Commento al vangelo del giorno
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Commento al vangelo del giorno
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
Il Vangelo della liturgia del giorno
commentato da p. Lino Pedron
Commenti al Vangelo del giorno del mese di Marzo 2012
(Le letture sono tratte dal Nuovo Lezionario - Testo CEI2008)
Giovedì 1 Marzo 2012
Mt 7,7-12
Chiunque chiede, riceve.
7Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 8Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 9Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? 10E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? 11Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!
12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.
Il cristiano è colui che vuole essere come Cristo. Nella preghiera la vita di Dio diventa la nostra vita. L'unica condizione per riceverla è volerla e chiederla.
San Giacomo scrive: "Se qualcuno manca di sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento, e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni" (Gc 1,5-8). E aggiunge: "Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male" (Gc 4,2-3).
La preghiera è infallibile se chiediamo ciò che è conforme alla volontà di Dio, con una fiducia che desidera tutto e non ritiene impossibile nulla, con un'umiltà che tutto attende e nulla pretende.
La preghiera non è un importunare Dio per estorcergli ciò che vogliamo, ma l'atteggiamento di un figlio che chiede ciò che il Padre vuole donare.
Chiedete, cercate, bussate sono degli imperativi presenti che ci comandano di continuare a chiedere, a cercare e a bussare, senza stancarci mai (cfr Lc 18,1).
La condizione dell'efficacia della preghiera non è solo la fede dell'uomo, ma soprattutto la bontà di Dio. Dio è molto migliore di qualsiasi padre. Ciò che vale tra padre e figlio, vale incomparabilmente di più tra Dio e l'uomo che lo invoca.
Il v. 12 è chiamato solitamente "la regola d'oro". Gesù afferma che la perfezione cristiana consiste nella perfezione dell'amore del prossimo. Tutto l'insegnamento evangelico si riassume nel servizio prestato all'altro, anche a prezzo del proprio interesse, perché l'altro è il proprio fratello. L'imperativo "fate" richiede un amore concreto e operoso.
L'amore cristiano è più di una semplice comprensione o benevolenza verso i bisognosi e i deboli: è considerare l'altro come parte integrante del proprio essere. Per questo il peccato più grande è l'egocentrismo, e la virtù più importante è l'impegno sociale e comunitario.
La "regola d'oro" consiste soprattutto nella "regola dell'immedesimazione" o, più prosaicamente, "nel sapersi mettere nei panni degli altri", nella capacità di trasferirsi con amore e fantasia nella situazione dell'altro (anche del nemico). La mancanza di fantasia è mancanza d'amore.
Nel processo di Majdanek risultò evidente che questa mancanza di immedesimazione negli altri può avere conseguenze disastrose. Gli accusati di questo orribile campo di concentramento dimostrarono la quasi totale incapacità di trasferirsi nella situazione delle loro vittime.
Venerdì 2 Marzo 2012
Mt 5,20-26
Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.
23Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
25Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo!
La concezione della giustizia secondo Matteo non può essere confusa con quella di Paolo. Per Paolo la giustizia è la giustificazione di Dio concessa per grazia all'uomo; per Matteo è il retto agire richiesto da Dio all'uomo.
Gesù ha rimesso in vigore la Legge come legge di Dio e documento dell'alleanza, ripulita da tutte le storture e le aggiunte delle tradizioni umane e delle incrostazioni depositate dai secoli.
La migliore giustizia, che deve superare quella degli scribi e dei farisei, richiesta da Cristo ai suoi discepoli sta anche nel fatto che Gesù ha ricondotto i singoli precetti a un principio dominante: l'esigenza dell'amore di Dio e del prossimo, da cui dipendono la Legge e i Profeti.
Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro in Mt 5,17: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento".
Gesù parla con autorità pari a quella di Dio che diede i Dieci Comandamenti. "Ma io vi dico" non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce, lo modifica in ciò che suona concessione, e passa dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui tutto promana.
"Ma io vi dico" non è un'antitesi, ma un completamento: l'uccisione fisica viene da un'uccisione interna dell'altro: dall'ira, dal disprezzo, dalla rottura della fraternità nei suoi confronti. L'ira è l'uccisione dell'altro nel proprio cuore. Il disprezzo è l'uccisione interiore che prepara e permette quella esteriore.
Tutte le guerre sono precedute da una campagna denigratoria del nemico, considerato indegno di vivere e meritevole della morte: di conseguenza, ucciderlo è un dovere; anzi, è un'opera gradita a Dio, come ci ha detto Gesù: "Verrà l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (Gv 16,2).
Il comandamento dell'amore del prossimo è superiore anche a quello del culto. La pace con il fratello è condizione indispensabile per la pace e l'incontro con il Padre. Ciò che impedisce il contatto con i fratelli impedisce anche il contatto con Dio.
Non solo chi ha offeso, ma anche chi è stato offeso, deve riconciliarsi col fratello prima di prendere parte a un atto di culto. Non è questione di ragione o di orto; quando c'è qualcosa che divide due membri della stessa comunità, tale ostacolo deve scomparire per poter comunicare con Dio.
La vita è un cammino di riconciliazione con gli altri. Non importa se si ha torto o ragione: se non si va d'accordo con i fratelli, non si è figli di Dio. La realtà di figli di Dio si manifesta necessariamente nel vivere da fratelli in Cristo.
Se non si passa dalla logica del debito a quella del dono e del perdono, si perde la vita di figli del Padre (cfr Mt 18,21-35).
Sabato 3 Marzo 2012
Mt 5,43-48
Siate perfetti come il Padre vostro celeste.
43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
Il comandamento dell'amore, esteso indistintamente a tutti, è il supremo completamento della Legge (v. 17). A questa conclusione Gesù è arrivato lentamente dopo aver parlato dell'astensione dall'ira e dell'immediata riconciliazione (vv.21-26), del rispetto verso la donna (vv.27-30) e la propria moglie (vv.31-32), della verità e sincerità nei rapporti interpersonali (vv.33-37), fino alla rinuncia alla vendetta e alle rivendicazioni (vv.38-42).
Il principio dell'amore del prossimo è illustrato con due esemplificazioni pratiche: pregare per i nemici e salutare tutti senza discriminazione. La più grande sincerità di amore è chiedere a Dio benedizioni e grazie per il nemico. Questo vertice dell'ideale evangelico si può comprendere solo alla luce dell'esempio di Cristo (cfr Lc 23,34) e dei suoi discepoli (cfr At 7,60). Colui che prega per il suo nemico viene a congiungersi con lui davanti a Dio. In senso cristiano la preghiera è la ricompensa che il nemico riceve in cambio del male che ha fatto.
Il precetto della carità non tiene conto delle antipatie personali e dei comportamenti altrui. Il prossimo di qualsiasi colore, buono o cattivo, benevolo o ingrato dev'essere amato. Il nemico è colui che ha maggiormente bisogno di aiuto: per questo Gesù ci comanda di offrirgli il nostro soccorso.
Il comandamento dell'amore dei nemici rivoluziona i comportamenti tradizionali dell'uomo. La benevolenza cristiana non è filantropia, ma partecipazione all'amore di Dio. La sua universalità si giustifica solo in questa luce: "affinché siate figli del Padre vostro (v.45), e "siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli" (v.48). Il cristiano esprime nel modo più sicuro e più vero la sua parentela con Dio amando indistintamente tutti.
L'amore del nemico è l'essenza del cristianesimo. Sant'Agostino ci insegna che "la misura dell'amore è amare senza misura", ossia infinitamente, come ama Dio.
In quanto figli di Dio i cristiani devono assomigliare al loro Padre nel modo di essere, di sentire e di agire. L'amore verso i nemici è la via per raggiungere la sua stessa perfezione.
La perfezione di cui parla Matteo è l'imitazione dell'amore misericordioso di Dio verso tutti gli uomini, anche se ingiusti e malvagi. Il cristiano è una nuova creatura (cfr 2Cor 5,17) e non può più agire secondo i suoi istinti e capricci, ma conformemente alla vita nuova in cui è stato rigenerato.
Gesù pone come termine della perfezione l'agire del Padre, che è un punto inarrivabile. L'imitazione del Padre, e conseguentemente di Gesù, è l'unica norma dell'agire cristiano, l'unica via per superare la morale farisaica. Essere perfetti come il Padre è in concreto imitare Cristo nella sua piena ed eroica sottomissione alla volontà del Padre, e nella sua dedizione ai fratelli. È perciò diventando perfetti imitatori di Cristo, che si diventa perfetti imitatori del Padre.
Domenica 4 Marzo 2012 - II DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B)
Mc 9,2-10
Questi è il Figlio mio, l’amato.
2Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Nella narrazione della trasfigurazione ritroviamo i tre testimoni della risurrezione della figlia di Giàiro: Pietro, Giacomo e Giovanni. Li troveremo anche nel Getsémani. C'è uno stretto legame tra questi tre episodi.
Il primo manifesta il potere di Gesù sulla morte. La trasfigurazione è un'anticipazione della gloria della risurrezione. L'agonia, che è il contrasto totale con i primi due episodi, mostra in qual modo Gesù cammina verso la gloria: accettando di entrare totalmente nelle vedute del Padre (cfr 14,36).
Anche qui, come nel battesimo, si fa sentire la voce del Padre che parla dalla nube. Ma questa volta non si rivolge soltanto a Gesù (cfr 1,11), ma ai tre discepoli. Il titolo di "Figlio mio prediletto" che richiama allo stesso tempo la regalità del Messia (cfr Sal 2,7) e il destino del Servo di Dio (cfr Is 42,1), conferma la verità di ciò che Pietro non ha ancora accettato: che la glorificazione del Messia si realizza attraverso la sofferenza.
In più, alla rivelazione fa seguito un comando: "Ascoltatelo!". La parola del Padre viene ad appoggiare l'insegnamento di Gesù sulla sua passione e risurrezione. In questa prospettiva, la trasfigurazione appare come l'anticipata manifestazione della gloria di Cristo. Dal racconto della trasfigurazione dobbiamo imparare che solo nella luce della risurrezione si comprende il mistero della croce.
La trasfigurazione, e non la “figurazione”, è il punto di arrivo dell'uomo e dell'universo. Il nostro volto non è quello disfatto dallo sfacelo della morte, ma quello trasfigurato della risurrezione.
La trasfigurazione corrisponde alla vita nuova che il battesimo ci conferisce attraverso la croce: un'esistenza pasquale, passata dall'egoismo all'amore, dalla tristezza alla gioia, dall'inquietudine alla pace. Sul nostro volto deve brillare il riflesso del volto del Risorto, che è il volto stesso del Padre.
Lunedì 5 Marzo 2012
Lc 6,36-38
Perdonate e sarete perdonati.
36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
37Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. 38Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
Dio è il punto di riferimento dell'agire cristiano. Tutta la preoccupazione del credente è ripetere nella propria vita i suoi comportamenti.
Gesù tenta di levarci dalla testa un Dio che siede come giudice in un tribunale, per sostituirlo con un Padre che siede in casa con i suoi figli ai quali non cessa di voler bene e di usare con essi tutta la sua comprensione paterna. Lo sforzo del giudice è quello di arrivare a una sentenza di condanna, quello del padre, così come quello del cristiano, a una assoluzione totale. Il cristiano è chiamato a ricopiare l'atteggiamento paterno di Dio verso tutti indistintamente.
L'amore dei nemici è una grazia che ci fa misericordiosi come il Padre.
Gesù ci insegna come dobbiamo comportarci nei confronti di quelli che non ci amano: non giudicate, non condannate, perdonate, date. E questi quattro comandamenti vanno praticati con una generosità sovrabbondante, smisurata, perché con la misura con la quale misuriamo, sarà misurato a noi in cambio da Dio.
Il desiderio dell'uomo è "diventare come Dio" (Gen 3,5). Ora, dopo la rivelazione del vero volto di Dio in Gesù, è possibile capire la via per diventare Dio. L'essenza di Dio è la misericordia: "Poiché, quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia" (Sir 2,18).
La nostra esperienza fondamentale di Dio, dal momento che siamo nel peccato e nel male, è quella della misericordia che perdona e che salva. Questo amore di misericordia è l'unico possibile nella situazione in cui ci troviamo di fatto.
Se l'amore si esprime nel dono, la misericordia si esprime nel perdono, che significa super-dono, in modo che "dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5,20).
L'aggettivo che Luca usa qui per dire "misericordioso" è oiktìrmon, che indica l'espressione esterna della misericordia, sia come compassione che come intervento. Questo aggettivo, applicato a Dio, è usato solo due volte in tutto il Nuovo Testamento: qui e nella Lettera di Giacomo 5, 11. Nella traduzione detta dei Settanta oiktìrmon traduce l'ebraico rahamin, che indica l'utero. Questo significa che Dio misericordioso ci è presentato come padre, ma ancor più come madre. A questo proposito è prezioso quanto ha scritto san Clemente di Alessandria: "Per la sua misteriosa divinità Dio è Padre. Ma la tenerezza (sympathés) che ha per noi lo fa diventare madre. Amando, il Padre diventa femminile" (Quis dives salvetur, 37,2).
La prima immagine che l'uomo ha di Dio è di uno che giudica. E l'immagine di un Dio che giudica con severità è l'ultimo idolo che Gesù riesce a togliere, facendoci vedere che il nostro male lo porta lui sulla croce: "Ecco l'Agnello di Dio che porta via il peccato del mondo" (Gv 1,29).
La croce di Cristo è l'unico giudizio possibile al Padre della misericordia che giustifica tutti. Dunque, chiunque giudica un altro sbaglia sempre. E l'errore non sta nel fatto che il giudizio dell'uomo è fallace, ma proprio nel fatto stesso del giudicare perché è usurpare il potere a Dio e soprattutto perché Dio non giudica ma giustifica, non condanna ma condona.
Il giudizio finale di salvezza o di perdizione non è operato da Dio, ma da me; non in un tempo indeterminato o nascosto, ma ora nel rapporto quotidiano con i fratelli. Questa è la misericordia di Dio: lascia a noi il giudizio su noi stessi, ed è lo stesso giudizio che pronunciamo sugli altri. Se non giudichiamo gli altri, Dio non giudica noi. Se perdoniamo agli altri, Dio perdona a noi.
Nella misura in cui si dà al fratello, si riceve da Dio. L'unico metro di misura del dono che riceviamo è la nostra capacità di donare. Dio rinuncia a misurare come rinuncia a giudicare. Siamo misurati e giudicati da noi stessi, secondo il nostro amore verso gli altri.
Dio non conosce misura nel donarsi. L'unica limitazione alla misericordia di Dio è data dal nostro grembo, cioè dalle nostre viscere di misericordia.
Martedì 6 Marzo 2012
Mt 23,1-12
Dicono e non fanno.
1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d'onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente.
8Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.
Ogni pagina del vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e farisei siamo noi, invitati a riconoscerci in loro. Il problema presentato da questo brano è sempre lo stesso: al centro di tutto poniamo Dio o il nostro io?
Gesù critica gli scribi e i farisei, e noi con loro, perché fanno tutto per essere visti e lodati: "Fanno tutte le loro opere per essere visti dagli uomini" (v.5). Si preoccupano di recitare la parte dell'uomo pio e devoto più che di vivere un sincero rapporto con Dio.
La falsità è abbinata ovviamente a una buona dose di vanità e di orgoglio. In un mondo in cui la religione è tenuta in considerazione le persone religiose acquistano automaticamente la massima reputazione. Esse occupano, quasi per convenzione comune, il posto di onore dovuto a Dio. Difatti gli scribi e i farisei con la loro pietà simulata hanno posti di riguardo nelle sinagoghe e nei conviti, e quando appaiono in pubblico ricevono da ogni parte inchini, ossequi e saluti nei quali vengono scanditi con esattezza i loro titoli onorifici.
Anche i discepoli di Gesù sono esortati a rifuggire da questi comportamenti segnalati nei farisei e negli scribi. I titoli onorifici e le rivendicazioni di potere sono fuori luogo perché essi sono tutti fratelli, figli dello stesso Padre (v.8) e sono guidati dallo stesso Cristo presente in loro (v.10).
Nella comunità cristiana i più grandi sono gli ultimi e l'unico primato che conta è quello dell'abbassamento e del servizio (v.11). In essa non devono nemmeno circolare gli appellativi che indicano distinzione e discriminazione che mettono in evidenza un preteso diritto di controllo e di dominio di alcuni sugli altri. Spesso succede che il nostro Signore, al quale diamo del tu, è predicato da signori ai quali diamo del lei.
Alla fine Gesù deve ricorrere ai comandi (sia vostro servo: v.11) e alle minacce per abbassare chi si era elevato al di sopra degli altri (v.12).
Matteo sta mettendo a confronto due immagini di Chiesa. L'una farisaica, pomposa, appariscente e vuota, dominata da capi avidi di onore e di potere; l'altra cristiana, costituita da amici e da fratelli. Quest'ultima non è anarchica, perché è guidata direttamente da Cristo e dal Padre, di cui tutti sono ugualmente figli. Coloro che vi esercitano funzioni o incarichi sono chiamati a testimoniare con le opere più che con le parole (cfr v.3) la presenza invisibile del Padre, non a sostituirla. Perché egli non è mai assente.
La Chiesa di Cristo è una comunità di uguali, una fraternità che ha come criterio di discernimento il servizio. In essa esiste una diversità di ruoli e di responsabilità, che però devono essere svolti come servizio. Questo stile ha come modello Gesù stesso, il quale è venuto per servire (cfr Mt 20,26).
La logica dei rapporti che deve regolare la comunità cristiana è quella dell'umiltà. La condizione dettata da Gesù: "se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3) è l'atteggiamento esattamente opposto a quello dell'autoesaltazione degli scribi e dei farisei.
Mercoledì 7 Marzo 2012
Mt 20,17-28
Lo condanneranno a morte.
17Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: 18«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte 19e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».
20Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. 21Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di' che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». 22Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». 23Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
24Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. 25Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. 26Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore 27e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. 28Come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Il brano è un contrappunto tra due glorie: quella del Figlio dell’uomo e quella degli uomini. La prima consiste nel consegnarsi, nel servire e dare la vita; la seconda consiste nel possedere, nell’asservire e dare la morte. È una lotta tra l’egoismo e l’amore, dove l’amore vince con la propria sconfitta, e l’egoismo perde con la propria vittoria.
Il racconto è un dialogo di equivoci tra Gesù e i discepoli. Ciò che la madre dei figli di Zebedèo vuole da Gesù non è la Gloria, cioè Dio, ma la vana-gloria, cioè l’avere, il potere e l’apparire.
Il brano si articola in tre parti: la vera gloria del Figlio dell’uomo (vv. 17-19), la cecità dei discepoli che la scambiano con la gloria degli uomini (vv. 20-24) e il confronto tra le due glorie (vv. 25-28).
Questo testo ci prepara al successivo, con il quale fa un tutt’uno: l’illuminazione dei ciechi di Gerico sarà la caduta della vana-gloria, che ci impedisce di ricevere la Gloria.
La rivelazione del Figlio dell’uomo che sale a Gerusalemme è la luce che squarcia violentemente le nostre tenebre e svela ad ogni uomo la vera identità di Dio, la cui gloria è amare, servire e dare la vita.
In questo brano si confrontano e si scontrano il modo di pensare e di agire del mondo e quello di Gesù. L’uno è presentato nel comportamento dei grandi, nella loro volontà di oppressione e di dominio; l’altro è caratterizzato dalla condotta di Gesù, che è venuto per servire e dare la vita per l’umanità.
L’esempio di Gesù deve indurre a un cambiamento di mentalità. L’atteggiamento richiesto da Gesù non nasce spontaneo, non è congeniale all’uomo: richiede una conversione. S. Kierkegaard ha scritto: "Non hai la minima partecipazione a lui (a Cristo), né la più lontana comunione con lui, se non ti sei posto in sintonia con lui nel suo abbassamento".
"Diventare piccoli" è l’atteggiamento contrario a quello degli uomini, assetati di potenza e di grandezza. Gesù si è fatto piccolo fino alla morte di croce (cfr Fil 2,5-11). Tutti ci saremmo aspettati che il Figlio di Dio sarebbe venuto per essere servito e per far morire i peccatori. E invece no. È venuto per servire e per dare la vita in riscatto per tutti.
Le nazioni si organizzano come società, la Chiesa invece è una famiglia in cui non ci sono superiori e sudditi, padroni e subalterni, ma solamente fratelli (cfr Mt 18,15.21.35). Lo spirito di supremazia o di egemonia sui propri simili non è cristiano, ma diabolico (cfr Mt 4,1-11). Qualunque forma di autorità nella Chiesa non deve essere un dominio, una signoria, un potere, ma un servizio. Il Signore lo dice inequivocabilmente: "Chi vuol essere il più grande tra voi, deve essere il vostro servo; e chi vuol essere il primo, deve essere il vostro schiavo" (vv. 26-27). C’è un tale rovesciamento nel modo di intendere le funzioni del governo che la comunità cristiana non sembra ancora averne preso del tutto coscienza.
Il "servizio" è un concetto teologico prima ancora di essere un atteggiamento pratico. Non riguarda prima di tutto un modo umile di esercitare il potere, ma di concepirlo. Il servo non è il responsabile della casa, non ha nessun potere, tanto meno quello di sostituirsi al padrone, prendendo decisioni al suo posto, avocando a sé la responsabilità degli altri. Egli è solo un inserviente che coopera al buon andamento della casa, che non è sua, e per questo non deve considerarla tale. La Chiesa è di Dio, di Cristo (cfr Mt 16,18) che la governa direttamente (cfr Mt 28,18-20), prima che tramite particolari incaricati.
In quanto Dio, Gesù avrebbe potuto pretendere (secondo noi!) un trattamento da "signore", facendosi servire. Ma invece di far valere i suoi diritti sovrani vi ha rinunciato a favore delle moltitudini facendosi loro servo e donando la vita per il loro riscatto, ossia per la loro liberazione da assoggettamenti e schiavitù di qualsiasi genere.
Scegliendo la condizione servile si è proposto di essere più vicino a quanti vivevano in schiavitù e ridare ad essi la coscienza della loro dignità e libertà. Il testo ribadisce l’inno della Lettera ai Filippesi 2,5-7: pur essendo Dio è diventato servo, realizzando con la sua morte in croce il suo servizio. Pur essendo ricco, è diventato povero per arricchire noi (cfr 2Cor 8,9).
La vera grandezza e la libertà autentica è nell’umiltà del servire. Gesù è in mezzo a noi come colui che serve (cfr Lc 22,27; Gv 13,1-17).
Giovedì 8 Marzo 2012
Lc 16,19-31
Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato,
tu invece sei in mezzo ai tormenti.
19C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». 25Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». 27E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento». 29Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». 30E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». 31Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».
Questo brano illustra in forma negativa Lc 16,9: "Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne". È un ammonimento a usare giustamente l’ingiusta ricchezza.
La vita terrena è un ponte gettato sull’abisso tra la perdizione e la salvezza. Lo si attraversa indenni esercitando la misericordia verso i bisognosi.
L’alleanza con il Signore passa sempre attraverso l’amore per il fratello povero (cfr Es 2,20-26; 23,6-11; Lv 5,1-17; ecc.). La Lettera di Giacomo la sintetizza così: "Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo" (1,27).
Il ricco nella Bibbia è l’ateo pratico che ha fatto di sé il centro di tutto e si è messo al posto di Dio. Il povero è colui che attende l’aiuto di Dio: Lazzaro significa "Dio aiuta". Egli non desidera ciò che è necessario al ricco, ma il superfluo. I cani sono più compassionevoli dei ricchi.
La comunità cristiana a cui si rivolgeva Luca aveva bisogno dell’ammonimento che anche Giacomo aveva rivolto ai cristiani: "Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? … Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio" (2,5-7.12-13).
In questa parabola le scene si susseguono come in un film. Le situazioni del povero e del ricco si capovolgono al momento della morte. Essa non livella tutti, come la falce pareggia le erbe del prato, ma li distingue e li divide: il ricco diventa povero e il povero ricco.
Nell’altra vita il ricco diventa mendicante, e le sue richieste rimangono inascoltate come erano rimaste inascoltate da lui quelle di Lazzaro. Egli che mangiava e beveva a piacimento, non dispone neppure di una goccia d’acqua. Al posto dei vari piaceri di cui era ricolma la sua vita, ha il cruccio di un fuoco che lo divora senza ucciderlo.
I "beni" sono stati per lui occasione di rovina, come per Lazzaro i "mali" sono stati motivo di salvezza. L’unica preoccupazione del ricco era concentrata su sé stesso, e per questo aveva lasciato da parte Dio e il prossimo. La ricchezza, che è sempre un dono di Dio all’uomo, può diventare occasione di male. Al contrario la povertà è un bene, perché tiene lontano l’animo dall’egoismo e dai piaceri distrattivi della vita.
L’intento della parabola non è quello di terrorizzare i ricchi senza misericordia e gli atei, ma di esortarli alla misericordia mentre sono ancora in questa vita. La Legge e i Profeti si sintetizzano nel comandamento dell’amore del prossimo (cfr Rm 13,10). Il vero problema è quindi credere alla parola di Dio. Finché siamo vivi siamo chiamati ad ascoltare seriamente il Cristo (cfr Lc 9,35) e ad evitare il comportamento dei farisei che erano attaccati al denaro e ascoltando tutte queste cose si beffavano di Gesù (cfr Lc 16,14).
Solo la parola di Dio che penetra nel profondo dell’uomo ci fa discernere se siamo dei poveri-beati o dei ricchi-infelici.
Venerdì 9 Marzo 2012
Mt 21,33-43.45
Costui è l’erede. Su, uccidiamolo!
