Depressione giovanile e disagio giovanile

 


 

Depressione giovanile e disagio giovanile

 

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La depressione giovanile

 

Tommaso Fratini

 

Il tema della depressione giovanile può essere affrontato secondo prospettive diverse e sviluppato secondo molteplici direzioni, e pertanto ho sentito l’esigenza di premettere alcuni punti ai fini del discorso che avrei cercato di svolgere.
Anzitutto ho anticipato che mi sarei focalizzato sulle problematiche psicologiche degli adolescenti, mentre avrei comunque utilizzato il termine di giovani in senso generico, specialmente per quanto concerne i riferimenti alla cultura, all’immaginario e ai modi di essere delle generazioni giovanili.    
In secondo luogo, per quanto l’argomento si presti a molte considerazioni e spunti di riflessione, il punto di vista sul quale mi sarei basato sarebbe stato principalmente quello della psicologia clinica di ispirazione psicoanalitica. Anche se non si nega di certo l’influenza di determinanti biologiche o costituzionali della depressione – perfino Freud nel saggio Lutto e melanconia (Freud, 1915) le ammetteva - o di fattori di tipo sociale, avrei cercato di affrontare l’argomento sulla base dei contributi psicoanalitici, incentrati sulla realtà psichica e l’esplorazione dell’esperienza soggettiva dell’adolescente, lungo il crinale della problematica della sofferenza psichica, del dolore mentale dell’adolescente impegnato a livello profondo a elaborare il lutto per la separazione dai genitori e dal complesso delle relazioni infantili.
Il terzo nodo su cui puntavo l’attenzione in questa introduzione è che la problematica della depressione giovanile è tanto più importante da trattare se si considera che il concetto di depressione è strategico per quanto concerne un riferimento e un inquadramento dei fenomeni di disagio giovanile e adolescenziale nel loro insieme. Nel senso che, come avrei cercato di chiarire, se si guarda più in profondità dietro alle varie manifestazioni psicopatologiche e dei comportamenti a rischio in adolescenza, a monte del problema si trova sempre un lutto non elaborato, il dolore per una perdita che l’individuo non riesce ad accettare, con il rischio che l’incapacità di fronteggiarlo sfoci in una depressione conclamata, in rapporto alla quale i vari comportamenti a rischio e le manifestazioni di disagio sono comprensibili in termini di vie di fuga, di modi più o meno fallimentari con cui l’adolescente si pone nei confronti di un lutto che non riesce a compiere, tentando così una strada per evacuare il dolore anziché cercare di starvi a contatto.    
La conseguenza di questa direzione, di questo modo molto controproducente di difendersi dalla sofferenza del lutto, e qui arrivo all’ultimo punto, è che paradossalmente la gioventù di oggi ci appare sempre di più come una gioventù maniacale; dunque non depressa ma in fuga, in fuga maniacale dall’esperienza di sentire e stare a contatto con il dolore depressivo della perdita e del lutto. Ciò significa che i giovani di oggi ricorrono sempre più a strade basate sull’eccitazione, sulla frenesia, l’onnipotenza o l’autoesaltazione, per non guardare in faccia la depressione; il che non implica che la depressione non sia diffusa tra i giovani d’oggi. Semplicemente si riscontrano tra di loro tentativi sempre più massicci di negarla attraverso lo slittamento nella sua controparte, rappresentata dagli stati maniacali di eccitazione.  
Terminata questa introduzione, ho pensato di proseguire parlando di una mia ricerca sull’esperienza affettiva e relazionale degli adolescenti, che avevo svolto qualche tempo prima nelle scuole e i cui risvolti più interessanti erano legati proprio al tema della depressione, della grave depressione adolescenziale. 
Un riassunto di questa ricerca e dei risultati ottenuti si trova già in un altro mio scritto a disposizione dei corsisti dell’IRRE della Toscana, e pertanto non mi dilungo qui. La ricerca, la cui raccolta dei dati è avvenuta circa due anni fa negli istituti di scuola media superiore di città del nord, del centro e del sud Italia, era basata sull’analisi di resoconti narrativi, prodotti in forma anonima dai soggetti alunni di scuola in base a una consegna standard che chiedeva loro di esprimersi in una maniera non strutturata, libera e spontanea sulle proprie esperienze; un riferimento che quasi tutti i ragazzi opportunamente hanno colto in rapporto alle loro esperienze affettive intime, di vita e di interazione con altri significativi, raccontando delle loro relazioni di amicizia, sentimentali e con i genitori.     
In pratica è come se mi fossi recato con un vago preavviso concordato con gli insegnanti in delle classi di scuola media, e mi fossi presentato praticamente da sconosciuto dicendo agli studenti: scrivete su questi fogli quello che vi sentite, quello che liberamente avete piacere di dire riguardo a voi e alla vostra esperienza personale, tenendo presente che tali resoconti sono anonimi e verranno letti solo da me, in funzione di questa ricerca e con lo scopo di tentare di ricavare un possibile profilo di voi e della vostra generazione; un profilo senz’altro parziale e frammentato, tenevo a sottolineare, ma non per questo meno significativo.
Ora non c’è tempo né l’interesse a passare in rassegna qui tutti i risultati della ricerca. Riferisco brevemente dell’elemento a mio avviso più interessante che è emerso. I resoconti raccolti erano naturalmente di tanti tipi, alcuni banali, più o meno comprensibilmente stereotipati o molto brevi, altri più interessanti e vivi. Ebbene, c’è stata una percentuale, un numero tutt’altro che irrilevante, un quinto o un sesto del campione - più di 40 soggetti su circa 240 resoconti considerati - di adolescenti che stanno molto male, e l’hanno scritto con delle testimonianze che destano stupore e senz’altro fanno riflettere. Per adolescenti che stanno male intendo ragazzi che mostrano segni evidenti, dai vissuti che descrivono, della grave depressione adolescenziale. Si tratta di resoconti che pur essendo molto personali e dunque unici da questo punto di vista, per altri versi sorprendono per la ripetitività dei contenuti affrontati, proprio perché sono simili le problematiche psicologiche e le questioni affettive di fondo.
Come ripeto, credo che si debba riflettere su questo dato: se uno psicologo si presenta in delle aule scolastiche con serietà e premura per la riservatezza, e chiede a dei ragazzi di scuola media superiore di raccontare in forma anonima di sé, di quello che a loro va, che li riguarda, e che sentono di esprimere, trova che, oltre a un numero molto consistente di adolescenti che in vario modo riferisce segni di disagio e di malessere, c’è una minoranza non trascurabile di ragazzi che hanno problemi molto seri, che attraversano stati di sofferenza ai limiti dello scompenso psichico, e che lo scrivono senza mezzi termini, per quanto possano poi dopo essere portati a negare.
Ci sono almeno tre implicazioni importanti che emergono a questo punto. La prima è che sono molti i giovani che oggi non se la passano bene purtroppo, che mostrano segni di disagio a diversi livelli, tra cui quelli più gravi.
La seconda è che la stragrande maggioranza di questi giovani, da quanto sembra di capire e viene riferito, non si è mai rivolta ad uno specialista, sia esso un medico, uno psichiatra, uno psicologo, o un’altra figura professionale o con una funzione tutoriale. Questo è un indice non tanto di una mancanza di consapevolezza, quanto della negazione, delle forti resistenze, e del timore che uscire allo scoperto rivelando i propri problemi, ammettere di stare male, sia pure rivolgendosi in via riservata a chi realmente potrebbe essere di aiuto, si trova tra i giovani e gli adolescenti .
Il terzo elemento, che scaturisce in modo abbastanza evidente, è che a partire da questa sofferenza c’è da parte delle nuove generazioni di adolescenti un bisogno molto forte di comunicarla, in maniera estremamente sincera anche. Da questo punto di vista le cose sembrano molto cambiate rispetto al passato, quando vigeva un clima molto più autoritario nel regolare il rapporto degli adolescenti con i genitori e gli insegnanti, e le giovani generazioni erano animate da forti sentimenti di timore verso gli adulti, oppure da accenti di contrapposizione, protesta, ribellione e sfida. Oggi sono altre le caratteristiche emotive, i bisogni che sembrano prevalere. Tutto questo la dice lunga sul livello di incomprensione, di fraintendimento, di frustrazione che evidentemente la domanda di ascolto da parte degli adolescenti, e non solo di loro naturalmente, incontra nella nostra società. E pur tuttavia ciò ha delle implicazioni difficili da gestire anche da parte degli insegnanti, i quali non sono degli psicologi o dei genitori sostitutivi evidentemente. Ma è pur vero che se sondiamo gli umori, gli stati d’animo, i bisogni dei ragazzi a un livello meno superficiale, scopriamo che in larga parte quello che in maniera più o meno riconosciuta i giovani vorrebbero dalla scuola è proprio questo: una maggiore vicinanza con le loro esigenze affettive profonde, anche una disponibilità all’ascolto in certi casi, un maggiore sostegno e una maggiore attenzione all’esperienza soggettiva, una capacità più consapevole da parte degli insegnanti di cogliere le implicazioni emotive dei contenuti culturali, dei processi di apprendimento, e anche delle dinamiche di rapporto nel gruppo classe.

