raccolti necessari per l’autunno. Il ritmo quotidiano di preghiera e di lavoro manuale venne però ben presto disturbato dalle notizie che provenivano da Molesme.
I monaci dell’abbazia, che avevano preso con soddisfazione la partenza del loro instancabile abate, avevano cominciato a cambiare idea. La nobiltà dei vicinato, i cui familiari popolavano l’abbazia, era rimasta scandalizzata dai fatti turbolenti che si erano verificati nella comunità. Essi sospettavano che a Molesme si fossero introdotti dei gravi abusi e Molesme cominciò risentire le conseguenze di una opinione pubblica ostile.
Dal punto di vista di coloro che erano rimasti nell’abbazia, il modo più semplice per uscire dall’impaccio, come aveva dimostrato l’esperienza del passato, era quello di far ritornare Roberto a Molesme. Ma dato che non c’era speranza in un ritorno spontaneo di Roberto, i monaci mandarono una delegazione a Roma per chiedere a Papa Urbano Il di ordinare a Roberto il ritorno a Molesme. Fu allora, probabilmente, che si mise in discussione per la prima volta la legalità della partenza per Cîteaux. Il Papa non volle decidere la questione solo in base alle testimonianze di una parte ed affidò lo spinoso problema al suo legato in Francia, Ugo di Lione, suggerendo semplicemente che “se fosse possibile, l’abate venisse riportato dalla solitudine all’abbazia”.
Il legato dimostrò di provare un’uguale riluttanza nel giudicare personalmente la situazione e chiamò a consulta alcuni vescovi e molti altri uomini onorati e stimati. Il sinodo ebbe luogo probabilmente verso la fine di giugno del 1099, a Port-d’Anselle, dove il Vescovo di Langres prese le difese dei monaci di Molesme. Non era in discussione il rientro forzato di tutti i dissidenti, ma solo di Roberto.
Per facilitarne il ritorno, Goffredo, suo successore, offri le proprie dimissioni; dopo di che l’Arcivescovo Ugo dichiarò che l’abate Roberto doveva davvero far ritorno a Molesme. Simultaneamente venne dato il permesso di rientrare a Molesme a tutti coloro che, dal Nuovo Monastero, avessero voluto seguire Roberto, a patto che in futuro non si facessero tentativi per indurre i monaci a trasferirsi da una comunità all’altra. Nel caso in cui Roberto, nella sua abituale incostanza avesse lasciato la sua comunità, continuava il documento, Goffredo gli sarebbe succeduto sul seggio abbaziale senza procedere a una nuova elezione. Si permise al Nuovo Monastero di conservare la cappella dell’Abate Roberto, cioè, i paramenti della chiesa e i libri liturgici, ad eccezione di un prezioso breviario; ma per questo venne loro concesso il permesso di conservarlo fino alla festa della passione di san Giovanni Battista (29 agosto) per poterlo, nel frattempo, copiare.
Roberto accettò la decisione del legato senza nessuna resistenza esterna e, seguito dai monaci che erano più uniti a lui che a Cîteaux, fece ritorno a Molesme, dove riassunse i suoi compiti di abate e governò la comunità fino al 1111, anno della sua morte. La sua venerazione popolare come santo, venne riconosciuta ufficialmente con la sua canonizzazione, avvenuta nel 1220; nel 1222 il calendario cistercense designava il 29 aprile come giorno della sua festa. I contemporanei rimasero perplessi, comunque, davanti a questo improvviso cambiamento interiore di Roberto e al suo ritorno a Molesme, avvenuto “abbastanza volentieri”; come d’altronde, restano sconcertati gli storici moderni. Egli sicuramente doveva avere una settantina d’anni ed era quindi un anziano. Inoltre le durezze della vita del primo anno di Cîteaux devono essergli costate molto di più di quanto non fossero pesate ai suoi compagni più giovani.
D’altronde, doveva essere cosciente che la sua defezione avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza del Nuovo Monastero, quella fondazione che egli stesso aveva progettato con cura e devozione. Il pericolo venne aumentato dal numero dei monaci che seguirono il suo esempio, forse la maggioranza dei 21 fondatori. Quest’ultima affermazione è convalidata dalla testimonianza di Guglielmo di Malmesbury, il quale, solo 25 anni dopo lo svolgimento dei fatti, asseriva nella sua cronaca (Gesta regum Anglorum) che “solo otto monaci erano rimasti a Cîteaux, dopo quell’esodo-a-rovescio”. Lo stesso autore, che si basa evidentemente su delle fonti cistercensi, è il primo ad esprimere il sospetto che Roberto si fosse inteso segretamente con i monaci a lui soggetti a Molesme, e che i delegati mandati dal Papa per domandare il suo ritorno avessero agito dietro il suo previo consenso. L’ordine dato poi successivamente dalle autorità lo avevano infatti trovato ben disposto (volentem cogentes).
Il risentimento che i Cistercensi portarono nei confronti di Roberto è rilevabile ancora verso il 1190, quando Corrado, monaco di Clairvaux e più tardi abate di Eberbach, compose il suo Grande Esordio, in cui rimproverava a Roberto la sua imperdonabile diserzione.
I primi elenchi egli abati di Cîteaux non portano neppure il suo nome. Questo atteggiamento, tuttavia, divenne causa di un tale disagio dopo la canonizzazione di Roberto che vennero poi fatti tutti gli sforzi possibili per reinserire o per cancellare i testi incriminatori. La restituzione del testo originale del Grande Esordio fu reso possibile soltanto nel 1908, dopo la scoperta fortuita di un manoscritto originale.
Poco tempo dopo la partenza dell’abate Roberto e di coloro che lo avevano seguito, con molta probabilità nel luglio del 1099, la piccola comunità del Nuovo Monastero elesse al suo posto Alberico, che aveva svolto l’ufficio di priore durante l’abbaziato di Roberto, ed era stato forse uno dei fondatori di Molesme. Doveva essere un uomo capace e di fermo carattere, deve essere attribuito a lui il consolidamento materiale e morale di Cîteaux. Dopo la donazione iniziale della proprietà per la nuova fondazione non fu più il Visconte di Beaune, ma piuttosto Odone, duca di Borgogna, e dopo la morte di questi, avvenuta nel 1102 in Terra Santa, il figlio Ugo, che venne in aiuto alle necessità materiali dei monaci. Odone assicurò ai monaci l’uso delle foreste dei dintorni e donò la proprietà di Meursault, che fu la prima delle molte vigne che Cîteaux giunse a possedere. Quando, per mancanza di acque sufficienti per i bisogni del monastero, Alberico rilevò che il luogo della prima collocazione era inadeguato e lo spostò a circa un chilometro più a nord, fu probabilmente Ugo che fornì il materiale necessario per la costruzione della prima chiesa in pietra di Cîteaux, consacrata poi da Walter, Vescovo di Chalon il 16 Novembre 1106 e dedicata alla Beata Vergine Maria; da allora prese inizio una ininterrotta tradizione cistercense di dedicare le proprie chiese a Maria.
Ancora più significativa fu la bolla di protezione papale che Alberico riuscì ad ottenere da Pasquale II non appena questi successe a Urbano II sul soglio pontificio. La richiesta di un documento del genere risultava di estrema importanza, a causa della posizione molto debole di Cîteaux e di fronte a delle pressioni ulteriori da parte di Molesme o altre abbazie ostili. Per ottenere con maggiore sicurezza ciò che richiedeva, Alberico sollecitò delle lettere di raccomandazione ai nuovi legati pontifici, i Cardinali Giovanni di Gubbio e Benedetto, i quali, attraversando la Borgogna, avevano visitato per caso Cîteaux. Lo stesso favore venne concesso anche da Ugo de Die, già legato pontificio, e da Walter, Vescovo di Chalon. Questi tre documenti, così come sono stati pubblicati nel Piccolo Esordio, non sembra che siano gli originali; comunque la missione a Roma dei due monaci delegati, Giovanni e Iboldo, ebbe certamente successo. La bolla di Pasquale II, pubblicata il 19 Ottobre 1100 e conosciuti nella storia di Cîteaux come il Privilegio Romano, ordinava che gli abitanti del Nuovo Monastero “dovevano essere sicuri e liberi da qualsiasi noia… sotto la protezione speciale della Santa Sede… salvo la sottomissione canonica dovuta alla Chiesa di Chalon”. Questo documento non può essere interpretato come l’inizio dell’esenzione di cui godranno in futuro i Cistercensi; comunque confermava sia la decisione di Port-d’Ansel, che la sua esistenza giuridica e l’indipendenza della abbazia; approvava, almeno implicitamente, la disciplina particolare seguita dai monaci ed assicurava loro quella libertà e sicurezza, indispensabili per la futura espansione.
Uno scambio di lettere tra Alberico e Lamberto, abate di Saint-Pierre de Pothières sembra indicare che il resto dell’abbaziato di Alberico fosse trascorso in una atmosfera tranquilla e di modesta prosperità. Alberico chiedeva, per lo scriptorium di Cîteaux, alcune precisazioni sull’accentuazione esatta e sul significato di alcune parole latine, e Lamberto rispondeva con un saggio erudito ed elaborato sulla materia.
Secondo una tradizione che data da tempo immemorabile, fu con Alberico che i monaci adottarono l’abito bianco, o piuttosto non tinto, sotto uno scapolare nero, e questo risponde al loro nome popolare: I Monaci Bianchi. Secondo il Piccolo Esordio, Alberico promulgò i primi “ statuti” del Nuovo Monastero. Tuttavia questo regolamento, costituito da quindici capitoli estremamente discussi di quel famoso resoconto, sembra essere soltanto frutto della congettura dell’autore, un membro della seconda generazione cistercense.
Dopo la morte di Alberico, avvenuta il 26 Gennaio 1109, i monaci elessero come loro abate il priore, Stefano Harding, un inglese, la prima persona che, nella storia dell’Ordine, può essere considerata inequivocabilmente come un genio creativo. Egli ereditava soltanto una delle innumerevoli abbazie riformate che godeva di una certa notorietà; egli lasciava dietro a sé il primo Ordine vero e proprio della storia monastica senza precedenti, fornito di un programma chiaramente formulato, tenuto insieme da una solida struttura legale e in via di espansione.
Stefano era nato da una famiglia di nobili anglosassoni verso il 1060 e da giovane aveva trascorso alcuni anni nell’abbazia benedettina di Sherborne nello Dorsetshire. Ma la conquista dei Normanni aveva rovinato la sua famiglia ed egli stesso dovette fuggire in Scozia e poi di lì in Francia. Aveva probabilmente completato la propria formazione a Parigi, e poi, con un compagno come lui profugo dall’Inghilterra, di nome Pietro aveva intrapreso un lungo pellegrinaggio verso Roma, dove si era fortificata la sua vocazione monastica. Sulla via del ritorno, la loro attenzione venne richiamata dal promettente tentativo di vita monastica intrapresa Molesme. Ne furono colpiti ed entrambi decisero di entrare in quella comunità. Verso quegli anni, era circa il 1085, Stefano era un giovane di grandi promesse. Da piccolo era stato segnato dalle ricche tradizioni monastiche celte e anglosassoni, riformate da san Dunstano (910-988) secondo i modelli della vita monastica cluniacense e lotaringia. La Francia gli aveva offerto la cultura più recente e lo aveva messo al corrente dei problemi contemporanei delle riforme monastiche ed ecclesiastiche. Durante il suo viaggio in Italia, dovette essere fortemente influenzato dallo spirito di san Pier Damiani, ormai predominante nella cultura dei tempo, ed anche impressionato dagli esempi di Camaldoli e di Vallombrosa. A Molesme aveva avuto l’opportunità di osservare il processo ed anche le cause della corruzione di un nobile progetto dovute ad una insufficiente organizzazione interna ed alla interferenza esterna. Quale abate di Cîteaux, Stefano era in grado di utilizzare la sua erudizione, la sua esperienza e la sua abilità organizzativa per assicurare il successo a Cîteaux, che fin da allora aveva soltanto cercato di trovare un posto al sicuro all’interno di una società monastica in piena evoluzione.
Grazie agli ottimi rapporti che Stefano aveva con i suoi nobili vicini, la prima espansione della proprietà di Cîteaux avvenne ben presto, sotto la sua amministrazione. Entro cinque o sei anni, i monaci avevano stabilito le loro prime “grange”: Gergueil, Bretigny e Gremigny, su terre donate in maggior parte dalla famiglia della Contessa Elisabetta di Vergy, che si dimostrò generosa amica dell’abate Stefano e dei suoi monaci. Gilly-les-Vougeot, luogo divenuto più tardi residenza estiva degli abati, venne donato da Aimon di Marigny. Dal 1115 i monaci cercarono poi di aggiungervi le famose vigne conosciute in seguito come Clos-de-Vougeot, che divennero probabilmente il pezzo più prezioso di terreno della Borgogna. Molte donazioni vennero fatte come libere elemosine. Tutti i diritti sulle decime che avevano i donatori furono o interamente sciolti o convertiti nel dono nominale e simbolico, annuale, di manipoli del raccolto di quelle terre.
Stefano era, di per sé, più uno studioso che un economista. La sua erudizione lo mise, in grado di intraprendere dei compiti che avrebbero messo a dura prova i talenti dei più moderni ricercatori. Memore delle referenze della Regola agli inni attribuiti a sant’Ambrogio, Stefano cercò di verificarne tanto i testi quanto le melodie: tutti gli inni che cantavano i suoi monaci erano autenticamente ambrosiani. Ben di più, esaminando le varianti testuali dei codici dell’Antico Testamento che aveva a sua disposizione, decise di correggere il testo originale della Volgata di san Girolamo. Per risolvere questi problemi fece ricorso a versioni ebraiche ed aramaiche, consultate con l’aiuto di alcuni eruditi rabbini. Grazie allo scriptorium di Cîteaux, altamente qualificato, non solo produsse lavori estremamente accurati e precisi, ma anche di una sorprendente bellezza. Le miniature della sua Bibbia e dei libri Moralia in Job (di san Gregorio Magno) entrambi scritti e miniati durante i primi tre anni del suo abbaziato, furono le produzioni più originali dell’intera epoca e dimostravano che in quegli anni Cîteaux accoglieva alcuni tra i più grandi artisti di Francia.