33Ascoltate un'altra parabola: c'era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d'angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi?
43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. 45Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro.
Gesù interpella di nuovo i capi del popolo facendo loro capire che è il momento dei frutti, il momento nel quale Dio chiede conto della sua vigna. L’applicazione è chiara: dopo aver rifiutato i profeti, i responsabili d’Israele possono ancora cogliere l’ultima occasione per pentirsi: accogliere il Figlio, l’erede. La parabola presenta la morte del Figlio come un crimine premeditato.
Dopo aver chiesto ai suoi interlocutori di tirare essi stessi le conclusioni della parabola (nel senso di Is 5,5-7), Gesù rende esplicito il loro giudizio. A chi sarà tolto il regno di Dio? Non a Israele, rappresentato dalla vigna, ma ai sommi sacerdoti e ai farisei, i quali "capirono che parlava di loro" (v. 45). E a chi sarà dato questo regno? "A un popolo che lo farà fruttificare" (v. 43). Per Matteo si tratta ancora di Israele, ma trasfigurato attraverso la presenza del Cristo risuscitato che adempie l’alleanza di Dio con gli uomini e fa loro produrre i suoi frutti.
I servitori mandati dal padrone della vigna sono i profeti. Ricordiamo due passi dell’Antico Testamento: "Il Signore inviò loro profeti perché li facessero ritornare a lui. Essi comunicarono loro il proprio messaggio, ma non furono ascoltati" (2Cr 24,19); "Da quando i vostri padri uscirono dal paese d’Egitto fino ad oggi, ho mandato a voi in continuazione tutti i servitori, i profeti. Ma non fui ascoltato e non mi si prestò orecchio; anzi rimasero ostinati e agirono peggio dei loro padri" (Ger 7,25-26). Neemìa 9,26 constata in sintesi: "I tuoi profeti li ammonirono, ma essi li uccisero e commisero grandi iniquità".
Il Messia umiliato e ucciso diventerà, dal giorno della sua risurrezione, la pietra angolare della Chiesa, il suo fondamento incrollabile.
Fin dall’inizio la parabola ha richiamato la nostra attenzione sui frutti. I frutti del regno di Dio coincidono con la fedeltà nell’amore attivo, che è la sintesi della volontà di Dio. Alla fine il giudizio sarà in base ai frutti dell’amore fedele e attivo e non sull’appartenenza a Israele o alla Chiesa.
Sabato 10 Marzo 2012
Lc 15,1-3.11-32
Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita.
1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
Questa parabola rivela il centro del vangelo: Dio come Padre di tenerezza e di misericordia. Egli prova una gioia infinita quando vede tornare a casa il figlio da lontano, e invita tutti a gioire con lui.
Gesù fin dall’inizio mangia con i peccatori (cfr Lc 5,27-32). Ora invita anche i giusti. Attaccato da essi con cattiveria, li contrattacca con la sua bontà, perché vuole convertirli. Ma la loro conversione è più difficile di quella dei peccatori. Non vogliono accettare il comportamento di Dio Padre che ama gratuitamente e necessariamente tutti i suoi figli: la sua misericordia non è proporzionata ai meriti, ma alla miseria. I peccatori a causa della loro miseria sentono la necessità della misericordia. I giusti, che credono di essere privi di miseria, non accolgono la misericordia.
Questo brano è rivolto al giusto perché occupi il suo posto alla mensa del Padre: deve partecipare alla festa che egli fa per il proprio figlio perduto e ritrovato. Questa parabola non parla della conversione del peccatore alla giustizia, ma del giusto alla misericordia.
La grazia che Dio ha usato verso di noi, suoi nemici, deve rispecchiarsi nel nostro atteggiamento verso i nemici (cfr Lc 6,27-36) e verso i fratelli peccatori (cfr Lc 6,36-38). Il Padre non esclude dal suo cuore nessun figlio. Si esclude da lui solo chi esclude il fratello. Ma Gesù si preoccupa di ricuperare anche colui che, escludendo il fratello, si esclude dal Padre.
Nel mondo ci sono due categorie di persone: i peccatori e quelli che si credono giusti. I peccatori, ritenendosi senza diritti, hanno trovato il vero titolo per accostarsi a Dio. Egli infatti è pietà, tenerezza e grazia: per sua natura egli ama l’uomo non in proporzione dei suoi meriti, ma del suo bisogno.
I destinatari della parabola sono gli scribi e i farisei, che si credono giusti. Gesù li invita a convertirsi dalla propria giustizia che condanna i peccatori, alla misericordia del Padre che li giustifica. Mentre il peccatore sente il bisogno della misericordia di Dio, il giusto non la vuole né per sé né per gli altri, anzi, come Giona (4,9), si irrita grandemente con Dio perché usa misericordia.
La conversione è scoprire il volto di tenerezza del Padre, che Gesù ci rivela, volgersi dall’io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato, o dalla presunzione della propria giustizia, alla gioia di esser figli del Padre.
Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre: e questa opinione è comune ai due figli. Il più giovane, per liberarsi del Padre, si allontana da lui con le degradazioni della ribellione, della dimenticanza, dell’alienazione atea e del nihilismo. L’altro, per imbonirselo, diventa servile.
Ateismo e religione servile, dissolutezza e legalismo, nichilismo e vittimismo scaturiscono da un’unica fonte: la non conoscenza di Dio. Questi due figli, che rappresentano l’intera umanità, hanno un’idea sbagliata sul conto del Padre: lo ritengono un padre-padrone.
Questa parabola ha come primo intento di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Questa scoperta è una gioia immensa per il peccatore e una sconfitta mortale per il giusto. È la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio. La conversione consiste nel rivolgersi al Padre che è tutto rivolto a noi e nel fare esperienza del suo amore per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Per accettare il Padre bisogna convertirsi al fratello.
Domenica 11 Marzo 2012 - III DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B)
Gv 2,13-25
Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere
13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà.
18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull'uomo. Egli infatti conosceva quello che c'è nell'uomo.
Nel tempio di Gerusalemme, Gesù si imbatte con mercanti di bestiame e cambiamonete che pensano ai propri interessi, seduti ai loro tavoli. Cambiano ai pellegrini il denaro impuro con l’effigie dell’imperatore con monete riconosciute pure per pagare la tassa annuale del tempio. Questo commercio permesso dalle autorità religiose e dal sommo sacerdote Caifa, per fare concorrenza al mercato gestito dal Sinedrio nei pressi del Cedron, scatena la dura reazione di Gesù, che constata amaramente il carattere profano assunto dalla festa della "Pasqua dei giudei" (v. 13).
L’evangelista ci presenta Gesù come il fustigatore dei vizi e delle azioni malvagie. Il gesto di Gesù va letto alla luce dei testi profetici: "Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e presto entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate" (Ml 3,1), "In quel giorno non vi sarà più nessun mercante nel tempio del Signore degli eserciti" (Zc 14,21). Esso richiama anche i testi profetici nei quali Dio dice di non gradire un culto esteriore fatto di sacrifici di animali e basato sull’interesse personale (Am 5,21-24; Is 11,11-17; Ger 7,21-26). Gesù, con la sua azione seguita dal rimprovero: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato" (v. 16), si colloca in questa tradizione profetica.
Gesù, per la prima volta chiama Dio "il Padre mio" e parla del tempio come della casa del Padre suo. Egli, come Figlio, purifica dalla profanazione del commercio la casa di suo Padre prima di prenderne possesso. Se Dio è Padre, non basta onorarlo con offerte di bestiame e di denaro. Il Padre vuole un culto spirituale e interiore da vivere nell’amore, vuole essere adorato "in spirito e verità" (Gv 4,23).
Alla richiesta di un segno, Gesù risponde promettendo il più grande dei segni, la sua risurrezione: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (v. 19). E l’evangelista precisa: "Ma egli parlava del tempio del suo corpo" (v. 21). Cristo risorto è il nuovo Tempio, il solo luogo della presenza di Dio tra gli uomini, il Tempio dal quale sarebbe scaturita una sorgente di acqua viva (Gv 7,37-39; 19,34).
I discepoli non compresero il significato profondo di questo episodio. Ma dopo la risurrezione di Gesù furono illuminati dallo Spirito su tutto quello che Gesù aveva detto loro "e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù" (v. 22).
Giovanni non ci abbandona presso le rovine del vecchio tempio, ma ci indica il nuovo santuario di Dio. Il Tempio sempre attuale e duraturo è il corpo di Cristo risorto dai morti. Dio appare in un corpo reale, umano, carico di gloria divina. Il Dio-con-noi è per sempre Gesù risorto.
Nel v. 23 si parla per la prima volta della fede delle folle. Si tratta di una fede imperfetta perché fondata sui segni. Gesù è considerato un taumaturgo e un maestro venuto da Dio, ma non l’unico Figlio di Dio. Per Gesù la fede fondata sui segni non è sufficiente; in realtà i giudei non credono realmente, come dirà Gesù stesso (3,12). Giovanni ci informa che Gesù aveva compiuto molti segni a Gerusalemme, ma non ne descrive nemmeno uno.
Gesù non dà credito alla fede dei giudei perché era troppo superficiale. Gesù conosce il cuore di tutti. Anche dopo la moltiplicazione dei pani Gesù sfugge all'entusiasmo della folla (6,14-15) perché queste persone in realtà non credevano in Gesù, ma vedevano in lui un operatore di prodigi che sfamava gratis. " Questa fede non porta né a un fermo legame interiore né alla dedizione di sé stessi. Cesserà di esistere quando finiranno i miracoli; non seguirà Gesù sulla via del Golgota, ma all’inizio di questa via tornerà indietro" (Strathmann).
Lunedì 12 Marzo 2012
Lc 4,24-30
Gesù come Elìa ed Elisèo è mandato non per i soli Giudei.
24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
28All'udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Invece di aprirsi nella fede e lasciarsi coinvolgere nel dono di Dio, i suoi compaesani si bloccano e si irritano. Il messaggio viene accolto, ma il messaggero viene rifiutato. Il rifiuto nasce perché il messaggero pretende di essere ascoltato come inviato da Dio. La patria di Gesù lo rifiuta perché è un cittadino qualunque e non porta prove per sostenere la sua pretesa di essere l'Inviato da Dio.
Gli abitanti di Nazaret vogliono un segno che dimostri che Gesù è veramente il Salvatore promesso; pretendono che Dio dimostri la missione del suo profeta in un modo che piaccia a loro: in altre parole, tentano Dio. Ma l'agire di Gesù non è influenzato da ciò che gli uomini pretendono: fa soltanto ciò che Dio vuole.
Il profeta non agisce di sua iniziativa, ma è a disposizione solamente di Dio che l'ha mandato. Nell'Antico Testamento Dio ha disposto che Elia ed Eliseo non portassero il loro aiuto miracoloso ai loro connazionali, ma a dei pagani stranieri. A Gesù non è concesso di compiere miracoli nella sua città, ma a Cafàrnao. Dio distribuisce la sua salvezza secondo la sua insindacabile volontà, perché la salvezza è grazia e non può essere pretesa per nessun motivo.
Gesù non dà prova di sé con i miracoli; per questo gli abitanti di Nazaret si sentono in diritto, o addirittura obbligati, a condannarlo a morte come bestemmiatore. La punizione della bestemmia si iniziava spingendo all'indietro il colpevole, per mezzo dei primi testimoni, il fino a farlo cadere da un'altura.
Tutta l'assemblea della sinagoga di Nazaret giudica Gesù, lo condanna e cerca di eseguire immediatamente la sentenza. Si preannuncia l'insuccesso di Gesù in mezzo al suo popolo.
Egli verrà escluso dalla comunità del suo popolo, condannato come bestemmiatore e ucciso. Ma l'ora della sua morte non è ancora giunta. Della sua vita e della sua morte dispone Dio.
Nazaret viene abbandonata per sempre. Gesù prende la strada verso altre terre. I testimoni delle sue grandi opere non saranno i suoi concittadini, ma gli estranei, i pagani. Dio può suscitare figli di Abramo dalle pietre del deserto.
Il modo in cui Gesù ha scandalizzato i "suoi" di allora è identico a quello con cui scandalizza i "suoi" di oggi. La tentazione di addomesticare Cristo è di tutti e di sempre, ma Gesù non si lascia intrappolare: o lo si accoglie nel modo giusto o se ne va.
Martedì 13 Marzo 2012
Mt 18,21-35
Se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello, il Padre non vi perdonerà.
21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa». 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Pietro ritiene di entrare ampiamente nello spirito di Gesù perdonando sette volte. Anche i rabbini discutevano questa questione; partendo da Amos (2,4), da Giobbe (33,39) e dalla triplice preghiera di Giuseppe (Gen 50,17) pensavano che si potesse arrivare a perdonare fino a tre volte.
La risposta di Gesù è chiara. Rovesciando il canto di Lamech: "Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette" (Gen 4,24), Gesù svela le risorse insospettate di misericordia generate dall’avvento del regno dei cieli.
Davanti a Dio tutti siamo debitori insolvibili. La parabola di oggi ci insegna che il perdono di Dio è il motivo e la misura del perdono fraterno. Dobbiamo perdonare senza misura perché Dio ci ha perdonato senza misura. Il perdono ai fratelli è segno dell’efficacia del perdono di Dio in noi: se non perdoniamo, non abbiamo accolto realmente il perdono di Dio. Il servo è condannato perché tiene il perdono per sé e non permette che il suo perdono diventi gioia per gli altri. Bisogna imitare il comportamento di Dio (Mt 5,43-48).
Il fondamento del mio rapporto con l’altro è l’imitazione del rapporto che Dio ha con me. Gesù ha detto di amarci a vicenda come lui ha amato noi (Gv 13,34); e Paolo dice di graziarci l’un l’altro come il Padre ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).
La giustizia di Dio non è quella che ristabilisce la parità, secondo la regola: chi sbaglia, paga. È una giustizia superiore, propria di chi ama, che è sempre in debito verso tutti: all’avversario deve la riconciliazione, al piccolo l’accoglienza, allo smarrito la ricerca, al colpevole la correzione, al debitore il condono.
Diecimila era la cifra più grossa in lingua greca e il talento la misura più grande. Diecimila talenti è una cifra enorme. Il talento corrisponde a 36 kg di metallo prezioso. Diecimila talenti corrispondono a 360 tonnellate di oro o di argento. Un talento è pari a 6.000 giornate lavorative; 10.000 talenti è pari a 60.000.000 di stipendi quotidiani. Per pagare questo debito il servo dovrebbe lavorare circa 200.000 anni. La cifra esagerata è in realtà una pallida idea di ciò che Dio ci ha dato.
Cento danari corrispondono allo stipendio di cento giornate lavorative. Una cifra discreta, ma del tutto trascurabile rispetto al debito appena condonato di diecimila talenti.
Pensare al proprio debito condonato ci rende tolleranti verso gli altri e magnanimi. Perdonare è una questione di cuore: è ricordare l’amore che il Padre ha per me e per il fratello.
Mercoledì 14 Marzo 2012
Mt 5,17-19
Chi insegnerà e osserverà i precetti, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Gesù adempie le Scritture realizzando nella sua persona ciò che esse dicevano di lui. L'adempimento della Legge da parte di Gesù non è di ordine puramente dottrinale: è l'impegno stesso della sua vita e della sua morte.
Egli non è venuto per frustrare le attese dell'Antico Testamento, ma per realizzarle: non vuota la Legge del suo contenuto, ma la riempie fino all'ultimo livello, portandola fino alla sua più alta espressione.
Gesù non è un avversario di Mosè, ma non è nemmeno un suo discepolo; è al contrario il vero legislatore che Dio ha inviato agli uomini di tutti i tempi, di cui Mosè era solo un precursore.
Alla venuta del Messia, Mosè è invitato a scomparire (cfr Mt 17,8). La Legge era incompleta non perché non esprimesse la volontà di Dio, ma perché la esprimeva in un modo imperfetto e inadeguato. Anche i minimi dettagli della Legge conservano il loro eterno valore, soprattutto se la Legge è quella rinnovata da Cristo (v.18).
Gesù compie la Legge, che manifesta la volontà del Padre, amando i fratelli. L'amore non trascura neanche un minimo dettaglio, anzi manifesta la propria grandezza nelle attenzioni minime.
Le realtà più solide, il cielo e la terra, potranno cadere ma non cadrà un iota, cioè la particella più piccola della Legge, finché non sia attuata. Non si tratta di salvaguardare l'adempimento del codice fin nelle sue minime prescrizioni, ma di comprenderne il profondo contenuto che sopravvive nel Vangelo: l'amore. Con la proclamazione del Vangelo l'Antico Testamento non finisce, ma si attua nel Nuovo.
Giovedì 15 Marzo 2012
Lc 11,14-23
Chi non è con me è contro di me.
14Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. ascolta mp315Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». 16Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in sé stesso va in rovina e una casa cade sull'altra. 18Ora, se anche Satana è diviso in sé stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. 19Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. 20Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio.
21Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. 22Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. 23Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde.
È lo Spirito Santo che ci libera dallo spirito maligno. Nel capitolo quarto del vangelo di Luca avevamo letto: "Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo? Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per tornare al tempo fissato" (Lc 4,1.13). La lotta che Gesù condusse contro satana nel deserto, ora continua. La sua forza è lo Spirito del Padre. Di fronte a questi due contendenti, ognuno deve schierarsi. Non è possibile rimanere neutrali (cfr v. 23).
Le tentazioni che Gesù subì nel deserto ritornano continuamente durante la sua vita. Il diavolo e i suoi amici chiedono sempre e monotonamente la stessa cosa: un segno dal cielo (v. 16). E Dio dà i suoi segni: non quelli della potenza, ma quelli dell'umiltà. Il segno di Dio è il segno della Croce. Non può darne uno più grande. Là infatti dona tutto sé stesso e si rivela come amore infinito e incondizionato per noi.
Vincere lo spirito del male è il primo obiettivo della missione di Gesù (cfr Lc 10,18) per donare all'uomo il suo Spirito di Figlio. Ogni vittoria sullo spirito di menzogna e di egoismo si ottiene solo con la forza dello Spirito di verità e di vita (cfr Lc 9,49-50).
Satana ha vinto ogni uomo nel primo uomo, Adamo. Da allora egli è "l'uomo forte, bene armato" (v. 21) che fa la guardia ai suoi possedimenti, che sono tutti i regni della terra (cfr Lc 4,6). Gesù è "il più forte" (cfr Lc 3,16) preannunciato da Giovanni il Battista. Egli viene dall'alto come sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte (cfr Lc 1,78-79). La sua vittoria è automatica, come quella della luce sull'oscurità. Ad essa può sottrarsi solo chi chiude gli occhi nella cecità volontaria (cfr Gv 9,41). Gesù spoglia satana di tutte le sue armi, che sono quelle dell'avere, del potere e dell'apparire, quando more, spogliato di tutto, sulla croce. In questo modo restituisce all'uomo ciò che il demonio gli aveva tolto: la sua vera identità di immagine di Dio e la sua realtà di figlio di Dio.
Lo stare con Gesù è la caratteristica della nostra vita presente (cfr Lc 8,2; Mc 3,4) e della nostra vita futura (cfr 1Ts 4,17). Chi non è con Gesù è con il diavolo. Non esiste una terza posizione, una terza possibilità.
Venerdì 16 Marzo 2012
Mc 12,28-34
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore: lo amerai.
28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è:Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come sé stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
La domanda che lo scriba pone a Gesù non è oziosa. Data la molteplicità delle prescrizioni della legge (se ne contavano 613, ripartite in 365 proibizioni - quanti sono i giorni dell'anno - e 248 comandamenti positivi, quante si credeva fossero le parti del corpo umano), ci si poteva legittimamente interrogare sul loro valore e chiedersi quale fosse il comandamento più grande.
La risposta di Gesù che pone nell'amore di Dio e del prossimo il centro della legge, non è una novità assoluta: lo insegnavano anche i rabbini di allora. La novità consiste nell'avere unificato il testo del Dt 6,4-5 con il testo del Lv 19,18. Ma per cogliere questo centro sono necessarie due precisazioni. La Bibbia insegna che il nostro amore per Dio e per il prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale tutto resterebbe incomprensibile: l'amore di Dio per noi. Qui è l'origine e la misura del nostro amore. L'amore dell'uomo nasce dall'amore di Dio e deve misurarsi su di esso. E qui si inserisce la seconda precisazione: chi è il prossimo da amare? La Bibbia risponde: ogni uomo che Dio ama, cioè tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, perché Dio si è rivelato in Gesù come amore universale.
La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. Il nostro amore per lui è la via per la nostra divinizzazione, perché uno diventa ciò che ama. Chi risponde a questo amore passa dalla morte alla vita, mentre chi non ama Dio e il prossimo rimane nella morte (1Gv 3,14). Dio è amore più forte della morte (Ct 8,6). La sua fedeltà dura in eterno (Sal 117,2). Quando noi moriamo, egli ci ridà la vita. "Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri" (Ez 37,13). Dio ha creato tutto per l'esistenza, perché è un Dio amante della vita (cfr Sap 1,14; 11,26).
L'amore per l'uomo non è in alternativa a quello per Dio, ma scaturisce da esso come dalla sua sorgente. Si ama veramente il prossimo solo quando lo si aiuta a diventare sé stesso, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è quello di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come sé stesso. Alla luce di questa verità, dobbiamo rivedere radicalmente il nostro modo di amare: molto del cosiddetto amore, che schiavizza sé e gli altri, è una contraffazione dell'amore, è egoismo. Quanta purificazione, quanta grazia di Dio occorrono perché l'amore sia vero amore!
Sabato 17 Marzo 2012
Lc 18,9-14
Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo.
9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
In questo brano abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo che sta davanti al proprio io. Egli è sicuro della sua bontà, giustifica sé stesso e condanna gli altri. Dall'altra il pubblicano che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca il perdono.
Il fariseo non sta davanti a Dio, ma a sé stesso, non parla con Dio, ma con sé stesso. La sua preghiera non è un dialogo, ma un monologo. Essa sembra un ringraziamento a Dio, ma in realtà è una strumentalizzazione di Dio per il proprio autocompiacimento. Egli si appropria dei doni di Dio per lodare sé stesso invece del Padre e per disprezzare i fratelli invece di amarli.
Se la preghiera non è umile, è una separazione diabolica dal Padre e dai fratelli. È lo stravolgimento massimo: in essa si usa Dio per cercare il proprio io. È il peccato allo stato puro.
Il fariseo accusa gli altri di essere rapaci proprio mentre lui sta cercando di appropriarsi della gloria di Dio. Accusa gli altri di essere ingiusti, ossia di non fare la volontà di Dio, mentre lui trasgredisce il più grande dei comandamenti: l'amore per Dio e per il prossimo. Accusa gli altri di essere adulteri mentre lui si prostituisce all'idolo del proprio io, invece di amare Dio.
La religiosità che egli vive è solo esteriore; dentro c'è presunzione, ma anche molta grettezza, cattiveria, arroganza che lo spinge a giudicare con disprezzo il fratello peccatore che ha preso posto in lontananza.
Matteo scrive che i farisei assomigliano ai sepolcri imbiancati, belli all'esterno, ma pieni di putridume all'interno(23,27). All'esterno il fariseo è un perfetto credente, ma, dentro, i suoi pensieri e i suoi sentimenti sono totalmente diversi da quelli di Dio, che ama tutti indistintamente e in primo luogo i peccatori.
Il nostro fariseismo esce proprio tutto e bene quando preghiamo. La preghiera è lo specchio della verità: ci fa vedere che abbiamo dentro tutto il male che vediamo negli altri. Non c'è preghiera vera senza umiltà, e non c'è umiltà senza la scoperta del proprio peccato, anche del peggiore: quello di considerarsi giusti.
La preghiera del pubblicano è quella dell'umile: penetra le nubi (cfr Sir 35,17). È simile a quella dei lebbrosi e del cieco (cfr Lc 17,13; 18,38); è la preghiera che purifica e illumina. È una supplica con due poli: la misericordia di Dio e la miseria dell'uomo. L'umiltà è l'unica realtà capace di attirare Dio: fa di noi dei vasi vuoti che possono essere riempiti da Dio.
La fede che giustifica viene dall'umiltà che invoca la misericordia. La presunzione della propria giustizia non salva nessuno. Il giusto non è giustificato finché non riconosce il proprio peccato.
Senza umiltà non c'è conoscenza vantaggiosa né di sé né di Dio, e si rimane sotto il dominio del maligno.
Se il peccato è la superbia e il peccatore è il superbo, l'umiltà che il vangelo richiede ad ogni credente è quella di riconoscere la propria umiliante realtà di fariseo superbo.
L'autore dell'Imitazione di Cristo sintetizza perfettamente l'insegnamento di questa parabola: "A Dio piace più l'umiltà dopo che abbiamo peccato che la superbia dopo che abbiamo fatto le opere buone".
Domenica 18 Marzo 2012 - IV DOMENICA DI QUARESIMA - LÆTARE (ANNO B)
Gv 3,14-21
Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.
19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gesù è l'unico rivelatore delle cose del cielo. Egli, pur continuando ad avere la sua dimora nel Padre, si è fatto uomo per comunicare agli uomini la vita di Dio. Questo mistero di abbassamento e di rivelazione sarà compiuto sulla croce, quando Gesù sarà innalzato nella gloria, perché "chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (v.15). Allora l'umanità potrà comprendere l'evento scandaloso e sconcertante della salvezza per mezzo della croce e guarire dal suo male, come gli ebrei un tempo nel deserto guarirono dai morsi dei serpenti velenosi guardando il serpente di bronzo che Mosè aveva fatto innalzare come segno di vita (Nm 21, 4-9).