A questo punto il clima di partecipazione tra i presenti all’incontro è diventato più animato e vivo, e tra le varie questioni sollevate ho scelto di riportarne due in particolare, cercando di rispondere alle quali ho tratto lo spunto per integrare la discussione del laboratorio con delle considerazioni che ho aggiunto ora.

- Quanto sostiene può essere giusto a parole, ma nei fatti gli insegnanti come dovrebbero comportarsi?

- Eppure non è vero, rispetto a quello che lei dice, che gli adolescenti sono cosi tristi e depressi. A giudicare da come si comportano in classe sembrano felici, spensierati, se mai annoiati o demotivati; talvolta molto arrabbiati e nervosi, ma nella grande maggioranza dei casi non depressi. 

Alla prima questione, molto complessa, ho cercato di rispondere per quanto mi era possibile nella parte conclusiva dell’incontro. Mi sono subito soffermato sulla seconda, in rapporto al tema più specifico della depressione giovanile, e al filo del discorso che stavo seguendo.
In merito allo studio dell’adolescenza, dal punto di vista delle dinamiche affettive e dei processi di formazione e consolidamento dell’identità, è emerso specie negli ultimi decenni un certo disaccordo tra le posizioni psicoanalitiche e quelle psicologiche, della psicologia scientifica cioè, e che si aggiunge, sia pure con accenti diversi, alla contrapposizione tra quanto sostenuto dalla psicoanalisi e dalla psicologia in altri ambiti di indagine, come le concezioni del primo sviluppo infantile, i rapporti tra affettività e cognizione, e altri ancora.
Matarazzo e Bacchini (1999) parlano a questo proposito della contrapposizione tra un paradigma della continuità e un paradigma della rottura. La metafora della continuità è impiegata per quegli studi di psicologia evolutiva, clinica e sociale dell’adolescenza (tra i più citati vi sono ad es. quelli di Offer e di Rutter) che sostengono come essa sia una fase del ciclo di vita che, pur contrassegnata da specifici problemi e compiti da risolvere, si pone in una linea di sostanziale continuità con le fasi precedenti dello sviluppo, venendo vissuta e attraversata dalla maggior parte della popolazione adolescenziale dei paesi occidentali senza particolari traumi o turbamenti. La metafora della rottura si riferisce essenzialmente invece alle posizioni psicoanalitiche, per le quali il concetto di crisi adolescenziale mantiene un ruolo fondamentale per spiegare a livello della mente profonda la natura dei cambiamenti affettivi che si verificano all’ingresso e nel corso dell’adolescenza.
Le differenze tra le posizioni psicologiche e quelle psicoanalitiche anche in questo ambito possono essere ricondotte a divergenze di metodo e di impostazione, tra il punto vista psicoanalitico che origina dalla clinica, dalla ricostruzione del passato evolutivo, dalla comprensione di aspetti più globali dell’affettività normale sulla base dell’esplorazione di quelli patologici, e i vari punti di vista psicologici nella ricerca sul ciclo di vita, che assumono di norma un approccio sperimentale all’indagine sistematica su singoli costrutti del funzionamento individuale, e una prospettiva sullo sviluppo di tipo più anterogrado piuttosto che retrospettiva (Stern, 1985), interessata prima alla normalità che alla patologia, e più aderente alla fenomenologia di ciò che è osservabile sul piano comportamentale rispetto a ciò che può essere ipotizzato a livelli più profondi dell’esperienza soggettiva.   
Ora la critica degli psicologi negli ultimi decenni è sembrata giusta riguardo al famoso concetto di turmoil, cioè di turbamento adolescenziale, collegato a una visione complessiva dei processi affettivi in adolescenza, sostenuta dalla prima letteratura psicologica e anche psicoanalitica, che accentuava il significato della crisi di identità nell’adolescenza; una crisi teorizzata con caratteri abbastanza dirompenti e disorganizzanti, quanto estesa a larga parte della popolazione degli adolescenti come fenomeno normale.
Tuttavia c’è un nodo sul quale chi segue o condivide l’orientamento psicoanalitico non può non sollevare dei dubbi. E cioè sul fatto, che è invece sostenuto nel contesto di molte ricerche in psicologia sociale dello sviluppo, che gli adolescenti di oggi siano piuttosto ragazzi sereni, sicuri, ben integrati, tutt’altro che confusi, e al contrario in grado di far fronte alle difficoltà della crescita con capacità di adattamento e risorse anche sorprendenti. Tutto questo può essere vero da un certo punto di vista, ma sotto un altro profilo, di quanto si pone a livello del vissuto profondo, si intravede il rischio di fare confusione tra quelli che emergono a livello di manifestazione di superficie come stati di benessere, di felicità, e anche di euforia e più o meno apparente sicurezza in se stessi, e quelli che invece si configurano come stati maniacali, cioè condizioni innaturali di eccitazione, volte a negare il malessere e la depressione sottostanti, e che tra i giovani d’oggi sono sempre più rinforzati e collegati ai tratti narcisistici della personalità.
Il nodo di fondo è proprio questo – il punto già ho cercato di affrontarlo nell’altro mio scritto citato - che nella società di oggi sono molto più diffusi i tratti della patologia narcisistica, con una molteplicità di implicazioni sia a livello di cure genitoriali, nell’influenzare le modalità di relazione genitore-bambino, sia a livello di modelli culturali di massa, i quali esercitano un impatto maggiore sull’individuo proprio a partire dagli anni dell’adolescenza. La conseguenza di una modalità di cura e di relazione genitore-bambino di tipo narcisistico, con i caratteri di maggiore idealizzazione reciproca e di evacuazione della sofferenza che comporta, è che i ragazzi di oggi entrati nell’adolescenza al momento della pubertà sono più fragili di fronte all’esperienza di sperimentare il dolore mentale depressivo, perché più ardua è avvertita da loro la rinuncia alla propria immagine di sé infantile e del proprio corpo bambino, collegata alla relazione in precedenza molto idealizzata con i genitori. La loro maggiore fragilità, e nel contempo la presenza nella nostra società in forma sempre più massiccia di un complesso di vie di fuga dal valore effimero, in funzione di un benessere di tipo edonistico esteso a una fascia dei giovani dai confini sempre più allargati, fa sì che gli adolescenti dell’attuale generazione siano più sensibili e esposti al canto delle sirene della parte narcisistica della personalità, i cui tratti patologici sono sempre più rinforzati dal clima di relazioni che i ragazzi vivono sia nell’ambito delle relazioni familiari che di quelle con i coetanei e il gruppo sociale allargato.
Laddove sono maggiori le vie di fuga maniacali e i processi di negazione su base narcisistica, più forti sono dunque anche la rabbia e la depressione sottostanti, per lo scempio operato ai danni delle parti più autentiche di sé.
E’ per questo che per quegli adolescenti che attraversano stati maniacali massicci diventa difficile l’assunzione di responsabilità connaturate alla loro fase di sviluppo, come quella di studiare. I ragazzi che sembrano più demotivati, annoiati, svogliati, in realtà sono molto depressi a livello profondo, ma anche molto rabbiosi e spaventati dal fatto che si rendono conto, per quanto lo neghino, che gli stati di eccitazione se portati all’esasperazione rischiano di perpetrare un circolo vizioso dal quale non sanno poi più come fare a uscire, e che può pregiudicare gravemente l’uso della propria intelligenza, la capacità di concentrarsi a scuola, così come quella di far fronte agli altri compiti che impone la crescita in direzione adulta.   