Senza dubbio, l’emergere di Cîteaux dall’oscurità fino a raggiungere una posizione di rilievo e la personalità seducente di Stefano attrassero numerosi discepoli, e verso il 1112 si profilava il progetto di una nuova fondazione, che si concretizzò quando nel maggio del 1113 un gruppo di monaci si stabilì a La Ferté, a sud di Cîteaux, sempre nella diocesi di Chalon-sur-Saône. In quel tempo la seconda abbazia era divenuta indispensabile perché, come dichiara con molta gioia il documento di fondazione “c’era a Cîteaux un tal numero di fratelli che né i beni esistenti erano sufficienti per provvedere a tutti né il posto dove vivevano si dimostrava adatto e conveniente per loro”.
L’immagine dello sviluppo e della prosperità è naturalmente molto diversa da quella che l’autore del Piccolo Esordio cercò di tramandare ai posteri. Verso la fine di questo racconto, appena prima di riferire l’arrivo del giovane Bernardo e dei suoi compagni, lo scrittore presenta Stefano e i suoi monaci “in preghiera, in grida e in lacrime davanti a Dio, in gemiti e sospiri e in ansia, di giorno e di notte, quasi al limite della disperazione, per il fatto dì non avere quasi nessuno che succedesse a loro”. Lo scrittore di queste righe è stato evidentemente influenzato dalla fama che più tardi riscosse san Bernardo ed ha fatto del suo meglio per dimostrare che Cîteaux non avrebbe potuto sopravvivere senza il suo trionfale arrivo, sullo sfondo di questa scena drammatica. Successivamente si è tentato di alterare la data dell’entrata di Bernardo a Cîteaux per la stessa intenzione e vi sì riuscì a tal punto, che, fino alla pubblicazione degli studi di A.H. Bredero nel 1961, la maggior parte degli studiosi moderni credeva che Bernardo fosse entrato a Cîteaux nell’aprile del 1112, mentre i primi manoscritti della Vita Prima indicano chiaramente il 1113 quale data di questo evento memorabile. Una tale frode devota intendeva dimostrare che la fondazione di La Fertè era stata resa possibile solo dall’arrivo di Bernardo. è plausibile che la fondazione di La Fertè fosse accelerata in previsione dell’arrivo dei nuovi candidati. Il fatto che le fondazioni successive vennero realmente realizzate sotto l’impatto del movimento di massa che aveva luogo in direzione di Cîteaux e di Clairvaux, iniziato da san Bernardo, resta, naturalmente, un fatto incontestato.
A La Ferté fece seguito nel 1114 Pontigny nella diocesi di Auxerre; Clairvaux venne fondata dal venticinquenne Bernardo nel 1115, e nello stesso anno iniziò la vita a Morimond, nella diocesi di Langres. Dopo una pausa di tre anni seguirono, in rapida successione, Preuilly, nel 1118, e poi La Cour-Dieu, Bouras, Cadouin e Fontenay, tutte nel 1119. Fu in questo stesso anno che l’abate Stefano ritenne opportuno rivolgersi a Callisto II, recentemente eletto papa, per chiedergli una nuova bolla in favore di Cîteaux e delle sue case-figlie. Il Papa, già arcivescovo di Vienne, conosceva bene Cîteaux, ed aveva anzi sostenuto la fondazione di Bonneval di fronte all’opposizione dei benedettini. Nel nuovo documento, pubblicato il 23 Dicembre del 1119, egli si congratulava con Stefano e con i suoi monaci e “apponeva un segno di conferma all’opera di Dio a cui essi avevano dato inizio”. Il testo fa dei riferimenti espliciti a certi capitoli e costituzioni promulgati dopo “deliberazione e consenso degli abati e dei fratelli dei vostri monasteri” tutti rivolti all’osservanza de la Regola del beato Benedetto”. “Noi, perciò” concludeva il Papa “rallegrandoci nel Signore per il vostro progresso, confermiamo questi capitoli con l’autorità apostolica, così come confermiamo anche le costituzioni, e decretiamo che per sempre rimangano in vigore”.
Questa seconda bolla, nella storia di Cîteaux, è un’altra pietra miliare sulla via che conduce dagli inizi difficili al successo riportato in seguito. Verso il 1191 l’esistenza di un certo numero di abbazie figlie richiedeva che si prendessero delle misure per salvaguardare la coesione del nuovo “ordine”, compresa la formulazione di regole e regolamenti che dovevano essere osservati da tutte le case. Questi obiettivi vennero raggiunti dopo ripetute consultazioni degli abati e dei monaci; presero la forma di una costituzione di un complesso di regolamenti che poi venne presentato ed approvato dal Papa. Se la bolla avesse conservato i testi presentati all’esame del Sommo Pontefice, il compito degli storici teso a ricostruire l’immagine del primo Cîteaux sarebbe infinitamente più semplice di quanto non possa esserlo ora. Il contenuto dei regolamenti del primo Cîteaux così come le prime costituzioni restano oggetto di discussione; non solo, anche gli stadi del loro sviluppo continuano a imbarazzare gli storici che sì dedicano all’esame accurato dei manoscritti disponibili.
Gli elementi fondamentali della riforma cistercense
La riforma cistercense era, soprattutto, un movimento di rinnovamento spirituale. Alla esposizione narrativa degli eventi delle origini deve seguire quindi una analisi degli ideali che ispiravano il piccolo gruppo di monaci che fondò Cîteaux. La prima tappa di questo sviluppo di idee ebbe luogo a Molesme. Durante prolungati e talora animati dibattiti, i futuri fondatori di Cîteaux ebbero ampie possibilità di chiarire le loro intenzioni e di ridurle a una formula molto semplice e pratica: il ritorno alla Regola di san Benedetto. L’applicazione di questi principi alle condizioni della vita di ogni giorno ebbe luogo a Cîteaux sotto il governo di sant’Alberico, sebbene il processo somigliasse piuttosto a una improvvisazione progressiva e quotidiana più che ad una legislazione consapevole. Infatti, non ci sono indicazioni per sapere se sia Roberto che Alberico intendessero fare altro che assicurare la vita della comunità nascente e riformata con gli stessi mezzi con i quali moltissimi altri monasteri simili avevano cercato di sopravvivere. Il movimento di espansione attraverso le nuove fondazioni indusse Stefano Harding a fissare per iscritto gli elementi fondamentali delle osservanze di Cîteaux e ad assicurare la coesione della congregazione monastica che si espandeva sotto i suoi occhi, con la determinazione del nucleo di una struttura istituzionale. Il successo inaspettato di Cîteaux fece nascere la gelosia non solo di Molesme, ma anche del potente Cluny, tanto che ne seguì un dibattito che venne pubblicizzato su larga scala, che toccò ogni sfaccettatura della organizzazione nascente. Un programma ben precisato, una conduzione abile, una coesione interna e un senso di vittoria riportato su qualsiasi opposizione, per quanto forte, furono gli elementi che diedero origine e caratterizzarono il primo vero e proprio “ordine” medioevale, una organizzazione visibilmente distinta fra le molte autonome o vagamente affiliate conglomerazioni di case benedettine.
Agli storici che lavoravano circa una cinquantina di anni fa, il compito di esporre questa storia appariva semplice. Si credeva universalmente che la narrazione fondamentale degli inizi di Cîteaux, il Piccolo Esordio, non solo presentasse i fatti e gli elementi essenziali della dottrina con una accuratezza incontestabile, ma che fosse stato composto, direttamente, dalla penna di Stefano Harding, uno dei fondatori. Parallelamente, la Carta di Carità, costituzione dell’Ordine nascente, era considerata come la traduzione organica dei principi che avevano dato la possibilità all’abate Stefano di attuare il suo programma con un risultato così duraturo. In questa visione tradizionale delle fonti, la vera ragion d’essere di Cîteaux era vista nell’Osservanza rigorosa, stretta, possibilmente letterale della Regola di san Benedetto. La Carta di Carità sarebbe stata, in questa ottica, la guida pratica per la ricostruzione di una vita monastica basata su un medesimo contesto ideologico.
Tuttavia, a partire dal 1930, un esame più accurato dei manoscritti conduceva a una rivalutazione estesa di tutto ciò che era stato scritto fino allora sugli inizi della vita cistercense. La scoperta dell’Esordio di Cîteaux, uno scritto più breve ma più antico del Piccolo Esordio, costituito dalla relazione degli eventi, gettava seri dubbi sulla attendibilità di questo documento. Si scopri che l’autore del Piccolo Esordio non era stato Stefano Harding, ma un monaco della generazione di san Bernardo, che lo aveva pubblicato un po’ dopo la morte di santo Stefano, avvenuta nel 1134. Sarebbe stato composto da un Cistercense come una “Carta Bianca” per difendere la legittimità della fondazione di Cîteaux contro le accuse dei monaci cluniacensi, i quali sostenevano che il “Nuovo Monastero” era stato stabilito ed eretto senza le dovute formalità canoniche.
Quest’opera quindi sarebbe stata compiuta per dimostrare “con quanta canonicità” fosse stata realizzata la fondazione. Tuttavia l’autore avrebbe raccolto e trascritto una certa serie di documenti alcuni dei quali, compresi i famosi Statuti di Alberico, mancano delle necessarie caratteristiche che ne fondano l’autenticità. Il riferimento costante alla Regola di san Benedetto, soprattutto negli Statuti, era stato inserito con l’ovvia finalità di creare una parvenza di legalità inappuntabile. L’affermazione dell’autore anonimo, secondo cui l’arrivo provvidenziale di san Bernardo avrebbe salvato Cîteaux dalla estinzione, sostiene l’ipotesi che tale autore fosse appunto un giovane monaco, attratto alla vita cistercense dalla personalità così autorevole del santo.
In modo analogo, le ricerche più recenti sulla Carta di Carità rivelano che non si trattava del frutto delle più arcaiche disposizioni degli abati dell’Ordine, ma di un testo legislativo entrato in vigore soltanto dopo alcuni decenni di evoluzione. La stesura avrebbe avuto inizio con Stefano Harding, ma la natura esatta del testo primitivo, ancora inedito e introvabile fino ad oggi, così come la data e la portata delle evoluzioni successive, sono ancora oggetto di discussione. Dato che i manoscritti che conosciamo e che danno un certo affidamento non sono sufficienti per chiarire le molte questioni sorte in questi ultimi decenni, è ancora impossibile ricostruire l’immagine antica e tradizionale del primo Cîteaux con quadro chiaro ed esatto, tracciato con l’aiuto dei metodi storici moderni. Comunque, quasi per compensare la delusione di questi risultati, le ricerche più recenti hanno cercato di fare più luce sui movimenti monastici contemporanei e sull’impatto della vita eremitica in particolare. E aumentata così la stima e la valorizzazione delle fonti non Cistercensi, è stata sottolineata l’importanza del conflitto tra Cîteaux e Cluny, ed è stato analizzato tutto ciò che concerne i problemi giuridici della nuova fondazione, nel contesto della legge canonica del dodicesimo secolo.
Dopo aver dato sufficiente spazio a queste considerazioni, rimane comunque vero che i fondatori di Cîteaux intendevano tornare a una interpretazione più stretta della Regola. I loro sforzi non sfociarono in una mera restaurazione della vita monastica del sesto secolo, ma nella introduzione di una vita fortemente influenzata dagli ideali del monachesimo pre-benedettino. La ricerca di una più grande solitudine, povertà e austerità costituirono certamente i potenti incentivi nelle scelte di Roberto e dei suoi compagni, così come animavano le innumerevoli abbazie della fine dell’undicesimo secolo. Le caratteristiche tipiche di Cîteaux sono messe in risalto dall’immediato confronto con Cluny. Nella regione della Borgogna l’appello alla disciplina della vita eremitica all’interno di una comunità monastica costituì una sfida allo stile di vita accettato ovunque in quello che era il cuore dell’“impero cluniacense”. Fin dall’inizio, i monaci fondatori di Cîteaux dovettero assumere quasi per forza un atteggiamento di autodifesa. La tattica più efficace per parare le accuse di essere innovatori strani e malvisti, era il rifarsi alla Regola come ad uno scudo. Roberto e i suoi monaci insistevano nell’affermare che essi non avevano altro scopo né desideravano altra novità se non quella di ritornare a una vera osservanza della Regola di san Benedetto, codice così venerato e venerabile per tutti i monaci.
Ma, facendo questo, i primi Cistercensi istintivamente sottolineavano quegli elementi della Regola che meglio si adattavano con il loro stile di vita eremitica, soprattutto il capitolo 73, dove il legislatore afferma con molta modestia che la sua regola era stata composta per dei principianti; coloro che desideravano aspirare a più alta perfezione di vita monastica dovevano rivolgersi agli insegnamenti dei “Santi Padri”, soprattutto alle opere di san Basilio (330-379) e di Giovanni Cassiano (360-435), ricche di riferimenti alle vite eroiche degli anacoreti dell’Oriente.
Accese dispute nacquero tra i due gruppi, come conseguenza del fatto che l’accordo fra la Regola e l’ascetismo di tipo eremitico sembrava non solo impossibile, ma indesiderabile ai monaci di Molesme. Le due fonti che danno sorprendenti dettagli sulla natura delle argomentazioni sono le cronache di Guglielmo di Malmesbury e Orderico Vitale: entrambi benedettini, entrambi osservatori attenti dei loro tempi, entrambi storici ben informati. Il passo delle Gesta Regum Anglorum opera di Guglielmo di Malmesbury redatta nel 1122-1123, che tratta di questo problema, venne composto con tutta probabilità a partire da fonti Cistercensi e si interessò soprattutto a Stefano Harding, mettendo a fuoco la sua figura. Il capitolo corrispondente della Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale fu scritto circa dieci anni dopo e presenta con particolare attenzione le esortazioni di Roberto, così come se ne conservava il ricordo a Molesme. Non è necessario credere che né Stefano né Roberto abbiano parlato esattamente nel modo in cui vengono citati in queste fonti; ma, d’altra parte, non c’è motivo per dubitare che i problemi discussi fossero in realtà i problemi autentici che si dibattevano.