Anche allora tuttavia non era il serpente di bronzo che salvava, ma come scrive il libro della Sapienza, 17,7: "Chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti". Bisogna sempre oltrepassare le apparenze del segno e guardare con fede alla misericordia e alla potenza di Dio. La salvezza è sottomettersi a Dio e rivolgere lo sguardo al Cristo crocifisso. Questo è il vero atto di fede che ci comunica la vita eterna (cfr Gv 19,37).
La nuova vita generata in noi dallo Spirito è esposta quotidianamente ai morsi del serpente, il diavolo. Il rimedio contro il peccato e la morte è il Cristo morto sulla croce. La fonte della salvezza e della vita eterna è l'amore del Padre che ci dona il Figlio per distruggere il peccato e la morte.
I vv.16-17 esprimono molto bene il carattere universale della salvezza operata dal Cristo, che trova la sua origine nell'iniziativa misteriosa dell'amore di Dio per gli uomini. Il fatto che il Padre ha mandato a noi il suo Figlio per salvarci è la più alta manifestazione di Dio che è Amore (cfr 1Gv 4,8-16).
La missione di Gesù è quella di portare agli uomini la salvezza: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chi crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (v.16). La scelta fondamentale dell'uomo è questa: accettare o rifiutare l'amore del Padre che si è rivelato in Cristo. Questo amore non giudica e non condanna il mondo, ma lo salva: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (v.17).
Il giudizio è un fatto attuale: avviene nel momento in cui l'uomo si incontra con Cristo. Chi crede, aderendo esistenzialmente alla persona di Gesù, non è giudicato; chi lo rigetta è già giudicato e condannato, perché ha rifiutato questa persona divina. Chi accetta Gesù evita la perdizione e ottiene la vita, chi invece lo rifiuta è già condannato, perché si autoesclude dalla salvezza eterna.
Il giudizio di condanna avviene nel momento in cui gli uomini rifiutano la luce, preferendo le tenebre. Questo giudizio presente non esclude però il giudizio finale nell'ultimo giorno: chi crede in Gesù non va incontro al giudizio (v.24), ma i malvagi risorgeranno, nell'ultimo giorno, per il giudizio di condanna (v.29).
Le opere del mondo sono malvagie perché ispirate dal maligno. In realtà il mondo è completamente in balìa del maligno se non va verso Gesù. La radice di queste opere maligne è l'incredulità. Chi è sotto l'influsso del maligno odia Gesù, luce del mondo, e non vuole aderire alla sua persona perché aderisce al demonio.
"Chi fa la verità" (v.21) è l'opposto di "chi fa il male". Fare la verità è assimilare la rivelazione di Gesù. La fede in Gesù è un dono del Padre e ha come scopo la vita di comunione con Dio. Le opere del discepolo sono fatte in Dio (v.21) perché hanno la loro origine nel Padre: Dio è l'origine e il fine della vita di fede.
Lunedì 19 Marzo 2012 - SAN GIUSEPPE
Mt 1,16.18-21.24
Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore.
16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa;
Nella genealogia, Matteo dava la sua visione teologica del susseguirsi delle generazioni; ora prosegue questa sua concezione. Si tratta, secondo lui, non di analizzare i problemi psicologici di Giuseppe e di Maria, ma di scoprire il ruolo e la missione di Giuseppe dal punto di vista di Dio. Notiamo che per Matteo il concepimento del bambino per opera dello Spirito Santo è dato acquisito fin dal v. 18; il testo suggerisce che sia noto a Giuseppe.
Qual è il ruolo di Giuseppe? Il v. 19 ci fa sapere che era un uomo "giusto". Egli si preoccupa non della virtù della fidanzata (il testo di Matteo lo colloca su un altro piano), ma del suo rapporto con questo bambino e della missione che gli incombe a suo riguardo. Certo, è detto "giusto" nel senso che prende nei riguardi di Maria "una decisione di clemenza, che non rivela soltanto la sua saggezza e la padronanza di sé, ma anche una benevolenza piena di generosa misericordia e di magnanimità" (C. Spicq); ciò è vero a un primo livello di lettura. Ma per Matteo, preoccupato di cogliere l'aspetto teologico delle cose, Giuseppe è detto "giusto" perché sintetizza nella sua persona l'atteggiamento dei "giusti" dell'AT, nel senso di Noè che "cammina con Dio" (cfr Gen 6, 9; Sir 44, 17; Eb 11, 7), o nel senso di Abramo che "credette in Dio, che glielo accreditò come giustizia" (Gen 15, 4-6). Il paragone tra Giuseppe ed Abramo trova il suo fondamento nel sorprendente parallelo tra Mt 1,20-21 e Gen 17,19.
Non si tratta quindi di quella "giustizia secondo la legge" che autorizza a ripudiare la propria moglie, tanto più che nessuna legge obbliga a ripudiare una fidanzata presunta adultera. Qui è questione della "giustizia" religiosa, che chiede a Giuseppe di rispettare in Maria l'opera di Dio e del suo Spirito, e gli impedisce di attribuirsi i meriti di un'azione divina: di sua iniziativa, Giuseppe, non ritiene di poter prendere presso di sé una persona che Jahvé si è riservata. Poiché lo sposo ha autorità sulla propria sposa, Giuseppe si ritira di fronte a Dio, rinunciando a divenire lo sposo di Maria e il padre del bambino; per questo decide di rinviare segretamente la fidanzata, all'insaputa della gente. Giuseppe è giusto di una "giustizia" che scopriremo nel vangelo: il discorso della montagna, soprattutto il cap. 5, costituirà un punto di riferimento importante in questa scoperta.
A questo punto del racconto (v. 20) ecco che un "angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe". Dio fa sapere a Giuseppe che ha bisogno di lui. Dio dà a Giuseppe il potere di trasmettere il "nome" e di introdurre legalmente il bambino nella discendenza di Davide; Gesù verrà designato così come 'figlio di Davide" (v. 1). Per un ebreo, il "nome" ha un grande valore, perché designa la realtà stessa della persona. Giuseppe dà a Gesù il suo "nome", cioè la sua esistenza concreta di uomo (1, 21.25). La gente riconoscerà in Gesù il "Dio con noi", l'Emmanuele (Is 7, 14). Matteo ci rimanda già, per mezzo di una grandiosa inclusione, alla fine del suo vangelo: "Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28, 20).
Martedì 20 Marzo 2012
Gv 5,1-16
All’istante quell’uomo guarì.
1 Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». 7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l'acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». 8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9aE all'istante quell'uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.
9bQuel giorno però era un sabato. 10Dissero dunque i Giudei all'uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l'uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell'uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.
Gesù per la seconda volta sale a Gerusalemme in occasione di una festa ebraica non precisata. L'ambiente dove si svolge il miracolo è presso la porta delle pecore, un luogo riservato agli agnelli destinati ai sacrifici del tempio. Una piscina con cinque portici, accoglieva costantemente sul suo bordo "un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici" (v.3).
La piscina di Betzatà conserva resti di un culto pagano a divinità guaritrici. In questo luogo ci sono chiari segni di culto al Dio Asclepios-Serapis. L'attesa del moto dell'acqua ad opera di un angelo è forse il residuo di una leggenda popolare. Il movimento dell'acqua poteva essere il travaso da una vasca all'altra, o l'acqua che usciva a intermittenza dalla sorgente. L'angelo indicherebbe un incaricato al culto del Dio Asclepios.
Anche in questo caso è Gesù che prende l'iniziativa. Egli è presentato come padrone della salute e può guarire dalle malattie anche più gravi. La sua parola è tanto potente da produrre immediatamente la guarigione. Cristo è il vero guaritore di tutto l'uomo. In particolare il prodigio mette in luce che Gesù è il Salvatore dei più deboli, dei più abbandonati e trascurati da tutti.
Gesù guarendo di sabato imita la condotta del Padre, il quale opera continuamente, anche di sabato (Gv 5,17). Secondo Gesù "il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato" (Mc 2,27-28). Egli contesta le tradizioni umane che sono in contrasto con la carità.
Alcuni esegeti vedono nell'acqua della piscina di Betzatà un'allusione alla legge mosaica che non può guarire, in contrasto con le parole di Gesù che invece guariscono. Scrive Loisy: "L'acqua di Betzatà, come il battesimo di Giovanni, raffigura il regime della legge, e il caso del paralitico è destinato a mostrare che questo regime non porta alla salvezza. Vi è una paralisi inveterata che Gesù solo può guarire; egli solo infatti rigenera l'umanità con il dono della vita eterna".
Altri esegeti scoprono nei cinque portici della piscina una raffigurazione dei cinque libri della legge mosaica, mentre l'infermo che da trentotto anni attende la guarigione sarebbe tipo di quanti cercano invano la salvezza nella legge. Scrive Braun: "La cifra di trentotto anni verosimilmente è simbolica. Vi è una buona ragione di accostarla ai trentotto anni durante i quali, secondo Dt 2,15, gli israeliti avevano errato nel deserto, prima di giungere alle frontiere della terra promessa".
La guarigione dell'uomo infermo da trentotto anni, compiuta da Gesù, non è tanto un'opera di misericordia, quanto il manifestare l'opera di salvezza di Dio stesso, del Padre suo, attraverso la grazia del perdono e della salvezza.
Mercoledì 21 Marzo 2012
Gv 5,17-30
Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole.
17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch'io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.
19Gesù riprese a parlare e disse loro: «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da sé stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. 20Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. 21Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole. 22Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, 23perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato.
24In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. 25In verità, in verità io vi dico: viene l'ora - ed è questa - in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in sé stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell'uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
Per la tradizione rabbinica, solo Dio era dispensato dal riposo del sabato. Infatti, poiché l'uomo nasce e muore anche in giorno di sabato, Dio deve sempre dare la vita e giudicare. Egli, in questo giorno, non può rimanere inattivo, senza guidare la storia e il destino degli uomini, altrimenti il mondo avrebbe fine e sfuggirebbe al suo controllo. Questo è il senso della difesa che Gesù pronuncia davanti ai giudei: egli, come Figlio di Dio, ha gli stessi diritti divini del Padre. Va notato che il verbo operare è usato al presente e in senso assoluto sia per il Padre che per il Figlio, e indica uguaglianza e unica coordinazione nell'operare.
Circa la controversia sul sabato, dunque, Giovanni chiarisce che la discussione di Gesù non verte tanto sulla relatività della legge del riposo, ma sulla sua personale autorità, che è superiore all'osservanza del precetto. Egli intende far riscoprire il senso profondo e teologico del sabato, riproponendo il valore di Dio e della salvezza. Se Gesù opera in giorno di sabato è perché egli, che è Figlio di Dio, è in relazione col Padre e ne segue l'agire. Come il Padre è superiore al sabato e può lavorare anche in questo giorno, anzi può operare sempre, così Gesù, essendo uguale al Padre (v.18), è padrone del sabato e può affermare: "Il Padre mio opera continuamente e anch'io opero" (v.17). Per Gesù, dare la vita e la libertà interiore all'uomo, non è trasgredire il sabato, ma realizzarlo in pienezza secondo la volontà del Padre.
Gesù è il Figlio del Padre, l'inviato per la salvezza dell'uomo, colui che compie la stessa attività di Dio, incarnandone la volontà e il progetto. Essere con Gesù è essere con Dio. Agire contro Gesù è agire contro Dio.
Ascoltare la parola di Gesù e credere nel Padre sono due atteggiamenti religiosi che conducono l'uomo alla fede. Credere in Gesù e nel Padre vuol dire accettare il messaggio di Dio, il suo piano di salvezza per l'uomo; è possedere la vita eterna, perché per mezzo della parola del Figlio, l'uomo entra in comunione col Padre e, quindi, nella vita divina. La strada da seguire per giungere alla vita eterna è unica: dall'ascolto alla fede, e dalla fede alla vita.
Tutti gli uomini morti spiritualmente per il peccato sono in grado di udire la voce del Figlio di Dio, ma solo quelli che ascoltano, aprendosi alla dinamica della fede, possono entrare nella vita.
Oltre il potere di dare la vita, il Figlio dell'uomo ha nelle mani anche il potere del giudizio. Tutti, alla fine dei tempi, udranno la voce del giudice universale, e i morti, uscendo dalle loro tombe, riceveranno il premio o il castigo secondo le opere di bene o di male compiute. Coloro che avranno scelto il bene e l'amore, risorgeranno per la vita, coloro che avranno scelto il male e le tenebre, risorgeranno per la condanna. In questo giudizio Gesù avrà un solo criterio di valutazione: la volontà del Padre.
Giovedì 22 Marzo 2012
Gv 5,31-47
Vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza.
31Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. 32C'è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. ascolta mp333Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce.
36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.
41Io non ricevo gloria dagli uomini. 42Ma vi conosco: non avete in voi l'amore di Dio. 43Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. 44E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall'unico Dio?
45Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. 46Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. 47Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
A sostegno della sua missione divina Gesù presenta quattro testimoni: il Battista, le proprie opere, il Padre, le Scritture.
Anzitutto Gesù si appella alla testimonianza di Dio, espressa prima in un personaggio misterioso e senza nome (v.32) e poi ripresa in seguito, in forma esplicita, con l'appellativo di Padre (vv.37-38).
Gesù fa appello alla testimonianza del Padre: essa è vera, forte, inoppugnabile, incontestabile. L'uomo può ingannarsi nei suoi giudizi, Dio no.
Il Battista ha reso testimonianza a Cristo che è la verità (Gv 14,6). Gesù non ha bisogno di una testimonianza umana; si è appellato alla testimonianza del Battista solo per favorire la salvezza dei suoi interlocutori. La testimonianza del Battista ha avuto lo scopo di favorire la fede di tutti, soprattutto dei giudei (Gv 1,7). Il Battista ha preparato e favorito la rivelazione di Gesù a Israele (Gv 1,31).
Le autorità religiose di Gerusalemme vollero essere illuminate dalla parola del Battista, e per tale ragione gli mandarono un'ambasceria (Gv 1,19ss). Ma purtroppo non accettarono la sua testimonianza; non vollero riconoscere Gesù come Messia e Figlio di Dio, nonostante la proclamazione chiara ed esplicita del Battista (Gv 1,29ss).
Dopo aver citato in suo favore la testimonianza del Battista, Gesù ne porta una maggiore: le opere che compie. Tra esse occupa un posto di primo piano la risurrezione dei morti.
I giudei non hanno mai sperimentato la presenza visibile di Dio e non sono in comunione con lui, perché non credono nel suo inviato. L'esperienza di Dio si concretizza nella dimora della sua parola nel cuore dell'uomo. Dio ha reso e continua a rendere testimonianza al Figlio suo nel cuore di ogni uomo. Solo chi accoglie la parola di Dio in sé, accoglie la testimonianza del Padre.
Dopo la testimonianza del Padre, Gesù si appella alla testimonianza delle Scritture. L'Antico Testamento deve fornire la fede in Gesù, perché parla di lui. "La legge era uno strumento di preparazione. Coloro che la capivano veramente, coloro che per mezzo di essa entravano nel disegno di Dio e vi corrispondevano meglio che potevano, erano guidati verso il termine voluto dal Padre, Gesù Cristo, nel quale solo è offerta la vita eterna" (Giblet). I giudei che studiavano le Scritture avrebbero dovuto essere le persone più preparate ad accogliere Gesù. Ma purtroppo i giudei non vogliono credere in Gesù.
A differenza dei giudei che ricevono gloria gli uni dagli altri, e perciò non possono credere, Gesù non riceve gloria dagli uomini, non cerca il loro plauso. L'amore dei giudei per la gloria umana è l'amore dell'uomo per la falsa grandezza. Gli avversari sono ostinati nella mancanza di fede perché amano più la gloria degli uomini che quella di Dio (cfr Gv 12,43). Questi increduli ostinati avranno come accusatore il loro stesso profeta, Mosè, perché essi non credono neppure ai suoi scritti.
I giudei che non credono in Gesù, non credono neppure in Mosè, non sono veri figli di Abramo, ma sono discendenti del diavolo (cfr Gv 8,39-44): la loro mancanza di fede smentisce la venerazione che dicono di avere verso questi padri del popolo eletto.
Mosè ha scritto di Gesù: egli è il centro delle Scritture; la Legge e i Profeti parlano di lui (cfr Gv 1,45) e gli rendono testimonianza (Gv 5,39). I nemici di Gesù non credono agli scritti di Mosè: a maggior ragione non possono credere alle parole del Figlio di Dio. Rifiutando Cristo, i giudei dimostrano di non credere neppure in Mosè.
Gesù accusa i giudei di non credere nella sua persona divina perché non cercano la gloria di Dio, ma la propria (Gv 5,44). La condotta dei giudei è un ammonimento anche per noi perché non ci serviamo della religione per il nostro prestigio o tornaconto umano. Lo zelo religioso può essere talvolta un'occulta sublimazione del nostro orgoglio: ci serviamo di Dio invece di servire Dio.
La Chiesa, come Cristo, non deve cercare la gloria umana: "Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza... La Chiesa non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì a diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione" (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, 8).
Venerdì 23 Marzo 2012
Gv 7,1-2.10.25-30
Cercavano di arrestare Gesù, ma non era ancora giunta la sua ora.
1 Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo.
2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne.
10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto.
25Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? 26Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». 28Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato».
30Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora.
La Festa delle Capanne nel Nuovo Testamento è ricordata solo qui. Si celebrava all'inizio dell'autunno; durava una settimana. In essa si ringraziava il Signore per i raccolti dei campi, e si invocava la pioggia. Durante questa settimana festiva i giudei vivevano nelle capanne, costruite nelle piazzette e sui terrazzi di Gerusalemme, per ricordare il soggiorno degli ebrei nel deserto durante l'esodo. Inoltre si celebravano processioni dalla fontana di Sìloe, dove si attingeva l'acqua, fino al tempio. Infine si dava molta importanza all'illuminazione notturna del tempio.
Solo dopo la partenza dei suoi parenti, Gesù si reca a Gerusalemme, in forma privata Egli ha rifiutato la suggestione tentatrice dei parenti di far mostra di sé, di dare spettacolo. L'ingresso trionfale del Messia in Gerusalemme è riservato ad altro tempo, quando giungerà la sua ora (cfr Gv 12,12ss).
Gli abitanti di Gerusalemme sono al corrente del disegno omicida dei capi, per questo si meravigliano che Gesù parli liberamente in pubblico. Essi conoscono bene la teologia messianica e sanno che l'origine di Gesù dalla Galilea è una prova decisiva per escludere la sua messianicità. Ma l'origine di Gesù è un autentico mistero. Nonostante la sua apparente origine dalla Galilea, la patria terrena di Gesù è la Giudea; inoltre la fonte della sua vita e della sua missione non è un uomo, ma Dio.
Gesù riprende, a voce alta e con linguaggio ironico, le precedenti espressione degli abitanti di Gerusalemme sulla loro conoscenza della sua identità e della sua origine. Questi giudei sono molto sicuri della loro scienza, ma vivono nella più completa ignoranza della vera natura di Gesù. In questo contesto Gesù insinua la sua origine divina, proclamando di non essere venuto da sé, ma di essere stato inviato dal Verace. Colui che ha mandato Gesù è verace, cioè non inganna e si rivela in modo autentico nel suo inviato. Questa persona verace purtroppo non è conosciuta dai giudei; anche se si considerano figli di Dio, essi sono figli del diavolo omicida (cfr Gv 8,39-44) perché compiono le opere del padre loro cercando di uccidere Gesù.
L'ignoranza di Dio e del suo inviato da parte dei nemici di Gesù è una tragica realtà, riconosciuta anche nei discorsi dell'ultima cena (cfr Gv 16,3; 17,25).
I nemici di Gesù non possono catturarlo perché non è ancora giunto il tempo della sua morte e risurrezione.
Sabato 24 Marzo 2012
Gv 7,40-53
Il Cristo viene forse dalla Galilea?
40All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». 41Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? 42Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?». 43E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. 44Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui.
45Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». 46Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». 47Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? 48Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? 49Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». 50Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: 51«La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». 52Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». 53E ciascuno tornò a casa sua.
La parola "Cristo" indica il "consacrato" di Dio, che avrebbe realizzato le attese definitive del popolo di Dio, portando la pace e la pienezza dei beni della salvezza.
Non tutti gli ascoltatori di Gesù vedono in lui il Cristo: alcuni ritengono impossibile tale riconoscimento per la sua provenienza dalla Galilea: la Scrittura infatti è molto esplicita a questo riguardo (cfr Gv 7,41-42).
Nella scena finale di questo capitolo, i sommi sacerdoti e i farisei argomentano allo stesso modo. La sentenza dei capi: "Dalla Galilea non sorge profeta" (v.52) chiude l'ultimo atto di questo dramma sull'origine del Messia.
In Gv 7,30 vi era già stato un tentativo per arrestare Gesù; esso però era andato a vuoto perché non era ancora giunta l'ora della sua passione e risurrezione. Anche in 7,44 il tentativo dei giudei non riesce.
La risposta delle guardie mette in risalto il fascino che emanava da Gesù. Nella loro semplicità questi uomini sono presi da stupore e da ammirazione per le parole di Gesù. I farisei invece reagiscono con stizza e manifestano apertamente la loro animosità e il loro accecamento. Per essi Gesù è un seduttore che abbindola la gente ignorante (cfr Gv 7,12; Mt 27,63).
L'arroganza dei farisei raggiunge il colmo quando considera maledetto il popolo che non conosce la Legge: si trattava di contadini, di analfabeti, di servi. Questo disprezzo dei dotti per gli ignoranti e gli umili è bene documentato negli scritti giudaici.
Non tutti i capi però condividevano questo atteggiamento ostile dei sommi sacerdoti e dei farisei. Nicodemo dissentì dal giudizio dei suoi colleghi ed ebbe il coraggio di prendere le difese di Gesù appellandosi alla legge mosaica. Nella Legge è prescritto di ascoltare le cause di tutti i fratelli senza avere riguardi personali (Lv 19,15; Dt 1,16-17) e di indagare con diligenza per evitare false testimonianze (Dt 19,15-20). I capi del popolo reagiscono alla contestazione di Nicodemo circa la legalità del loro atteggiamento e lasciano trasparire sdegno e irritazione.
In merito all'origine del Messia la Scrittura è chiara: il Cristo è un discendente di Davide (2Sam 7,12-16; Is 11,1-2; Ger 23,5-6; 33,15; Sal 89,5. 37) e deve sorgere da Betlemme di Giudea (Mi 5,1). Quindi il profeta di Nazaret non poteva essere assolutamente il Messia.
Giovanni ora può chiudere questa parte dello scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, facendoci capire che la vita di Gesù è ormai volta verso l'epilogo della croce.
Domenica 25 Marzo 2012 - V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO B)
Gv 12,20-33
Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto.
20Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
L'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme fu notato non solo dai giudei e dai farisei, ma anche da un gruppo di greci, saliti a Gerusalemme per celebrare la Pasqua. Si tratta di incirconcisi, simpatizzanti dell'ebraismo. Questi pii pagani vogliono vedere Gesù. Per incontrare il Maestro si servono della mediazione di Filippo. Gesù, informato del desiderio dei greci, esclama: "È venuta l'ora che sia glorificato il figlio dell'uomo" (v.23). L'"ora" di Gesù indica il tempo della sua glorificazione con la passione, morte e risurrezione.
La glorificazione del figlio dell'uomo è spiegata con il paragone della sorte del chicco di grano che per portare frutto deve morire. La glorificazione di Cristo avviene mediante la sua morte e sepoltura. Il seme per poter fruttificare deve morire sotto terra. Il chicco che non volesse morire è destinato alla sterilità. Il Cristo fu sepolto nella terra per risorgere, essere esaltato e attirare tutti a sé (v.32). La fecondità salvifica di Gesù deriva dall'accettazione del disegno divino che ha posto la sua glorificazione in dipendenza della sua passione e morte.
L'amore per la propria vita, l'esagerato attaccamento alla vita, per cui per salvarsi si è disposti a rinunciare a tutti i valori, anche a quelli divini, è causa di perdizione. La disponibilità a morire per una causa superiore, quale è Cristo e il suo regno, è fonte di salvezza eterna. Gesù "odia" la sua anima in questo mondo, ossia è disposto a rinunciare alla vita terrena, per portare molto frutto, cioè per attirare a sé tutti gli uomini, compresi i pagani, rappresentati da questi greci che desiderano vederlo. Il suo discepolo fedele deve seguirlo su questa strada per essere dove l'ha preceduto Cristo. Nella casa del Padre (Gv 14,1-3).
La precedente affermazione sulla morte del chicco di grano e sull'odio per la propria anima viene applicata da Gesù a sé stesso. Tra poco inizierà la sua passione che culminerà sulla croce; per questo motivo Gesù è profondamente turbato (v.27). Giovanni anticipa all'epilogo della rivelazione pubblica questa scena che gli altri evangelisti collocano nel Getsémani (cf Mt 26,37-39). Gesù è tentato di domandare al Padre di salvarlo, cioè di liberarlo da questa prova angosciosa, ma scarta subito questa eventualità. Lo scopo della vita di Gesù è tutto incentrato su quest'"ora", perciò chiede al Padre di glorificare il suo nome. Il Figlio di Dio si è incarnato per rivelare l'amore di Dio; questa manifestazione raggiunge il culmine sulla croce. È nella morte di Gesù che gli uomini riconoscono la sua divinità: "Il centurione che stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio" (Mc 15,39).
Nella scena conclusiva di questo brano il Padre interviene per autenticare la missione del Figlio. Gesù infatti spiega che la voce venuta dal cielo è diretta ai suoi uditori (v.30). Con tale manifestazione il Padre vuole presentare Gesù come la persona divina per mezzo della quale egli si rivela in modo perfetto e pieno.