Il tema della depressione è ben presente in alcune figure significative nell’immaginario delle generazioni passate di giovani. Faccio qui riferimento ad alcune icone della cultura giovanile nordamericana degli anni cinquanta e sessanta. 
Il giovane Holden, protagonista dell’omonimo romanzo di Salinger, al quale mi sono già riferito e che costituisce una delle rappresentazioni in assoluto più famose dell’adolescenza nella narrativa del dopoguerra, è il ritratto di un adolescente dichiaratamente depresso, anche se a un livello non ancora conclamato. 
Analogamente è depresso il celebre protagonista del film Il laureato, interpretato da Dustin Hoffman, che compare nella prima scena del film frastornato, molto solo, e triste riguardo al proprio futuro.
Anche se scevra di accenti di contestazione e di critica sociale è quella di un adolescente molto depresso la figura del giovane Peter Parker, alter ego dell’Uomo Ragno, l’arcinoto eroe americano dei fumetti, che prima di venire punto da un ragno incorporandone poteri sovrannaturali appare nel prologo della vicenda come un ragazzo orfano completamente ripiegato nel dolore della propria storia familiare, proteso a scaldare gli anziani genitori adottivi dalla loro depressione, e ad espiare i propri sensi di colpa attraverso l’isolamento, la goffezza, e il masochismo di essere la vittima prescelta dei bulli e dei compagni di scuola prepotenti. 
Infine, per quanto in modo diverso, doveva attraversare uno periodo di forte depressione Bob Dylan, quando poco più che ventenne, agli inizi degli anni sessanta, scrisse la serie notevole delle sue più belle canzoni, quelle che lo hanno reso universalmente conosciuto, e che erano piene di desolazione esistenziale, di sconforto e di rabbia, di fronte a un mondo che irrimediabilmente stava prendendo una direzione diversa rispetto a quella che i giovani di quella generazione avrebbero sperato.
Mi sembra interessante il riferimento alla figura di Bob Dylan, perché come è noto, non più due anni più tardi dai suoi esordi, in una maniera che fece molto discutere il pubblico giovanile che si riconosceva nell’umore e nel messaggio delle sue canzoni egli decise di passare dalla musica folk a quella rock. Da qui la sua carriera di artista musicale proseguì con una nuova e prolifica fase creativa, ma diversa e non paragonabile al livello di profondità raggiunto dai contenuti espressi nella sua produzione precedente. Mi pare che il percorso seguito in quegli anni da Bob Dylan, che si abbandonò all’uso di droghe e finì attraverso l’enorme successo ottenuto per essere sedotto e schiacciato da quel tipo di società di cui era stato in assoluto uno dei critici più incisivi, possa rendere conto in modo emblematico della differenza che intercorre tra la creatività propria degli stati mentali depressivi, con i suoi caratteri di dolore, solitudine e autenticità, e quella invece più tipica degli stati maniacali, che contiene elementi di onnipotenza, di rabbia distruttiva e un certo grado di perversione, e anche per questo può essere seducente.         
Ora potrei andare avanti con gli esempi illustri, ma mi sembra importante il fatto che dagli anni settanta in poi di figure simbolo e di icone della cultura giovanile che abbiano fatto proprio il tema della depressione e della tristezza esistenziale, o che abbiano dimostrato di non temere il contatto con la fragilità a livello emotivo ce ne siano state sempre meno. Le caratteristiche emotive che oggi sembrano prevalere piuttosto come espressione della cultura giovanile mass-mediale sono, oltre all’esibizionismo e a un grado crescente di contraffazione dei sentimenti, forme molto distruttive di autoesaltazione, un’ostentata sicurezza e arroganza, e una rabbia sempre più furibonda. Oppure si tratta di depressioni gravissime, con dei risvolti veramente catastrofici e degli scenari dalle tinte sempre più fosche, come quelle di Diego Maradona, Marco Pantani, o del cantante Kurt Cobain, che si tolse la vita una decina di anni fa in uno stato di grande disperazione.   

Un altro concetto a questo punto si rende necessario affrontare, in rapporto alla posizione, al punto di vista da cui guardare alle cause e alla natura della condizione depressiva.
E’ un dato di fatto che la depressione, nell’insieme dei disturbi che a vario titolo rientrano sotto l’ombrello della sua etichetta, si è affermata sempre di più negli ultimi decenni come la sindrome maggiormente diffusa e importante nell’ambito della psicopatologia, e anche quella più nota nell’immaginario collettivo.
Ora ci sono alcune considerazioni che dovrebbero fare riflettere riguardo alla depressione. Tra le tante che si possono svolgere, una è che la depressione sembra avere rubato molto spazio e preso il posto di tante altre sindrome psicopatologiche. Oggi tutto il disagio psicologico è etichettato come depressione in un certo senso. Siamo tutti depressi in qualche modo.
La seconda è che la depressione, in base a come ragiona l’uomo della strada, non si sa bene da che cosa origini. Di fatto si guarda alla depressione come a un malessere generalizzato, come qualcosa che funziona nei termini di un antivita in un certo modo. Nello stesso tempo la depressione è sempre più concepita come un male dal quale fuggire, una peste da evitare. In questo senso si può dire che è sconosciuta. Nella misura in cui è molto temuta, l’individuo nella società odierna fa di tutto per non starvi a contatto.
Ehrenberg, un sociologo francese, in un importante studio sulla depressione di qualche anno fa (Eherenberg, 1999) ha parlato della condizione depressiva come patologia dell’azione. Vale a dire che nella nostra società globalizzata, capitalistica, dai ritmi accelerati, dove il tempo è denaro, e dove è massimizzato il valore della prestazione, la depressione rappresenta la tomba, la morte del perseguimento dei nostri obiettivi. Quando un certo tipo di individuo del nostro tempo si sente depresso? Quando si sente per qualche strano e incomprensibile motivo inibito a realizzare i propri obiettivi, i propri progetti, a raggiungere le mete che si era prefissato.
In realtà questo modo di guardare alla depressione ha che vedere evidentemente con una meccanizzazione dell’esperienza di vita. Questo tipo di individuo somiglia sempre più a un robot, nel senso che è sempre più disumano. O si sente su o si sente giù. E’ talmente preso dal perseguimento dei propri obiettivi che non si interroga minimamente sulle cause, sulle radici emotive del proprio malessere. Di fatto si tratta di un personalità narcisistica, sempre meno capace di mentalizzare la sofferenza. Nella misura in cui insegue stati di onnipotenza e di eccitazione, ha una scarsa tolleranza dell’impotenza.
E’ ipotizzabile che proprio questo tipo di individuo sia più predisposto a ricorrere all’uso di psicofarmaci, se non addirittura alle droghe nella sua variante più perversa, quando si trova a fare i conti con l’angoscia, con un vissuto persecutorio, come conseguenza dell’oltraggio che compie verso se stesso con il suo stile di vita; vissuto che la mente non è in grado di rappresentare come un senso di colpa, se evidentemente una scissione è stata perseguita e perpetrata ai danni del proprio Sé.
Il punto di vista psicoanalitico sostiene che in tanti casi di scompenso depressivo i sintomi della depressione sono comprensibili come la conseguenza di vissuti persecutori che a un certo punto emergono alla mente in una maniera non controllabile, come segnali di angoscia derivanti da un accumulo di dolore mentale non metabolizzato, di sensi di colpa che esplodono portando a quello che si pone come lo scompenso depressivo. 
Come è noto, nell’affrontare la questione clinica della depressione ci sono sempre stati accenti di contrapposizione anche aspra tra modelli di comprensione e di cura alternativi, che riflettono posizioni diverse sul funzionamento della mente e sul modo di concepire i sentimenti umani. E’ possibile ravvisare nel ricorso esasperato alla prescrizione dei farmaci una concezione implicita della depressione non solo come una patologia da curare, ma anche come una forma di malessere con la quale sembra giusto stare il meno possibile a contatto. Da un altro versante la psicoanalisi e altri approcci della psicologia del profondo e della psichiatria fenomenologica hanno sempre guardato ai momenti di depressione della vita piuttosto come a un’esperienza di sofferenza che può essere compresa e dotata di significato psicologico, e che da un certo punto di vista è considerata ineludibile di fronte al riemergere di conflitti e verso il recupero spontaneo dei propri sentimenti più autentici.
In un certo modo, a livello di cura e di trattamento, l’impostazione terapeutica della psicoanalisi attraverso il noto meccanismo della regressione si fonda proprio sul fatto di indurre il paziente a un contatto più autentico con la propria depressione a livello profondo. Un importante motivo per cui tante persone che soffrono di un disagio psichico di una certa gravità sono contrarie oppure molto diffidenti e riluttanti a intraprendere una psicoterapia è che a un livello più o meno consapevole si rendono conto che per risolvere i loro problemi emotivi, nel momento in cui si troveranno nel corso del trattamento a non poter più rimandare l’atto di affrontarli, dovranno stare a contatto con una quota non indifferente di dolore mentale, con il rischio che la terapia li mandi per così dire in depressione; una depressione che può essere anche molto grave, ancorché preesistente in forma negata o mascherata.
In definitiva è questa la questione affettiva di fondo: stare a contatto con la depressione, con il vissuto di fragilità derivante dal movimento di non opporre più un’opposizione massiccia all’emergere dei sensi di colpa, è un dolore che può valere la pena di affrontare. Il rischio però, molto temuto, è quello di perdersi nella depressione, che l’esperienza della depressione una volta innescata arrivi come una mazzata, si configuri come una sofferenza nella quale si rimane impantanati, avendo perduto quel poco di certezza derivante dall’adattamento sociale precedente, senza l’assicurazione di riuscire a trovare un assetto e una direzione di vita alternativi. Con le parole di Meltzer (1990), il paziente lotta costantemente con il conflitto tra adattamento sociale e relazioni interne, ossia tra la volontà di dare voce fino in fondo al proprio dolore e il timore di venirne travolto, con il rischio di apparire agli occhi degli altri uno che ha perduto la ragione e ha compromesso il proprio funzionamento sociale.