Secondo Guglielmo di Malmesbury, Stefano, quando ancora era a Molesme, attaccava con vigore lo stile di vita basato sulle consuetudini di Cluny. Egli riteneva che la sola tradizione non fosse sufficiente per giustificarle. Sottolineava con forza che usanze ammissibili devono essere basate su di una regola e sostenute sia dalla ragione che dalla autorità; egli aggiungeva che questi requisiti erano espressi e incarnati nella Regola di san Benedetto. Quando gli oppositori persistentemente rifiutavano le innovazioni perché preferivano le usanze tradizionali” i futuri cistercensi raddoppiavano i loro sforzi per dimostrare che di fatto, ciò che essi si proponevano derivava da fonti ancora più antiche delle usanze cluniacensi, ed era questo il motivo per cui essi “scrutavano con tanta attenzione la Regola desiderando di non trascurarne neppure uno iota o un apice”.
Anche Orderico Vitale riporta le stesse cruciali discussioni, ma presenta con attenzione speciale l’Abate di Molesme e i suoi monaci riluttanti. Nel suo libro, Roberto critica con forza le mancanze contro la povertà, l’abbandono del lavoro manuale, l’accettazione di titoli e di altri benefici ecclesiastici, sollecita e spinge i suoi sudditi ad “osservare la Regola di san Benedetto in ogni cosa, così che, seguendo le vestigia dei Padri, noi possiamo con fervore seguire il Cristo”. Roberto non distingueva con chiarezza le osservanze dei Padri del deserto e quelle presentate dalla Regola, ed egli accompagnava le sue esortazioni con frequenti riferimenti alle “vite esemplari dei Padri Egiziani”. I suoi oppositori si sforzavano di dimostrare che il modo di vivere dei padri del deserto non era più praticabile nelle loro circostanze storiche e dichiaravano la loro intenzione di aderire alle usanze ben radicate di Cluny, altrimenti sarebbero stati condannati dai loro confratelli, sempre e dovunque, come inventori dalle iniziative temerarie. La discussione termina allo stesso modo in cui anche Guglielmo di Malesbury la fa concludere: per evitare l’obbrobrio di essere giudicati degli innovatori, i fondatori di Cîteaux decisero di “osservare la Regola di san Benedetto alla lettera, allo stesso modo in cui i Giudei osservano la Legge di Mosé”.
La discussione sulle osservanze della vita monastica scoppiò con maggiore forza dopo il 1124, quando san Bernardo lanciò un attacco su larga scala contro Cluny nella sua prima opera largamente diffusa, l’“Apologia” (Apologia ad Guillelmum). In quel tempo i Cistercensi avevano guadagnato una popolarità generale, mentre Cluny, sotto l’amministrazione turbolenta di Pons di Melgueil (1109-1122) aveva sofferto delle crisi abbastanza dure e imbarazzanti. I tempi erano allora maturi per una ardente contro-offensiva, mossa non solo contro Cluny, ma anche contro “gli antichi e secolari istituti inonastici”, simbolizzati convenzionalmente da Cluny. L’Apologia è la prova che meglio documenta come nel giro di un quarto di secolo molti Cistercensi erano giunti a credere che, usando parole di un monaco anonimo citato da Bernardo, essi erano “i soli monaci dotati di qualche virtù, più santi di qualsiasi altro, i soli monaci che vivevano in modo conforme alla Regola; per quanto riguardava gli altri monaci, questi erano soltanto dei trasgressori”. Un poco più avanti, nel medesimo testo, lo stesso monaco anonimo, ma cistercense, viene citato da Bernardo come un assertore che “tutti coloro che fanno professione secondo la Regola sono tenuti ad osservarla letteralmente, senza alcuna dispensa possibile”. Era ovvio, comunque, che l’osservanza rigorosa della Regola era solo uno degli elementi caratteristici di cui il nuovo Ordine poteva gloriarsi. Con il suo stile magistrale, san Bernardo metteva in netta contrapposizione i Monaci Neri, ricchi, pomposi, dalla vita agiata, con i Cistercensi, araldi di una nuova forma di vita monastica, seguaci in tutto e per tutto degli ideali che animavano la riforma gregoriana: poveri con il Cristo povero; vivendo con i frutti del proprio lavoro manuale, come gli apostoli; separati dal mondo e senza interesse per il mondo; austeri nel loro abbigliamento e in tutto ciò che usavano; parchi nel cibo e nella bevanda; senza pretese nelle loro abitazioni e costruzioni; semplici e austeri perfino nel loro servizio liturgico; prossimi all’eccesso solo nell’ascetismo.
Pietro il Venerabile, il nuovo abate di Cluny (1122-1156) il cui primo compito fu quello di porre riparo ai danni causati dal suo predecessore, replicò con misura e dignità. Egli attutiva il colpo che accusava i cluniacensi dì essersi allontanati da alcune prescrizioni della Regola,
sottolineando che l’essenza dell’insegnamento di san Benedetto consisteva nella carità e nella discrezione. Ben a proposito, egli riconosceva le splendide virtù dei Cistercensi, ed anche volentieri, ma rilevava
ironicamente, che mancavano soltanto di umiltà. Il dibattito continuò ancora per decenni e produsse quasi una dozzina di pubblicazioni che esistono ancora. Uno degli ultimi, il Dialogo tra due monaci, (Dialogus duorum monachorum) scritto verso il 1155 da Idung di Prüfening, un Benedettino passato alla vita cistercense, fu il più ricco di dettagli, e, ricorse alla utilizzazione di due mezzi molto nuovi: il diritto canonico e la scolastica; il Dialogo è una lunga disputa tra un Cistercense e un Cluniacense, in cui le domande ingenue e le risposte inadeguate di quest’ultimo servono soltanto ad offrire delle occasioni al monaco cistercense per fare delle dissertazioni molto erudite su questioni che documentavano la superiorità dei Monaci Bianchi sui Monaci Neri. Il monaco cluniacense ripeteva le vecchie accuse di “instabilità” allundendo a Roberto e ai suoi seguaci che avevano abbandonato gli usi antichi e pieni di discrezione seguiti a Molesme per abbracciare le innovazioni così carenti di discernimento di Cîteaux. Il monaco cistercense definiva tali accuse come vere e proprie calunnie e sottolineava le caratteristiche di “antichità, discrezione e regolarità” della vita condotta a Cîteaux, a discapito delle abitudini di Cluny che non erano se non “superstizioni contrarie ai decreti della Chiesa, alle decisioni dei sinodi, persino alla santa Regola”. Invece, i Cistercensi “vivono secondo la Regola di san Benedetto, che promettono di osservare mediante i loro voti; essa è la legge data ai monaci da Dio attraverso la persona di san Benedetto, che è legislatore al pari di Mosè”.
Il valore delle conclusioni dei dibattiti non può essere valutato soltanto dagli scontri verbali; ma un impegno così prolungato favorì moltissimo il consolidarsi di una solidarietà e compattezza in seno all’Ordine Cistercense. I Monaci Bianchi gustarono certamente l’euforia della vittoria quando lo stesso Pietro il Venerabile si levò a difendere molti punti della riforma cistercense tanto da tentare di introdurre qualcosa, verso la fine del suo governo, all’interno della sua abbazia.
Il primo segno evidente dello sforzo dei cistercensi di tradurre i loro ideali in regolamenti e strutture di vita emerge in un insieme di venti paragrafi, i cosiddetti Capitoli. Alcuni di questi vennero con tutta probabilità aggiunti a una prima stesura della Carta di Carità e all’Esordio di Cîteaux, quando essi vennero presentati per l’approvazione al Papa Callisto II, nel 1119. In questi paragrafi si nota la prima allusione all’ammissione dei fratelli conversi, perché assistessero i monaci nel lavoro agricolo. Essi erano accolti, come i monaci, con il permesso del vescovo, “quali coadiutori indispensabili e fratelli, partecipi allo stesso grado dei beni spirituali e temporali del monastero, come i monaci”. Dopo un anno di noviziato essi emettevano la professione nella sala del Capitolo, ma non potevano aspirare ad essere ammessi al rango dei monaci di coro.
Un altro paragrafo alludeva alle circostanze delle nuove fondazioni. Ognuna di esse doveva avere, oltre ad alcuni fratelli conversi, almeno dodici monaci, guidati da un abate, e doveva essere provvista dei libri liturgici necessari per l’ufficio. Tutte le Chiese dovevano essere dedicate alla Beata Vergine Maria e collocate in luoghi lontani dai villaggi e dalle città. Dopo la costruzione dei 1uoghi regolari” nessun monaco doveva più vivere al di fuori del chiostro. E, cosa più importante di tutte le altre, il testo stabiliva che “per preservare d’ora in poi tra le abbazie una unione indissolubile, è stato deciso per prima cosa che tutti i fratelli seguano la Regola di san Benedetto allo stesso modo, e da questa non devono allontanarsi neppure nelle questioni più piccole. Ne consegue che devono usare gli stessi libri per l’ufficio divino, che devono portare gli stessi abiti, ffiangiare lo stesso cibo; in una parola, gli stessi usi e costumi devono essere seguiti dovunque”. Il genere e la qualità degli abiti era descritta con gran cura, così come la semplicissima dieta alimentare, che escludeva carne e prodotti affini. I mezzi di sussistenza dei monaci dovevano derivare esclusivamente dal 1avoro manuale, dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame”. Era stabilito con chiarezza che queste terre non dovevano essere situate vicino ai possedimenti dei secolari, sebbene non ci fossero regole sulla estensione delle proprietà dei monaci e si approvasse, di fatto, la costituzione di grange affidate ai fratelli conversi. Chiese, diritti di sepoltura, titoli, villaggi, servi, tasse, decime, quote sui forni o sui mulini e “altre cose simili contrarie alla autenticità della vita monastica” furono totalmente escluse come fonti di guadagno. Per sottrarsi a tentazioni di questo genere, i monaci non potevano impegnarsi in servizi parrocchiali o pastorali di nessun tipo, ma dovevano vivere in una perfetta separazione dal mondo. Gli affari inevitabili e i tramiti con i secolari dovevano essere assicurati dai fratelli conversi. Ogni ostentazione di ricchezza doveva essere evitata, anche nella progettazione o costruzione delle chiese, perfino nelle decorazioni interne e nell’arredamento.
Dal 1119 fino al 1151 la riunione annuale degli abati, il Capitolo generale, specificò e precisò ancora più dettagliatamente questi regolamenti, aggiungendo un certo numero di punti nuovi e alla fine decretò la diffusione di un insieme di 92 paragrafi, detto Instituta generalis capituli (Statuti del Capitolo generale). In questo documento apparvero delle chiarificazioni di procedure o questioni di natura prettamente giuridica: la conduzione dei Capitoli generali, l’acquisizione dei privilegi; la forma delle visite regolari annuali; la punizione di alcune colpe; la procedura per l’elezione abbaziale; il rapporto con i vescovi; il modo di vivere di abati consacrati vescovi; l’accoglienza degli ospiti; il lavoro nello scriptorium, l’amministrazione delle grange; le regole sulle compra-vendite; il comportamento dei monaci in viaggio e l’assistenza agli infermi. E infine alcune decisioni in materia liturgica e, norma significativa, l’esclusione dei bambini dai recinti dei monasteri.
Quasi contemporaneamente, vennero alla luce altre due serie di direttive, strettamente collegate alle precedenti. In una venivano trattate questioni comuni di liturgia (Ecclesiastica Officia); e nella seconda, si esponevano i regolamenti sul modo di vivere dei fratelli conversi (Usus Conversorum). Queste due collezioni, insieme agli Statuti, formavano il manuale fondamentale della vita quotidiana degli individui e delle comunità, le Consuetudines, il “Libro degli Usi”. Non c’era nulla di radicalmente nuovo in queste collezioni: il materiale contenuto era attinto sostanzialmente alle fonti monastiche del secolo precedente e una buona parte, agli usi di Molesme e di Cluny. Tuttavia, la loro relativa semplicità e concisione, la possibilità che offrivano di essere applicati ovunque, la loro terminologia precisa e densa possono essere considerati come caratteristiche cistercensi.
Piani elaborati per osservanze uniformi sarebbero rimasti inefficaci e irrealizzabili senza la costituzione di una solida struttura che tenesse insieme il numero sempre crescente di abbazie cistercensi. La Carta di Carità fu lo strumento che raggiunse tale scopo, un documento attribuito, secondo la tradizione, a Stefano Harding. Come già è stato affermato sopra, il terzo abate di Cîteaux può essere considerato di fatto come l’iniziatore dell’abbozzo della Carta di Carità, ma passarono almeno cinquant’anni prima che potesse essere definita in tutti i suoi elementi. La prima citazione di questo documento risale a un atto non datato riguardante la fondazione di Pontigny, steso poco dopo l’invito rivolto dal Vescovo Ubaldo di Auxerre agli “amanti della santa Regola” a installarsì nella sua diocesi. Verso lo stesso periodo (1111), come afferma tale atto, il medesimo Vescovo, insieme al capitolo dei suoi canonici, accettò in ogni punto la validità e l’unanimità della Carta di Carità, che era già stata composta e confermata tra il Nuovo Monastero e le abbazie recentemente da esso fondate. Il testo di questa “primitiva” Carta di Carità non è stato purtroppo ancora ritrovato e così il suo contenuto non può essere stabilito con certezza. Si ritrovano altre due citazioni di una “costituzione” nella bolla di Callisto II redatta nel 1119, ma pongono problemi di natura diversa. Le ricerche più recenti hanno fatto venire alla luce due versioni della. Carta di Carità, ed entrambe sembrano essere, a prima vista, amplificazioni del testo così detto Il primitivo”, entrambe scritte, con ogni probabilità, poco prima o poco dopo il 1119. Una reca il titolo di Summa Cartae Caritatis, e l’altra è comunemente nota come Carta Caritatis Prior. Ma rimane ugualmente incerto quale delle due versioni venne approvata in una Bolla successiva, promulgata da Eugenio III nel 1152. Si può affermare con sicurezza soltanto che dopo molti ritocchi, la stesura finale della Carta di Carità, la Carta Caritatis posterior venne alla luce tra il 1165 e il 1190.