Con l'esaltazione di Gesù si attua il giudizio del mondo delle tenebre e la sconfitta del suo principe. Il giudizio di questo mondo si attua con la sconfitta di satana. Satana è sconfitto dalla morte gloriosa di Cristo sulla croce e dalla esaltazione-ascensione al cielo di Gesù (Gv 3,14; 8,28). L'elevazione di Gesù sul patibolo del Calvario costituisce l'inizio dell'esaltazione alla destra del Padre.
Lunedì 26 Marzo 2012 - ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE
Lc 1,26-38
Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce.
26Al sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
34Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l'angelo si allontanò da lei.
Nell'annunciazione di Giovanni Battista l'angelo Gabriele va al tempio di Gerusalemme. Nell'annunciazione di Gesù l'angelo va a Nazaret, territorio che era ritenuto pagano e trascurato da Dio, quella Galilea dalla quale "non era sorto alcun profeta" (Gv 7,52). Natanaéle si chiede: "Può venire qualcosa di buono da Nazaret?" (Gv 1,46). Dio sceglie ciò che non ha appariscenza, ciò che è umile e disprezzato dagli uomini. La legge dell'incarnazione è questa: "Gesù annientò sé stesso...umiliò sé stesso" (Fil 2,7-8).
Ma a Gerusalemme, nel tempio, nel culto solenne, nel sacerdote che presiede la celebrazione Dio non trova la fede, cioè non trova amore, ubbidienza e accoglienza. A Nazaret invece, nella Galilea dei pagani, lontana dal tempio e dal culto, trova una fanciulla sconosciuta, la Maria, piena di grazia, di fede e di disponibilità.
Nell'Antico Testamento Dio abita nel tempio, nel Nuovo elegge la sua dimora tra gli uomini (Gv 1,14). Maria è il nuovo tempio, la nuova città santa, il popolo nuovo in mezzo al quale prende dimora Dio. Il nome di Gesù significa: Dio salva. "Jahvé, il tuo Dio, è dentro di te, potente salvatore" (Sof 3,17).
Il nome nuovo che Maria riceve: "Piena-di-grazia" è l'investitura per una particolare missione nel piano di Dio, destinata a modificare la sua vita e il corso intero della storia. L'espressione "il Signore è con te" indica la protezione e l'assistenza che Dio le accorda in vista del compito che è destinata ad assolvere.
Il turbamento di cui parla il vangelo (v.29) indica la presenza di Dio e sottolinea l'origine divina della comunicazione che Maria riceve, ed è segno che le parole dell'angelo sono piene di mistero.
Maria cerca di capirne il significato ponendosi delle domande, ma inutilmente. Alla fine deve chiederne la spiegazione all'angelo. L'angelo dà la spiegazione di ciò che ha affermato nel saluto iniziale. La grazia accordata a Maria è la nascita miracolosa di un figlio. Dio attuerà il suo disegno intervenendo con la potenza del suo Spirito.
Le perplessità di Maria alle parole dell'angelo riecheggiano quelle di Abramo all'annuncio della nascita di suo figlio (Gen 18,14). La fede in Dio che può operare meraviglie e cose impossibili all'uomo, ha salvato dall'incredulità Abramo; la stessa fede salva Maria (v.37).
"Servi di Dio" sono coloro che hanno ricevuto una missione particolarmente importante e contemporaneamente danno prova di disponibilità, di remissività e di fede. Sulla bocca di Maria l'espressione "serva del Signore" riassume la sua missione e il coraggio con cui ha accettato l'invito divino che dà un significato nuovo e inatteso alla sua vita.
"Serva del Signore" è il nome che ella stessa si attribuisce dopo quello datole dai genitori: Maria, e quello annunciatole dall'angelo: Piena-di-grazia. Maria è la serva del Signore perché accetta umilmente il disegno di Dio, anche se non riesce a comprenderne tutta la portata e tutte le conseguenze.
L'espressione "avvenga a me", nel testo originale greco, è una forma verbale chiamata ottativo e contiene in sé un desiderio ardente e un entusiasmo vivo di vedere attuato quanto le è stato proposto. Maria ci insegna che la volontà di Dio va accolta con fede ed eseguita con gioia.
Martedì 27 Marzo 2012
Gv 8,21-30
Avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono.
21Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». 22Dicevano allora i Giudei: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: «Dove vado io, voi non potete venire»?». 23E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati». 25Gli dissero allora: «Tu, chi sei?». Gesù disse loro: «Proprio ciò che io vi dico. 26Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare; ma colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui, le dico al mondo». 27Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. 29Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite».
30A queste sue parole, molti credettero in lui.
Gesù, per stimolare i suoi avversari a cambiare atteggiamento nei suoi confronti, diventa polemico e fa balenare la minaccia della morte nel peccato. Egli sta per tornare da Dio: con la sua passione e risurrezione passa da questo mondo al Padre (cfr Gv 13,1); i suoi nemici non potranno raggiungerlo nella gloria eterna; anzi, con la morte nel peccato di incredulità, si separeranno eternamente da lui.
La reazione dei giudei è molto più sarcastica che in 7,35. Lì i suoi avversari ipotizzavano il suo trasferimento in terra pagana, qui parlano di suicidio. L'idea che la fonte della vita e della luce possa suicidarsi è possibile solo ai figli del diavolo. In nessun altro passo del vangelo troviamo espressioni più sarcastiche e blasfeme contro il Figlio di Dio.
La risposta di Gesù all'insulto satanico dei giudei è tagliente e aspra: voi siete dal basso, dal mondo tenebroso del maligno, io sono dall'alto, di origine divina. In Gv 8,44 Gesù espliciterà maggiormente l'origine satanica dei suoi avversari: il loro padre è il diavolo, l'omicida fin dal principio. Scrive Loisy: "I giudei pensano di deridere il Cristo; ma sono loro tragicamente ridicoli".
Se i giudei si ostinano a non aprirsi alla luce, che è Cristo, la loro sorte è segnata: essi moriranno nei loro peccati. L'ostinazione nel rifiuto della luce (cfr Gv 9,41), cioè l'opposizione fondamentale contro il Figlio di Dio, conduce alla morte eterna (cfr 1Gv 5,16-17). Questo è il peccato specifico del mondo tenebroso (cfr Gv 16,8-9).
La risurrezione e la vita si trovano in Gesù; per non morire bisogna credere alla sua divinità (cfr Gv 11,25-26). Le parole "Io sono" indicano con chiarezza la divinità di Cristo. "Io sono" è la traduzione del nome ebraico di Jahvè, quindi esprime la divinità della persona di Gesù.
Gli interlocutori di Gesù non hanno ancora afferrato la sua dichiarazione, davvero inaudita, di essere Dio. La comprensione piena dell'"Io sono" è riservata alla scena finale (vv.58-59). Per questo i giudei chiedono a Gesù: "Tu chi sei?". L'interrogativo: "Chi è Gesù" è fondamentale nel vangelo di Giovanni. La risposta di Gesù appare molto enigmatica. Fin dal principio il Logos è ciò che dice, ossia la parola di Dio (Gv 1,1), la manifestazione della vita e dell'amore del Padre.
Il Logos incarnato non manifesta solo il mistero di Dio, ma conosce bene anche l'uomo; quindi può parlare dei suoi interlocutori senza sbagliarsi. Gesù rivela al mondo ciò che ha udito dal Padre che lo ha mandato. L'evangelista annota: i giudei non capirono che parlava loro del Padre.
La divinità di Gesù sarà riconosciuta quando sarà innalzato sulla croce. Anche i giudei per avere la vita dovranno credere nel Logos incarnato esaltato sulla croce. Con l'esaltazione dell'uomo Gesù sulla croce non avverrà solo il riconoscimento della sua divinità, ma anche quello della sua funzione di rivelatore definitivo, in piena e perfetta dipendenza dal Padre.
Il Padre e il Figlio vivono sempre intimamente uniti e formano una cosa sola per cui il Logos incarnato non può mai essere abbandonato da Dio. Questa unità perfetta tra Gesù e il Padre ha come conseguenza il perfetto compimento della volontà del Padre. Nella Trinità esiste una sola volontà divina.
La pausa descrittiva sulla fede di molte persone in ascolto serve come passaggio a un'altra scena nella quale è svolta una nuova tematica teologica, quella della vera libertà dei figli di Abramo. Anche qui sembra trattarsi di una fede superficiale, come quella di Nicodemo e degli altri abitanti di Gerusalemme.
Mercoledì 28 Marzo 2012
Gv 8,31-42
Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.
31Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: «Diventerete liberi»?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. 38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». 39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l'ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!». 42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato.
La fede autentica non si riduce a un'adesione momentanea al Cristo, ma esige perseveranza e fedeltà con Gesù, Parola vivente del Padre. Il vero discepolo di Cristo si riconosce da questa permanenza continua e intima in Gesù. Solo allora si conosce la verità che libera da ogni schiavitù.
Si tratta di una conoscenza esistenziale e vitale, di una comunione intima con il Figlio di Dio. La conoscenza della verità non è dunque qualcosa di speculativo. La verità è Gesù in persona (cfr Gv 14,6). La verità, ossia Cristo stesso, in quanto manifestazione della vita divina, opererà la liberazione dell'uomo, come è chiarito in 8,36. Quindi la libertà piena si vive nella fede, credendo esistenzialmente in Gesù.
Le parole di Gesù provocano la reazione dei suoi interlocutori, offesi per le affermazioni sulla liberazione operata dalla verità. I giudei si proclamano persone libere e figli di Abramo. Essi protestano di non essere mai stati schiavi di nessuno. Per Gesù la libertà e la schiavitù sono di ordine morale, mentre i suoi interlocutori intendono questi termini in chiave politica.
Gesù parla della schiavitù e della libertà morale in relazione al peccato. Egli insegna che la vera schiavitù è quella di ordine religioso: è schiavo chi fa il peccato. In questi testi di Giovanni il peccato indica l'opzione fondamentale contro la luce, ossia l'incredulità. La frase "lo schiavo non rimane nella casa per sempre" contiene una velata minaccia di espulsione dei giudei dalla casa di Dio, dal regno e dall'amicizia con il Padre.
Nel v.35 il termine "figlio" è preso in senso generico, per essere applicato a tutti gli uomini; esso però è aperto al significato specifico divino, per indicare il Figlio unigenito del Padre. In realtà nel v.36 abbiamo questo passaggio. Qui si parla del Figlio liberatore. Gesù è il Logos incarnato, la verità personificata, che sola può liberare l'uomo dalla schiavitù del peccato. Egli è il Figlio di Dio che rimane per sempre nella casa del Padre.
Dopo aver sviluppato la tematica della vera schiavitù e della vera libertà, Gesù contesta l'affermazione dei giudei di essere discendenza di Abramo e dimostra loro che sono figli di un altro padre.
È un linguaggio misterioso che sarà chiarito nella scena successiva (v.44). Per discendenza naturale gli ebrei sono figli di Abramo, ma per l'animo e i comportamenti sono figli del diavolo. Tentando di uccidere Gesù fanno un'opera diabolica perché il diavolo è omicida fin dal principio.
I giudei, con la loro incredulità, rinnegano la loro origine da Abramo, uomo di grande fede. Il loro intento omicida si spiega con il rifiuto della rivelazione divina del Cristo: "La mia parola non penetra in voi".
L'opposizione tra Gesù e i giudei sta nell'influsso dei rispettivi padri. Il Logos incarnato rivela ciò che ha visto e continua a vedere nel Padre. I giudei rivelano ciò che ispira loro il demonio.
I giudei, con gli atteggiamenti pratici, rinnegano la loro discendenza da Abramo. Essi non solo non compiono le opere del patriarca, caratterizzate da una fede profonda in Dio e dall'adesione incondizionata alla sua parola (cfr Gen 12,1ss; 15,1-7), ma addirittura si oppongono all'inviato del Padre e cercano di ucciderlo. L'allusione finale di Gesù sulla vera paternità dei giudei suscita la loro protesta.
La fornicazione indica l'infedeltà idolatrica. I giudei quindi protestano la loro fedeltà all'alleanza mosaica e proclamano di non aver tradito il patto con Dio adorando altre divinità: "Abbiamo un solo padre, Dio". Questa espressione richiama l'inizio dello shemà: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo" (Dt 6,4). Nell'Antico Testamento Jahvé è presentato spesso come padre d'Israele.
Se i giudei avessero un solo padre, Dio, essi dovrebbero amare Gesù perché è stato mandato dal Padre. Gesù vuole dimostrare che i giudei non sono figli di Dio, perché non amano l'inviato di Dio che è uscito dal Padre.
Giovedì 29 Marzo 2012
Gv 8,51-59
Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno.
51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». 52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: «Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno». 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: «È nostro Dio!», 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». 57Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?». 58Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Gesù riprende la tematica dell'immortalità derivante dall'osservanza della sua parola. In 5,24 aveva assicurato il passaggio dalla morte alla vita per chi ascolta la sua parola, cioè crede nella sua rivelazione e vive secondo essa. Cristo è la risurrezione e la vita, perciò chi crede in lui, anche se sperimenterà la morte temporale, eviterà la morte eterna, cioè l'inferno (cfr Gv 11,25-26).
Gesù fa dipendere la vita eterna e l'immortalità dall'ascolto della sua parola, dall'adesione esistenziale e pratica al suo messaggio. In antitesi con il diavolo menzognero che ingannò i nostri progenitori con la sua parola falsa (cfr Gen 2,17; 3,2ss) e portò nel mondo la morte (cfr Sap 2,24), Gesù, con la sua parola divina, è fonte di vita e di immortalità.
La reazione dei giudei è scomposta e oltraggiosa. L'affermazione di Gesù è veramente inaudita per un semplice uomo, perché anche i personaggi più grandi della storia della salvezza sono morti. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio, la sua pretesa di donare l'immortalità sarebbe assurda.
La risposta pacata di Gesù fa vedere la sua grandezza eccezionale. Nella frase finale di questo dialogo drammatico (v.58), Gesù proclama esplicitamente la sua divinità e quindi anche la sua superiorità anche di fronte al più grande patriarca del popolo ebraico, Abramo.
L'affermazione dei giudei che ritengono Dio loro padre è falsa. Essi ignorano del tutto Dio perché non osservano la sua parola. La conoscenza di Dio infatti non si riduce alla sfera speculativa, ma si acquista e si dimostra osservando i suoi comandamenti. La conoscenza vera di Dio e del suo Figlio si riduce all'amore concreto e operativo.
Alla domanda dei giudei: "Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo?", Gesù risponde che il padre del popolo ebraico era completamente orientato verso il tempo del Messia e visse in funzione di lui. La nascita dl suo figlio Isacco fu motivo di gioia (cfr Gen 18,1-15; 21,1-7) perché in lui si realizzavano le promesse messianiche. All'annuncio di questo lieto evento il patriarca rise (cfr Gen 17,17), ossia si rallegrò e gioì, perché nella nascita di suo figlio previde la discendenza dalla quale sarebbe nato il Cristo. Abramo vide il giorno di Gesù, come Isaia vide la sua gloria (cfr Gv 12,41) e Mosè scrisse di lui (cfr Gv 5,46): tutto l'Antico Testamento è in funzione di Gesù.
"Gli dissero allora i giudei: 'Non hai ancora quarant'anni e hai visto Abramo?'". Questo intervento finale dei giudei prepara la solenne proclamazione della divinità di Gesù. Notiamo che essi deformano e capovolgono l'affermazione di Gesù. Egli ha detto che Abramo vide il suo giorno. Essi rovesciano il soggetto e l'oggetto e fanno dire a Gesù di aver visto Abramo. Per gli increduli giudei è inconcepibile che Gesù sia oggetto della contemplazione di Abramo, tanto sono lontani dal comprendere la vera identità del Figlio di Dio.
"In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono". La risposta di Gesù è il vertice di tutto il dialogo drammatico del capitolo 8. Essa contiene la proclamazione esplicita della divinità di Gesù. Contrapponendosi al più grande patriarca dell'Antico Testamento, del quale la Scrittura descrive la vita e la morte, Gesù si presenta come l'"Io sono", il Vivente, il vero Dio, Jahvè in persona.
La reazione dei giudei conferma il significato divino dell'espressione usata da Gesù. Per loro è un bestemmiatore, perché si è proclamato Dio e quindi merita la lapidazione come prescrive la legge di Mosè (cfr Lv 24,16).
Questo nascondersi di Gesù ha un profondo significato teologico: è l'eclissi del Sole, che è il Logos incarnato, dinanzi all'incredulità dei suoi interlocutori.
Il capitolo 9 continuerà questo tema della luce di Cristo nell'episodio della guarigione del cieco.
Venerdì 30 Marzo 2012
Gv 10,31-42
Cercavano di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.
31Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo. 32Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». 33Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». 34Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? 35Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio - e la Scrittura non può essere annullata -, 36a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: «Tu bestemmi», perché ho detto: «Sono Figlio di Dio»? 37Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; 38ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre». 39Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.
40Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. 41Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». 42E in quel luogo molti credettero in lui.
Il dialogo con i giudei, riportato nei capitoli 7 e 8 aveva avuto come epilogo il tentativo di uccidere Gesù a sassate. Qui tentano ancora una volta di lapidarlo. Le parole di Gesù di essere una cosa sola con Dio si rivelano scandalose agli orecchi degli increduli giudei.
Gesù dimostra di essere il Figlio di Dio con una duplice argomentazione, quella della Scrittura e quella delle opere straordinarie compiute nel nome del Padre. Gesù reagisce in modo pacato al gesto violento dei suoi avversari: "Vi ho mostrato molte opere buone da parte del Padre; per quale di queste opere mi lapidate?" (v.32). I giudei replicano che lo vogliono lapidare per la bestemmia pronunciata, perché si proclama Dio. Gesù argomenta dal Sal 81, di valore incontestabile per i giudei, che se dei semplici uomini sono chiamati dèi e figli dell'Altissimo, quanto più è Figlio di Dio colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo per essere il rivelatore definitivo e il salvatore universale.
La seconda argomentazione di Gesù a prova della sua divinità è costituita dalle opere eccezionali compiute nel nome del Padre (cfr Gv 10,37-38). È il Padre che, nel Figlio, compie le sue opere (cfr Gv 14,10-11).
I giudei sarebbero senza colpa se Gesù non avesse compiuto opere che nessun altro al mondo ha mai fatto; ma ora non sono scusabili per questo peccato (cfr Gv 15,23-25). Le opere eccezionali compiute da Gesù hanno una finalità ben precisa: favorire la fede nella sua divinità: "Credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre (Gv 10,38).
Gesù si ritira a Betània, non il villaggio di Lazzaro, ma una località situata sulla sinistra del Giordano dove il Battista aveva svolto il suo primo ministero (cfr Gv 1,28). Questo ritorno di Gesù nel luogo dove aveva avuto inizio la sua rivelazione pubblica forma un'inclusione solenne tra Gv 1,28ss e 10,40ss. Forse l'evangelista vuole insinuare che la sua manifestazione davanti al mondo iniziata a Betaina si conclude, dopo essersi infranta contro il muro dell'incredulità dei giudei.
Queste persone che vanno da Gesù (v.41) indicano il movimento della fede. I nuovi discepoli constatano che le cose dette da Giovanni Battista sul conto di Gesù erano vere. Queste persone che credono esistenzialmente nel Figlio di Dio si rivelano come pecore di Cristo: ascoltano la sua voce e lo seguono (cfr Gv 10,27).
Sabato 31 Marzo 2012
Gv 11,45-56
Per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.
45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto.
47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest'uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da sé stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell'anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
54Gesù dunque non andava più in pubblico tra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Èfraim, dove rimase con i discepoli.
55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?».
Questo brano illustra la reazione opposta al segno della risurrezione di Lazzaro: molti spettatori del miracolo credono in Gesù, i capi del popolo decretano la sua morte, ostinandosi nella loro cecità volontaria.
Gv 11,45-57 prepara la passione e la crocifissione del Cristo. Questo brano ha un profondo significato teologico. Non solo determina che Gesù deve morire, ma stabilisce anche lo scopo e l'effetto di questa morte: egli muore "per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (v 52).
Questo è uno dei pochi brani del vangelo di Giovanni che parla del valore salvifico della morte di Gesù.
Il prodigio della risurrezione di Lazzaro ha favorito la fede di molti giudei venuti da Maria. I segni operati da Gesù devono favorire la fede (cfr Gv 20,30-31). Bisogna credere nel Figlio di Dio almeno per i segni eccezionali da lui operati (cfr Gv 14,11). Tuttavia la fede profonda deve prescindere dal vedere, per cui Gesù proclama beati i discepoli che credono senza aver visto (cfr Gv 20,29).
Non tutti i giudei presenti a Betània hanno creduto, anzi alcuni andarono subito ad informare i sommi sacerdoti e i farisei i quali prendono occasione da questa notizia per radunare d'urgenza il consiglio supremo.
I sommi sacerdoti e i farisei mostrano la loro preoccupazione per il comportamento di Gesù e implicitamente riconoscono la loro impotenza dinanzi ai segni operati da lui. L'ammissione che Gesù compie molti prodigi non stimola i giudei a credere, ma al contrario li spinge a prendere misure repressive nei suoi confronti. La preoccupazione maggiore dei capi religiosi degli ebrei è di carattere politico: essi temono di perdere il potere.
Quando Giovanni scriveva il suo vangelo, la deportazione degli ebrei e la distruzione di Gerusalemme operata dai romani era un fatto compiuto. I capi del popolo che temevano dei disastri sociali a motivo della fede in Cristo, non previdero che questi mali sarebbero stati una conseguenza della loro incredulità, un castigo per aver rifiutati il loro Messia (cfr Lc 19,41-44).
Caifa nel suo intervento dichiara che è conveniente sacrificare un uomo per evitare la rovina dell'intera nazione. Per l'evangelista queste espressioni di Caifa acquistano un significato molto profondo. Gesù muore a favore dell'intera umanità, per donare la vita al mondo (cfr Gv 6,51), per salvare il gregge di Dio (cfr Gv 10, 11. 15), per santificare i discepoli nella verità (cfr Gv 17,19).
I figli di Dio sono i discepoli di Gesù, generati da Dio (cfr Gv 1,12-13). Il loro distintivo è la fede e l'amore. Questo popolo che è stato acquistato dal Signore (cfr 1Pt 1,19) è la Chiesa, la sposa santa e immacolata di Cristo (cfr Ef 5,25-27).
La morte di Cristo ha una finalità salvifica perché raduna in unità i dispersi figli di Dio. Il peccato è divisione, la salvezza è vita in unità con Dio e con i fratelli. La morte di Gesù realizza l'oracolo di Ezechiele 34, 12-13 che prediceva la riunione delle pecore del Signore, radunandole da tutte le regioni nelle quali erano state disperse, per formare un solo gregge condotto da un solo pastore.
Dopo la decisione del sinedrio Gesù si ritira ai margini del deserto di Giuda. Questi avvenimenti si verificarono a pochi giorni dalla Pasqua. I giudei che abitavano in campagna salivano qualche giorno prima della solennità per purificarsi secondo le prescrizioni della legge, sottoponendosi ai riti di aspersione con il sangue degli agnelli (cfr 2Cr 30,15ss). Questi pellegrini cercano Gesù. La loro ricerca era sincera. Questi pii campagnoli osanneranno Gesù in occasione del suo ingresso trionfale in Gerusalemme (cfr Gv 12,12).
Commenti al Vangelo tratti da: http://www.padrelinopedron.it
http://proposta.dehoniani.it/bio/pedron.html
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
Il Vangelo della liturgia del giorno
commentato da p. Lino Pedron
Commenti al Vangelo del giorno del mese di Giugno 2012
(Le letture sono tratte dal Nuovo Lezionario - Testo CEI2008)
Venerdì 1 Giugno 2012
Mc 11,11-25
La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Abbiate fede in Dio!
11Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.
Condanna di un albero sterile
12La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. 13Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. 14Rivolto all'albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l'udirono.
15Giunsero a Gerusalemme. Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe 16e non permetteva che si trasportassero cose attraverso il tempio. 17E insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto:
La mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le nazioni?
Voi invece ne avete fatto un covo di ladri».
18Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento. 19Quando venne la sera, uscirono fuori dalla città.
20La mattina seguente, passando, videro l'albero di fichi seccato fin dalle radici. 21Pietro si ricordò e gli disse: «Maestro, guarda: l'albero di fichi che hai maledetto è seccato». 22Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! 23In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: «Lèvati e gèttati nel mare», senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà. 24Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà. 25Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe». [
La maledizione del fico è un fatto parabolico: la parabola viene tradotta in un gesto esemplare che la rende viva e comprensibile non solo alle orecchie, ma anche agli occhi. É un fatto parabolico che esprime plasticamente il giudizio di Dio su Israele. L’informazione «non era quella la stagione dei fichi» (11,13) rende assurda la pretesa di Gesù.. Marco non cerca di nascondere la stranezza del gesto, anzi la sottolinea. E noi dobbiamo capire subito che, se Gesù si fosse limitato a maledire un fico che non poteva avere dei frutti perché non era la stagione giusta, il suo gesto potrebbe sembrare non solo strano, ma demenziale. Non è dunque su questo piano che va cercato il senso. Nell’Antico Testamento, il fico e la vigna rappresentano il popolo d’Israele (Is 5,1–7; 28,4; Os 9,10 Ger 8,13). Vogliamo citare due versetti del profeta Michea che descrivono il senso preciso della fame di Gesù (Mc 11,12): «Ahimè! Sono diventato come uno spigolatore d’estate, come un racimolatore dopo la vendemmia! Non un grappolo da mangiare, non un fico per la mia voglia. L’uomo pio è scomparso dalla terra, non c’è più un giusto tra gli uomini» (Mi 7,1–2). Non è dunque la sterilità del fico che interessa, ma quella d’Israele.