Domanda: Potrebbe spiegare meglio da che cosa origina la depressione, quali sono le sue cause, perché una persona diventa depressa?

Una persona clinicamente è depressa, si parla a tal proposito comunemente di depressione maggiore in ambito psicopatologico e psichiatrico, quando comincia ad avvertire umore depresso per un periodo costante e prolungato di tempo, con una serie di sintomi associati che vanno da quelli fisici - rallentamento psicomotorio, insonnia o ipersonnia - a quelli nella sfera motivazionale - perdita di interesse per tutte o quasi tutte le attività della giornata - a quelli ideativi - presenza di massicci sensi di colpa, rimproveri e accuse al proprio Sé; fino nei casi più gravi ai pensieri di morte e di suicidio, e ad angosce sempre più soverchianti, che possono gravemente compromettere il funzionamento di una persona e sfociare nel delirio all’estremo limite.
Ora non è di mia competenza entrare nel novero delle spiegazioni psichiatriche della depressione, al cui dibattito un contributo importante è fornito dalle neuroscienze, nel contesto delle quali le ricerche sulla depressione sono orientate prevalentemente allo studio dei suoi correlati biologici e neurochimici.
Tornando all’approccio psicodinamico, qualsiasi spiegazione psicoanalitica e anche più genericamente psicologica della depressione muove dalla considerazione di un concetto fondamentale, quello di lutto collegato alla perdita. Alla base della depressione cioè è ipotizzato che vi sia sempre una perdita che l’individuo non riesce ad accettare, così dolorosa da indurre un lutto che non viene elaborato, e che diventa in tal modo patologico.  
Il caso paradigmatico è quello della cosiddetta depressione reattiva, quel tipo di depressione riconducibile a un fattore esterno ben preciso, individuabile, come un evento traumatico; ad esempio la morte di una persona cara, la fine di una relazione, una circostanza o una serie di circostanze che vengono ad attivare un profondo cambiamento negativo nella vita di una persona.
Il romanzo di Ian McEwan Bambini nel tempo (McEwan, 1987) fornisce un esempio emblematico di una grave depressione reattiva, descrivendo la lacerazione nel vissuto temporale determinata dall'insorgere di una depressione legata a un evento traumatico, che viene a segnare un lutto almeno inizialmente avvertito come impossibile da elaborare. Il protagonista del romanzo è un uomo adulto, che un giorno, una mattina di inverno, recandosi al supermercato con la figlia piccola, mentre è alla cassa con il carrello della spesa, improvvisamente la perde. Forse rapita, inspiegabilmente scomparsa, la figlia non verrà più ritrovata. Il romanzo, che si apre con la rievocazione di questo episodio traumatico, descrive il dramma e il faticoso cammino del protagonista nell’elaborazione di questo lutto terribile. Egli è ossessionato dalla perdita, ma non riesce a mentalizzarla, non riesce neppure a piangerla in maniera autentica. E' sposato, ma lui e la moglie si lasciano perché non sono più in grado di avere un' esistenza in comune. Non sono più in grado, come si può intuire, nemmeno di avere dei rapporti sessuali, e l'unica volta che ciò avviene, nell'arco di un anno della loro vita abbracciato dalla narrazione del romanzo, ciò si accompagna a un'angoscia intensissima, perché sembra un insulto alla propria figlia amata, e agli aspetti più autentici di sé collegati al profondo amore per lei, abbandonarsi al piacere del contatto erotico senza avere compiuto per davvero il lutto, perché appare troppo minacciosa l'aggressività del rapporto sessuale di fronte alla pervasività dei sensi di colpa.
L'angoscia è determinata anche dallo stato di shock per una visione ben precisa nella mente del protagonista, il ricordo di una fantasia sul suo concepimento da parte dei propri genitori, le fredde resistenze del padre e il dolore della madre nel periodo della gravidanza, e il lutto passerà anche inevitabilmente attraverso il venire a patti con il dolore intergenerazionale del rapporto con i genitori. Ma insperatamente, proprio da quell'unico episodio di intimità con la moglie verrà messo alla luce un nuovo bambino, momento che segna per il protagonista non l'uscita dal tunnel, ma il fatto di ricominciare a vedere la luce. L’elaborazione del lutto può prendere a quel punto una strada diversa. Con il riemergere dei sentimenti autentici, per quanto dolorosi, è il motore della vita che si rimette a funzionare.
Ma nei quasi tre anni di grave depressione intercorsi dalla perdita della figlia, l'incapacità di dare un senso, una progettualità alla vita è totale. Egli non lavora più, non si dedica più a niente, perché si rifiuta di stare a contatto con le proprie emozioni. Non ha più una vita sentimentale, i suoi rapporti sociali sono ridotti al minimo, e fa scempio di sé in vario modo. Vive quell'esperienza come un eterno presente, che lo avvolge come una cortina protettiva dai sensi di colpa, dall'insorgere dell’angoscia per il suo lutto non elaborato.
C’è un passo nel primo capitolo di questo romanzo (McEwan, 1987; p. 29), che riporto qui per intero, e che rende conto veramente bene del dolore acuto, che arriva come una mazzata, e prosegue incessante e ossessivo, nei momenti più duri della depressione, quando la perdita sembra veramente impossibile da accettare, e attiva un vissuto di persecutorietà che si riflette e viene a impregnare ogni aspetto della quotidianità.