L’importanza principale della Carta di Carità, nella sua stesura finale, così come la si conobbe per secoli, consiste in una felice sintesi, e in un armonico equilibrio realizzato tra l’autorità centrale e l’autonomia della comunità locale, evitando così il doppio pericolo di un controllo troppo stretto, di tipo cluniacense, o di una insufficiente coesione, che aveva compromesso le promettenti riforme delle nascenti congregazioni monastiche. Cîteaux rimaneva il cuore e il centro del nuovo Ordine, e il suo abate era il simbolo vivente dell’unità. Ma in netto contrasto con Cluny, l’abate di Cîteaux non poteva esercitare illimitati poteri di governo. L’autorità suprema risiedeva nella riunione annuale di tutti gli abati cistercensi, il Capitolo generale, che si riuniva tradizionalmente a Cîteaux il 14 di settembre, festa della esaltazione della santa Croce. Sotto la presidenza dell’abate di Cîteaux, il primo dovere del Capitolo era quello di mantenere una uniforme disciplina monastica al più alto livello possibile, così che tutti “potevano vivere insieme nel vincolo della carità sotto una sola regola e mettere in pratica le stesse osservanze”. Di conseguenza, si attendeva dal Capitolo che ponesse fine agli abusi, che punisse i colpevoli di qualsiasi tipo di trasgressione, e che, occasionalmente, apportasse degli emendamenti alla nuova legislazione o delle modifiche temporanee per circostanze particolari. I mezzi per una effettiva esecuzione di tali leggi e del controllo delle comunità locali erano costituiti dalla visita annuale di ogni abbazia da parte dell’abate che l’aveva fondata. Le visite degli “abati-padri” erano in funzione della correzione degli eventuali abusi o, in casi estremi, erano indirizzate alla riconduzione in sede di Capitolo generale delle informazioni sulle case, perché questo potesse autorizzare la messa in opera di ulteriori misure per restaurare la disciplina. Cîteaux, che non aveva una “casa madre” doveva essere visitata” simultaneamente dagli abati delle sue prime quattro case figlie, cioè dagli abati di La Fertè, Pontigny, Clairvaux e Morimond, che in seguito vennero definiti collettivamente come i proto-abati. Ma nonostante le molteplici forme di controllo, tuttavia, ogni abate era autonomo, e governava liberamente la propria comunità senza indebite interferenze este rne, fintanto che il suo monastero restava all’interno dei regolamenti prestabiliti. Oltre a queste precisazioni di tipo costituzionale, la Carta di Carità sollecitava un aiuto mutuo in tempi di necessità di tipo materiale o in casi di emergenza; incoraggiava l’ospitalità; regolava i diritti diprecedenzatra gli abati; stabiliva le procedure delle elezioni abbazìali e specificava misure di precauzione o di correzione contro abati negligenti o indegni.
Bisogna tuttavia sottolineare ancora che gli aspetti appena messi in luce appartengono, propriamente, soltanto alla redazione finale della Carta di Carità, mentre le redazioni più antiche ponevano l’accento su aspetti caratteristici abbastanza diversi, e ciò è significativo. Così, all’inizio, i vescovi diocesani godevano di una notevole autorità sulle fondazioni cistercensi. Ma tali privilegi episcopali, come ad esempio la visita canonica, l’approvazione dell’elezione abbaziale, poteri correttivi, il diritto di domandare il voto di obbedienza all’abate appena eletto, furono man mano ridotti fino ad una totale eliminazione; l’Ordine pervenne all’esenzione totale nei confronti della giurisdizione diocesana, grazie alla costante concessione di favori papali e di alti privilegi concessi all’Ordine. Similmente, all’inizio l’abate di Cîteaux godeva di un potere più grande, e le prime riunioni del Capitolo generale non sembravano consistere che in un capitolo allargato della casa madre o, di annuali “capitoli delle colpe” per abati. Ancora verso il 1135, l’Abate di Cîteaux appariva agli occhi di Orderico Vitale come il capo, ‘Tarchimandrita” degli altri 65 abati dell’Ordine. L’aumento progressivo del numero dei partecipanti portò ad un crescente aumento di autorità del Capitolo generale, sebbene il ruolo legislativo che assunse non divenne ffievante se non a partire dal 1180. La statura morale di un san Bernardo e di altre autorità messe a capo delle nuove fondazioni di Cîteaux portò a rendere sempre più grande l’influenza nascente dei “proto-abati” che, insieme, costituivano una specie di contrappeso nei confronti di un ambizioso abate di Cîteaux.
Nessuno degli elementi che compongono la Carta di Carità, era, in sostanza, come del resto era avvenuto per la riforma cistercense in generale, completamente nuovo. Molto prima della fondazione di Cîteaux erano stati fatti degli sforzi per mantenere una uniforme disciplina monastica attraverso le visite regolari o le occasionali riunioni di abati, nel mondo monastico dell’undicesimo secolo. Queste tendenze erano già rilevabili in una riforma organizzata da Riccardo di St. Vanne (970-1046) nell’Est della Francia, e molto più rilevanti ancora nella congregazione di Vallombrosa, che Stefano Harding conosceva bene. Il fondatore di Vallombrosa, san Giovanni Gualberto, (990 ca. – 1073) aveva lasciato dietro a sé una specie di “vincolo di carità, in una compilazione di regole che dovevano essere seguite dalle sue fondazioni. Questa, garantiva una preminenza ai successori di Giovanni Gualberto come abati di Vallombrosa, stabiliva la riunione degli abati, dotata di estesi poteri legislativi, introduceva un sistema di visite regolari ed insisteva sul mantenimento di una disciplina uniforme, tutte caratteristiche della Carta di Carità Cistercense. Nel 1110, proprio poco tempo prima della primitiva stesura della Carta di Carità, un documento abbastanza simile venne composto per regolare il rapporto tra l’abbazia di Aulps e la sua prima fondazione, Balerne. Queste due case appartenevano alla congregazione di Molesme, e quindi collegate in qualche modo ai Cistercensi. Questo documento, chiamato “Concordia di Molesme”, fissava la visita regolare da parte della casa madre, l’assistenza mutua “per amore della carità” e alcune misure di revisione su entrambe le case da parte di Molesme.
Nonostante il notevole prestito, mutuato da tali usanze, i Cistercensi riuscirono a saldare gli elementi della Carta di Carità in uno schema coerente, di rara perfezione, idealmente adatto al tessuto dell’ambiente sociale contemporaneo. La Carta di Carità rifletteva l’influenza della subordinazione feudale, basata sulla reciproca fedeltà e fiducia, che esigeva obbedienza pronta in tempo di crisi, ma rispettava l’autonomia locale. Invece di un tipo di relazione basato puramente su delle usanze o delle abitudini formali, la costituzione cistercense si radicava in una legge scritta, stesa con precisione e con cura. Sotto l’influenza del diritto romano, che ritornava alla luce con una crescente forza di autorità, la legislazione sia civile che ecclesiastica trovava una nuova rinascita, riscoprendo regolamenti tradizionali o abitudini arcaiche e primitive sotto l’autorità di leggi, statuti, carte e costituzioni. In particolare, il Capitolo generale, assemblea scelta e rappresentativa di stampo aristocratico, sviluppava di pari passo qualcosa di simile agli incipienti parlamenti feudali e alla rapida diffusione dei comuni italiani e francesi.
La Carta di Carità giocò un ruolo determinante non solo per lo sviluppo della vita monastica cistercense, ma anche nella struttura costituzionale di altri ordini religiosi. Il Capitolo generale dei Premonstratensi seguì da vicino l’esempio e lo schema del modello cistercense perfino nell’assicurare un ruolo speciale ai loro primi tre “proto-abati”.
Durante la prima metà del dodicesimo secolo, sotto l’influenza personale di san Bernardo, vennero introdotti Capitoli generali annuali nei Canonici Regolari di San Vittore, tra i Certosini, a Grandmont, tra i Gilbertini, nella Congregazione di Val-des-Choux, e in molti ordini militari e ospedalieri. Anche Cluny adottò questa importante istituzione ed invitò quattro abati cistercensi perché dessero una mano in materia di procedura. Vari altri ordini e congregazioni benedettine, in seguito, continuarono tale richiesta. Il quarto Concilio del Laterano (1215) rese obbligatori i Capitoli generali in tutte le congregazioni, monastiche che non li avevano ancora adottati e richiese che tali riunioni fossero controllate e verificate dai due abati cistercensi più vicini alla località dove si svolgevano. Fin dal principio, i Francescani e i Domenicani, appena fondati, introdussero l’istituzione dei Capitoli generali nelle proprie costituzioni.
Come poteva la devozione iniziale per la Regola andare d’accordo con la legislazione e la struttura costituzionale che caratterizzò la seconda e la terza generazione? Realmente i Cistercensi erano così profondamente e sinceramente devoti all’osservanza esatta della Regola come pensavano i loro contemporanei ed essi stessi, forse, a volte pretendevano di essere? Probabilmente il Piccolo Esordio non è un riflesso accurato e imparziale degli inizi di Cîteaux, ma riflette chiaramente la mentalità della seconda generazione cistercense. Il suo autore insiste sul fatto che i fondatori di Cîteaux avevano preso la “purità e la rettitudine della regola come la norma di condotta del loro stile di vita” e avevano rifiutato usanze e abitudini che non si potevano ritrovare nella regola e che, di conseguenza, le giudicavano contrarie alla stessa. In modo più specifico, ripudiavano alcuni punti introdotti recentemente, sull’abbigliamento e il regime alimentare, come certe forme di possesso o fonti di lucro o di entrate di tipo medioevale che coinvolgevano i monasteri quali soggetti attivi e diretti nella vita sociale ed economica del tempo. Essi basavano tale rigetto nella intenzione apertamente dichiarata dei monaci di “restare estranei alle realtà del mondo”, per continuare ad essere “poveri con il Cristo povero”.
Ma, secondo lo stesso testo, tuttavia, i Cistercensi incominciarono a chiedersi “in qual modo e con qual genere di occupazione o di lavoro essi avrebbero potuto provvedere a se stessi in questo mondo”. Essi risposero “acquistando proprietà terriere che restassero separate dai luoghi di abitazione degli uomini”, per loro uso esclusivo, coltivandole con l’aiuto dei fratelli conversi e di persone assunte temporaneamente, coscienti che senza un tale aiuto essi non avrebbero potuto adempiere in pienezza i precetti della Regola, giorno e notte. Come ulteriore giustificazione del ricorso ai fratelli conversi “essi decisero ancora che nel caso in cui si fossero erette delle fattorie o delle grange per la pratica dell’agricoltura, tali case sarebbero state affidate a dei fratelli conversi e non a dei monaci, dato che la residenza dei monaci, secondo la Regola, deve essere situata all’interno del monastero”.
La prime poche righe di questo testo sembrano introdurre il fermo principio di interpretazione secondo cui ciò che non è contenuto nella Regola è contrario alla Regola e quindi deve essere rigettato. Solo poche righe dopo, tuttavia, l’autore ha evidentemente dimenticato questo principio ed approva l’istituzione dei fratelli conversi, una istituzione di grande importanza che era altrettanto estranea ai principi della Regola quanto il possesso, così riprovato, di altari e di titoli. Questa contraddizione apparente si risolve con facilità quando prendiamo coscienza che l’autore faceva riferimento alla Regola solo quando ciò gli serviva per giustificare gli ideali fondamentali di Cîteaux. Il motivo reale che soggiaceva ad entrambe queste due scelte, una proibizione e una innovazione, era l’ardente desiderio dei monaci di vivere in una solitudine indisturbata. Il possedere o l’amministrare delle proprietà nel sistema feudale avrebbe costretto i monaci a restare in un contatto continuo con la società laica e per questo motivo entrambe le realtà condizionanti furono rifiutate. D’altra parte, l’istituzione dei fratelli conversi venne adottata per il fatto che la coltivazione di terre molto estese, situate in località remote, avrebbe costretto i monaci ad allontanarsi dalla loro tanto amata solitudine del chiostro.
Sebbene i novantadue paragrafi degli Statuti del Capitolo generale non possano essere analizzati in questa sede, alcune brevi osservazioni sulle loro caratteristiche più appariscenti potranno sostenere la nostra tesi. Le varie regole che si susseguono possono con difficoltà essere caratterizzate come semplici commenti o note di spiegazioni, aggiunte come postille ai vari capitoli della Regola. I molti emendamenti che concernevano la celebrazione annuale del Capitolo generale, o le visite regolari alle abbazie o l’amministrazione delle grange sono completamente al di fuori dell’ambito previsto dalla Regola. Un numero notevole di prescrizioni applicano in pratica i principi di povertà, semplicità e separazione dal mondo. In materia di alimentazione, abbigliamento, digiuno, astinenza e punizioni, gli Statuti entrano in molti dettagli e sono in gran misura più restrittivi della indulgente Regola di san Benedetto.
La nota più sorprendente è l’allontanamento assoluto dei bambini dai recinti del monastero; una contraddizione aperta con una delle disposizioni più significative della Regola. La sua giustificazione è ovvia: la presenza dei bambini non può che disturbare l’atmosfera della solitudine monastica. Un problema a parte è costituito poi dalla insistenza così ripetuta nel secondo e terzo paragrafo degli Statuti non solo sull’assoluta uniformità da seguire in materia liturgica, ma anche sul principio che dovunque si dovrà avere lo stesso cibo, lo stesso abito e le stesse usanze in tutte le cose. Sebbene la Regola prevedesse diversità di clima, di circostanze ambientali e abitudini di luoghi diversi ed aprisse la possibilità di altre soluzioni o sistemazioni per l’Ufficio Divino, i Cistercensi furono inflessibili nella loro insistenza sul fatto che 1a Regola di san Benedetto deve essere interpretata e seguita da tutti allo stesso modo”.