E Israele non ha scuse: è già stato più volte rimproverato e dovrebbe sapere quali sono i frutti che Dio vuol cogliere. Marco ce lo dice attraverso l’episodio del tempio e le parole sulla fede.
Dunque il simbolismo di base parte dalla parola «frutto» (v. 13). Quell’albero che si rivela senza frutto è il simbolo del tempio, centro religioso del popolo d’Israele, in cui Gesù è venuto a cercare i frutti che non ha trovato. Poco più avanti, la parabola del figlio unico, inviato a raccogliere i frutti della vigna, confermerà il simbolismo (12,1–11). Ripetiamo dunque: non è la sterilità del fico che viene giudicata, ma la sterilità di Gerusalemme e del suo culto. Come i discepoli «videro il fico seccato dalle radici» (11,20), così vedranno il tempio distrutto fin dalle fondamenta: «Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta» (13,2).
«Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano...». Gesù entra di nuovo a Gerusalemme e nel tempio, e ne prende possesso con un gesto profetico significativo della sua autorità messianica. Già i profeti erano insorti contro il culto ipocrita dei praticanti assidui nella frequenza del tempio, ma incuranti della religione autentica (Is 1,11–17; 29,13–14; Ger 7,1–11). Come aveva fatto Neemia in occasione del suo viaggio di ispezione a Gerusalemme (Ne 13,7–9), Gesù purifica la casa di Dio e ne scaccia i venditori che hanno trasformato l’atrio del tempio in luogo di commercio. Questo gesto è un insegnamento e un adempimento della Scrittura. Si pensi alle ultime parole del libro di Zaccaria che, ispirato alla visione finale del profeta Ezechiele (capitoli 40–48), annuncia la festa universale dei tabernacoli, celebrata nei tempi messianici in un tempio definitivamente purificato: «In quel giorno non vi sarà neppure un Cananeo (mercante) nella casa del Signore degli eserciti» (Zc 14,21).
Questa purificazione esteriore suppone una purificazione nel servizio sacro e nel sacerdozio, come indica la profezia di Malachia: «Subito entrerà nel suo tempio il Signore ... Sederà per fondere e purificare; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia» (MI 3,1–3). Queste reminiscenze dell’Antico Testamento indicano la portata messianica del racconto.
«E non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio». É noto che non tutto il tempio era luogo di mercato, ma solo il grande cortile esterno chiamato «cortile dei gentili», cioè dei non ebrei. Israele l’aveva reso luogo di commercio e di traffico (si usava attraversarlo per passare da un quartiere all’altro della città; era la scorciatoia tra la città e il monte degli Ulivi: il disordine è facilmente immaginabile!) e in questo modo i gentili non avevano più un luogo di preghiera nel tempio del Signore. Questo atrio era separato dall’atrio riservato agli ebrei da un parapetto in pietra, con iscrizioni in greco e latino che interdicevano ai pagani l’accesso all’atrio interno: «Chiunque sarà preso dovrà attribuire a sé stesso la morte che subirà come punizione».. Una di queste pietre è stata portata al museo di Istambul nel 1871; una seconda, ritrovata nel 1935, si trova nel museo di Gerusalemme. La citazione di Isaia nel versetto seguente sottolinea, appunto, che il tempio è casa di preghiera per tutte le genti e quindi anche l’atrio riservato ai pagani è santo come quello riservato agli ebrei.
«La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti». Marco ha scritto il suo vangelo per i pagani convertiti e, quindi, non ci deve meravigliare che citi l’intero versetto di Isaia 56,7, inclusa la frase «per tutte le genti», che Matteo e Luca tralasciano.
«Una spelonca di ladri». Ai tempi di Gesù, i mercanti avevano la stessa fama che hanno oggi, e i cambiavalute non erano additati come una categoria di onesti. Ma non è questo il problema. L’espressione, di per sé, non accusa di essere ladri quelli che sono nel tempio, ma li paragona a dei ladri che cercano rifugio nel tempio, come in una spelonca, per sfuggire al castigo di Dio meritato con la loro condotta. Il significato viene chiarito molto bene se leggiamo per intero il testo di Geremia che rimprovera ogni sorta di infrazioni contro l’alleanza (cf. Ger 7,1–15). In definitiva, Gesù, citando Geremia, intende dire: «Il culto del tempio è menzognero se serve soltanto a dare un senso di sicurezza a gente che non si converte».
«L’udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo per farlo morire». Ritroviamo qui la situazione già provocata da Gesù nel suo uditorio di Cafàrnao, in occasione della sua manifestazione inaugurale: le folle stupite di fronte al suo insegnamento dato con autorità (1,22.27), e gli avversari che decidono di farlo morire (3,6).
«Avevano paura di lui». É la paura di Adamo (Gen 3,10) e di Erode (Mt 2,3), la paura di chi non vuole Dio tra i piedi perché teme di perdere la supremazia: è la paura di riconoscere un Dio sopra la propria testa, la paura di perdere il posto di padroni degli altri e di Dio stesso, fatto a propria immagine e manovrato a proprio piacimento. É la paura di perdere l’eredità (12,7): da affittuari (12,1) volevano diventare usurpatori. É la tentazione gravissima, e sempre ricorrente, a cui sono esposti tutti i ministri della religione. Contro di essa ci mette in guardia l’apostolo Pietro: «Esorto gli anziani (= vescovi e preti) che sono tra voi ... : pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza, ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1–3). La mentalità di padroni della religione e di coloro che la praticano, manifestata dai sommi sacerdoti e dagli scribi, contro cui ha cozzato duramente Gesù, è tutt’altro che morta!
«Quando venne la sera uscirono dalla città». Gesù prende le distanze dalla città che non lo riconosce per quello che egli è. Aveva fatto la stessa cosa nei confronti delle folle entusiaste nell’ascoltarlo, ma non disposte a comprenderlo (1,38; 3,9; 4,11.36; 6,45; 8,13).
Il tempio era il centro del culto e del potere politico ed economico. La «purificazione» del tempio è figura della purificazione della nostra immagine di Dio, inquinata dai nostri deliri di potere, di ricchezza e di superbia. Oltre al commercio materiale, nel tempio c’è anche il commercio spirituale. É quello che, con la moneta sonante delle prestazioni e delle osservanze, intende comperare la grazia di Dio. É un male gravissimo, figlio del grande peccato originale che, dipingendo un Dio cattivo, induce a placarlo e ottenere le grazie dietro pagamento, come fosse una prostituta. É il peccato del giusto, che va direttamente contro l’essenza di Dio che è amore gratuito. Dio perdona senza limiti il peccatore e non si fa suo giudice, ma neanche può farsi suo complice nel peccato. Dio non può avallare le nostre malefatte. Il tempio o è casa di preghiera o è spelonca di ladri. E siccome tutto ciò che è accaduto a Israele è come un esempio per noi, scritto a nostro ammaestramento (1Cor 10,11), la Chiesa deve vigilare per non cadere nella stessa infedeltà.
«La mattina seguente, passando, videro il fico seccato fin dalle radici. Pietro ricordatosi...». Nell’Antico Testamento, il ricordo è uno dei veicoli principali della rivelazione di Dio, e può essere considerato come un elemento essenziale dell’alleanza (Dt 4,9–15; Gs 24,1–13). Specialmente nel Deuteronomio, gli israeliti sono invitati a ricordare le passate azioni divine di misericordia come la base per la loro attuale fedeltà a Lui (Dt 4,32–40; 5,15; 6,20–25; 7,6–11; 8,2–6; 9,1–7; 29,1–8; 32,7). In Mc 8,18 Gesù aveva chiesto con forza: «E non vi ricordate....?», come un invito a fare una riflessione sui due miracoli del pane, perché i discepoli potessero capire chi egli fosse. Qui qualcosa sta muovendosi. Pietro comincia a ricordare, a fare attenzione, a riflettere, a collegare le parole e gli avvenimenti. E proprio questo impegno e questa capacità di ricordare sarà l’inizio del suo ravvedimento dopo aver rinnegato tre volte il Maestro: «Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte». E scoppiò in pianto» (14,72).
«Il fico che tu hai maledetto si è seccato». Gesù dopo aver seccato il fico secca e taglia di netto anche il discorso sull’argomento. Trascurando il fico, parla dell’importanza della preghiera fatta con fede. Il termine «preghiera» ci mette sulla buona strada perché rimanda alla scena della purificazione del tempio, destinato a diventare «casa di preghiera per tutte le genti» (11,17). il fico sterile è l’immagine della fede infeconda, della fedeltà puramente esteriore alla legge, della preghiera degli ipocriti (Mt 6,5).
«Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato». Credere significa lasciarsi investire dalla potenza irresistibile di Gesù, che sconvolge il mondo, come aveva annunziato il profeta Zaccaria (4,7; 14,4). É in questo contesto che trova il suo vero significato la frase evangelica della fede che può tutto. Credere che ciò che si proclama sta avvenendo significa cogliere la presenza di Gesù, che sta operando attraverso la nostra azione: è questa la potenza della fede che diventa preghiera esaudita e fattiva.
«Se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati». É l’unica volta, nel vangelo di Marco, in cui Gesù dichiara ai discepoli che il Padre suo è anche il loro. Gesù è più che figlio di Davide (10,47–48; 11,10; 12,35–37): è il vero Figlio di Dio che comunica ai suoi la propria realtà filiale. Abbiamo qui l’equivalente della quinta domanda del Padre nostro secondo Matteo (6,12). Alcuni manoscritti, infatti, aggiungono a questo punto un versetto (il 26) che ricalca esattamente la spiegazione riferita da Mt 6,15: «Ma se voi non perdonate, neppure il Padre vostro che è nei cieli perdonerà le vostre colpe» (11,26). Ciò dimostra che la preghiera del «Padre nostro» era ben nota alla Chiesa di Marco benché egli non la citi nella sua interezza.
Il fico è stato seccato per istruire i discepoli sulla fede; il tempio è stato purificato per diventare casa di preghiera. Alla sterilità del fico corrisponde il pullulare di affari nel tempio. Infecondità nel bene e fecondità nel male vanno di pari passo.
In questo brano si parla della fede e della preghiera, radici da cui viene il frutto dello Spirito, che essenzialmente è amore e perdono. Credere non è solo sapere che c’è un Dio, essere supremo e buono, onnipotente e onnisciente, sovrano e giudice di tutti. É aderire a Gesù e alla sua Parola, perché lui è il Signore, l’interlocutore fondamentale della nostra vita.
La fede si esprime come preghiera verso Dio e perdono verso i fratelli. Non ci può essere l’una senza l’altro.
Il cristiano è colui che ha fede in Gesù, potenza e sapienza di Dio, proprio nella sua debolezza. Gesù non chiede la fede in qualche idea, ma nel Dio che si rivela in lui, povero e umile che finisce sulla croce.
Sabato 2 Giugno 2012
Mc 11,27-33
Con quale autorità fai queste cose?
27Andarono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani 28e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di farle?». 29Ma Gesù disse loro: «Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. 30Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi». 31Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: «Dal cielo», risponderà: «Perché allora non gli avete creduto?». 32Diciamo dunque: «Dagli uomini»?». Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta. 33Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». E Gesù disse loro: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose».
Nei primi 26 versetti di questo capitolo Gesù aveva espresso il suo giudizio su Gerusalemme, il tempio e la falsa religiosità, con dei gesti, dei fatti (entrata in Gerusalemme, fico seccato, purificazione del tempio). Da 11,27 a 12,37 il suo giudizio viene espresso con le parole.
L’agire di Gesù ha suscitato una reazione violenta da parte dei padroni della religione. Era entrato nel tempio senza chiedere permesso, come uno che entra in casa propria; aveva scacciato venditori e cambiavalute muniti di regolare permesso rilasciato dall’autorità; aveva messo sotto accusa il modo di far religione: il tempio non era più casa di preghiera, ma spelonca di ladri. Davanti a una simile accusa il potere costituito non poteva tacere. E non tacque.
«Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità per farle?» Nel contesto, la domanda si riferisce all’ingresso di Gesù in Gerusalemme e all’espulsione dei mercati dal tempio. Ma in pratica viene coinvolta tutta la sua attività. Perciò anche la domanda delle autorità giudaiche supera il quadro immediato nel quale è stata posta: il processo contro Gesù è già iniziato.
«Vi farò anch’io una domanda». Il processo si capovolge e gli accusatori sono messi sotto accusa e invitati a rendere conto del loro comportamento. Gesù non pone una contro–domanda per sfuggire alle domande dei suoi avversari, ma per rendere possibile una risposta: non si capisce Gesù se prima non si è capito Giovanni il Battista. Se infatti Giovanni è venuto da Dio per preparare la strada al Messia, Gesù agisce con l’autorità che gli compete come Messia, ed è Dio che gli ha dato questa autorità. Ora essi non vogliono assolutamente ammettere questo: per loro Gesù non rivela il vero volto di Dio e perciò deve morire perché è un bestemmiatore. Su questa loro decisione essi non sono disposti a ritornare e rimangono ostili alla rivelazione di Gesù.
Cosa farà Gesù? Li lascerà senza una risposta? Sembrerebbe di sì: «Gesù disse loro: ‘Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose’ «. In realtà Gesù risponde con la parabola dei vignaioli omicidi, che troviamo immediatamente dopo questo brano. E tutti e tre i sinottici dichiarano che i suoi interlocutori compresero che aveva detto quella parabola per loro (Mt 21,45; Mc 12,12; Lc 20,19).
Domenica 3 Giugno 2012 - SANTISSIMA TRINITA' (ANNO B)
Mt 28,16-20
Battezzate tutti i popoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Questi pochi versetti formano la conclusione del vangelo secondo Matteo e ci forniscono una chiave essenziale per una sua esatta comprensione. Il vangelo termina con queste parole di Gesù: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo", che hanno un'importanza capitale.
Matteo collega l'invio dei discepoli in missione all'evento della risurrezione, poiché il viaggio dei discepoli in Galilea esegue l'ordine dato dall'angelo (v.7) e da Gesù (v.10) alle donne perché lo trasmettessero loro.
Il discorso della missione del capitolo 10 trova qui il suo adempimento: i discepoli finalmente partono. L'evangelista accenna discretamente al fatto che i discepoli "vedono" Gesù e sottolinea il loro gesto: "si prostrarono" in segno di riconoscimento della sua signoria. Questo atteggiamento esprime la fede, ma la loro adorazione rimane mescolata al dubbio.
Gesù si accosta ad essi, come dopo la trasfigurazione (Mt 17,7) e li chiama ad approfondire ancora di più il loro rapporto con lui. Gli incontri con il Risorto non possono privare la fede della libertà. Gli Undici rappresentano una povera Chiesa di uomini di poca fede. Confermando loro l'investitura profetica, Gesù li riveste di ogni autorità (v. 18), quella che gli è stata data in cielo e in terra.
La comunità di quelli che credono in Gesù non trova in sé stessa la capacità di credere. Questa proviene loro dalla potenza stessa di Dio, trasmessa loro dal Risorto. Da lui ricevono lo straordinario potere di radunare nuovi discepoli con il battesimo e l'ammaestramento. Il battesimo, conferito nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, manifesta l'ingresso del cristiano nel Regno, cioè nella vita di Dio. Con esso il battezzato appartiene a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo.
Al battesimo è unito l'ammaestramento; si tratta, non di una lezione da imparare, ma della buona novella del Regno - che è Gesù stesso in ciò che dice e in ciò che fa - da cui bisogna lasciarsi penetrare. Questo ammaestramento si presenta come un'azione interiore che esige un comportamento coerente. É il vangelo nella sua totalità che diviene così insegnamento di vita per i discepoli e si manifesta nell'esistenza cristiana. Nella vita cristiana la vita morale non è altro che il vangelo in atto.
Questo ammaestramento, rivestito di ogni autorità, riguarda tutte le genti (v.19) perché tutti sono chiamati alla salvezza, e la comunità intera dei discepoli partecipa alla responsabilità di questa chiamata, in unione con il Padre che vuole che "nessuno di questi piccoli si perda" (Mt 18,14). Così il discepolo diventa responsabile di tutte le genti perché il vangelo di Gesù è un messaggio per il mondo.
Dopo la sua risurrezione Gesù non è più sottomesso al tempo e allo spazio, ma il tempo e lo spazio sono sottoposti a lui. Egli realizza una presenza effettivamente universale. Matteo sottolinea questa universalità con un quadruplice "tutto" che esprime la totalità dell'azione divina (= ogni potere in cielo e in terra), che prende corpo nella totalità dell'agire umano (=insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato) secondo la totalità del tempo (= io sono con voi tutti i giorni) e dello spazio (= ammaestrate tutte le nazioni). Ricordiamo che il numero "quattro" simboleggia il mondo creato, composto da quattro elementi fondamentali e delimitato dai quattro punti cardinali.
Per Matteo la Chiesa si costituisce vivendo e annunciando Gesù che raduna tutte le genti del mondo e le immerge nella sua vita e nella sua morte per farle partecipare alla vita e all'azione del Padre nello Spirito. La comunità cristiana sussiste per la presenza del Cristo in mezzo ad essa (Mt 18,20) e appare come luogo ove si attesta la presenza universale di Gesù, che abbraccia lo spazio e il tempo.
Il volto della Chiesa secondo il vangelo di Matteo è il volto stesso di Cristo morto e risorto, vivente nel cuore di suoi discepoli, ai quali ha detto: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (v.20).
Lunedì 4 Giugno 2012
Mc 12,1-12
Presero il figlio amato, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna.
1Si mise a parlare loro con parabole: «Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 2Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna. 3Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. 4Mandò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. 5Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero. 6Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 7Ma quei contadini dissero tra loro: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e l'eredità sarà nostra!». 8Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. 9Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri. 10Non avete letto questa Scrittura:
La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d'angolo;
11questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi?».
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. Lo lasciarono e se ne andarono.
L’immagine della vigna, designa spesso nei profeti il popolo di Israele. Il cantico della vigna (Is 5,1–7) era nella memoria di tutti: il profeta ne aveva fatto una parabola di giudizio per i capi di Gerusalemme e gli abitanti della Giudea.
Non c’è molta differenza tra questi vignaioli e i falsi pastori di Ez 34, che invece di pascere le pecore pascono sé stessi. Nell’uno e nell’altro caso, coloro che Dio ha posto come suoi rappresentanti in mezzo al popolo sfruttano la loro posizione a proprio beneficio.
La citazione del salmo 118: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo» vuol dire che Dio è capace di annullare l’azione degli uomini e di capovolgerne il risultato. Gli uomini hanno ucciso suo Figlio, ma Dio l’ha risuscitato: «Dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri!».
Con questa parabola allegorica, Gesù dà la chiave di lettura della storia di Israele e della storia di ogni uomo, come scontro senza incontro tra la fedeltà di Dio e l’infedeltà dell’uomo. La sua offerta d’amore si trova sempre davanti il muro del nostro rifiuto ostinato.
Alla sua crescente bontà corrisponde un crescendo della nostra cattiveria. Sembra proprio un amore infelice, senza possibilità di riuscita. Ma il Signore opera una meraviglia ai nostri occhi, facendo della croce, che è il vertice del nostro male e del nostro peccato, il dono del suo massimo amore e del suo perdono. Noi lo uccidiamo togliendogli la vita, e lui ci fa vivere donandoci la sua vita.
La nostra malvagità non vanifica il suo piano di salvezza. Tutto il nostro male e quello della storia umana non fa fallire il disegno di Dio, ma lo compie in un modo più sublime, mostrando il suo potere che è solo e tutto misericordia.
Il potere dell’uomo è quello di fare il male dal bene; quello di Dio è di fare il bene dal male. Egli vorrebbe diversamente, ma rispetta la nostra libertà. Egli è Dio proprio perché sa colmare la nostra miseria con la sua misericordia, rispondendo al nostro rifiuto con la sua offerta incondizionata d’amore. É la vittoria della croce, scontro inevitabile, che diventa incontro definitivo.
Gesù è il Figlio unigenito che si è fatto servo e ultimo di tutti, dando la vita per noi che gli diamo la morte. Questo è il suo potere: la sua fedeltà al di là di ogni nostra infedeltà.
Martedì 5 Giugno 2012
Mc 12,13-17
Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 14Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?». 15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». 16Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». 17Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio». E rimasero ammirati di lui.
I farisei e gli erodiani cercano di cogliere in fallo Gesù ponendogli una domanda alla quale sembra impossibile rispondere senza incorrere in gravi conseguenze: «É lecito o no dare il tributo a Cesare?».
Rispondere di no sarebbe pericoloso perché trasformerebbe Gesù in un sobillatore politico; rispondere di sì sarebbe altrettanto pericoloso perché lo farebbe apparire come un collaborazionista, amico degli odiati occupanti romani.
La risposta supera il livello al quale il problema era stato posto. Gesù non dà una ricetta per un comportamento civico; non raccomanda né la rassegnazione di fronte all’ordine costituito (punto di vista dei farisei) né il rifiuto (opinione degli zeloti) e neppure benedice lo stato imperiale (tendenza degli erodiani).
La sua duplice dichiarazione constata, da una parte, l’esistenza di regole provvisorie sulla terra e, dall’altra, invita ad adottare nei confronti di esse un atteggiamento critico: distinguere tra l’accessorio e il principale, tra il relativo e l’assoluto, tra il transeunte e l’eterno, tra le realtà penultime e quelle ultime.
La decisione apolitica di Gesù contiene un invito all’azione responsabile in favore della società umana, senza riduzioni o esaltazioni indebite, conformemente alla volontà di Dio.
La risposta di Gesù non è una semplice astuzia per eludere il problema e non cadere nel tranello teso dai farisei e dagli erodiani. Non dice semplicemente: «Date a ciascuno ciò che gli spetta», senza determinare ciò che spetta a ciascuno.
A quei tempi il dominio di un sovrano si estendeva ovunque la sua moneta aveva corso legale. Era ovvio che dove circolava la moneta di Cesare, si sottostava al dominio di Cesare e si rispettavano le regole del gioco, tra le quali quella di pagargli il tributo (cf. Rm 13,1–7; 1Pt 2,13ss).
Per Gesù il problema è un altro: dare a Dio ciò che è di Dio. Come la moneta del tributo porta l’immagine di Cesare e appartiene a Cesare, così l’uomo è immagine di Dio e appartiene a Dio. Il tributo da pagargli è quello di darsi a lui, amando lui con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi (Mc 12,30–31).
Circa l’autorità civile, è giusto distinguere il contenuto dal modo. Il suo contenuto è quello di servire al bene comune; in questo senso, anche se le sue forme sono storicamente più o meno imperfette, è legittimamente voluta da Dio (cf. Rm 13,1–4).
Normalmente, il modo nel quale è esercitata è quello dei capi delle nazioni (cf. Mc 10,42), che bramano l’avere, il potere e l’apparire. Questo modo non è voluto da Dio. Esso schiavizza tutti, sia chi lo esercita sia chi lo subisce, togliendo a tutti, dominatori e dominati, la libertà, che è proprio ciò per cui siamo a immagine e somiglianza di Dio.
Questo brano ci aiuta a capire il «potere» di Cristo che mette sempre in crisi quello dell’uomo. Esso infatti è amore, servizio e umiltà.
Gesù ci dà un criterio in base al quale fare le nostre scelte: prima dare a Dio ciò che è di Dio. Solo così sapremo cosa dare al Cesare di turno.
L’uso del denaro è l’accettazione implicita del potere di chi l’ha coniato. Gesù non ha con sé la moneta, a differenza dei farisei e degli erodiani. Le loro parole non presentano quindi un vero problema per loro, che possiedono molto volentieri le monete con l’iscrizione di Cesare. Le tasse fanno problema a quelli che hanno i soldi, non ai poveri. Inoltre l’iscrizione sulla moneta porta il nome e il ruolo divino dell’imperatore: Tiberio Cesare Imperatore, figlio del divino Augusto.
Il titolo regale di Gesù non lo troveremo scritto su alcuna moneta, ma sulla croce (Mc 15,26). Chi ha orecchi per intendere, intenda!
Ma il problema fondamentale è che l’uomo, immagine di Dio, è di Dio e deve ritornare a lui.
Mercoledì 6 Giugno 2012
Mc 12,18-27
Non è Dio dei morti, ma dei viventi!
18Vennero da lui alcuni sadducei - i quali dicono che non c'è risurrezione - e lo interrogavano dicendo: 19«Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che, se muore il fratello di qualcuno e lascia la moglie senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 20C'erano sette fratelli: il primo prese moglie, morì e non lasciò discendenza. 21Allora la prese il secondo e morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, 22e nessuno dei sette lasciò discendenza. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. 23Alla risurrezione, quando risorgeranno, di quale di loro sarà moglie? Poiché tutti e sette l'hanno avuta in moglie». 24Rispose loro Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? 25Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. 26Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? 27Non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore».
Anche i sadducei contestano Gesù: essi non credono alla risurrezione dei morti. La risposta di Gesù considera due momenti. Anzitutto egli fonda la fede nella risurrezione sul rapporto che Dio ha stabilito con gli uomini: un rapporto di alleanza, di amicizia, di solidarietà, di vita. Dio non è impotente di fronte alla morte, «non è il Dio dei morti, ma dei viventi» (v. 27).
Citando Esodo 3, che è un testo su Dio e non sulla risurrezione dei morti, Gesù riconduce il dibattito all’amore di Dio e alla sua fedeltà: se Dio ama l’uomo non può abbandonarlo in potere della morte.