Tornato alla poltrona di Julie, vi si fermò un momento con la mano appoggiata allo schienale come se si trattasse di considerare i rischi di un gesto coraggioso. Infine, si scosse, fece due passi intorno alla poltrona e si sedette. Attraverso la grata buia rimase a fissare qualche vecchio fiammifero caduto alla rinfusa accanto a un pezzetto di carta stagnola; passarono minuti, il tempo necessario a sentire la fodera della poltrona adattare i contorni fisici di Julie ai suoi, minuti vuoti come tutti gli altri. E a questo punto si lasciò sprofondare, immobile per la prima volta ormai da settimane. Restò così per ore, per l’intera notte, assopendosi brevemente ogni tanto e senza muoversi o allontanare lo sguardo dalla grata, quando si svegliava. In quell’arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un’onda di consapevolezza, di una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, intorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutti ciò che aveva preceduto quell’evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe in seguito fatto coincidere con l’inizio del suo lutto.     

Questo brano riportato descrive in modo magistrale una condizione nella quale il vissuto di perdita è così doloroso e irreparabile che viene a svuotare di significato emotivo tutta la percezione dell’ambiente inanimato, mentre il corpo è preso da un senso di paralisi. Tutto ciò che prima poteva regalare gioia, piacere, e faceva parte delle consuetudini o dell’intimità delle proprie cose ora diventa completamente vuoto, incolore, e oltremodo angosciante. La vita quotidiana diventa molto difficile perché il vissuto delle emozioni è come pietrificato. E’ la paura di rimanere annichiliti in questo tipo di condizione così angosciante e temuta, fino ad impazzire, che attiva una serie di difese per non stare a contatto con il dolore della depressione.

Chiarite alcune caratteristiche della depressione reattiva, passo al tipo della depressione endogena. Le differenze non sono tanto a livello di reazioni sintomatologiche o in certe componenti del vissuto, se mai nei fattori scatenanti.
La depressione cosiddetta endogena è quel tipo di depressione che insorge a un certo punto della vita senza cause tangibili identificabili dall’esterno. In realtà proprio questo tipo di depressione ha una spiegazione coerente da un punto di vista psicodinamico, nel senso che qui ci si riferisce più propriamente a un evento scatenante interno, che ha vedere più inequivocabilmente con il mondo interno, la realtà psichica. L’interpretazione psicoanalitica è che quando determinati conflitti psichici arrivano a un livello di tensione estrema, di negazione del dolore non più sostenibile, a un certo punto è come se portassero la mente a un cortocircuito. E’ tale il livello di dolore, di senso di colpa, e insieme di ambivalenza, di aggressività, di odio, e di rimprovero che il Sé rivolge nei confronti della rappresentazione dell’oggetto buono e amato, che ciò porta alla fantasia di averlo distrutto, e di non avere più amore dentro di sé. Con le parole di Melanie Klein (1935), a quel punto il proprio mondo interno è percepito come a pezzi.   
Passando al caso specifico della depressione adolescenziale, si può dire che essa non presenti sia da un punto di vista sintomatologico che della comprensione psicodinamica dei caratteri tanto diversi da quella dell’adulto, ad eccezione di alcuni suoi elementi peculiari. Proprio perché è molto giovane e ha ancora una vita davanti, l’adolescente è più a contatto con le proprie emozioni rispetto all’adulto, ma per questo è anche più fragile, e paradossalmente può essere più risoluto nel compiere scelte e comportamenti autodistruttivi. La depressione può essere innescata da fattori scatenanti diversi, a partire ad esempio da un lutto reale, una fase di stress prolungato, un fallimento o una umiliazione subita, che attivano un vissuto di scacco. Ma da un punto di vista delle motivazioni profonde c’è un sostanziale accordo in ambito psicoanalitico nel riportare le radici del fenomeno depressivo adolescenziale da un lato alla relazione con i genitori interni così come sono state poste le sue basi nell’infanzia, e dall’altro al modo con cui la rielaborazione di questo vissuto di rapporto è avvenuta al momento dell’evento pubertario, che segna propriamente l’inizio dell’adolescenza.
L’adolescenza già a livello normale presuppone di per sé l’elaborazione di un lutto, che deve essere svolto per accettare fino in fondo la fine dell’infanzia e la separazione dal complesso delle relazioni infantili, per riconoscere la perdita della propria rappresentazione di sé bambino, collegata al rapporto con i genitori dell’infanzia, che si riflette sulla percezione conscia e inconscia del proprio corpo. Molti casi di anoressia, di sintomatologia dismorfofobica, di disturbi nella sfera dell’identità sessuale in adolescenza sono intimamente connessi a un’incapacità di accettare la propria immagine di sé adulta, rinunciando alla rappresentazione del proprio corpo infantile, più bello e dai caratteri meno differenziati, in precedenza fortemente idealizzata (si veda qui in particolare il contributo dei Laufer).
Ma nello stesso tempo è proprio perché questa incapacità di elaborare il lutto, legata a un’eccessiva ambivalenza verso gli oggetti amati, si ripercuote nel presente e rischia di compromettere il proprio futuro, che l’adolescente depresso può divenire disperato. Come ha notato Pietropolli Charmet (2000), il problema dell’adolescente depresso è strettamente correlato a un profondo senso di colpa verso la propria identità di genere, nella misura in cui egli avverte a livello conscio e inconscio che rifiutandosi di accettare il cambiamento e di impegnarsi nell’adempimento dei compiti che gli impone la sua fase di sviluppo compie un insulto e una violazione della propria identità, in una maniera che può pregiudicare l’investimento affettivo e la speranza per il futuro.      
Il compito dell’adolescente è arduo perché egli si rende conto che per realizzare le proprie aspirazioni autentiche, quelle che consentirebbero al vero Sé di emergere e di consolidarsi, si impone una quota di dolore da elaborare, proporzionale all’intensità di quelle identificazioni proiettive che egli ha via via assorbito dai genitori nel corso dello sviluppo, e delle quali ora deve liberarsi se sente che non gli appartengono. Ma quando questo percorso di separazione e ribellione appare troppo faticoso, troppo dispendioso di energie e di sofferenza per potersi realizzare, e la speranza viene perduta, la negazione del dolore e i sensi di colpa possono portare al rancore, alla rappresaglia, al disprezzo del genitore, invece che ai quei sentimenti di comprensione e di affetto propri di coloro che durante l’adolescenza non hanno avuto bisogno di infliggere attacchi così duri all’immagine dei loro genitori, perché sono riusciti nel portare avanti il compito di separarsi in quanto non hanno perduto il contatto con i loro desideri e bisogni autentici.
Un’operazione ulteriore che deriva dal fallimento in questo processo di separazione e dalla perdita della speranza può essere quella di fare scempio di sé in diversi modi, di fuggire dalle responsabilità ripiegando in vari tipi di identificazioni negative, come quella dell’adolescente annoiato, svogliato, ribelle o arrogante. Oppure la scelta può essere quella di rimanere ancorati a un legame ancor più regressivo con i genitori, mettendosi alla ricerca di quegli oggetti ed esperienze di mediazione, di quelle aree di condivisione che possono tenere in vita una modalità di rapporto molto idealizzata, alimentando nei genitori aspettative elevate. La direzione può diventare quella della patologia narcisistica, facendo proprie a tutti gli effetti un certo tipo di identificazioni proiettive dei genitori, nell’adesione a un progetto grandioso da realizzare ai fini del rispecchiamento reciproco. Molti casi di scompenso psichico in adolescenza derivano proprio dall’incapacità di portare avanti questo progetto, quando i sensi di colpa sono troppo forti per coltivare ancora l’illusione di poterlo realizzare, e il fallimento in quei casi è vissuto come irreparabile.
A un livello di minore gravità della condizione depressiva, un altro tipo di vissuto proprio dell’adolescente è una modalità problematica di rapportarsi alla percezione del tempo, che chiama in causa una condizione esistenziale di malessere e di pessimismo, propria di quei ragazzi che pur non sperimentando una sofferenza così forte da avere compromesso dentro di loro il contatto con i sentimenti buoni e la capacità di amare, di sentire le emozioni, avvertono comunque forte il vissuto di scacco e di sfiducia, di impotenza di fronte alla possibilità di cambiare, di essere felici e di realizzare le proprie aspettative autentiche.     
Oppure un altro modo di difendersi, che sta diventando sempre più predominante tra i giovani, può essere quello di prendere la strada dell’incremento degli stati maniacali. E’ un concetto ormai acquisito quello sociologico di presentificazione (Rampazi, 1985), per indicare la situazione di disagio esistenziale delle giovani generazioni della nostra epoca, il pessimismo in rapporto alla crisi dei valori e all’incertezza per il futuro, che porta prima a un vissuto di inutilità e di insoddisfazione, e poi di negazione della dimensione del futuro e di appiattimento sul presente. Gli psicoanalisti dal canto loro hanno parlato di moratoria psicosociale (Erikson, 1968) e di tempo sospeso (vedi ad es. Feder, 2001) per riferirsi a uno stato mentale tipico dell’adolescenza di sospensione nell’esperienza temporale e di evitamento nell’atto di assunzione delle responsabilità.
E’ proprio infatti degli adolescenti e dei giovani ricorrere a un certo tipo di difese per evitare il contatto con il dolore mentale (Meltzer, 1978). Quando la sofferenza è forte, la scissione prende il sopravvento, organizzando l’esperienza del tempo in compartimenti tra loro separati e isolati, cosicché il ripiegamento sul presente può funzionare a scopo difensivo per non sentire l’angoscia in rapporto a una dimensione del futuro che implicando assunzione di responsabilità per le proprie scelte comporta rinunce e lutti, il venire a patti con la perdita e il dolore del passato. La dimensione di sospensione temporale include certamente quelle sensazioni che a livello più lieve e moderato possono risultare molto piacevoli e tra quelle che rendono conto della natura spensierata dell’età adolescenziale, ma quando il carico di sofferenza negato diventa eccessivo e l’evitamento del dolore cronico e sistematico, la fuga dalle responsabilità deve fare leva su un incremento degli stati maniacali e dei sentimenti negativi, portando a un senso di insoddisfazione e di vuoto sempre maggiore, a una dispersione e a un appiattimento delle emozioni. 