Come i principi stessi nella Carta di Carità potessero armonizzarsi con la Regola, è un altro interessante e affascinante problema. La possibilità di un controllo centrale sopra un certo numero di monasteri non solo è assente dalla Regola, ma sembra perfino totalmente estraneo alla mentalità del suo autore. Le forze esterne, effettivamente centralizzatrici, quali erano ad esempio il Capitolo generale e le visite regolari annuali, avrebbero inevitabilmente condotto alla diminuzione dell’autorità locale e dell’autonomia così chiaramente assicurata dalla Regola ad ogni Abate.
I primi cistercensi non solo si mossero quindi con libertà nei confronti di una cieca devozione al testo letterale della Regola, ma di fatto essi si riferirono a quel venerabile documento della legislazione monastica con una notevole larghezza di spirito. Invocavano la Regola e la applicavano rigorosamente quando ciò corrispondeva ai fini che si proponevano; ma la ignoravano o la contraddicevano quando non poteva concordare con la loro concezione di vita monastica, così largamente basata sugli ideali delle riforme dell’undicesimo secolo. Nella vita dei primi anni di Cîteaux la Regola giocò indubbiamente un ruolo importante, ma restò sempre un ruolo strumentale; venne, utilizzata come un mezzo per conseguire lo scopo cui realmente si tendeva, la costituzione di una vita austera nella povertà, semplicità e in una indisturbata solitudine.
San Bernardo e la diffusione dell’Ordine
È comunemente accettato che le vocazioni religiose erano abbondanti nella così detta “età della fede”. La prima metà del dodicesimo secolo si distingue, perfino nel Medio Evo, come epoca unica nel suo genere per l’entusiasmo devozionale, quando la vita monastica divenne un movimento di massa dalle proporzioni senza confronto. Come in casi analoghi, ad esempio le Crociate, non ci sono spiegazioni razionali per comprendere fino in fondo il motivo per cui migliaia e migliaia di uomini si dimostrarono disponibili ad abbandonare il mondo per cercare Dio tra le mura di istituzioni dove ogni cosa era prevista per offrire ampie opportunità di condurre una esistenza di austerità eroiche.
Anche i contemporanei erano perfettamente coscienti di ciò che stava succedendo, sebbene, alla ricerca dei motivi profondi, fossero sconcertati quanto noi. Orderico Vitale, citato già più volte, osservava: “Sebbene il male abbondi nel mondo, la devozione dei fedeli nei chiostri cresce e si sviluppa con maggiore abbondanza e porta frutti al cento per uno nei campi del Signore. Ovunque, nelle vallate, nelle montagne o in pianura, si trovano monasteri che seguono riti nuovi o portano abiti diversi; gli sciami dei monaci incappucciati si diffondono in tutto il mondo”. Fonte di altrettanto stupore era per l’autore il fatto che era l’ordine più austero, quello dei Cistercensi, quello che viaggiava di più e si estendeva più lontano: sembrava che il richiamo dei Monaci Bianchi penetrasse attraverso tutte le barriere sociali e intellettuali: “Molti nobili, guerrieri e profondi filosofi sono accorsi alle loro file a causa della novità delle loro osservanze, ed hanno spontaneamente abbracciato l’inusitato rigore della loro vita, cantando volentieri inni di gioia a Cristo nel loro viaggio lungo il retto cammino”. Un contemporaneo di alcuni anni dopo, il Vescovo Otto di Bamberga (1063-1139), che assisteva e promuoveva lo sviluppo del monachesimo, cercò di razionalizzare questo fenomeno con un argomento che ci è stranamente familiare, sebbene fosse allora un po’ prematuro: “Agli inizi del mondo, quando gli uomini erano pochi, era necessario la propagazione dell’umanità e quindi gli uomini non furono casti. Ora, invece, alla fine del mondo, quando gli uomini si sono moltiplicati senza misura, è il tempo della castità: ed è questo il motivo per cui io desidero e spiego la moltiplicazione dei monasteri”.
Non c’è dubbio che in quelle circostanze, Cîteaux era quasi obbligato ad avere un gran successo. Il suo programma ascetico era quasi il compendio di ciò che i contemporanei attendevano; era organizzato sotto una guida autorevole capace e ispirata, e le strutture costituzionali assicuravano la coesione interna dell’Ordine nel momento in cui si diffondeva oltre i confini della Borgogna. Le congregazioni nascenti di Grandmont, Savigny, la Grande Certosa e quelle di molte altre riforme simili erano in piena fioritura, sebbene con strutture potenzialmente più povere di quelle di Cîteaux. Il sorprendente evento che l’Ordine di Cîteaux in un certo senso esplose all’epoca e giunse a possedere circa 350 case in ogni paese d’Europa verso la metà dei dodicesimo secolo, si spiega soltanto, comunque, grazie alla personalità dinamica e all’attività dell’uomo del secolo, san Bernardo di Clairvaux. La nozione volgarmente diffusa che ritiene san Bernardo quale vero fondatore dell’Ordine è una esagerazione perdonabile, come il fatto che per secoli i Cistercensi furono universalmente conosciuti come “Bernardini”, senza altra aggiunta.
Bernardo nacque nel 1090, a Fontaines, da una nobile famiglia della Borgogna, vicino a Digione. Dopo la sua educazione in seno alla sua famiglia, profondamente religiosa, Bernardo venne mandato a Chátillon per gli studi veri e propri, alla scuola dei Canonici di San Vorles. Tornato a casa, viveva come i suoi giovani contemporanei con i fratelli più anziani di lui, ma, ragazzo silenzioso e riservato, decise presto che il suo posto era a Cîteaux, già ben conosciuto nei dintorni. Non appena fu certo della propria vocazione, si mise a convincere tutti i suoi fratelli, i parenti più stretti e gli amici perché si unissero alla sua scelta, alla sua santa e lodevole impresa. Fu quella la prima occasione in cui dimostrò di essere un leader nato, con una volontà incrollabile e un irresistibile fascino personale. Nella primavera del 1113, egli insieme ai suoi compagni, chiese di essere ammesso a Cîteaux. L’austera formazione religiosa ricevuta in monastero, non cambiò il suo carattere. Al contrario, Bernardo trovò in Cîteaux l’ambiente che gli era più congeniale, per il suo temperamento spirituale, e a sua volta, Bernardo dimostrò di essere l’interprete più eloquente e più efficace del messaggio che Cîteaux recava al mondo. Stefano Harding abate di Cîteaux, riconobbe in lui un genio mandato da Dio e nel l115 il giovane venticinquenne diveniva fondatore e abate di Clairvaux. Le prove e le difficoltà dei fondatori di Cîteaux furono rivissute nei primi anni della fondazione di Clairvaux, ma la fede e la decisione di Bernardo rimasero inflessibili. Lo spirito eroico dell’abate attirò tante vocazioni che nel giro di soli tre anni Clairvaux poteva fondare la prima casa-figlia, Trois-Fontaines.
La fama della santità di Bernardo e della sua sapienza ben presto si diffuse in tutta la Francia con la comparsa dei suoi primi scritti e, sebbene egli non si desse mai pensiero della pubblicità che si faceva su di lui, si trovò ad essere ben presto al centro dell’attenzione di un’epoca che cercava disperatamente una autorità abile e competente. Era quello un tempo di agitazione politica per tutta l’Europa centrale e occidentale. In Germania, il potente Enrico V, ultimo membro della dinastia sàlica, moriva nel 1125 senza lasciare eredi ed il paese si divideva tra i partigiani delle due famiglie contendenti, i Guelfi e i Ghibellini. Perturbazioni analoghe sorsero in Inghilterra dopo il regno di Enrico I, mentre l’erede di Francia, il giovane re Luigi VII era ancora troppo giovane e privo di esperienza per assumere il compito svolto dal padre. Nel frattempo in Italia, le città potenti e le famiglie più influenti, approfittando della impotenza dei loro vicini del Nord, riprendevano di nuovo i loro sanguinosi antagonismi. Quanto a Roma, il papato cadeva vittima dei partiti opposti, producendo nella Chiesa un pericoloso scisma. Alla morte di Onorio II nel 1130, le due fazioni opposte eleggevano nello stesso giorno due papi, Innocenzo II e Anacleto II. Il mondo cristiano, sgomento e confuso, era totalmente incapace in quel momento di affrontare il problema; l’unico in grado di restaurare l’ordine a Roma sarebbe stato Ruggero II di Sicilia, che, tuttavia, stava approfittando dell’occasione per estendere i confini del suo nuovo regno.
Una riunione del clero e della nobiltà di Francia a Etampes affidò la decisione di questa questione cruciale a san Bernardo, che si espresse in favore di Innocenzo II. Molto più difficile era risolvere le ramificazioni politiche della doppia elezione, e soprattutto quella di convincere le potenze opposte a riconoscere all’unanimità l’elezione di Innocenzo, trascinando via l’usurpatore dalla sua roccaforte romana. Ci vollero otto anni di viaggi faticosi, di conferenze, di incontri pubblici e privati, centinaia di lettere per raggiungere lo scopo. Durante tutti questi anni san Bernardo rimase letteralmente al centro della politica europea, sebbene egli non agisse mai semplicemente e unicamente come un diplomatico. Egli non scelse e non usò giammai né minacce né forza, e neppure accondiscese a compromessi. Il segreto del suo successo consistette nella sua superiorità morale, nel suo generoso disinteresse e nel potere magico della sua personalità. D’altra parte, il fatto che tutto il mondo europeo obbedisse al povero ed umile abate di Clairvaux sta ad indicare un’epoca in cui gli ideali morali prevalevano ancora sulla violenza brutale.
Il culmine della carriera terrena di san Bernardo venne raggiunto quando uno dei suoi figli, già monaco di Clairvaux, venne eletto papa: Eugenio III (1145-1153). Per ordine di questo papa, il santo iniziò nel 1147 la seconda crociata. Con la sua predicazione, egli infiammò centinaia di migliaia di persone, perfino quando la sua lingua non era compresa. Le sue parole cariche di forza e la sua personalità irresistibile operarono meraviglie in un altro campo della sua attività, tra gli eretici manichei della Germania e della Francia. Il Sud della Francia era sull’orlo di una aperta rivolta contro la Chiesa; e tuttavia san Bernardo, nella sua convinzione profonda che “la fede è una questione di persuasione, non di costrizione”, si rifiutò di sostenere la realizzazione di misure violente di repressione. La sua missione ebbe un effetto soltanto temporaneo, ma i suoi sermoni e i suoi miracoli suscitarono una enorme impressione. Non tanto per la sua eloquenza quanto per la sua capacità di penetrazione e la sua erudizione profonda, Bernardo lottò con successo contro gli errori dottrinali del tempo, soprattutto contro Abelardo e più tardi, contro Gilberto de la Porrée.
L’attività pubblica di san Bernardo non si limitò a questi problemi di importanza politica ed ecclesiastica. Da quando egli aveva circa trent’anni, la sua persona e le sue lettere, scritte in un latino magistrale, erano là dovunque le necessità del tempo, della pace, della giustizia o gli interessi della Chiesa esigevano il suo intervento. L’Ordine Cistercense si sviluppò e si estese di pari passo con l’estensione della sua fama e della sua popolarità. I suoi biografi sottolineano che il potere della sua eloquenza era tale che “le madri nascondevano i loro figli e le mogli i loro mariti” per tenerli in salvo dalle …campagne di reclutamento del santo, che portava sempre un afflusso incessante e sovrabbondante di vocazioni alla sua amata Clairvaux. Questa abbazia, da sola, fondò 65 abbazie durante la vita di san Bernardo. Alcune altre abbazie erano quasi altrettanto feconde di Clairvaux e la Francia ben presto fu arricchita con circa duecento monasteri cistercensi. Non tutte queste abbazie, evidentemente, erano fondazioni del tutto nuove. Un movimento quasi ugualmente irresistibile trascinava molti monasteri già esistenti verso l’area di influenza cistercense. Così, ad esempio, nel 1147, sono state registrate 51 abbazie, ma 29 di queste appartenevano alla congregazione riformata di Savigny mentre alcune altre erano membri di organizzazioni minori, sotto la guida dei monasteri di Obazine e di Cadouin. In questo periodo i Monaci Bianchi erano ben lanciati per oltrepassare i confini della Francia e per stabilirsi in modo permanente in altri paesi dell’Europa cristiana. Riforme monastiche precedenti, compresa quella di Cluny, si erano limitate molto ai paesi in cui erano sorte, sia perché i loro programmi non avevano una risonanza capace di suscitare richiami universali, sia perché esse non erano in grado di controllare effettivamente un gran numero di abbazie-figlie distanti geograficamente. Per la prima volta nella storia della Chiesa, Cîteaux spezzò queste barriere fino allora insormontabili e divenne il primo ordine religioso realmente internazionale.
Fin dal 1120 un gruppo di monaci dell’abbazia de La Ferté attraversarono le Alpi e fondarono Tiglieto, in Liguria. La stessa casa, la Ferté, fu responsabile della fondazione di Locedio (1124) nella diocesi di Vercelli e molto più tardi (12 10) di quella di Barona. Tiglieto divenne casa madre di Staffarda (1135) e di Casanova (1150) nella diocesi di Torino. L’abbazia francese di Morimond fondò in Italia Morimondo Coronato (1136) nella Lombardia; ma molto più numerose furono le fondazioni in Italia ad opera di Clairvaux, fatte nella scia dei viaggi di san Bernardo attraverso quel paese. L’abbazia di Chiaravalle vicino a Milano (1135) e quella di Chiaravalle della Colomba (1136) nella diocesi di Piacenza divennero a loro volta case madri di altre numerose fondazioni realizzate in tutta la penisola. I Cistercensi inoltre riformarono un certo numero di monasteri già esistenti, come l’antico convento dei Santi Vincenzo e Anastasio a Roma, conosciuto più tardi come abbazia delle Tre Fontane e donato a san Bernardo da Innocenzo II. Il primo abate cistercense di questo monastero, Bernardo Paganelli di Pisa (1140) amico personale e discepolo del santo, divenne il primo Papa Cistercense, Eugenio III (1145-1153). Un’altra conquista cistercense che giocherà in futuro un ruolo significativo, fu quella di Casamari, a sud di Roma (1140), una abbazia che già era stata benedettina e sarà casa madre di Sambucina (1160), Matina (1180), San Galgano (1200) e Sagittario (1202). Il numero totale delle abbazie cistercensi in Italia raggiunse il n. di 88 (fino alla metà del secolo XIV).