Gesù inoltre corregge l’altro errore dei sadducei che pensano alla risurrezione come a una semplice continuazione della vita attuale, con gli stessi tipi di rapporti. Pensando in questo modo, essi non tengono conto della «potenza di Dio» (v. 24).
La risurrezione non è una semplice continuazione della vita attuale, ma il passaggio a una vita nuova, creata dalla potenza di Dio. Non è la rianimazione di un cadavere: è una trasformazione qualitativa, è una nuova esistenza.
La nostra risurrezione è il centro della vita cristiana. Senza di essa « è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» scrive Paolo ai Corinti (1Cor 15,14).
I sadducei assomigliano a tanti credenti del nostro tempo. Credono in Dio, ma non nella risurrezione dei morti. Chiusi nel materialismo, non credono, né teoricamente né praticamente, al fine a cui Dio ci ha destinati: la vita eterna. É l’alienazione più tragica dell’uomo, che perde ciò per cui è fatto, l’orizzonte che dà senso alla vita. Tentare di superare la morte attraverso la generazione dei figli è un rimedio peggiore del male, una vittoria illusoria, perché non si fa che accrescere il numero dei destinati alla morte.
La generazione dei figli ha senso solamente nella speranza che questi «destinati alla morte» incontrino Dio che dà loro la vita nella risurrezione.
Giovedì 7 Giugno 2012
Mc 12,28-34
Non c’è altro comandamento più grande di questi.
28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come sé stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
La domanda che lo scriba pone a Gesù non è oziosa. Data la molteplicità delle prescrizioni della legge (se ne contavano 613, ripartite in 365 proibizioni – quanti sono i giorni dell’anno – e 248 comandamenti positivi, quante si credeva fossero le parti del corpo umano), ci si poteva legittimamente interrogare sul loro valore e chiedersi quale fosse il comandamento più grande.
La risposta di Gesù che pone nell’amore di Dio e del prossimo il centro della legge, non è una novità assoluta: lo insegnavano anche i rabbini di allora. La novità consiste nell’avere unificato il testo del Dt 6,4–5 con il testo del Lv 19,18. Ma per cogliere questo centro sono necessarie due precisazioni. La Bibbia insegna che il nostro amore per Dio e per il prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale tutto resterebbe incomprensibile: l’amore di Dio per noi. Qui è l’origine e la misura del nostro amore. L’amore dell’uomo nasce dall’amore di Dio e deve misurarsi su di esso. E qui si inserisce la seconda precisazione: chi è il prossimo da amare? La Bibbia risponde: ogni uomo che Dio ama, cioè tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, perché Dio si è rivelato in Gesù come amore universale.
La nostra vita è amare Dio e unirci a lui (Dt 30,20), diventando per grazia ciò che lui è per natura. Il nostro amore per lui è la via per la nostra divinizzazione, perché uno diventa ciò che ama. Chi risponde a questo amore passa dalla morte alla vita, mentre chi non ama Dio e il prossimo rimane nella morte (1Gv 3,14). Dio è amore più forte della morte (Ct 8,6). La sua fedeltà dura in eterno (Sal 117, 2). Quando noi moriamo, egli ci ridà la vita. «Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13). Dio ha creato tutto per l’esistenza, perché è un Dio amante della vita (cf. Sap 1,14; 11,26).
L’amore per l’uomo non è in alternativa a quello per Dio, ma scaturisce da esso come dalla sua sorgente. Si ama veramente il prossimo solo quando lo si aiuta a diventare sé stesso, raggiungendo il fine per cui è stato creato, che è quello di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come sé stesso. Alla luce di questa verità, dobbiamo rivedere radicalmente il nostro modo di amare: molto del cosiddetto amore, che schiavizza sé e gli altri, è una contraffazione dell’amore, è egoismo. Quanta purificazione, quanta grazia di Dio occorrono perché l’amore sia vero amore!
Venerdì 8 Giugno 2012
Mc 12,35-37
Come mai dicono che il Cristo è figlio di Davide?
35Insegnando nel tempio, Gesù diceva: «Come mai gli scribi dicono che il Cristo è figlio di Davide? 36Disse infatti Davide stesso, mosso dallo Spirito Santo:
Disse il Signore al mio Signore:
Siedi alla mia destra,
finché io ponga i tuoi nemici
sotto i tuoi piedi.
37Davide stesso lo chiama Signore: da dove risulta che è suo figlio?». E la folla numerosa lo ascoltava volentieri.
Nella lettura del Vangelo di Marco ritorna con insistenza la domanda: Chi è Gesù? E ci è stata data la risposta con chiarezza: Gesù è il Messia (Mc 8,29). Ma subito si è riproposta un’altra domanda: Che cosa significa per Gesù essere il Messia e quale relazione ha il Messia con Dio? E la risposta è stata: Il Messia compirà la sua missione nella sofferenza (tre annunci della passione); il Messia è l’ultimo inviato di Dio, e il Figlio che Dio tanto ama (Mc 12,1–8).
Ora qui si ripropone un problema importante: Chi è il Messia? Ogni ebreo poteva rispondere con semplicità e senza alcun dubbio: Il Messia è il figlio di Davide. E questa risposta trova il fondamento negli oracoli dei profeti, a cominciare da Nàtan (2Sam 7). E tuttavia la risposta è incompleta. Il Messia non è solamente il figlio di Davide; è il Figlio di Dio.
Gesù fonda il suo ragionamento sull’interpretazione del salmo 110 , un salmo che la Bibbia attribuisce a Davide. Dunque è Davide stesso che parla e dice: «Disse il Signore (cioè Dio stesso) al mio Signore (cioè al Re–Messia): siedi alla mia destra». Dunque, dice Gesù, Davide chiama il Messia «mio Signore». Vuol dire, dunque, che il Messia è molto di più che «il figlio di Davide»: è addirittura «il Signore di Davide».
Ne consegue che se Gesù è il Figlio di Dio, il suo regno non può essere ridotto al regno di Davide. Sarebbe un regno tra i regni di questo mondo o in alternativa ad essi. Invece il regno di Dio li supera, li trascende e non è legato alla loro realtà materiale.
Sabato 9 Giugno 2012
Mc 12,38-44
Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
38Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Gesù mette in guardia la folla perché sta per lasciarsi trascinare dai capi: bisogna che essa sappia chi sono in realtà i suoi capi. Con poche parole il Maestro fa il ritratto degli scribi: vanità, sfruttamento delle vedove, ostentazione nella preghiera. La loro logica è precisa: prima io, poi le donne, infine Dio. Forse ci aspettavamo un elogio degli scribi: sono gli studiosi della parola di Dio. Se è vero che la conoscenza è l’origine della virtù, essi dovrebbero essere molto virtuosi. Al contrario, non ci aspettavamo molto dalla vedova che Gesù, invece, ci propone come esempio: è limitata, è povera, è costretta ad occuparsi quotidianamente delle solite cose indispensabili per la sopravvivenza. Cosa può dare a Dio una persona insignificante come lei?
Ma il giudizio di Dio capovolge le nostre valutazioni. Gli scribi usano la conoscenza delle Scritture per procurarsi onori umani, si servono della loro pietà religiosa per nascondere la cupidigia con cui si appropriano dei beni degli altri, in particolare dei beni dei poveri e degli indifesi. La povera vedova invece, che può mettere nel tesoro del tempio solo due spiccioli, viene presentata ai discepoli come il vero esempio da imitare: «Tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (v. 44). Così, con semplicità, questa donna insignificante, a cui nessuno aveva prestato attenzione, ha amato Dio con tutto il cuore (cfr Mc 12, 30).
Gesù sta per andarsene dalla scena di questo mondo e non ci lascia come maestri dei personaggi dalle lunghe maniche e dalle parole altisonanti, ma mette in cattedra una donnetta discreta, che continua in silenzio la sua lezione: la vedova che offre a Dio tutta la sua vita. Essa è sola e inosservata, povera e umile, «getta» tutta la propria vita: è come Gesù che si è fatto ultimo di tutti e ha dato la sua vita in riscatto per tutti (cf. Mc 10,43–45).
Il primo miracolo di Gesù fu la guarigione della suocera di Pietro, perché potesse servire (cf. Mc 1,29–31). L’ultimo suo insegnamento, prima del discorso escatologico, ci presenta questa vedova, che ama veramente Dio con tutta la sua vita. Sono loro le vere discepole di Gesù, e quindi le nostre maestre.
Domenica 10 Giugno 2012 - SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (ANNO B)
Mc 14,12-16.22-26
Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue.
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguìtelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Gesù annuncia l'abbandono dei discepoli
26Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Tutto il vangelo di Marco è una lunga introduzione al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, agnello della nostra Pasqua.
Bisogna conoscere bene la Pasqua ebraica, perché solo alla sua luce è comprensibile l'eucaristia cristiana, compimento di cui l'Esodo è promessa.
La Pasqua ebraica è la liberazione dagli idoli che schiavizzano, la fine dell'oppressione dell'uomo da parte dell'uomo, perché Dio non tollera l'ingiustizia e, infine, è rottura con il peccato e con la morte e attesa di cieli nuovi e terra nuova. Tutti questi vari elementi delle Pasqua ebraica sono la promessa che trova compimento nella croce di Gesù e servono per capirne pienamente la portata.
La Pasqua di Gesù è martirio, ossia testimonianza di un amore più forte di ogni male e della stessa morte, capace di farsi solidale coi fratelli fino alla debolezza estrema: "Fu crocifisso per la sua debolezza" (2Cor 13,4).
Mangiare la Pasqua con lui significa essere associati alla sua stessa passione per il mondo, disposti a pagarne i costi, che assumiamo liberamente, nonostante le paure e le resistenze contrarie.
Gesù pronuncia le parole che trasformano la Pasqua ebraica in celebrazione cristiana su una comunità di peccatori e di traditori. Ad essi dà da mangiare il suo corpo e da bere il suo sangue che sono l'oggetto del loro tradimento: all'eccesso di ingratitudine degli uomini, risponde con l'eccesso del suo amore. Notiamo il duplice sottofondo antico-testamentario: il richiamo all'alleanza del Sinai (Es 24,8) e al Servo di Dio che dona la propria vita per tutti (Is 53). Inoltre vi è un chiaro riferimento alla croce: in questa direzione ci conduce il simbolo del corpo donato e del sangue sparso.
Gesù sta svelando l'intenzione fondamentale che ha guidato la sua vita, ci sta manifestando la sua verità ultima: egli ha vissuto una vita in dono per tutti. É questo "per" che indica il significato ultimo di Gesù: un'esistenza donata. É un donarsi per tutti, non solo per alcuni, è un donarsi consapevole del rifiuto: rifiutato da tutti, muore per tutti. É un donarsi universale e ostinato, una solidarietà che non si lascia vincere dall'incomprensione e dal rifiuto. Anche il tradimento mette in luce l'amore ostinato di Gesù.
Ricordando il tradimento, la comunità è invitata a non scandalizzarsi quando scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato: è un'esperienza che Gesù stesso ha vissuto e che ha previsto per la sua Chiesa. La comunità cristiana è invitata a non cullarsi in una falsa sicurezza e presunzione di sé, come ha fatto Pietro: il peccato è sempre possibile ed è vano fidarsi delle proprie forze. Ma il vangelo ci insegna che l'incomprensione e il tradimento del discepolo sono superati e vinti dall'amore del Maestro.
Ogni religione prevede il sacrificio dell'uomo a Dio. Il cristianesimo invece si fonda sul sacrificio di Dio all'uomo. L'Eucaristia "culmine e fonte di tutta la vita cristiana" (LG 11) è veramente tutto e ci dà tutto: è tutta la creazione che si fa corpo e sangue di Cristo; è l'umanità intera assunta nella sua carne; è Dio che si dona all'uomo. Nell'Eucaristia l'amore di Dio raggiunge il suo fine: unirsi a noi e farsi nostra vita.
L'Eucaristia divinizza realmente l'uomo, ma senza alcuna confusione. Distinto da Dio, l'uomo è realmente unito a lui in un unico amore e in un'unica vita. Questa unione viene chiamata alleanza. Il sangue della nuova alleanza è quello uscito dalla persona di Gesù. Questo sangue, come quello che Mosè asperse sull'altare e sul popolo (Es 24,6.8), unisce l'uomo a Dio, rendendoli consanguinei. Questa alleanza è eterna perché non possiamo più infrangerla. Qualunque cosa facciamo, anche se lo mettiamo in croce, Dio rimane sempre fedele al suo amore per noi "perché non può rinnegare sé stesso" (2Tim 2,13). Paolo apostolo ha scritto: "A stento si trova chi sia disposto a morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,7-8).
Ora, "se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Chi accuserà gli eletti di Dio, se Dio giustifica?" (Rm 8,31.33). Per questo san Paolo dice di essere convinto che "né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore" (Rm 8,31ss).
Il vino è bevanda della terra promessa. Gesù sarà pellegrino nel mondo, digiuno e abbeverato di morte, fino al giorno in cui l'ultimo fratello non si sarà arreso alla conoscenza dell'amore del Padre. Quando la sua casa sarà piena di tutti i suoi figli, sarà il regno di Dio in pienezza. Fino ad allora Gesù continuerà a bere il calice di morte per dare a tutti noi il calice di vita. Quanti ne bevono sono spinti a loro volta dal suo stesso amore di Figlio versi i fratelli che ancora non conoscono il Padre (2Cor 4,12).
Alla fine della cena pasquale tutti cantano l'inno. É il grande Hallel (Sal 136). É un salmo che, passando in rassegna i doni della creazione e della storia, ripete ad ogni riga il ritornello "perché eterna è la sua misericordia". Queste parole dicono il perché profondo di tutta la creazione e di tutta la storia.
Dopo l'Eucaristia anche noi comprendiamo che la sua misericordia eterna è il perché ultimo di tutto quanto c'è e accade: è il trionfo del suo amore su tutto il male del mondo. A noi, che abbiamo compiuto il massimo male uccidendo suo Figlio, il Padre concede il massimo bene, donandoci la vita del Figlio. La sua misericordia è eterna e onnipotente, capace di capovolgere in bene ogni male e di salvare tutto e tutti.
Lunedì 11 Giugno 2012
Mt 10,7-13
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi.
Andare in missione è ancora oggi il grande ideale della Chiesa, un ideale che coinvolge tutti, chi va e chi resta.
La predicazione apostolica riprende e continua gli annunci di Gesù e del Battista, cominciando dal regno dei cieli. L'annuncio è fatto con la parola (v.7), con le opere di bene (v.8a) e con la testimonianza della vita (vv.8b-10).
La predicazione è il momento prioritario. La lieta notizia dev'essere anzitutto ascoltata e conosciuta per trovare risonanza nel cuore dell'uomo. Ma il vangelo è soprattutto una proposta di bene: per questo dev'essere tradotto in opere di salvezza (esorcismi e guarigioni).
Matteo elenca alcune norme che costituiscono lo stile missionario. La prima di esse è la povertà. Il discepolo di Cristo dona sé stesso gratuitamente: è la povertà più vera e più profonda.
Questa povertà si esprime nell'accontentarsi dello stretto necessario (v.9) e nel coraggio (che è fede) di affidare anche il problema di quel poco alla provvidenza di Dio.
La ragione di questo comando riguardo alla povertà non è detta, ma scaturisce dal contesto evangelico. Nel discorso della montagna viene annunciato il regno ai poveri (Mt 5,3) e i discepoli sono invitati a reprimere le eccessive preoccupazioni terrene facendo affidamento sulla bontà del Padre celeste (Mt 6,25-34). Ma più ancora conta l'esempio di Gesù che vive in mezzo alla sua gente senza sapere dove posare il capo (Mt 8,20). Il missionario non può avere un comportamento diverso da quello del suo maestro (Mt 10,24) e difforme dal contenuto del messaggio che annuncia.
La povertà e il distacco dalle preoccupazioni materiali sottolineano l'urgenza dell'evangelizzazione. Chi è totalmente assorbito dall'annuncio del messaggio cristiano non può trascinarsi dietro bagagli né preoccuparsi di faccende materiali e pecuniarie. Il missionario evangelico deve presentarsi agli uomini spoglio, umile e penitente come è richiesto dal discorso della montagna.
In qualunque città o villaggio arriverà, l'apostolo dovrà farsi indicare qualche persona degna presso la quale prendere alloggio (v.11), cioè un luogo che non susciti pettegolezzi che renderebbero vana la predicazione.
Augurare la pace significa comunicare la totalità dei beni promessi da Dio, cioè il regno dei cieli che si realizza in Gesù.
Martedì 12 Giugno 2012
Mt 5,13-16
Voi siete la luce del mondo.
13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.
Gesù paragona i discepoli al sale della terra e alla luce del mondo. Essi portano al mondo la felicità, trasfigurano la vita e danno sapore ad ogni realtà umana; se vengono meno non possono essere sostituiti da nessuno. Essi devono essere testimoni trasparenti della luce di Cristo che hanno in sé, perché tutti, dentro e fuori della Chiesa, vedano le loro opere buone e glorifichino il Padre loro che è nei cieli.
Il discorso in seconda persona (voi) collega il testo alla nona beatitudine (vv.11-12) ma anche a tutto il discorso successivo, che solo dal versetto 7,21 e segg. ritorna allo stile impersonale e didattico. Con ciò in certo modo si dice che la comunità perseguitata e oltraggiata è particolarmente adatta ad essere il sale della terra e la luce del mondo. Il v.16 però riferisce il sale e la luce alle opere buone di ogni genere.
Il potere del sale è molteplice. Esso condisce, depura, protegge dalla putrefazione. Nell'Antico Testamento lo si usava per il sacrificio. Secondo Lv 2,13 è prescritto che in ogni sacrificio di oblazione si offra il sale. Nel mondo greco il sale simboleggia l'ospitalità. Il significato dei discepoli per il mondo corrisponde a quello del sale per il cibo: sono insostituibili. Ma l'accento non è posto su questo punto, ma sulla possibilità di fallire. Il sale può diventare senza gusto, e allora non c'è più nulla con cui si possa salare.
Se i discepoli falliscono, se mancano al proprio compito, non resta loro che attendere il giudizio che gli uomini pronunciano su di loro. Specialmente in Isaia il giudizio viene presentato come l'essere calpestati (Is 10,6). I cristiani sono il sale della terra se compiono le opere di misericordia sulle quali saranno giudicati (Mt 25,34ss).
Ai discepoli inoltre viene assegnata, senza limiti, la funzione di luce del mondo e di città sul monte. La città sopra il monte simboleggia la forza di attrazione della comunità cristiana. Ai discepoli è affidata la luce perché la facciano risplendere. Occultando la luce, si rendono colpevoli come il servo infingardo che ha nascosto il talento sotto terra (Mt 25,18ss). Far risplendere la luce è la manifestazione della propria fede davanti agli uomini (Mt 10,32-33) e ciò richiede sacrificio. Le direttive del discorso della montagna mirano a far sì che il comportamento degli uomini sia conforme al comportamento di Dio (Mt 5,48).
I cristiani sono sale della terra e luce del mondo quando realizzano una vita buona diversa, delle opere buone diverse da quelle del mondo, che mettano criticamente in questione la vita contraria a Dio nella società e nei singoli.
Mercoledì 13 Giugno 2012 - Sant’Antonio di Padova
Mt 5,17-19
Non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento.
17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Gesù adempie le Scritture realizzando nella sua persona ciò che esse dicevano di lui. L’adempimento della Legge da parte di Gesù non è di ordine puramente dottrinale: è l’impegno stesso della sua vita e della sua morte.
Egli non è venuto per frustrare le attese dell’Antico Testamento, ma per realizzarle: non vuota la Legge del suo contenuto, ma la riempie fino all’ultimo livello, portandola fino alla sua più alta espressione.
Gesù non è un avversario di Mosè, ma non è nemmeno un suo discepolo; è al contrario il vero legislatore che Dio ha inviato agli uomini di tutti i tempi, di cui Mosè era solo un precursore.
Alla venuta del Messia, Mosè è invitato a scomparire (cf. Mt 17,8). La Legge era incompleta non perché non esprimesse la volontà di Dio, ma perché la esprimeva in un modo imperfetto e inadeguato. Anche i minimi dettagli della Legge conservano il loro eterno valore, soprattutto se la Legge è quella rinnovata da Cristo (v. 18).
Gesù compie la Legge, che manifesta la volontà del Padre, amando i fratelli. L’amore non trascura neanche un minimo dettaglio, anzi manifesta la propria grandezza nelle attenzioni minime.
Le realtà più solide, il cielo e la terra, potranno cadere ma non cadrà un iota, cioè la particella più piccola della Legge, finché non sia attuata. Non si tratta di salvaguardare l’adempimento del codice fin nelle sue minime prescrizioni, ma di comprenderne il profondo contenuto che sopravvive nel Vangelo: l’amore. Con la proclamazione del Vangelo l’Antico Testamento non finisce, ma si attua nel Nuovo.
Giovedì 14 Giugno 2012
Mt 5,20-26
Chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.
23Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
25Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo!
La concezione della giustizia secondo Matteo non può essere confusa con quella di Paolo. Per Paolo la giustizia è la giustificazione di Dio concessa per grazia all'uomo; per Matteo è il retto agire richiesto da Dio all'uomo.
Gesù ha rimesso in vigore la Legge come legge di Dio e documento dell'alleanza, ripulita da tutte le storture e le aggiunte delle tradizioni umane e delle incrostazioni depositate dai secoli.
La migliore giustizia, che deve superare quella degli scribi e dei farisei, richiesta da Cristo ai suoi discepoli sta anche nel fatto che Gesù ha ricondotto i singoli precetti a un principio dominante: l'esigenza dell'amore di Dio e del prossimo, da cui dipendono la Legge e i Profeti.
Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro in Mt 5,17: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento".
Gesù parla con autorità pari a quella di Dio che diede i Dieci Comandamenti. "Ma io vi dico" non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce, lo modifica in ciò che suona concessione, e passa dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui tutto promana.
"Ma io vi dico" non è un'antitesi, ma un completamento: l'uccisione fisica viene da un'uccisione interna dell'altro: dall'ira, dal disprezzo, dalla rottura della fraternità nei suoi confronti. L'ira è l'uccisione dell'altro nel proprio cuore. Il disprezzo è l'uccisione interiore che prepara e permette quella esteriore.
Tutte le guerre sono precedute da una campagna denigratoria del nemico, considerato indegno di vivere e meritevole della morte: di conseguenza, ucciderlo è un dovere; anzi, è un'opera gradita a Dio, come ci ha detto Gesù: "Verrà l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (Gv 16,2).
Il comandamento dell'amore del prossimo è superiore anche a quello del culto. La pace con il fratello è condizione indispensabile per la pace e l'incontro con il Padre. Ciò che impedisce il contatto con i fratelli impedisce anche il contatto con Dio.
Non solo chi ha offeso, ma anche chi è stato offeso, deve riconciliarsi col fratello prima di prendere parte a un atto di culto. Non è questione di ragione o di orto; quando c'è qualcosa che divide due membri della stessa comunità, tale ostacolo deve scomparire per poter comunicare con Dio.
La vita è un cammino di riconciliazione con gli altri. Non importa se si ha torto o ragione: se non si va d'accordo con i fratelli, non si è figli di Dio. La realtà di figli di Dio si manifesta necessariamente nel vivere da fratelli in Cristo.
Se non si passa dalla logica del debito a quella del dono e del perdono, si perde la vita di figli del Padre (cfr Mt 18,21-35).
Venerdì 15 Giugno 2012 - SACRATISSIMO CUORE DI GESU' (ANNO B)
Gv 19,31-37
Uno dei soldati gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
31Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. 32Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all'uno e all'altro che erano stati crocifissi insieme con lui. 33Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 35Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. 36Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. 37E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.
Dopo la morte di Gesù l'evangelista riporta una scena originalissima nella quale il Cristo è presentato come l'agnello pasquale che doveva essere immolato senza fratture. Data l'imminenza della festa di Pasqua i giudei si preoccupano di osservare la legge che prescrive la rimozione dei cadaveri dei giustiziati prima della sera (Dt 21,22-23); tanto più questo precetto doveva essere rispettato in occasione della Pasqua. Per tale ragione i capi si premurarono di non lasciare i corpi dei condannati sulla croce nel giorno di quel sabato solenne e pensarono di accelerare loro la morte con la frattura delle gambe. Questa crudeltà doveva servire ad accorciare l'agonia dei crocifissi, i quali, non potendo più far leva sui piedi per respirare, sarebbero morti soffocati. I giudei perciò si rivolsero a Pilato per ottenere la frattura delle gambe dei condannati per farli morire subito e così deporli dalla croce prima del tramonto del sole, cioè prima che iniziasse la solennità della Pasqua.
I soldati romani vennero sul Calvario e spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma "venuti da Gesù, come videro che egli era già morto, non gli spezzarono le gambe" (v.33). Così il Cristo è presentato come l'agnello pasquale al quale non doveva essere rotto alcun osso (v.36). E questo avvenne nella stessa ora in cui nel tempio di Gerusalemme si immolavano gli agnelli pasquali.
A questo punto della narrazione Giovanni rileva un dettaglio al quale annette grande importanza: "Uno dei soldati con una lancia colpì il suo fianco e subito ne uscì sangue e acqua" (v.34).
Come abbiamo constatato a più riprese nel vangelo secondo Giovanni, l'acqua viva o corrente donata dal Cristo, simboleggia il sacramento dell'Eucaristia (Gv 6,53ss). Perciò il Cristo crocifisso viene presentato come la fonte della vita eterna e della salvezza, in quanto rivelatore perfetto dell'amore di Dio e autore del sacramento dell'Eucaristia.