Dopo questa panoramica sul vissuto e le cause della depressione adolescenziale in un'ottica psicodinamica, nella parte conclusiva dell'incontro la discussione si è spostata sui problemi più generali dei fattori emotivi connessi all'apprendimento, e al ruolo degli insegnanti di fronte ai fenomeni di disagio e alle difficoltà psicologiche degli adolescenti.
Il tema delle dinamiche affettive e relazionali nei processi di insegnamento e di apprendimento è complesso, e ritorna in vario modo come argomento trasversale lungo tutto il ciclo di seminari e laboratori. Ho già anticipato nell'altro mio scritto citato alcune considerazioni sia sul tema più generale dei significati affettivi dell'esperienza scolastica per l'adolescente, sia su quello più specifico delle difficoltà di apprendimento e di rendimento scolastico cui va incontro l'adolescente depresso e in crisi. Tali difficoltà consistono essenzialmente in una quota di dolore mentale con la quale l'adolescente depresso deve fare i conti superiore al carico normale, e che contribuisce a rendere lo sforzo insito nel processo di apprendimento più stressante e dispendioso di energie emotive.
L’apprendimento anche in condizioni normali comporta sempre un certo grado di ansia connessa alla fatica, all'incertezza di fronte all’esito, e al fatto di immergersi in una situazione nuova non conosciuta. Laddove il carico di sforzo diventa eccessivo, al di sopra di una determinata soglia che l'adolescente depresso è in grado in quel momento di tollerare, l'apprendimento viene ad essere investito di un'ansia troppo elevata, che rischia di compromettere la riuscita e il rendimento nell'esecuzione del compito scolastico.
L'emergere dell'ansia è legato al riacutizzarsi del dolore, sul quale nei momenti di maggiore sforzo diventa più difficile esercitare un controllo, e che si presenta alla coscienza sotto forma di vissuti persecutori. Una difesa tipica è in questi casi quella basata sul ricorso a una repressione consapevole del dolore, al fine di mantenere la concentrazione sul compito, al prezzo però di provocare una più o meno temporanea o duratura regressione nel funzionamento emotivo, in termini di svuotamento dei significati della vita affettiva, da cui l'apprendimento stesso trae nutrimento e le principali motivazioni.
Il livello di regressione a sua volta è connesso alla quota di aggressività a cui l'adolescente deve in quel momento fare ricorso per mettere a tacere le parti di sé sofferenti, e che induce un atteggiamento di freddezza emotiva o di fuga nello stato maniacale. La capacità di concentrazione sul compito fallisce quando la difesa basata sulla negazione, che fa ricorso alla freddezza e al cinismo, non tiene più, e l'eccitazione maniacale diventa eccessiva, determinando un nuovo ingorgo di ansia. Allora l'adolescente torna a sentire l’angoscia e l'urgenza di ripiegarsi sulla propria realtà interna per occuparsi del proprio dolore profondo, lasciando in secondo piano la realtà esterna e i compiti che essa impone.
Solo quando la depressione è portata a un livello accettabile di sopportazione, e la morsa dei sensi di colpa persecutori è avvertita come meno opprimente, il ragazzo depresso può trovare la forza di reinvestire proficuamente energie emotive sui compiti di apprendimento, in una maniera che se sperimentata con successo può contribuire notevolmente a ridare serenità, fiducia in se stesso e speranza per il futuro all'adolescente, aiutandolo a riparare il lutto e a uscire definitivamente dalla condizione depressiva.