I Cistercensi in Italia meridionale e in Sicilia godettero del favore dell’imperatore Federico II (1212-1250), ma le agitazioni senza fine che seguirono alla sua morte segnarono la fine della prosperità e della espansione. L’Italia, infatti, fu il luogo dove si aprì la prima incrinatura nella stretta organizzazione dell’ordine cistercense. Gli scismi cominciarono a verificarsi in Calabria, dove particolarmente forti erano le tradizioni eremitiche e gli influssi dell’ascetismo orientale, in un momento in cui le fiorenti comunità cistercensi non sembravano più in grado di soddisfare coloro che aspiravano a grandi austerità. L’iniziatore del movimento resta una delle personalità più caratteristiche ed enigmatiche della storia religiosa medioevale, Gioacchino da Fiore (1130-1202). Da giovane, fece un pellegrinaggio in terra santa e al suo ritorno entrò nella comunità cistercense di Sambucina, e più tardi in quella di Corazzo, di cui divenne abate verso il 1177. Nell’attesa esplicita e diretta della venuta del nuovo regno dello Spirito, uscì dall’Ordine e nel 1189 diede inizio a San Giovanni in Fiore ad una nuova comunità, consacrata alla totale rinuncia al mondo. Ben presto sorse una nuova federazione di alcune case, che Celestino III approvò nel 1196. Verso la metà del secolo tredicesimo la Congregazione Florense contava circa una quarantina di case. Essi avevano adottato alcuni elementi esterni dei Cistercensi, ma la loro spiritualità faceva presentire i francescani. La loro rapidissima crescita fu seguita da un altrettanto rapido declino. Alla fine molte di quelle case, incluso S. Giovanni in Fiore, fecero ritorno all’ordine cistercense.
La prima comunità cistercense in Germania venne fondata dai monaci di Morimond, che nel 1123 aprirono Camp (Altenkamp) vicino a Colonia. Questa abbazia ebbe tanto successo che il numero molto grande dei suoi monaci rese possibile la realizzazione di molte fondazioni, una dopo l’altra: Walkenried a Brunswick (1129), Volkenrode in Turingia (1131), Amelunxborn vicino a Hildesheim (1135), Hardehausen in Westfalia (1140) e Michaelstein nella diocesi dì Halberstadt (1146). Le filiazioni di Morimond restavano solidissime nel nord e nel nord-est, Clairvaux diffondeva le sue case figlie lungo il Reno, nei Paesi Bassi e in Baviera. I monaci di Clairvaux fondarono Eberbach a Nassau (1131), Himmerod nell’elettorato di Trier (1134), la grande abbazia de “Le Dune” (Ter Duinen) nelle Fiandre (1149) e più tardi Klaarkamp a Friesland (1165). Verso la fine del secolo dodicesimo la valanga delle case cistercensi copriva le terre della Germania, ma i Monaci Bianchi seguirono l’espansione tedesca verso la Prussia, lungo le coste del Mar Baltico, per tutto il secolo tredicesimo. L’ultima e più lontana abbazia a nord-est fu Falkenau, nella Livonia, vicino a Dorpat (1234).
La prima abbazia cistercense in Svizzera fu Bonmont (1131), già abbazia benedettina. Seguirono poi Montheron (1135) e quindi Hauterive (1137), anche se le case più grandi fra le otto abbazie svizzere fondate dai Cistercensi furono le ultime due: Sant’Urbano (1195) e Wettingen (1227).
La prima fondazione in Austria fu quella di Rein (1130), per opera dei monaci bavaresi di Ebrach; ma un futuro più glorioso era riservato alla abbazia di Heiligenkreuz (1135), vicino a Vienna, fondata direttamente da Morimond. Tutte e due queste comunità furono attive nella diffusione dell’Ordine; i monaci di Heiligenkreuz edificarono la prima abbazia ungherese, Cikador nel 1142. Il totale delle abbazie cistercensi nelle terre della Germania ammontava a circa un centinaio.
Waverley, la prima fondazione inglese, venne realizzata nel 1129 ad opera dell’abbazia francese di l’Aumóne; ebbe un certo successo, ma non si distinse in modo particolare. L’erezione di Rievaulx (1132) e Fountains (1135), entrambe nello Yorkshire, creò una popolarità così largamente diffusa in favore dei Cistercensi che, per i successivi vent’anni, le più grandi famiglie del paese gareggiavano l’un l’altra per ottenere la grazia di una fondazione cistercense nei loro territori.
La storia della fondazione di Fountains presenta tutti gli elementi di tensione, suspene e minacce di violenza che avevano preceduto il distacco dei monaci dissidenti da Molesme a Cîteaux; soltanto i nomi erano diversi. Di fatto, le recenti analisi storiche sulle fonti della fondazione di Fountains hanno fatto nascere l’ipotesi che il parallelo poté essere una scelta intenzionale dell’autore, Ugo di Kirkstall; quindi alcuni dettagli del dramma (come nel caso di Cîteaux) apparterrebbero più al campo della letteratura che della storia. Se fosse così, la ribellione sarebbe scoppiata nella abbazia di Santa Maria nello York, dove circa tredici monaci fervorosi, rifacendosi all’esempio dei Cistercensi, chiesero la ripresa rigorosa di una disciplina ormai rilassata. L’Arcivescovo Thurstano di York prese le parti dei riformatori i quali, dopo un confronto un po’ acceso con la riluttante maggioranza, si allontanarono, sotto la guida del Priore Riccardo. Thurstano diede loro una località dove sostare presso Ripon, e là quel piccolo gruppo di gente eroica bivaccò per alcuni mesi nell’inverno 1133-1134 sotto un grande olmo. Essi elessero Riccardo come abate ma rimasero una comunità senza abbazia e senza una affiliazione ben precisa. Rivolgendosi a san Bernardo, che aveva seguito le loro lotte con gran simpatia, furono ricevuti dal santo nella famiglia di Clairvaux e si mandò loro uno dei monaci più esperti perché fossero iniziati alle osservanze cistercensi. Con l’aiuto di benefattori generosi potettero costruire ben presto la grande abbazia di Fountains, che, ancora nelle rovine attuali, resta un segno glorioso della fede dei suoi costruttori.
Fountains attirò alcuni degli ecclesiastici più eminenti di Inghilterra: ma la potenza di reclutamento di questa abbazia venne oscurata dalla crescita straordinaria di Rievaulx. Il terreno della abbazia, vicino a Helmsley, una cinquantina di chilometri a nord di York, venne regalato da Walter Espec, un anziano cavaliere di grande pietà che, non avendo eredi dopo la sua morte, poté permettersi di essere generoso verso i Cistercensi; insieme ad altre iniziative simili, finanziò nel 1135 la fondazione di Warden nello Bedfordshire. Egli rimase nella memoria dei monaci di Rievaulx come un “uomo anziano, acuto di ingegno, di grande statura, eppure di bella proporzione nei suoi arti; nero di capelli, con una lunga barba, una fronte spaziosa e degli occhi grandi, penetranti; la sua voce era come uno squillo di tromba”. La fondazione presso il fiume Rye fu preparata con molta cura dallo stesso san Bernardo, che rinviò alcuni dei suoi più promettenti discepoli inglesi, come pionieri, nella loro terra. Fu l’esempio di Rievaulx a rivoluzionare l’abbazia di Santa Maria di York, ma quel monastero divenne presto una vera e propria calamita sotto l’autorità di un giovane di nome Elredo, che entrò in comunità verso il 1134. Nato nel 1110 da genitori inglesi, educato alla corte del re Davide I di Scozia, come compagno dei principi, il fascino del giovane Elredo, i suoi doni eccezionali e la sua preziosa erudizione gli avevano aperto le più alte posizioni nella Chiesa e nel Regno; ma da una visita occasionale alla abbazia di Rievaulx, fondata da poco, fu conquistato per sempre dagli ideali di Cîteaux. Sotto l’abbaziato di William svolse il servizio di maestro dei novizi, e quindi nel 1143 divenne abate della nuova fondazione di Revesby nello Lincolnshire e da ultimo, nel 1147 successe a Maurizio di Durharn quale terzo abate di Rievaulx, carica che ricoprì fino alla morte, avvenuta nel 1167.
Sant’Elredo, chiamato appunto il “san Bernardo del Nord”, è una delle figure più commoventi della storia monastica. Egli non poteva uguagliare la grandezza di un san Bernardo per capacità politiche o di riforma, ma era alla sua stessa altezza per ciò che riguardava la tenerezza piena di compassione e comprensione per gli uomini, in qualsiasi condizione si trovassero. Grazie ai suoi scritti, segnati da una grande profondità e pietà, ma ancor più grazie ai suoi contatti personali, attirò a Rievaulx un numero senza pari di vocazioni. È forse una esagerazione del suo biografo, l’affermazione che durante il suo governo l’abbazia contò 650 tra monaci e fratelli conversi; ma l’immagine della chiesa abbaziale “ricolma di monaci come un alveare di api”, deve aver lasciato una impressione indimenticabile ai visitatori. Walter Daniel discepolo e biografo del santo, testimoniava: …“monaci bisognosi di misericordia e di compassione accorrevano a Rievaulx dai paesi stranieri e fin dagli estremi confini della terra, perché in quel luogo essi potevano realmente trovare quella pace e santità senza le quali nessun uomo può vedere Dio. E così quei vagabondi di tutto il mondo che nessuna casa religiosa accoglieva, venivano a Rievaulx, madre della misericordia, e vi trovavano le porte aperte e vi potevano entrare liberamente, rendendo grazie al loro Signore”. Quando Elredo morì, il momento più alto della espansione dei Cistercensi in Inghilterra era già passato, ma Rievaulx aveva fatto già cinque fondazioni, Fountains otto, ciascuna delle quali aveva a sua volta dato origine a un gran numero di monasteri, tanto che alla fine, Inghilterra e Galles insieme contavano 66 abbazie, 13 delle quali avevano fatto parte precedentemente della congregazione di Savigny.
Nel paese del Galles, i Cistercensi furono i benvenuti, perché erano considerati francesi più degli Anglo-Normanni. Infatti, la maggioranza delle 14 case del principato erano popolate direttamente dalla Francia, sebbene quelle della regione costiera, le “Marches”, avessero forti legami con l’Inghilterra, come ad esempio Tintern, fondata da l’Aumóne nel 1131. Invece Whitland (1140) favorita dalla più alta nobiltà del Galles e popolata con monaci di Clairvaux, era totalmente gallese e ben presto divenne casa madre delle altre abbazie corregionali di Cwmhir (1143), Strata Florida (1164) e Strata Marcella (1170). Tutte queste abbazie soffriranno molto durante la conquista inglese, sebbene Edoardo I (1272-1307) si mostrasse generoso nell’offrire aiuto per la loro ricostruzione. Il diffondersi di uno stato persistente di guerriglia e di anarchia, lungo il quindicesimo secolo, significò per la maggioranza delle case del Galles spopolamento e povertà, alle soglie di una dissoluzione quasi totale.
Nella Scozia, i Cistercensi divennero popolari, grazie al patrocinio del protettore di san Elredo, il Re David I (1124-115 3). Di fatto, la prima abbazia scozzese, Melrose, fu fondata nel 1136 da Rievaulx e capeggiata da un vecchio amico di gioventù di Elredo, san Wadelf, figliastro di re David, che era già stato canonico agostiniano e compagno di Elredo nel monastero a Rievaulx. Melrose divenne madre feconda di altre cinque nuove fondazioni e, con l’aiuto di monaci provenienti dall’Inghilterra, verso la fine del tredicesimo secolo la Scozia contava undici abbazie cistercensi.
La prima fondazione irlandese, Mellifont, (1142) situata a circa otto chilometri da Drogheda, fu il frutto della amicizia tra san Bernardo e san Malachia, arcivescovo di Armagh. Sebbene il primo gruppo di monaci fosse educato accuratamente a Clairvaux, le tradizioni del monachesimo celtico si rivelarono troppo radicate per essere sostituite dalle nuove osservanze. Nonostante questo contrattempo, la penetrazione rapida ed estesa dei Cistercensi in Irlanda fu più considerevole che altrove, tanto che alla fine il paese poteva gloriarsi di 43 abbazie, anche se un certo numero di esse erano piccoli monasteri, già di tradizione celtica. Quando nel 1171 iniziò la penetrazione inglese nell’isola, si aggiunse agli altri un nuovo insolubile problema; l’inimicizia implacabile tra le due razze condusse persino alla separazione, controllata, delle abbazie inglesi da quelle irlandesi, ciascun gruppo delle quali negava la possibilità di ammissione ai membri dell’altra nazionalità. Visitatori inglesi erano esclusi dalle abbazie irlandesi ed ogni mezzo di controllo da parte del Capitolo generale sulle case irlandesi si rivelò praticamente inutile. Già alla fine del secolo dodicesimo la situazione era critica. Nel 1228, l’abate Stefano Lexington di Salley, che aveva ricevuto l’incarico di sedare la “Cospirazione di Mellifont”, visitava il paese a rischio della propria vita. Non gli fu possibile trovare in Irlanda neppure le vestigia delle osservanze cistercensi: una condizione deplorevole che si rivelò più grave dell’estinzione del sedicesimo secolo. Due sole furono le eccezioni: le grandi abbazie di Mellifont e Santa Maria di Dublino.