L'evangelista si presenta lungo tutto il vangelo come testimone diretto di tutti gli eventi che narra, ma qui, nel v. 35, ribadisce che la sua testimonianza è verace. L'appello alla veracità della testimonianza di chi ha visto, vuole inculcare la storicità della scena del versamento del sangue e dell'acqua dal fianco del Cristo crocifisso e favorire la fede dei lettori del suo vangelo. La contemplazione della rivelazione suprema dell'amore di Gesù sulla croce, con il costato trafitto, immolato come l'agnello pasquale, suscita la fede esistenziale che si concretizza in un contraccambio d'amore. Se i segni operati da Gesù devono favorire la fede in lui, Messia e Figlio di Dio (Gv 20,30-31), a maggior ragione il segno supremo della carità di Cristo, con il petto squarciato, deve invitare a credere esistenzialmente nella sua persona divina, perché gli eventi descritti in questa scena adempiono la Scrittura (v.36). Perciò l'adempimento dell'Antico Testamento nella vita di Gesù costituisce un argomento a favore della fede nel Cristo, Figlio di Dio, perché in tal modo è mostrato che egli è il personaggio predetto dai profeti, che riempie di sé tutta la Bibbia.
Gli oracoli dell'Antico Testamento realizzati nella scena del colpo di lancia sono due: il primo concerne l'agnello pasquale, il secondo il personaggio messianico trafitto. Nella Bibbia era prescritto che l'agnello pasquale dovesse essere immolato senza frattura di ossa (Es 12,46; Nm 9,12). Ora con la sua morte Gesù ha adempiuto anche questo dettaglio della Scrittura (vv.32.36). Il colpo di lancia con il quale Cristo fu trafitto ha realizzato un altro passo biblico, quello di Zaccaria 12,10 nel quale si parla dello sguardo a colui che hanno trafitto. Evidentemente lo sguardo al crocifisso trafitto è lo sguardo della fede, simile a quello rivolto al serpente di bronzo (Gv 3,14-15).
Sabato 16 Giugno 2012 - Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria
Lc 2,41-51
Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo.
41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
Tre volte all’anno c’erano celebrazioni che richiamavano a Gerusalemme i pellegrini, secondo il comando del Signore: "Tre volte all’anno farai festa in mio onore: Osserverai la festa degli azzimi…Osserverai la festa della mietitura…la festa del raccolto, al termine dell’anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi. Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio" (Es 23,14-17).
Il figlio Gesù perduto è ritrovato dopo tre giorni nel tempio cioè nella casa del Padre, seduto. Questo fatto è preannuncio della pasqua di Gesù risorto e seduto alla destra del Padre.
Luca narra l’infanzia del Salvatore alla luce degli avvenimenti della sua pasqua di risurrezione. Il racconto che ha sfiorato, con le parole di Simeone, il dramma della passione (la spada), si chiude con l’annuncio della risurrezione. Il quadro dello smarrimento e del ritrovamento presenta anticipatamente il mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Maria e Giuseppe rappresentano la comunità cristiana, che ha perso improvvisamente il suo maestro, ma dopo "tre giorni" di attesa e di ricerca riesce a ritrovarlo risuscitato nella gloria del Padre.
Qui Gesù nomina per la prima volta il Padre. Le prime e le ultime parole di Gesù riguardano il Padre (Lc 2,49 e 23,46). La paternità di Dio fa da inclusione a tutto il vangelo di Gesù secondo Luca. Gesù "deve" essere presso il Padre, ascoltare il Padre e rispondere a ciò che il Padre ha detto. L’espressione del testo originale greco en tois tou patros mou dei einai me (v. 49) non significa devo occuparmi delle cose del Padre mio, ma devo essere presso il Padre mio.
Non deve meravigliare che Maria e Giuseppe "non compresero le sue parole" ( v. 50). Il cammino della rivelazione è ancora lungo. Siamo solo agli inizi.
Maria non comprende subito il grande mistero dei tre giorni di Gesù col Padre, ma custodisce nel suo cuore i detti e i fatti. In questo ricordo costante della Parola accolta, il cuore progressivamente si illumina nella conoscenza del Signore.
Il racconto dell’infanzia si conclude con il ritorno a Nazaret. Per tutto il resto dell’adolescenza e della giovinezza di Gesù Luca non ha nulla di straordinario da segnalarci all’infuori della sua umile sottomissione ai genitori. Nella famiglia egli ha preso il suo posto di figlio rispettoso e obbediente verso quelli che, per volontà del Padre, hanno la responsabilità su di lui.
L’evangelista conclude annotando che Gesù cresceva in sapienza, in statura e grazia. Egli si rivela sempre più assennato e nello stesso tempo piacevole, amabile. Vi è certamente anche un riflesso della sua bontà e della sua santità, ma non è detto esplicitamente.
I cristiani sono chiamati a ripercorrere l’esperienza di Maria per diventare come lei, figura e madre di ogni credente. Quanto si racconta di Maria in questi due capitoli è quanto deve fare il cristiano. Ma il modello sublime da imitare e da incarnare fino alla perfezione è soprattutto e sopra tutti il nostro Signore Gesù Cristo.
Domenica 17 Giugno 2012 - XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Mc 4,26-34
È il più piccolo di tutti i semi, ma diventa più grande di tutte le piante dell’orto.
26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
L’ottimismo di Gesù è evidente. Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle idee e sa che quelle racchiuse nella parola di Dio hanno una potenza divina che supera tutte le altre: la parola uscita dalla bocca di Dio non tornerà senza effetto, senza aver operato ciò che egli desidera e senza aver compiuto ciò per cui egli l’ha mandata (cf. Is 55,11).
Perché la Parola produca frutto basta seminarla, annunciando il vangelo: il resto viene da sé. Forse che il contadino, dopo la semina, si ferma nel campo per ricordare al seme che deve germogliare? Il seme non ha bisogno di lui, è autosufficiente: ha in sé tutto il necessario per diventare spiga matura. Così il regno di Dio annunciato dalla Parola.
Compito del cristiano è l’evangelizzazione: il resto non dipende da lui, ma da chi accoglie la parola di Dio. Riferendosi alla comunità cristiana di Corinto, Paolo ha scritto: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6).
Non è l’azione dell’uomo che produce il Regno, ma la potenza stessa di Dio, nascosta nel seme della sua parola. Tante nostre ansie per il bene, non solo non sono utili, ma dannose. Tutte le nostre inquietudini non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cf. Mt 6,25–34), ma dalla nostra mancanza di fede.
L’efficacia del vangelo è l’opposto dell’efficienza mondana. Il regno di Dio è di Dio. Quindi l’uomo non può né farlo né impedirlo. Può solo ritardarlo un po’, come una diga sul fiume.
Gesù ha seminato la Parola, ed è lui stesso il seme di Dio gettato nel campo della storia. Ha bisogno solo di trovare una terra preparata che lo accoglie e una pazienza fiduciosa che sa attendere.
Gesù ha proclamato: «Il regno di Dio è vicino» (Mc 1,5), ma apparentemente nulla è cambiato nel mondo: la gente continua a vivere, a soffrire e a morire. Di nuovo c’è semplicemente un uomo che predica in un luogo poco importante dell’impero e i suoi ascoltatori sono malati, analfabeti, squattrinati: quelli che non contano niente. É tutto qui il regno di Dio? Sì, è tutto qui! Grande come un granellino di senapa. Proprio perché Dio è grande non ha paura di farsi piccolo; proprio perché il suo regno è potente, può fare a meno di ogni apparato esterno grandioso: non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi.
Il mondo oppone al regno di Dio le sue terribili seduzioni: il denaro, il piacere, e le sue forze che impauriscono: la persecuzione, le tribolazioni, la morte violenta… Le parabole presentano una visione severa del Regno: esso viene attraverso lotte e opposizioni. Eppure esso prevarrà certamente contro ogni ostacolo.
La venuta del regno di Dio non è tanto ostacolata dalla malvagità dei cattivi, ma dalla stupidità dei buoni. La nostra inesperienza spirituale è la più grande alleata del nemico. Il diavolo ci dà volentieri tanto zelo quando manchiamo di esperienza evangelica, perché usiamo per la venuta del regno di Dio quei mezzi che il Signore scartò come tentazioni: il successo, la pubblicità, l’efficienza e la grandezza.
Gesù è la grandezza di Dio che per noi si è fatto piccolo fino alla morte di croce. Proprio così è diventato il grande albero dove tutti possono trovare accoglienza. Il discepolo deve rispecchiare il suo spirito di piccolezza e di servizio. Questo vince il male del mondo, che è desiderio di grandezza e di potere.
Chi ama si fa piccolo per lasciare posto all’amato; il suo io scompare per diventare pura accoglienza dell’altro. Per questo la piccolezza è il segno della grandezza di Dio (cf. Lc 2,12).
«Annunciava loro la parola secondo quello che potevano intendere» (v. 33). É un tratto importante della pedagogia di Gesù: progressività, adattamento alle persone e ai loro ritmi di crescita.
Anche noi, a imitazione di Gesù, dobbiamo incarnarci nella situazione di chi non capisce o non riesce a convertirsi rapidamente e a reggersi costantemente in piedi, ricordandoci che un tempo eravamo anche noi nelle medesime condizioni e forse lo siamo ancora.
L’evangelizzatore deve agire come Gesù. Egli vuole la conversione di tutti: il suo atteggiamento è dettato dalla misericordia e dalla compassione. Egli si rivolge a tutti, buoni e cattivi, disposti e indisposti (ricordiamo i quattro tipi di terreno della parabola!) perché vuole che tutti siano salvati.
Lunedì 18 Giugno 2012
Mt 5,38-42
Io vi dico di non opporvi al malvagio.
38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l'altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
La frase "occhio per occhio e dente per dente" riporta la legge del taglione (Es 19,15-51; 21,24; Lv 24,20). É uno dei capisaldi delle legislazioni antiche (Codice di Hammurabi e Legge delle dodici tavole). Essa doveva sostituire la legge della vendetta di sangue (Gen 4,23). Al tempo di Gesù la legge del taglione era ancora vigente, ma poteva essere sostituita con un risarcimento in denaro.
La non-violenza richiesta da Gesù non è vile rassegnazione, ma forza e intraprendenza dell'amore. La potenza dell'impotenza ha la sua più alta manifestazione in Gesù che "fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio" (2Cor 13,4) e poggia sulla fede che l'impotenza della croce vince il male.
Con il principio della non-violenza Gesù contrappone alla mentalità giuridica dell'Antico Testamento il nuovo ideale dell'amore. Il male perde la sua forza d'urto solo quando non trova resistenza.
La Chiesa perseguitata ha assunto questo atteggiamento comandato da Gesù: "Gli apostoli se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù" (At 5,41).
I quattro esempi elencati da Matteo hanno lo scopo di illustrare il comandamento: "Ma io vi dico di non opporvi al malvagio".
Lo schiaffo sulla guancia destra è particolarmente doloroso e oltraggioso perché è un manrovescio. Gesù flagellato e schiaffeggiato conferma con il suo esempio la validità del suo insegnamento (Mt 26,67; Is 50,6).
La lite giudiziaria con chi pretende la tunica come caparra o come risarcimento danni non ha più senso per il discepolo di Gesù, anzi, egli non farà valere per sé neppure il comandamento che vietava il pignoramento del mantello del povero e il dovere di restituirglielo prima del tramonto del sole (Es 22,25; Dt 24,13): egli darà la tunica e il mantello senza opporre resistenza.
Il terzo esempio che mette il discepolo a confronto con la violenza è quello della requisizione da parte di autorità militari o statali per costringerlo a prestazioni forzate. Ne abbiamo un esempio in Mt 27,32: "Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prendere su la croce di lui".
Il miglio (= 1478,70 metri) era una misura romana e quindi richiama concretamente la dominazione dell'impero di Roma al tempo di Gesù e dell'evangelista. Quando gli saranno imposte queste prestazioni forzate, il discepolo di Gesù non deve ribellarsi o coltivare astio nel cuore, ma prestarsi liberamente e di buon animo a fare con gioia il doppio di quanto esige da lui la prepotenza del malvagio.
Il quarto esempio ci presenta i poveri e i richiedenti. Essi non sono dei nemici o dei malvagi, ma possono suscitare una reazione violenta a causa delle cattive esperienze fatte in precedenza. Leggiamo nel Libro del Siracide 29,4-10: "Molti considerano il prestito come una cosa trovata e causano fastidi a coloro che li hanno aiutati. Prima di ricevere, ognuno bacia le mani del creditore, parla con tono umile per ottenere gli averi dell'amico; ma alla scadenza cerca di guadagnare tempo, restituisce piagnistei e incolpa le circostanze. Se riesce a pagare, il creditore riceverà appena la metà e dovrà considerarla come una cosa trovata. In caso contrario il creditore sarà frodato dei suoi averi e avrà senza motivo un nuovo nemico; maledizioni e ingiurie gli restituirà, renderà insulti invece dell'onore dovuto. Tuttavia sii longanime con il misero e non fargli attendere troppo l'elemosina. Per il comandamento soccorri il povero secondo la sua necessità, non rimandarlo a mani vuote. Perdi pure denaro per un fratello e amico, non si arrugginisca inutilmente sotto una pietra".
La motivazione del comandamento: "Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle" sarà evidenziata nel seguito del vangelo da Gesù stesso che ci comanda la conformità con il comportamento del Padre: "Il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano" (Mt 7,11).
Attraverso questi atteggiamenti i discepoli si dimostrano amici dei loro nemici e tentano di cooperare con Dio per il ravvedimento degli ingiusti e dei malvagi come ha fatto Gesù. San Paolo ha sintetizzato questo insegnamento in Rm 12,21: "Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male".
Se questi princìpi e questi comportamenti entrassero nella società, essa non solo non ne avrebbe un danno, ma vedrebbe migliorare i rapporti umani più di quanto possono ottenere tutti gli apparati della giustizia, della prevenzione e della repressione.
Martedì 19 Giugno 2012
Mt 5,43-48
Amate i vostri nemici.
43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
Il comandamento dell'amore, esteso indistintamente a tutti, è il supremo completamento della Legge (v.17). A questa conclusione Gesù è arrivato lentamente dopo aver parlato dell'astensione dall'ira e dell'immediata riconciliazione (vv.21-26), del rispetto verso la donna (vv.27-30) e la propria moglie (vv.31-32), della verità e sincerità nei rapporti interpersonali (vv.33-37), fino alla rinuncia alla vendetta e alle rivendicazioni (vv.38-42).
Il principio dell'amore del prossimo è illustrato con due esemplificazioni pratiche: pregare per i nemici e salutare tutti senza discriminazione. La più grande sincerità di amore è chiedere a Dio benedizioni e grazie per il nemico. Questo vertice dell'ideale evangelico si può comprendere solo alla luce dell'esempio di Cristo (cfr Lc 23,34) e dei suoi discepoli (cfr At 7,60). Colui che prega per il suo nemico viene a congiungersi con lui davanti a Dio. In senso cristiano la preghiera è la ricompensa che il nemico riceve in cambio del male che ha fatto.
Il precetto della carità non tiene conto delle antipatie personali e dei comportamenti altrui. Il prossimo di qualsiasi colore, buono o cattivo, benevolo o ingrato dev'essere amato. Il nemico è colui che ha maggiormente bisogno di aiuto: per questo Gesù ci comanda di offrirgli il nostro soccorso.
Il comandamento dell'amore dei nemici rivoluziona i comportamenti tradizionali dell'uomo. La benevolenza cristiana non è filantropia, ma partecipazione all'amore di Dio. La sua universalità si giustifica solo in questa luce: "affinché siate figli del Padre vostro (v.45), e "siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli" (v. 48). Il cristiano esprime nel modo più sicuro e più vero la sua parentela con Dio amando indistintamente tutti.
L'amore del nemico è l'essenza del cristianesimo. Sant'Agostino ci insegna che "la misura dell'amore è amare senza misura", ossia infinitamente, come ama Dio.
In quanto figli di Dio i cristiani devono assomigliare al loro Padre nel modo di essere, di sentire e di agire. L'amore verso i nemici è la via per raggiungere la sua stessa perfezione.
La perfezione di cui parla Matteo è l'imitazione dell'amore misericordioso di Dio verso tutti gli uomini, anche se ingiusti e malvagi. Il cristiano è una nuova creatura (cfr 2Cor 5,17) e non può più agire secondo i suoi istinti e capricci, ma conformemente alla vita nuova in cui è stato rigenerato.
Gesù pone come termine della perfezione l'agire del Padre, che è un punto inarrivabile. L'imitazione del Padre, e conseguentemente di Gesù, è l'unica norma dell'agire cristiano, l'unica via per superare la morale farisaica. Essere perfetti come il Padre è in concreto imitare Cristo nella sua piena ed eroica sottomissione alla volontà del Padre, e nella sua dedizione ai fratelli. É perciò diventando perfetti imitatori di Cristo, che si diventa perfetti imitatori del Padre.
Mercoledì 20 Giugno 2012
Mt 6,1-6.16-18
Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c'è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
16E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un'aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 17Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, 18perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Il discorso riprende l'enunciato di 5,20; "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli". Il termine giustizia (sedaqah) è usato nella Bibbia per sintetizzare i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede.
I rapporti con Dio, nostro Padre, devono essere improntati alla fiducia, alla confidenza e soprattutto alla sincerità.
L'autentica giustizia non ha come punto di riferimento gli uomini, ma va esercitata davanti al Padre che è nei cieli. Farsi notare dagli uomini è perdere ogni ricompensa presso il Padre.
Matteo sottolinea la vanità di un gesto puramente umano: gli ipocriti, che cercano l'approvazione, hanno già ricevuto la loro ricompensa.
L'ipocrisia consiste nel fatto che un'azione, che ha Dio come destinatario, viene deviata dal suo termine. L'elemosina, la preghiera e il digiuno devono essere fatti per il Padre che vede nel segreto.
Queste azioni fatte "nel segreto" non significano necessariamente azioni segrete: indicano ogni azione, anche pubblica, fatta per il Padre e non per essere visti dagli uomini. É l'intenzione profonda che conta perché la ricompensa si situa a questo livello: la ricompensa è l'autenticità del rapporto con il Padre.
Il cristiano deve fare l'elemosina in modo da salvaguardare la rettitudine dell'aiuto prestato al fratello per amore del Padre.
La strumentalizzazione della preghiera è la deformazione più inspiegabile della pietà, perché mette a proprio servizio anche ciò che è essenzialmente di Dio.
Gesù nel suo intervento non si propone di modificare il rituale della preghiera giudaica, solo suggerisce un modo più retto di compierla, evitando l'ostentazione, il formalismo, l'ipocrisia. Gli stessi rabbini insegnavano: "Colui che fa della preghiera un dovere, che ritorna a ora fissa, non prega con il cuore".
Il richiamo di Gesù è sulla stessa linea della tradizione profetica e sapienziale e trova conferma nei suoi successivi insegnamenti e più ancora nella sua vita.
Il digiuno è un'altra importante pratica della vecchia e della nuova "giustizia". Esso è un atto penitenziale che completa e aiuta la preghiera.
Gesù, come i profeti, non condanna il digiuno ma il modo nel quale era fatto. Invece di esprimere la propria umiliazione, esso diventava una manifestazione di orgoglio.
Il digiuno cristiano, come l'elemosina e la preghiera, deve essere compiuto di nascosto. Il cristiano non deve fare ostentazione della sua penitenza; deve anzi nasconderla con un atteggiamento gioioso.
Il digiuno, come ogni altra sofferenza, è una fonte di gioia perché ottiene un maggior avvicinamento a Dio. L'invito di Gesù ad assumere un atteggiamento giulivo invece che tetro, sottolinea il significato definitivo della penitenza cristiana: poter soffrire è una grazia (cfr 1Pt 2,19).
Giovedì 21 Giugno 2012 - San Luigi Gonzaga
Mt 6,7-15
Voi dunque pregate così.
ascolta mp37Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
9Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
10venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
11Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; 15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Gesù ci insegna la preghiera cristiana, che si contrappone alla preghiera dei farisei e dei pagani: il Padre nostro.
É un testo di grande importanza che ci aiuta a comprendere chi è il cristiano. Il Padre nostro è una parola di Dio rivolta a noi, più che una nostra preghiera rivolta a lui. É il riassunto di tutto il vangelo. Non è Dio che deve convertirsi, sollecitato dalle nostre preghiere: siamo noi che dobbiamo convertirci a lui.
Il contenuto di questa preghiera è unico: il regno di Dio. Ciò è in perfetta consonanza con l'insegnamento di Gesù: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (Mt 6,33).
Padre nostro. Il discepolo ha diritto di pregare come figlio. E sta in questo nuovo rapporto l'originalità cristiana (cfr Gal 4,6; Rm 8,15). La familiarità nel rapporto con Dio, che nasce dalla consapevolezza di essere figli amati dal Padre, è espressa nel Nuovo Testamento con il termine parresìa che può essere tradotto familiarità disinvolta e confidente (cfr Ef 3,11-12). L'aggettivo nostro esprime l'aspetto comunitario della preghiera. Quando uno prega il Padre, tutti pregano in lui e con lui.
L'espressione che sei nei cieli richiama la trascendenza e la signoria di Dio: egli è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Il sapere che Dio è Padre porta alla fiducia, all'ottimismo, al senso della provvidenza (cfr Mt 6,26-33).
Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Il verbo della prima invocazione è al passivo: ciò significa che il protagonista è Dio, non l'uomo. La santificazione del nome è opera di Dio. La preghiera è semplicemente un atteggiamento che fa spazio all'azione di Dio, una disponibilità. L'espressione santificare il nome dev'essere intesa alla luce dell'Antico Testamento, in particolare di Ez 36,22-29. Essa indica un permettere a Dio di svelare il suo volto nella storia della salvezza e nella comunità credente. Il discepolo prega perché la comunità diventi un involucro trasparente che lasci intravedere la presenza del Padre.
La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e attende tutto questo. Ma la sua preghiera implica contemporaneamente un'assunzione di responsabilità: egli attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio per costruirlo. La volontà di Dio è il disegno di salvezza che deve realizzarsi nella storia.
Come in cielo, così in terra. Bisogna anticipare qui in terra la vita del mondo che verrà. La città terrestre deve costruirsi a imitazione della città di Dio.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Il nostro pane è frutto della terra e del lavoro dell'uomo, ma è anche, e soprattutto, dono del Padre. Nell'espressione c'è il senso della comunitarietà (il nostro pane) e un senso di sobrietà (il pane per oggi). Il Regno è al primo posto: il resto in funzione del Regno.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Anche queste tre ultime domande riguardano il regno di Dio, ma dentro di noi. Il Regno è innanzitutto l'avvento della misericordia.
Questa preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno. L'uomo è nel mezzo, conteso e sollecitato da entrambi. Nessun pessimismo, però. Il discepolo sa che niente e nessuno lo può separare dall'amore di Dio e strappare dalle mani del Padre.
Matteo commenta il Padre nostro su un solo punto, rimetti a noi i nostri debiti.... Ecco il commento: "Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi...".
Nel capitolo precedente Matteo aveva messo in luce l'amore per tutti. Ora mette in luce la sua concreta manifestazione: il perdono.
Venerdì 22 Giugno 2012
Mt 6,19-23
Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
19Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. 21Perché, dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
22La lampada del corpo è l'occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; 23ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!
In questo brano Gesù ci dà due comandamenti: "Non accumulatevi tesori sulla terra...Accumulatevi invece tesori nel cielo". L'accumulare tesori, il diventare ricco è l'aspirazione di ogni uomo. Nella ricchezza egli cerca di manifestare la sua potenza, la sua superiorità, la sua vanagloria, la sua superbia, ma soprattutto in essa cerca la sicurezza contro tutti i pericoli, compresa la morte, e la possibilità di avere tutte le soddisfazioni che il benessere economico può dare. La ricerca egoistica dei beni materiali sottrae tempo ed energie all'acquisizione dei beni del cielo e rende l'uomo schiavo delle cose che possiede e desidera.
Ognuno deve avere qualcosa o qualcuno a cui dedicare le sue attenzioni e le sue forze. Il problema è la scelta di questo tesoro a cui attaccare il cuore. L'uomo diventa ciò che ama. Se ama le cose diventa come le cose, se ama Dio diventa come Dio.
L'uso delle cose è buono fino a quando non diventa ostacolo per seguire Cristo e amare i fratelli. Il cristiano non può essere schiavo di nulla e di nessuno perché "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi" (Gal 5,1). Il cristiano dona l'avere per ottenere l'essere: essere come il Padre.
Il detto evangelico della lucerna del corpo ci presenta la necessità della chiarezza nell'orientamento della vita. La vera luce è Gesù (Mt 4,16; Gv 1,9; 8,12; ecc.). L'occhio buono è quello che accoglie la luce della rivelazione di Gesù; l'occhio cattivo, quello che la rifiuta. L'occhio che lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nella luce, l'occhio che non lascia entrare questa luce immerge tutta la persona nelle tenebre.
L'occhio viene presentato come il simbolo del cuore, della mente. Il cuore dell'uomo dev'essere orientato a Dio e vivere nella ricerca dei tesori del cielo, allora tutto l'uomo è nella luce. Se invece si perde nella ricerca dei beni materiali diventa cieco e tutta la sua persona è immersa nelle tenebre.
Nella Bibbia l'occhio esprime l'orientamento spirituale della persona. L'occhio buono esprime la giusta relazione con Dio, dal quale l'uomo viene totalmente illuminato (Sal 4,7; 36,10). L'occhio cattivo esprime l'opposizione dello spirito dell'uomo nei confronti di Dio.