Nell’ultima serie di interventi il discorso si è spostato sul ruolo dell’insegnante nei processi di prevenzione del disagio e nella promozione di un migliore clima affettivo dentro la scuola.
Sono senz'altro maturati negli ultimi anni nella scuola un interesse e un’apertura maggiore che in passato per le problematiche psicologiche e emotive degli adolescenti, ai quali hanno fatto da battistrada tra gli altri fattori il cambiamento dei modelli educativi e dei rapporti affettivi nella famiglia, l’enorme diffusione della cultura giovanile, e lo stesso rinnovamento generazionale nel corpo insegnante. E’ possibile parlare oggi di una cultura dell'adolescenza (Pietropolli Charmet, 1997), un sapere sugli adolescenti da parte degli adulti di cui fanno parte un desiderio di conoscere e una volontà di porsi nei confronti dei ragazzi in termini meno autoritari e restrittivi, con una maggiore disponibilità e apertura per i loro bisogni emotivi e la loro libera iniziativa spontanea. 
Tuttavia gli insegnanti di oggi si sentono ancora spesso confusi e impreparati di fronte alle difficoltà psicologiche degli adolescenti, laddove la confusione è un elemento proporzionale all’ansia per il contatto quotidiano con problemi emotivi radicati, come sono quelli dei ragazzi che stanno più male, di non facile soluzione, e tali da evocare vissuti di impotenza massiccia nelle persone chiamate a farsene carico.
Una conoscenza più approfondita della natura psicologica dell’adolescenza, dei suoi compiti evolutivi, e delle radici emotive delle sue potenziali manifestazioni di disagio è il primo passo da parte degli insegnanti per acquisire una maggiore consapevolezza e capacità di comprensione dei problemi dei propri allievi adolescenti, così come emergono dal loro impatto sui processi di apprendimento, sul rendimento scolastico, e sulle dinamiche affettive e relazionali nella classe.
Il secondo passo, più difficile da maturare per gli insegnanti, riporta inevitabilmente alla questione, centrale in tutte le relazioni di aiuto, del contatto con i propri vissuti e i propri sentimenti depressivi come presupposto per sviluppare un’attitudine a farsi carico della sofferenza mentale, e una capacità di rappresentarsi più consapevolmente le radici profonde delle reali difficoltà di ogni singolo allievo, andando oltre il livello dei comportamenti osservabili e delle manifestazioni di superficie.
La funzione dell’insegnante è tanto più sollecitata e chiamata in causa in rapporto all’importanza crescente del suo ruolo nei processi di prevenzione del disagio, in quella che viene auspicata come una più efficace e matura sinergia tra scuola, famiglia e servizi sul territorio.
I processi di prevenzione a loro volta passano attraverso sia un miglioramento del clima affettivo della classe, sia un’attenzione consapevole ai casi specifici e assai delicati di quegli adolescenti a rischio e in maggiori difficoltà, che sono spesso anche i ragazzi più soli e abbandonati a se stessi, nei confronti dei quali la scuola dovrebbe esercitare un’azione educativa di recupero e di integrazione sociale, e non a favore di un’accelerazione del processo di esclusione ed emarginazione.
Infine, un contributo al miglioramento delle relazioni umane nei sistemi educativi e nelle istituzioni come la scuola va nella direzione della promozione di quelle migliori condizioni ambientali che possono esercitare un’azione attiva non solo di prevenzione nei confronti dell’insorgere della psicopatologia individuale, ma anche di rimozione di quelle condizioni di ingiustizia e di patologia collettiva dei grandi gruppi, volte ad accrescere la sofferenza dei propri membri, che lo psicoanalista Giuseppe Di Chiara ha efficacemente indicato con il termine di sindromi psicosociali (Di Chiara, 1999).
Il razzismo, la sindrome di ricchezza-povertà, il degrado ambientale e la guerra costituiscono forme macroscopiche di sindromi psicosociali, con impatti devastanti sull’umanità. Ma non vanno neppure trascurati gli effetti del consumismo, della patologia narcisistica di massa, e dell’esercizio del potere a diversi livelli, che producono un piacere perverso e una negazione delle proprie colpe e responsabilità in colore che si trovano a trarne una condizione di vantaggio, nonostante la consapevolezza di apportare un grave danno verso altre persone. Così come certe forme di razzismo e di conformismo imperante nei gruppi di adolescenti, un grado più velato ma ancora rilevante di autoritarismo, il burocraticismo, e un atteggiamento volto a limitare la creatività nel proprio ruolo e nell’apprendimento degli allievi sono esempi importanti di sindromi psicosociali dentro la scuola, per combattere le quali gli insegnanti sono chiamati a dare un contributo attivo.   

 

Riferimenti bibliografici

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Pietropolli Charmet G. (1997). Intervento nella discussione sul caso di Dora. In M. Ammaniti (a cura di) (1997). Cambiamento dei paradigmi clinici in adolescenza: quesiti teorici ed operativi. Psicologia clinica dello sviluppo, 1, 3.

Pietropolli Charmet G. (2000). I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida. Cortina, Milano.

Rampazi M. (1985). Il tempo biografico. In A. Cavalli (a cura di). Il tempo dei giovani. Il Mulino, Bologna.

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* Queste pagine sono un riassunto dell’intervento del dott. Fratini nell’incontro di laboratorio, riveduto e integrato con alcune considerazioni aggiuntive.

* Psicologo, dottore di ricerca in psicologia. 

Vedi a tale proposito Radici affettive del disagio e esperienza scolastica degli adolescenti alla pag. web http://www.irre.toscana.it/disagio/.

Qui probabilmente entrano in gioco elementi come il senso di colpa verso i propri genitori e la vergogna nei confronti del gruppo sociale ristretto e allargato, ma soprattutto il timore di affrontare l’angoscia al momento di assumersi la responsabilità per le proprie difficoltà e per i propri stati mentali.    

Vedi il mio scritto precedentemente citato.

* Psicologo, dottore di ricerca in psicologia. 

 

Fonte: http://www.irre.toscana.it/disagio/laboratori/1_fratini.doc

sito web: http://www.irre.toscana.it/
Autore: Tommaso Fratini

 


 

Depressione giovanile e disagio giovanile

NUOVI VOLTI DEL DISAGIO ADOLESCENZIALE E GIOVANILE

 

a cura del Dr. Vincenzo Manna
Medico - Psicoterapeuta – Specialista in Neurologia e Psichiatria

 

La responsabilità della storia, e, dunque, del futuro è radicata nella nostra presente idiozia. La storia rimane una catena di tragedie, che non si spezza mai.  Ma  noi  siamo  capaci
di dimenticarcene. Questa dimenticanza genera una specie di felicità. E, invece, è la causa delle nostre future tragedie. OKAZAKI KENJIRO, TSUDA YOSHINORI


Il disagio adolescenziale ed il malessere diffuso tra i giovani, a livelli ormai preoccupanti, impongono a tutti, in primo luogo alle istituzioni, il dovere di attuare concreti provvedimenti per cercare di ridurne e, se possibile, di eliminarne le cause.
L'obiettivo che dobbiamo prefiggerci è di favorire la formazione di un giovane, che da adulto troverà in sè la forza per non essere sconfitto dalla vita, per non fondare la ragione del proprio vivere sull'avere ma sull'essere se stesso, per non cercare fuori di sé, nella droga e nel rifiuto della vita, la risoluzione dei propri problemi. Da simili premesse consegue che dobbiamo rivedere, con modestia e con l'uso di tutta la ragione e di tutta la sensibilità di cui siamo capaci, anche l'insieme dei servizi sociali e sanitari che abbiamo finora creato. E' un problema sociale e culturale prima ancora d’avere anche risvolti economici.
Nel nostro tempo, un'ottica clinica che consideri i disturbi comportamentali degli adolescenti in modo dinamico ed integrato con i fattori sociali ed ambientali è sempre più necessaria. Le patologie psichiche non sono solo le fredde astrazioni descritte nei trattati, ma un complesso insieme sintomatologico che risulta condizionato dalle grandi trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni.
Nel mondo adolescenziale e giovanile, più sensibile ed esposto ai cambiamenti, possono essere evidenziate nuove espressioni di disagio mentale e comportamentale, che, per la loro diffusione, assumono il ruolo di patologie sociali.
Spesso risulta incerto il confine tra tali forme di disagio estremo con malattie mentali classiche, quali depressione e psicosi. Un numero crescente d’adolescenti e di giovani risultano alla ricerca esasperata di stimoli intensi, di sensazioni forti (sensation seeking). Molti di loro presentano una sorta d’insensibilità alle gratificazioni della quotidianità. La soglia di gratificazione sempre più alta, la scarsa capacità di provare piacere rende molti giovani anedonici, abulici, annoiati, incapaci, per di più, di saper dilazionare la fruizione degli oggetti desiderati. Solo le attività 'a rischio', straordinarie e pericolose, risultano degne d’attenzione. Tra questi giovani non è raro incontrare soggetti che esibiscono comportamenti molto rischiosi per la vita, disturbi più o meno gravi del rapporto con la realtà, isolamento con atteggiamenti antisociali e disturbi del controllo degli impulsi. Talora si evidenziano forti difficoltà a comunicare, a stabilire relazioni affettive, ad esprimere o a comprendere stati emotivi. Si vive in una sorta di deserto emozionale, con elementi residuali di comunicazione interpersonale ridotti all'espressione d’aggressività o sottomissione. In alcuni casi si registra una sostanziale incapacità ad assumersi qualsiasi responsabilità rispetto alle conseguenze delle proprie azioni, in una sorta di deserto etico, riempito da un’assoluta dipendenza dal denaro, unica misura di successo, nonché dalla cura della propria forma fisica, fine a se stessa. Il labile contatto con la realtà, può sfiorare, frequentemente, i disturbi psicopatologici più gravi della serie psicotica.
Le fughe in pseudo-realtà mistiche ed in organizzazioni, sette e culti magico-misterici inducono spesso atteggiamenti regressivi di grave dipendenza psicologica, con comportamenti aberranti, autolesivi, autodistruttivi e, solitamente, incongrui rispetto al contesto socioculturale e lavorativo. Questi adolescenti senza storia e senza futuro si riducono a vivere alla giornata in un tempo soggettivo senza progettualità e senza nessuna evoluzione verso una completa maturazione sociale.
La propensione all'aggressività, l'incapacità di gestire i propri impulsi, il vuoto esistenziale, l'incapacità a stabilire e mantenere relazioni affettive stabili, i disturbi ideativi e di rapporto con la realtà, presenti in molti giovani, risultano spesso indistinguibili dai segni e dai sintomi clinici propri o prodromici allo sviluppo di gravi psicopatologie, dai disturbi di personalità alle psicosi schizofreniche, dai disturbi d'ansia alle più gravi distimie.
D'altro canto, il tessuto socio-relazionale ed affettivo, in cui stanno crescendo i nostri giovani, spesso molto problematico, può probabilmente favorire lo sviluppo o la slatentizzazione di forme di psicopatologia altrimenti subcliniche.
Da ciò, la necessità di un forte impegno preventivo nei confronti del singolo soggetto, ma anche nei confronti delle famiglie e del contesto micro-sociale e macro-sociale, al fine di scongiurare il formarsi di un 'humus' favorevole all'insorgere di forme di disagio giovanile sempre più problematiche ed ingestibili sul piano sociale.