La cronologia delle fondazioni cistercensi nella penisola iberica è spesso problematica. Secondo le ricerche storiche più recenti, la prima abbazia dell’Ordine non fu Moreruela che si credeva fondata verso il 1130, ma la casa di Fitero, che veniva favorita nel 1140 dal Re Alfonso VII di Castiglia e popolata dalla casa di Guascogna, l’Escale-Dieu; ci vollero comunque almeno 12 anni prima che i monaci si installassero nella località definitiva. La stessa abbazia francese era responsabile di altre cinque fondazioni in terra di Spagna: Monsalud (1141), Sacramenia (1142), Veruela (1146), La Oliva (1150) e Bugedo (1172), tutte della filiazione di Morimond. Clairvaux esercitò la sua influenza soprattutto attraverso le case francesi di Grandselve e Fontfroide, entrambe molto feconde nella propagazione dell’Ordine in Catalogna, sebbene da poco riacquistate dalla congregazione di Molesme. Fontfroide fondò la grande abbazia di Poblet (1150) che a sua volta divenne casa madre di altri quattro monasteri, uno dei quali fu La Palma, nell’isola di Mallorca (1236); nel 1150 Grandselve mandava del personale nell’illustre Santa Creus. Moreruela, menzionata sopra, apparteneva alla stessa filiazione, ma iniziò la sua esistenza solo nel 1158. Verso la fine del tredicesimo secolo la “marea” delle fondazioni cistercensi copriva anche la Spagna. Dato che a quel tempo la parte meridionale della penisola era o sotto il controllo di Molesme o era considerata insicura, quasi tutti i monasteri cistercensi erano collocati nella parte settentrionale della regione. Eccezioni furono San Bernardo e Valdigna, entrambe vicino a Valencia, e San Isidro a Siviglia, tutte fondazioni tarde. Il numero totale delle case spagnole fu di 58, e molte di esse erano state monasteri benedettini.
Nel Portogallo, la prima fondazione cistercense fu Alcobaça (1153) situata tra Lisbona e Coimbra e popolata da monaci che provenivano direttamente da Clairvaux. Alcobaça divenne una delle più grandi abbazie cistercensi in Europa e fu casa madre, di altri dodici monasteri in Portogallo.
Le prime case cistercensi in Svezia e Danimarca furono installate grazie agli sforzi dell’Arcivescovo Eskil di Lund, un amico di san Bernardo, che terminò la sua vita a Clairvaux (1181), e del suo successore nella sede vescovile di Lund, Absalon. La abbazia di Alvastra, in Svezia, vicina al lago Vättern, fu aperta nel 1143 direttamente da Clairvaux e divenne uno dei più famosi santuari cistercensi del paese: luogo di sepoltura della famiglia reale degli Sverker, e dove santa Brigida ricevette le sue visioni, casa madre di altri tre monasteri nello stesso paese. Un’altra grande abbazia in Svezia fu Nydala, anch’essa fondazione di Clairvaux, sempre nel 1143, ma sostenuta dall’appoggio del Vescovo Gislon di Linköping.
La abbazia di Herisvad (Herrevad), nell’estremità della punta meridionale della Svezia che nel dodicesimo secolo apparteneva alla Danimarca, fu altro frutto dell’ammirazione che l’arcivescovo Eskil aveva per i Cistercensi. Venne aperta nel 1144 dai monaci di Cîteaux. La più feconda casa danese dell’Ordine si dimostrò Esrom, che era già stata abbazia benedettina, e che venne incorporata alla famiglia di Clairvaux nel 1153, con la benedizione e l’auspicio dello stesso arcivescovo Eskil. A sua volta, Esrom divenne veicolo per l’assunzione nell’Ordine di un’altra abbazia benedettina, Sor, situata vicino a Copenhagen (1161). Gudvala (Roma) sull’isola di Gotland, fu l’unica casa figlia di Nydala (1164). All’interno degli attuali confini politici, la Svezia possedeva in tutto otto case cistercensi: la Danimarca ne aveva undici, sei delle quali erano state anteriormente comunità benedettine.
La Norvegia medioevale, scarsamente popolata, contava solo tre monasteri cistercensi. Il primo, Lyse Kloster vicino a Bergen, fu fondato nel 1146 dai monaci inglesi di Fountains. Hoved, costruito in una piccola isola nella Baia di Oslo, venne aperto nello stesso anno, sempre da parte di monaci cistercensi inglesi, che provenivano, questa volta, da Kirkstead. L’abbazia cistercense situata più al Nord in tutta Europa, fu Tutter (Tautra), in un’isola nel Fiordo di Trondheim, costruita nel 1207 come figlia di Lyse.
La Boemia faceva parte dell’impero della Germania e le sue prime tre fondazioni cistercensi, Sedletz (1143), Plass (1145) e Nepomuk (1145) furono realizzate tutte da monaci tedeschi e situate nella diocesi di Praga; tutte appartenevano alla filiazione di Morimond. Quattro fondazioni più tardive, Ossegg (1192), Hohenfurt (1259), Goldenkron (1263) e Königsaal (1292) godettero alla fine di una prosperità e di una fama superiore. Il numero totale delle abbazie nel regno, incluse quelle della Moravia, erano tredici; in quest’ultima provincia, l’abbazia più famosa fu quella di Welehrad (1205) nella diocesi di Olmütz.
Entro i confini storici della Polonia, c’erano in totale venticinque abbazie, venti delle quali erano direttamente o indirettamente affiliate a Morimond. Soltanto nove, tuttavia, vennero fondate nel corso del dodicesimo secolo; le altre furono erette in un tempo in cui lo sviluppo dell’Ordine era considerevolmente diminuito nell’Europa Occidentale. Le abbazie polacche che appartenevano a quest’ultima categoria raggiunsero il momento più alto della loro espansione solo nel quattordicesimo secolo, un’epoca in cui il resto dell’Occidente sperimentava il movimento inverso. Ma in Polonia il numero dei monaci, e soprattutto dei fratelli conversi, rimase sempre relativamente modesto e in molti casi le abbazie fondate direttamente dalla Francia o dalla Germania continuarono a reclutare all’estero i loro monaci. Sulejow, per esempio, aperta nel 1179 direttamente da Morimond, conservò le sue caratteristiche tipicamente francesi lungo tutto il corso del Medioevo; allo stesso modo, Lad, Lekno e Obra, tutte case figlie dell’abbazia tedesca di Altenberg vicino a Colonia, furono abitate per secoli da monaci provenienti da Colonia. Secondo le indicazioni più attendibili, al di sotto di questo strano fenomeno non è riscontrabile una politica nazionalistica della colonizzazione tedesca;, la risposta può essere scoperta piuttosto nella struttura della stessa società polacca. I principi e i vescovi erano altrettanto generosi verso i cistercensi che i loro benefattori dell’Occidente, ma nell’Europa Orientale il reclutamento delle vocazioni era più difficile. Secondo le leggi polacche inerenti alla successione dei beni, tutti i figli di una casata avevano parte ai beni familiari; perciò i giovani non sentivano una attrazione particolare per entrare negli ordini monastici. Il campo più fecondo delle vocazioni in Occidente proveniva dalla borghesia o altre classi professionali, le quali ancora erano assenti nei paesi slavi; per i fratelli laici, l’Ordine in Occidente si poggiava soprattutto sui contadini liberi, che tenevano in affitto terre altrui; invece nella Europa dell’Est coloro che coltivavano la terra erano servi della gleba ancora schiavi e legati alla terra, e non potevano in genere diventare fratelli. D’altronde, la scarsità di fratelli conversi costrinse le case cistercensi dell’Est ad abbandonare l’idea di una coltivazione diretta delle terre accettando in cambio servi o contadini, cosa che aprì la via a estensioni terriere illimitate, che non avevano paragone in Occidente.
Una situazione analoga era forse la ragione principale dei modesto successo dei Cistercensi in Ungheria. Il primo tentativo realizzato da Heiligenkreuz per introdurre l’Ordine in quel paese a Cikador nel 1142, si dimostrò poco efficace. Più promettente fu l’iniziativa del Re Bela III(11.76-1196), la cui seconda moglie, Margaret, era sorella del Re Filippo Augusto Il di Francia. Questi legami fecero sì che un certo numero di monaci francesi penetrassero nel paese e seguissero quindi le fondazioni di Egres (1179) ad opera di Pontigny, Zirc: (1182) ad opera di Clairvaux, Pilis (1184) ad opera di Acey, San Gottardo (1184) ad opera di Trois-Fontaines, Pàsztò (1190) ad opera di Pilis, e Kerc (1202) ad opera di Egres. Kerc, situato nella lontana Transylvania, segnava il punto più lontano della estensione dell’Ordine nell’Europa Orientale. Alla fine, il numero totale delle case cistercensi in Ungheria fu di una ventina, e di esse tre erano state un tempo abbazie benedettine. Disgraziatamente, l’invasione dei Tartari nel paese (1241-1242) apportò delle distruzioni in quelle istituzioni già abbastanza deboli e in seguito alla mancanza di sufficienti vocazioni locali, l’Ordine continuò a languire, in Ungheria, lungo tutto il resto del Medioevo.
Il Padre Leopoldo Janauschek, nel suo repertorio, ancora indispensabile, delle fondazioni cistercensi collocate in ordine cronologico, identificava, fino al 1675, 742 monasteri maschili. Tuttavia è doveroso notare che in qualsiasi momento storico, il totale delle abbazie che esistevano, contemporaneamente, fu sempre considerevolmente inferiore a quella cifra. Molte fondazioni, ad esempio quelle realizzate negli stati crociati e nell’Impero Latino, si dimostrarono effimere; altre furono soppresse o integrate con altre comunità esistenti. In verità l’affermazione che tutte le abbazie dell’ordine nel dodicesimo secolo avessero un numero sovrabbondante di monaci, è certamente errata. All’ombra di abbazie gigantesche quali Clairvaux, Les Dunes, Fountains o Rievaulx, c’erano numerosi insediamenti secondari, e il Capitolo generale del 1189 tenne a sottolineare che ogni casa doveva avere almeno 12 monaci sotto la conduzione di un abate; in caso contrario avrebbero dovuto essere ridotte o a una fattoria o essere chiuse del tutto. Nel 1190 il Capitolo ordinò all’abate di Jouy di visitare l’abbazia di Bonlieu nella diocesi di Bordeaux, e lo autorizzò a chiudere quel monastero se egli non fosse stato in grado di assicurare la presenza di almeno dodici monaci, che vi potessero vivere la vita regolare. Nel 1191 venne decisa la stessa cosa per San Sebastiano a Roma e Lad in Polonia. Nel 1199 si riferì al Capitolo generale che oltre a San Sebastiano, altre quattro case Italiane (Falleri, San Giusto, San Martino del Monte, Sala) avevano un numero troppo scarso di monaci. Un po’ più tardi (1232) Roccamadore, in Sicilia, fu aggiunta alla stessa lista. Nonostante misure adeguate, il Capitolo del 1204 deplorava ancora che Il ci fossero abbazie nell’Ordine che davano grave scandalo a causa della deficienza e dello scarso numero di personale”. La minaccia di soppressione divenne dato di fatto nel 1216, quando ad esempio il Capitolo generale decise di ridurre San Vincenzo nell’Asturia a una fattoria perché “quella casa era talmente povera che poteva appena provvedere alla sopravvivenza di due soli monaci”.
È estremamente raro trovare nel corso del dodicesimo secolo dei dati degni di fiducia sul numero dei membri in un determinato monastero. Da una parte, resta vero che il susseguirsi rapido delle nuove fondazioni non si può spiegare senza un numero sovrabbondante di monaci in molte delle grandi abbazie dell’Ordine; ma, dall’altra, alcune cifre tradizionali sembrano molto esagerate. Si credeva in genere che sotto san Bernardo Clairvaux, e perfino Bellevaux, contassero 500 monaci; Grandselve fino a 800; Rievaulx sotto san Elredo 600 o anche più. Numeri un po’ più piccoli, ma sempre sulle centinaia, sono stati spesso citati più volte senza che si avesse una documentazione sufficiente. Ugualmente problematico è chiarire la proporzione corrispondente tra monaci di coro e conversi. Così, secondo dati credibili, i fratelli conversi in genere superavano il numero dei monaci di coro, così che una abbazia Il media” lungo il corso del dodicesimo secolo contava probabilmente quindici monaci e una ventina di fratelli conversi. Se ciò è vero, si potrebbero trarre dei totali approssimativi sul numero dei monaci cistercensi. Perciò nel 1151, quando il numero delle fondazioni cistercensi era di 333, il totale dei monaci avrebbe dovuto superare il numero di 11.600 membri. Un secolo dopo, le 647 abbazie dell’Ordine avrebbero raggiunto ben più di 20.000 monaci, compresi i conversi; una cifra che certamente cominciò a declinare ben presto a causa della diminuzione continua delle vocazioni dei fratelli conversi. Per una valutazione esatta di queste statistiche, bisogna considerare queste cifre sullo sfondo dei totali della popolazione del secolo dodicesimo e tredicesimo, probabilmente inferiori al dieci per cento del livello attuale.
Il gran numero delle fondazioni cistercensi, che si sviluppavano con tanta rapidità, è la prova del richiamo universale che esercitavano gli ideali della vita cistercense su tutta la società contemporanea; fra le vocazioni, una percentuale sorprendentemente alta proveniva già dall’élite della classe degli intellettuali. Durante i primi anni dell’abbazia di Clairvaux, la famosa scuola di Châlons fu quasi interamente svuotata per il fatto che gli studenti insieme ai loro professori seguivano il fascino del giovane Bernardo. La stessa cosa succedeva spesso, dovunque capitava che l’abate dovesse predicare, soprattutto a Reims, Liegi e Parigi. Secondo Ernaldo, uno dei primi biografi del santo, Clairvaux era il monastero in cui “uomini di cultura, maestri di retorica e di filosofia nelle scuole di questo mondo, studiavano la teoria delle divine virtù”. La ragione per cui la prima generazione della Scolastica preferiva i Cistercensi non può essere attribuita esclusivamente e primariamente alla sola personalità così affascinante di san Bernardo, dato che molte vocazioni sceglievano di condurre vita monastica in monasteri diversi da Clairvaux. Il fattore decisivo nella vocazione di questi intellettuali dovette consistere nel richiamo che emanava per essi la spiritualità cistercense.