Nel vangelo di Matteo l'occhio cattivo è simbolo dell'invidia, dell'avarizia, dell'egoismo (20,15). L'occhio che non accoglie la luce della rivelazione di Gesù diventa ottenebrato. La tenebra totale e definitiva è la perdizione eterna.
Sabato 23 Giugno 2012
Mt 6,24-34
Non preoccupatevi del domani.
24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.
Dio vuole per sé tutto l'uomo e non tollera compromessi: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" (Mt 22,37). Dietro tutte le forme di idolatria si nasconde il maligno. Egli si nasconde dietro il mammona, che è l’insieme delle cose che possediamo. Chi adora il mammona, adora satana. Il detto intende provocare nell'ascoltatore una decisione chiara: o Dio o il possesso. Quando si cerca di accumulare ricchezza, questa diventa un idolo e Dio viene dimenticato.
Questo detto trova una clamorosa dimostrazione nel racconto di Mt 19,16-30. Il ricco che non accoglie la chiamata di Gesù indica l'impossibilità di vivere secondo il vangelo e di restare contemporaneamente attaccati alle proprie ricchezze. La conquista del mondo è il comando dato da Dio agli uomini (Gen 1,28). L'uso delle cose è legittimo, ma esse devono restare al nostro servizio e non noi al loro. Quando il possesso delle cose impedisce o ritarda il cammino verso Dio e il prossimo, allora abbiamo la riprova che il mammona è più importante di Dio e dei fratelli. Il peccato è amare le creature al posto del Creatore. Tutto deve essere sacrificato per il raggiungimento del fine ultimo che è Dio (Mt 5,29-30).
Chi vive totalmente orientato a Dio, come ci ha insegnato il vangelo fino a questo punto, deve evitare l’affanno per le necessità materiali. Dio che ci ha già dato il più (la vita) ci darà anche il meno (il cibo e il vestito). Affannarsi è mancanza di fede nell'amore infinito e provvidente del Padre. In queste preoccupazioni inutili possono cadere ugualmente, anche se per motivi opposti, il povero e il ricco.
Il senso della vita non può ridursi alla sola ricerca dei beni materiali e all’appagamento dei bisogni fisici. Gesù ci ha già insegnato in Mt 4,4: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio".
I motivi per cui dobbiamo liberarci dai desideri di possedere e dalle preoccupazioni materiali sono due: la conoscenza del vero Dio, nostro Padre, provvidente e buono, e il compito prioritario che Dio ci ha affidato di cercare il suo regno e la sua giustizia.
I pagani sono tutti coloro che non conoscono Dio come loro Padre provvidente e salvatore e di conseguenza si agitano come se fossero degli orfani che devono confidare esclusivamente nelle proprie forze.
Gesù non vuole assolutamente distogliere l'uomo dal lavoro. Sta scritto infatti: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2,15). Egli vuole insegnarci a vivere bene, come persone intelligenti e illuminate dalla fede.
Infatti affannarsi è inutile e dannoso. L'affanno guasta l'uomo e gli accorcia la vita: "Quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore in cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questa è vanità" (Qo 2,22-23).
Dopo averci ripetutamente comandato di non affannarci per l’oggi, Gesù ci comanda di non affannarci neppure per il domani perché è un atteggiamento sciocco: "E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?" (Mt 6,27).
Il Padre nostro celeste, che ha cura del nostro presente, avrà cura anche del nostro domani.
Domenica 24 Giugno 2012 - NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA (Messa del Giorno)
Lc 1,57-66.80
Giovanni è il suo nome.
57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All'istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
L'attuazione della salvezza comincia con la nascita di Giovanni. Essa riempie gli animi di gioia e li spinge ad elevare un canto di ringraziamento a Dio e a ricolmare di felicitazioni la madre del bambino.
Il centro di questo racconto è la questione del nome da dare al bambino. Il nome indica la natura della persona, la sua missione, il suo valore unico e irripetibile. Giovanni significa "Dio fa grazia"; significa dono, grazia, amore di Dio.
Il rito della circoncisione è movimentato. Tutto serve per mettere in rilievo la vocazione e la missione di Giovanni. Nel suo nome, che significa "Dio fa grazia", c'è tutto il programma che è chiamato a realizzare. Esso indica che Dio sta per dare una prova inaudita della sua misericordia verso gli uomini.
L'uso ebraico di imporre al neonato il nome del genitore o di un antenato voleva indicare la continuità con il passato. Qui viene interrotto perché questo bambino ha un cammino proprio da percorrere indipendentemente dalla parentela o discendenza carnale.
Ogni vita, ogni nascita è dono di Dio. La nascita di un uomo non è mai un caso, è sempre il compimento di un disegno d'amore di Dio. Il Signore mi ha disegnato con amore sul palmo della sua mano (Is 49,16), fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome (Is 49,1), è lui che ha creato le mie viscere e mi ha tessuto nel grembo di mia madre (Sal 139,13).
L'uomo è il prodigio dell'amore di Dio: "Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio" (Sal 139,14). Dio dice ad ogni uomo: "Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e ti amo" (Is 43,4). La nostra dignità si comprende solo se guardiamo a Colui dal quale abbiamo avuto inizio e al quale ritorniamo: alla fine Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
Ogni nascita è una dilatazione dell'amore e della misericordia del Signore, la cui tenerezza si espande su tutte le creature (Sal 145,9). Solo se si capisce così una nascita, si può comprendere il vero valore e il vero spessore di una vita.
I vicini e i parenti si rallegrano con Elisabetta perché il Signore ha manifestato in lei la sua grande misericordia. Il credente è colui che vede l'azione di Dio dove il non credente vede solo l'azione dell'uomo.
Il nome di Giovanni viene da Dio (Lc 1,13). Il nome di ogni figlio, il suo essere, la sua vocazione, il suo destino vengono da Dio.
La meraviglia di tutti (v.63) sta nella scoperta che Dio è grazia, misericordia e tenerezza.
Il v. 66 ci presenta un tema caro a Luca: l'ascolto della parola di Dio deve mettere radice nel cuore, crescere e fruttificare (cfr Lc 8,12ss).
Nel bambino Giovanni si manifestano la potenza e la mano di Dio per portare avanti la sua crescita e così prepararlo convenientemente ai suoi compiti futuri.
Lunedì 25 Giugno 2012
Mt 7,1-5
Togli prima la trave dal tuo occhio.
1Non giudicate, per non essere giudicati; 2perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. 3Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? 4O come dirai al tuo fratello: «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo occhio c'è la trave? 5Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
L'imperativo "Non giudicate, per non essere giudicati da Dio" suona come un principio assoluto. Solo Dio può decidere del destino di ogni uomo. Anche la doverosa correzione fraterna può essere fatta solo nella consapevolezza del proprio peccato.
Per natura siamo più portati a giudicare i difetti degli altri che a correggere i nostri.
Dio pronuncerà su di noi lo stesso giudizio che noi pronunceremo sul prossimo e ci misurerà con la stessa misura con cui noi misuriamo gli altri.
Il rigore e lo zelo sono spesso il contrario della compassione e della misericordia, che sono le virtù tipiche del cristiano, e quindi possono essere manifestazioni di mancanza d'amore ed espressioni di cattiveria.
La psicologia ci insegna che i difetti altrui che più ci irritano sono normalmente proprio i nostri difetti che detestiamo negli altri invece che in noi stessi.
Il fariseo ipocrita che sale al tempio a pregare non solo si vanta di essere pio e osservante, ma si sente in dovere di disprezzare tutti gli altri uomini che egli giudica ladri, ingiusti e adulteri (Lc 18,9-14).
Nessuno deve giudicare l'altro, perché deve ritenerlo superiore a sé (Fil 2,3). Il giudizio appartiene solo al Signore perché a lui appartengono tutti gli uomini. L'apostolo Paolo ha scritto: "Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare" (Rm 14,4).
Martedì 26 Giugno 2012
Mt 7,6.12-14
Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.
6Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.
13Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. 14Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!
Il comando del v. 6 è rivolto a tutti coloro che annunciano la parola di Dio. I discepoli devono avere sempre presenti queste due cose: il dovere di predicare il vangelo e il dovere di non esporre alla profanazione la parola di Dio. I cani e i porci sono gli ignoranti, gli empi, i pagani. Le cose sante e le perle sono l’annuncio del regno di Dio. Il vangelo va annunciato a tutti, ma va anche difeso da coloro che lo rifiutano e lo deridono. Nel discorso missionario Gesù dirà ai suoi inviati: "Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe: Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe… Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra" (Mt 10,16-23).
Il significato di questo resto è evidente, ma le immagini usate non sono chiare. Le cose sacre (to haghion) sono i doni sacri, le carni dei sacrifici, i pani dell’offerta, ecc. (cfr. J. Jeremias, Matteo 7,6a, in Abraham unser Vater, Fest. O.Michel, Leidel-Koeln 1963, pp. 271-275 ). Non si comprende perciò come queste cose provochino la reazione rabbiosa dei cani, quando vengono poste loro davanti. Ugualmente difficile è spiegare le perle date ai porci al posto del cibo. Sarebbe stato più logico parlare anche nella seconda parte di alimenti o anche nella prima di ornamenti. É probabile che alla base di queste incongruenze ci sia un’errata traduzione dell’originale aramaico. Il termine corrispondente a "ciò che è santo" (qadissah) ha le stesse consonanti di qedasha (anello, orecchino, pendente). Dato che le parole si scrivevano senza vocali, una parola poteva essere letta per l’altra. Anzi, è probabile che lo stesso vocabolo qadissah avesse il duplice significato di cosa sacra e di perla (cfr. E. Zolli in Il Nazareno, pp. 135-147; G. M. Castellini, Struttura Letteraria di Matteo 7,6, in RivBibl 2 (1954), 310-317). Se questa ipotesi di traduzione fosse vera, il consiglio di Gesù sarebbe quello di non legare catenine preziose al collo dei cani affinché, nell’inutile tentativo di raggiungerle per levarsele di dosso, non si rivoltino contro coloro che ve le hanno appese.
Nella seconda parte si presenta un fatto ugualmente sorprendente. Chi getta le perle davanti ai porci? Anche qui si potrebbe avere una traduzione inesatta del testo primitivo. La preposizione (emprosthen) nel corrispondente aramaico non significa solo ‘davanti’ ma anche ‘naso’. I verbi ‘dare’ e ‘gettare’ possono ugualmente significare ‘appendere’ e ‘ornare’ (cfr. M. Blak, An Aramaic Approach to the Gospels and Acts, Oxford 1954; J. Jeremias art. cit., p. 273). In base a questo sottofondo aramaico il tenore della frase è maggiormente in armonia col senso proposto sopra. Come lì veniva sconsigliato di appendere catenine al collo dei cani, qui si sconsiglia di ornare di perle il muso dei porci. Abbiamo una conferma di questo nel Libro dei Proverbi: "Un anello d’oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno" (11,22).
Gesù raccomanda il discernimento nell’annuncio del suo Vangelo, diversamente gli ascoltatori, invece di convertirsi, combattono la buona novella. Questo versetto insegna la moderazione, la discrezione, la cautela. Il Vangelo non può essere imposto con la violenza, perché otterrebbe l’effetto contrario.
Il v. 12 è chiamato solitamente "la regola d’oro". Gesù afferma che la perfezione cristiana consiste nella perfezione dell’amore del prossimo. Tutto l’insegnamento evangelico si riassume nel servizio prestato all’altro, anche a prezzo del proprio interesse, perché l’altro è il proprio fratello. L’imperativo "fate" richiede un amore concreto e operoso.
L’amore cristiano è più di una semplice comprensione o benevolenza verso i bisognosi e i deboli: è considerare l’altro come parte integrante del proprio essere. Per questo il peccato più grande è l’egocentrismo, e la virtù più importante è l’impegno sociale e comunitario.
La "regola d’oro" consiste soprattutto nella "regola dell’immedesimazione" o, più prosaicamente, "nel sapersi mettere nei panni degli altri", nella capacità di trasferirsi con amore e fantasia nella situazione dell’altro (anche del nemico). La mancanza di fantasia è mancanza d’amore.
Nel processo di Majdanek risultò evidente che questa mancanza di immedesimazione negli altri può avere conseguenze disastrose. Gli accusati di questo orribile campo di concentramento dimostrarono la quasi totale incapacità di trasferirsi nella situazione delle loro vittime.
La regola d’oro del v. 12 ci spinge verso un’operosità libera e creativa per il bene del prossimo. Essa è espressa in forma positiva e ci sprona a fare tutto il bene possibile a tutti. Ci invita a trasferirci con amore e fantasia nella situazione degli altri, nei panni degli altri. La mancanza di fantasia e di inventiva è mancanza d'amore.
Il verbo "fare" indica un amore concreto e tangibile, come ci insegna anche la 1Gv 3,16-18: "Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità".
La novità del vangelo sta nella concentrazione di tutta la volontà di Dio nel comandamento dell'amore. Questo amore, manifestato a noi in Cristo, ha la sua sorgente e il suo modello nel Padre (Mt 5,43-48).
La "via" (v. 13) è il simbolo del cammino morale dell'uomo. La "via che conduce alla vita" è quella del vangelo, è Gesù in persona (Gv 14,6). La porta stretta e la via angusta significano le rinunce e le persecuzioni connesse con la scelta di vita cristiana.
L'ingresso attraverso la porta stretta è l’ingresso nel regno di Dio (Mt 5,20; 18,1; ecc.), nella vita (Mt 18,8-9; 19,17), nella sala delle nozze (Mt 25,10) e nella gioia del Signore (Mt 25,21.23). In questo contesto del discorso della montagna, l'imperativo "entrate" significa: fate la volontà del Padre. Solo facendo la volontà del Padre si entra nel regno di Dio (Mt 7, 21).
Il discorso sui "molti" e sui "pochi" si riferisce alla situazione presente e non a quella definitiva dopo il giudizio. La via comoda della mediocrità, del peccato e dell’egoismo è molto affollata. Il sentiero stretto e ripido che porta a Dio, tracciato dal discorso della montagna, sembra poco battuto. Gesù quindi ci esorta: "Entrate per la porta stretta".
Il tema della salvezza sarà ripreso in Mt 19,16-26. Alla domanda dei discepoli: "Chi si potrà dunque salvare?" Gesù risponde: "Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile".
Qui, come in 22,14, Matteo recepisce la concezione pessimistica dell'apocalittica extra-biblica: "L'Altissimo ha creato questo mondo per molti, ma quello futuro per pochi" (4 Esd 8,1) non per ragguagliarci sul numero dei salvati, ma per spronarci all'impegno.
Gesù offre la salvezza a tutti (Mt 26,28), ma tocca ai singoli accoglierla con decisione libera e responsabile.
Giovedì 28 Giugno 2012
Mt 7,21-29
La casa costruita sulla roccia e la casa costruita sulla sabbia.
21Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». 23Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!».
24Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».
28Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: 29egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi.
Gesù ci insegna che la preghiera deve andare in perfetta sintonia con la pratica della vita cristiana. Se non si compie la volontà del Padre celeste, la preghiera non serve a nulla.
La volontà del Padre è il suo disegno di salvezza. La preghiera richiesta da Gesù deve portare il cristiano a impegnarsi con entusiasmo e fino alla morte nell'opera della salvezza. Dio non sa cosa farsene delle belle parole di preghiera se non sono seguite dalle opere dell'amore.
La dissociazione tra culto e vita è la malattia dei farisei (Mt 23,3-4). L'unico criterio di valutazione nel giudizio finale sarà quello delle opere di misericordia (Mt 25,31-46).
Molto probabilmente Matteo polemizza con certi carismatici che avevano sempre sulle labbra in nome del Signore, ma non facevano mai nulla di utile per il prossimo. Nel giorno del giudizio non saremo giudicati sul folclore religioso o sulle azioni prodigiose; il giudizio verterà unicamente sull'attuazione della volontà del Padre che ha il suo centro nell'amore fattivo per il prossimo (Mt 25,31-46).
Nella parabola (vv.24-27) viene riassunto il significato di tutto il discorso della montagna. Non basta ascoltare le parole di Gesù, bisogna anche metterle in pratica.
La roccia che dà stabilità al cristiano è Cristo. La parabola ci indica le due condizioni necessarie perché la vita cristiana risulti solida: deve fondarsi su Cristo e passare dalle parole ai fatti. Non c'è vera adesione a Cristo senza l'impegno morale.
Il fondamento sicuro della vita cristiana è la pratica degli insegnamenti di Gesù. L'ascolto è necessario, ma quel che più conta è l'esecuzione di ciò che è stato ascoltato.
Nei vv.28-29 Gesù ci viene presentato come il Maestro che nel discorso della montagna ha dato l'interpretazione autorevole e definitiva della volontà di Dio.
L'insegnamento di Gesù si differenzia da quello degli scribi perché egli non ripete ciò che hanno detto i maestri del passato, ma parla in nome proprio: "Avete inteso che fu detto agli antichi... Ma io vi dico" (Mt 5,21-22; ecc.). Egli ha ricevuto dal Padre l'autorità su tutto l'universo (Mt 28,16).
Gesù non è solamente un esegeta della Legge e dei Profeti, ma l'esegesi, il compimento della Legge e dei Profeti. Coloro che hanno capito che Gesù è l'adempimento definitivo di tutto l'agire di Dio possono discendere con lui dalla montagna e seguirlo.
Venerdì 29 Giugno 2012 - SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI (Messa del Giorno)
Mt 16,13-19
Tu sei Pietro, a te darò le chiavi del regno dei cieli.
13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Gesù pone la domanda fondamentale, sulla quale si decide il destino di ogni uomo: "Voi chi dite che io sia?". Dire chi è Gesù è collocare la propria esistenza su un terreno solido, incrollabile.
La risposta di Pietro è decisa e sicura. Ma il suo discernimento non deriva dalla "carne" e dal "sangue", cioè dalle proprie forze, ma dal fatto che ha accolto in sé la fede che il Padre dona.
Gesù costituisce Pietro come roccia della sua Chiesa: la casa fondata sopra la roccia (cfr 7,24) comincia a prendere il suo vero significato.
Non è fuori luogo chiedersi se Pietro era pienamente cosciente di ciò che gli veniva rivelato e di ciò che diceva. Notiamo il forte contrasto tra questa professione di fede seguita dall'elogio di Gesù: "Beato te, Simone..." e l'incomprensione del v.22: "Dio te ne scampi, Signore..." e infine l'aspro rimprovero di Gesù: "Via da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".
Questo contrasto mette in evidenza la differenza tra la fede apparente e quella vera: non basta professare la messianicità di Gesù. Bisogna credere e accettare che il progetto del Padre si realizza attraverso la morte e la risurrezione del Figlio.
Pietro riceve le chiavi del regno dei cieli. Le chiavi sono segno di sovranità e di potere. Pietro dunque insieme alle chiavi riceve piena autorità sul regno dei cieli. Egli esercita tale autorità sulla terra e non in funzione di portinaio del cielo, come comunemente si pensa. In qualità di trasmettitore e garante della dottrina e dei comandamenti di Gesù, la cui osservanza apre all'uomo il regno dei cieli, egli vincola alla loro osservanza.
Gli scribi e i farisei, in quanto detentori delle chiavi fino a quel momento, avevano esercitato la medesima autorità. Ma, rifiutando il vangelo, essi non fanno altro che chiudere il regno dei cieli agli uomini. Simon Pietro subentra al loro posto.
Se si considera attentamente questa contrapposizione, risulta che il compito principale di cui è incaricato Pietro è quello di aprire il regno dei cieli. Il suo incarico va descritto in senso positivo.
Non si potrà identificare la Chiesa con il regno dei cieli. Ma il loro accostamento in quest'unico brano del vangelo offre l'opportunità di riflettere sul loro reciproco rapporto. Alla Chiesa, quale popolo di Dio, è affidato il regno dei cieli (cfr 21,43). In essa vivono gli uomini destinati al Regno. Pietro assolve il proprio sevizio nella Chiesa quando invita a ricordarsi della dottrina di Gesù, che permette agli uomini l'ingresso nel Regno.
Nel giudaismo, gli equivalenti di legare e sciogliere ('asar e sherà') hanno il significato specifico di proibire e permettere, in riferimento ai pronunciamenti dottrinali. Accanto al potere di magistero si pone quello disciplinare. In questo campo i due verbi hanno il senso di scomunicare e togliere la scomunica.
Questo duplice potere viene assegnato a Pietro. Non è il caso di separare il potere di magistero da quello disciplinare e riferire l'uno a 16,19 e l'altro a 18,18. Ma non è possibile negare che in questo versetto 19 il potere dottrinale, specialmente nel senso della fissazione della dottrina, sta in primo piano.
Pietro è presentato come maestro supremo, tuttavia con una differenza non trascurabile rispetto al giudaismo: il ministero di Pietro non è ordinato alla legge, ma alla direttiva e all'insegnamento di Gesù.
Il legare e lo sciogliere di Pietro viene riconosciuto in cielo, cioè le decisioni di carattere dottrinale prese da Pietro vengono confermate nel presente da Dio. L'idea del giudizio finale è più lontana, proprio se si includono anche decisioni disciplinari.
Nel vangelo di Matteo, Pietro viene presentato come il discepolo che fa da esempio. Ciò che gli è accaduto è trasferibile ad ogni discepolo. Questo vale sia per i suoi pregi sia per le sue deficienze, che vengono impietosamente riferite. Ma a Pietro rimane una funzione esclusiva ed unica: egli è e resta la roccia della Chiesa del Messia Gesù. Pietro è il garante della tradizione su Cristo com'è presentata dal vangelo di Matteo.
Nel suo ufficio egli subentra agli scribi e ai farisei, che finora hanno portato le chiavi del regno dei cieli. A lui tocca far valere integro l'insegnamento di Gesù in tutta la sua forza.
Sabato 30 Giugno 2012
Mt 8,5-17
Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe.
5Entrato in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: 6«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». 7Gli disse: «Verrò e lo guarirò». 8Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9Pur essendo anch'io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va'!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa' questo!», ed egli lo fa».
10Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! 11Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, 12mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti». 13E Gesù disse al centurione: «Va', avvenga per te come hai creduto». In quell'istante il suo servo fu guarito.
14Entrato nella casa di Pietro, Gesù vide la suocera di lui che era a letto con la febbre. 15Le toccò la mano e la febbre la lasciò; poi ella si alzò e lo serviva.
16Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
Egli ha preso le nostre infermità
e si è caricato delle malattie.
Il centurione era il comandante di una centuria, di un gruppo di cento soldati. Egli non chiede nulla per sé, ma prega Gesù per il suo servo gravemente ammalato. Gesù manifesta tutta la sua disponibilità: "Io verrò e lo curerò" (v. 7). Ma il centurione dichiara di non essere degno di ricevere Gesù in casa propria ed è convinto che non occorre che il Signore vada da lui perché lo ritiene capace di comandare anche a distanza sulle potenze del male.
Il centurione è un pagano che crede senza esitazione nel potere della parola di Dio. E la fede nella parola di Dio permette al Signore di agire in noi.
Il miracolo è un segno dell’amore di Dio che interviene a nostro favore, perché è infinitamente sensibile al nostro male. Egli vuole donarci tutto e soprattutto sé stesso. Aspetta solo che glielo chiediamo con fede.
La grande fede del centurione rende manifesta la mancanza di fede in Israele. La semplice appartenenza anagrafica al popolo di Dio non dà a nessuno la certezza di essere salvato: a tutti è richiesta la fede che si manifesta nelle opere.
L’incontro con il centurione offre a Gesù l’occasione per annunciare l’entrata di tutti i popoli nel regno di Dio. I pagani prenderanno posto alla tavola dei patriarchi nel regno dei cieli.
La Chiesa è costituita da coloro che credono nella parola di Dio e la mettono in pratica. Nel regno di Dio entreranno solo i figli, ossia quelli che sono stati rigenerati "dalla parola di Dio viva ed eterna" (1Pt 1,23), dalla parola del vangelo. Il futuro eterno lo si prepara giorno per giorno accogliendo o rifiutando la parola di Gesù. La nostra libertà si esprime pienamente nella fede o nella mancanza di fede, nel nostro acconsentire alla comunione con Dio o nel rifiutarla.
Solo con il detto minaccioso del v. 12 la provocazione raggiunge il suo culmine. É colpita la generazione dei giudei contemporanea di Matteo, il giudaismo guidato dai farisei. La causa della sua esclusione è il rifiuto della parola di Gesù, che è decisiva ai fini della salvezza. Le tenebre significano il luogo più lontano da Cristo, che è la luce (cf. Mt 416) e la salvezza. Il pianto e lo stridore di denti indica il furore smisurato (cf. Sal 3516; 3712; 112,10).
La frase conclusiva del v. 13 ritorna a parlare del servo malato. La precisazione "in quell’istante" significa che la guarigione è avvenuta nel momento in cui Gesù ha pronunciato la sua parola.
In questo brano compare all’orizzonte il pellegrinaggio di tutti i popoli che affluiranno alla casa del Signore, e l’annuncio finale del vangelo di Matteo: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni" (28,19).
Commenti al Vangelo tratti da: http://www.padrelinopedron.it
http://proposta.dehoniani.it/bio/pedron.html
Fonte:
http://www.padrelinopedron.it/data/edicola/Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Commenti%20al%20Vangelo%20del%20giorno/Commento%20al%20Vangelo%20del%20giorno%20-%20%2003%20Marzo%202012.doc
http://www.padrelinopedron.it/data/edicola/Padre%20Lino%20Pedron%20-%20Commenti%20al%20Vangelo%20del%20giorno/Commento%20al%20Vangelo%20del%20giorno%20-%20%2006%20Giugno%202012.doc
Autore del testo: p. Lino Pedron
http://www.padrelinopedron.it/
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