Quale sarebbe stato il destino di Cîteaux senza la presenza di san Bernardo, è certo volersi porre una domanda inutile. La sua personale influenza sull’evoluzione dell’Ordine fu evidentemente di grandissima importanza. Senza alcun dubbio, il programma dei fondatori di Cîteaux era meramente contemplativo, animato da uno zelo ammirevole per un ascetismo di tipo eroico. Il giovane Bernardo abbracciò di tutto cuore e fino in fondo la vita di Cîteaux, così come era, e, sotto la guida del suo abate, santo Stefano, divenne egli stesso uno dei più grandi contemplativi di tutti i tempi. Tuttavia, egli era un genio realmente unico nel suo genere ed universale nella sua vocazione, dotato di una missione di governo provvidenziale. Era impossibile per lui restare a lungo nascosto all’interno delle mura di Clairvaux; ma perfino negli anni della sua più febbrile attività pubblica, egli rimase sostanzialmente lo stesso monaco cistercense, asceta e contemplativo. Quanto più cresceva la sua fede negli ideali di Cîteaux, con tanta maggior dedizione si prodigava per diffonderne l’influenza. Egli non nascose mai la sua convinzione ben radicata che la regola cistercense era il modo più sicuro per garantire la salvezza della propria anima, e non esitò mai ad accettare chiunque a Clairvaux, sia che fosse un criminale pubblico o un principe della casa reale, un monaco fuggiasco o un vescovo. Lo sviluppo prodigioso dell’Ordine durante la prima metà del dodicesimo secolo sarebbe stato impossibile senza san Bernardo ed egli fu inevitabilmente, sebbene inconsapevolmente e suo malgrado, responsabile in grande misura delle conseguenze dì questo fatto.
Bisogna attribuire a questa straordinaria crescita un inevitabile conflitto tra qualità e quantità. Se da una parte si constatò che il dodicesimo secolo fu un’epoca storica eccezionalmente adatta per promuovere e incoraggiare vocazioni contemplative, resta vero che la contemplazione, per la sua stessa natura, non può mai essere fenomeno di massa. È perciò del tutto improbabile che quelle centinaia di fondazioni accogliessero sempre e soltanto autentiche vocazioni contemplative. Citiamo ancora Orderico Vitale: la povertà volontaria e una autentica religiosità ispirava molti di essi, ma numerosi ipocriti e possibili contraffattori vivevano con loro, come la pula con il grano”. Il problema divenne ancora più acuto quando l’Ordine raggiunse la sua massima espansione: ben presto uno spirito di mondanità sempre crescente, – si avvicinava il Rinascimento – fece calare sensibilmente il numero delle vocazioni monastiche. Nel medesimo tempo, gli ingranaggi ben strutturati del Capitolo generale funzionavano con serietà. I visitatori riferivano anno dopo anno le benché minime deviazioni dalla disciplina comune, e i colpevoli ricevevano sempre delle punizioni severe. Ma il Capitolo generale lottava disperatamente contro i soli sintomi ed era, ovviamente, incapace di controllare le vere cause del problema, cioè il mutamento della mentalità europea. L’Ordine era infatti un corpo troppo grande ed esteso per resistere con efficacia alle folate di una tempesta devastatrice.
D’altra parte, è sorprendente come i Padri Capitolari fossero consapevoli dei pericoli che si nascondevano in una espansione così spettacolare. Lungi dal lasciarsi abbagliare dal proprio successo, essi procedettero con una sempre maggiore cautela in materia di nuove fondazioni o incorporazioni all’Ordine dei monasteri già esistenti. Le generazioni cistercensi successive, troppo riverenti verso la immagine ideale che nutrivano per le origini dell’Ordine, abolirono con molta cura le tracce di dissenso fra i membri del Capitolo generale in quegli anni gloriosi. Tuttavia, sono rimasti alcuni indizi sul fatto che in materia di fondazioni troppo affrettate, le posizioni degli abati erano lontane dall’essere unanimi. È difficile credere, infatti, che l’unica ragione per le dimissioni di Stefano Harding nel 1133 fosse la sua età avanzata. Altri motivi si celavano senz’altro dietro le quinte, dato che la sua scomparsa causò una seria crisi. Il suo immediato successore abate di Cîteaux, Guido, che era già stato abate di Trois-Fontaines fu deposto poco dopo la sua elezione ed il suo nome venne perfino cancellato dall’elenco degli abati senza che ne venisse indicata la ragione. Dopo questi eventi, Rainaldo, un monaco di Clairvaux ed amico intimo di san Bernardo, assunse il ruolo di guida centrale dell’Ordine. Il suo periodo di governo coincise con il momento di massima espansione. Quando egli mori nel 1150, Goswin, abate di Bonnevaux, abbazia figlia di Cîteaux, gli successe in questa importante carica. Il Capitolo generale immediatamente capovolse le proprie posizioni nei confronti della politica seguita fino allora e nel 1152 proibì categoricamente la fondazione o l’incorporazione di altre case, per il futuro. Questi fatti, evidentemente, non permettono di affermare conclusioni sicure e di portata più vasta, ma documentano a sufficienza che il problema annesso a uno sviluppo rapido era ben in luce. La decisione del Capitolo rovesciava le sante e tanto caramente abbracciate ambizioni di Bernardo, che in quel momento giaceva irrimediabilmente infermo a Clairvaux, dove sarebbe morto l’anno successivo. Inutile dire che la proibizione di fare altre fondazioni restò lettera morta. Giunto al punto più alto della sua popolarità, l’espansione dell’Ordine non poteva essere stroncata ad un tratto, sebbene il ritmo della crescita si ridusse notevolmente.
Conseguenza naturale e inevitabile della diffusione su larga scala fu il crescente prestigio, il diffuso potere e la larga attività dell’Ordine nella vita pubblica della Chiesa. Bernardo fu il primo a rispondere alle gravi necessità della Chiesa ed egli, il grande contemplativo, dovette giocare un ruolo senza confronti nella conduzione della politica europea, e ciò per una trentina d anni. Il suo esempio costituì una sfida irresistibile per le future generazioni cistercensi, tanto più che sia le più alte autorità della Chiesa che quelle secolari attendevano con piena speranza che l’Ordine, con la sua immensa forza morale, continuasse a restare al loro servizio, diffondendo pace, giustizia ed ordine fra le nazioni cristiane. Il compito di “addetti alla riparazione della Chiesa” era senza meno ben lontano dagli ideali dei fondatori di Cîteaux, che avevano pensato a una vita di silenzio assoluto nella separazione più totale dagli affari del mondo. Tuttavia, rifiutare una tale sfida e ritirarsi nuovamente nella solitudine, era altrettanto impossibile quanto ridurre il numero delle abbazie cistercensi in proporzione alla diminuzione delle vocazioni.
L’incorporazione di monasteri già esistenti, soprattutto della intera congregazione di Savigny, pose dei seri problemi di natura economica e disciplinare. Il rifiuto delle rendite feudali era senz’altro una delle caratteristiche fondamentali della vita cistercense. Eppure, tutte le abbazie che erano state un tempo sotto la giurisdizione di Savigny furono ammesse nell’Ordine senza il previo obbligo di liberarsi dalle loro chiese, titoli, servi ed altre simili fonti di guadagno. Queste concessioni incoraggiarono altre comunità ad assumere titoli di proprietà che fino allora erano stati proibiti. Nel 1169 l’abuso si era diffuso a tal punto che il papa Alessandro III indirizzò una bolla con espressioni abbastanza veementi per richiamare l’attenzione dell’Ordine sulle allarmanti deviazioni dalle “istituzioni sante” dei Padri Fondatori. Si può supporre difficilmente che san Bernardo, che era in gran parte responsabile della fusione della congregazione di Savigny, non fosse cosciente delle differenze tra i princìpi economici delle abbazie appena ammesse e quelli delle fondazioni vere e proprie di Cîteaux; neppure è ammissibile supporre che egli non potesse rendersi conto delle conseguenze latenti in concessioni così grandi, fatte in rapporto alle altre case dell’Ordine. Perché allora egli promosse l’unione? La sola risposta logica è che a suo giudizio i benefici spirituali della concessione avrebbero largamente superato gli inconvenienti del compromesso. Ma non sarebbe neppure giusto imputare soltanto al santo le conseguenze che ne derivarono. Il Capitolo generale assunse lo stesso atteggiamento indulgente anche dopo la sua morte; la considerazione dei bisogni locali aveva grande spazio nel giudizio dei Padri capitolari. Princìpi precostituiti e adesione rigida ad una posizione intransigente, senza possibilità di eccezioni, erano molto lontani dalla primitiva mentalità cistercense.
L’efficacia del Capitolo generale fu realmente indebolita, e molto, a causa della enorme espansione territoriale dell’Ordine. Si supponeva che il Capitolo generale annuale riunisse tutti gli abati dell’Ordine. I regolamenti più antichi prevedevano un caso solo di assenza legittima: la malattia. Ma la rapida espansione geografica, tuttavia, rese molto difficile una partecipazione regolare, se non addirittura impossibile per gli abati delle terre più lontane. A causa delle grandi distanze, delle ingenti spese e dei pericoli di viaggio, furono presto concesse delle dispense. Così, ad esempio, gli abati delle case della Siria dovevano partecipare al Capitolo solo ogni sette anni ed altri godettero di concessioni simili, in proporzione alla distanza della loro casa da Cîteaux. Non possediamo le percentuali del numero dei partecipanti al Capitolo generale e delle sue decisioni per il dodicesimo e tredicesimo secolo. Si può dedurre, comunque, dalle costanti dichiarazioni sulle assenze ingiustificate che le grandi difficoltà di viaggio costituivano impedimenti molto gravi per non partecipare alle riunioni. In ogni caso, le possibilità offerte da Cîteaux per la sistemazione dei membri del Capitolo erano molto modeste. Fin dopo il completamento del chiostro gotico del 1193 (Cîteaux III) la sala regolare delle riunioni, la sala capitolare, era una stanza di 17 m. per 18, con una doppia o forse triplice fila di banchi attorno al muro. Si ritiene che vi stessero circa trecento persone, ma è molto dubbio che la sala fosse sempre così ben stipata. Si può presumere in modo più realistico che le sessioni fossero frequentate da circa un terzo degli abati (250).
In quale modo si notificavano agli abati assenti le decisioni del Capitolo generale? I documenti del dodicesimo secolo non danno dati sulla registrazione in archivio dei documenti o sulla promulgazione degli statuti. Fin verso il 1180 i manoscritti esistenti non dicono nulla sullo svolgimento delle sessioni; probabilmente non si prendevano verbali delle consultazioni e le decisioni del Capitolo, quando venivano prese, erano trasmesse soltanto oralmente. Il problema si complicò a causa del continuo cambiamento dei partecipanti, anno dopo anno; così gran parte degli abati presenti a un dato momento non era al corrente delle discussioni dell’anno precedente. Ne risultò frequentemente la stesura di regolamenti contraddittori o incoerenti, che condussero a una certa confusione o a un atteggiamento scettico nei confronti della validità dei singoli statuti. La ragione per cui vennero ripetute tutti gli anni delle decisioni importanti, non sta nel fatto di una inadempienza deliberata; si voleva soltanto renderle note in modo adeguato a tutti gli abati.
La visita regolare annuale dei monasteri da parte dell’abate-padre veniva in certa misura resa difficile o ostacolata a causa delle fatiche del viaggio ed anche del numero eccessivo di visite che alcuni abati di numerose filiazioni erano tenuti a fare. Cîteaux aveva 24 case affiliate direttamente; Pontigny 16, Morimond 27 e Clairvaux più di 80. Era chiaramente impossibile fare delle visite regolari ad un tal numero di case-figlie; quindi gli abati che si trovavano in simili posizioni erano costretti o a delegare i loro poteri oppure a ritardare le visite regolari; ma sia nell’uno che nell’altro caso una effettiva revisione delle abbazie dipendenti ne risultava compromessa.
La crescita così straordinaria dell’Ordine Cistercense, durante la vita di san Bernardo, che passò da una piccola comunità di monaci eremiti a una rete internazionale di centinaia di abbazie, non può essere spiegata soltanto da considerazioni di mero carattere naturale, storico o altro. Neppure la genialità dell’abate di Clairvaux può spiegare adeguatamente questo fenomeno, unico nel suo genere, e specificamente religioso. Forse il segreto si trova nell’eco così vasta e spontanea che la spiritualità di Cîteaux seppe evocare nei membri di quella generazione, che risultava loro congeniale; una spiritualità che serviva da esempio sia per i ricchi che per i poveri, per gli eruditi e gli illetterati e che si incarnava nell’austera e contemplativa vita dei Monaci Bianchi.
Ma il compito di portare avanti una tanto esaltata eredità si rivelò onere troppo gravoso. Il gran momento di espansione doveva necessariamente dissolversi; Bernardo e i suoi eroici compagni non potevano essere sostituiti da uomini di ugual calibro. Intanto, l’ambiente religioso e sociale, in continua mutazione, poneva interrogativi nuovi e sollecitava soluzioni adeguate. La storia successiva dell’Ordine dimostra in maniera convincente quanti seri sforzi venissero fatti per assicurare un alto livello di disciplina monastica e per sostenere la sfida di nuove pesanti responsabilità. I tentativi continui di mantenere l’Ordine al passo di un mondo in accelerata mutazione, tuttavia, richiese spesso dei compromessi che furono a discapito delle genuine tradizioni cistercensi.
Fonte: http://www.niccolov.it/dispense/cistercensi.doc
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