 

Fattori attuali del disagio psicologico dell'adolescente
Il compito psico-sociale, specifico della fase evolutiva adolescenziale, è la costruzione di un'identità separata, con la capacità di assumere e riprodurre dei ruoli autonomi.
La costruzione di un'identità avviene in maniera relativamente semplice, naturale e senza problemi, in una struttura sociale statica o in ogni modo portatrice di modelli e valori ben definiti. In tal caso, la rivoluzione nella percezione di sé, legata alle rapide e profonde trasformazioni della pubertà e dell'adolescenza, è arginato ed instradato in modelli comportamentali ed etici, che delimitano le alternative.         Senza dubbio, uno dei fattori che regolano la fluidità o la difficoltà patologica nell'affrontare questa fase evolutiva di passaggio e spesso di crisi, coincide con la disponibilità soggettiva ed oggettiva ad intraprendere delle azioni e a vivere delle esperienze in modo autonomo e separato, rispetto all'universo genitoriale.
In altre parole esiste, a causa d'esperienze anticipate d’assunzioni di ruolo oppure, viceversa, a causa della non accettazione da parte dei genitori della possibilità di separazione del figlio, l'eventualità che la costruzione di un'identità autonoma è anticipata od a lungo inibita e resa problematica.
 Questo vuol dire che esperienze precoci d’inserimento nel lavoro e nel mondo degli adulti possono accelerare l'evoluzione dell'adolescente, ove esperienze di procrastinazione estrema di tale ingresso nella realtà adulta (come nel caso degli studenti universitari o delle lunghissime ricerche di una prima occupazione) possono prorogare, anche fino alla soglia dei trent'anni, uno status ed un vissuto da adolescente.
La strutturazione del lavoro contemporanea, con la crescente richiesta di specializzazione e con la concomitante crisi nell'offerta d'impiego per i giovani, favorisce una dilatazione smisurata del "tempo" dell'adolescenza. Le problematiche della transizione adolescenziale nel figlio, legate all'elaborazione della perdita della sicurezza ed all'acquisizione di limiti di ruolo, sono per alcuni versi speculari, ma anche parallele a quelle che sono al centro della transizione e della crisi della mezza età dei genitori.
E' quest'ultima, una fase d’abbandono e trasformazione di ruoli, di primo bilancio e confronto col proprio progetto o sogno personale, di presa di coscienza dei limiti della propria vita.
Queste due fasi, spesso, coincidono nel tempo, fra genitori e figli, il che rende più arduo per entrambi il compito evolutivo. Infatti, mentre il genitore tende a patire per la perdita del figlio, che si rende autonomo ed esce gradualmente dalla sua vita, il figlio deve affrontare l'ulteriore ostacolo di un genitore che non è più forte e orientato al futuro, ma oppositivo, resistente e timoroso di fronte ad ogni cambiamento.
In ambito clinico, il problema dell'autonomia dalle figure genitoriali, autonomia spesso negata, talora rifiutata, a volte agita come ribellione, risulta spesso centrale. La dipendenza psicologica nei confronti delle figure genitoriali e le ansie edipiche, ad essa collegate, sembrano influenzare l'evoluzione identitaria e lo sviluppo di sintomi clinici. Il vissuto di dipendenza può variare, infatti, dalla completa impotenza, conseguenza di una relazione patologica simbiotica, alle condotte oppositive di ribellione sistematica, altrettanto patologica. In sintesi, l'adolescenza contemporanea sembrerebbe caratterizzata da un progressivo dilatarsi della sua durata e da una crescente difficoltà ad assumere un'identità autonoma ed indipendente da quella genitoriale.
Il ruolo di divorzio e separazione genitoriale
Non infrequentemente la delicata fase di sviluppo adolescenziale trova nel comportamento genitoriale una delle più forti cause di sofferenza. In questo periodo di profonda crisi etico-sociale dei modelli di comportamento familiare, spesso gli adulti sono troppo affannati dalla propria infelicità, per potersi occupare di quella dei ragazzi.
Il non offrire loro una stabilità e continuità affettiva può essere la premessa a gravi disturbi. Talora questi genitori, nella loro disperata lotta per la separazione, si contendono i figli adolescenti, come oggetto di ricatto e strumento di punizione reciproca.
Questi ragazzi vivono gli anni decisivi per la loro crescita in un clima di grande precarietà affettiva, smembrati e divisi tra genitori in guerra, talora usati come merce di scambio e privati del loro fondamentale diritto ad un'autentica e profonda relazione affettiva, con entrambi le figure genitoriali.
I ragazzi soffrono, ma non si vergognano, per un genitore morto. Si vergognano e rifiutano un padre o una madre che sanno o vogliono assumersi il loro ruolo genitoriale, sino in fondo.
I figli non potranno mai divorziare dai loro genitori, che resteranno tali, anche se cambia il loro rapporto e, soprattutto, va ricordato che i genitori da cui nascere non si possono scegliere. Di solito i figli di una coppia in crisi tendono ad introiettare la colpa, sentendosi, a torto, la causa della sofferenza loro e di quella dei loro genitori. Soffrono perché credono d'essere stati loro a provocarla, intrappolati, fin dalla nascita, in una specie di fatalità.
Le attese degli adolescenti e le risposte della società
Spesso, i giovani, oggigiorno, non hanno reale stima da parte degli adulti. Si preferisce considerarli negativamente, come meccanismo di difesa psicologica, per non sentire il peso delle tante denuncie che gli adolescenti, spesso giustamente, lanciano sugli adulti. Il senso di colpa degli adulti, che deriva dall'aver contraddetto nei fatti i valori, pur formalmente condivisi con le giovani generazioni, è spesso contrastato svilendo, sminuendo ed emarginando i giovani, enfatizzando i loro comportamenti devianti. L'unico legame profondo che, talora, unisce il mondo degli adulti ed il mondo giovanile è costituito dalla paura genitoriale di perdere il figlio, precipitato nel vortice della droga, vissuta come mezzo per risolvere le difficoltà esistenziali del crescere.
Gli stessi adulti, senza riconoscerlo, sanno d'essere "drogati", perché usano mezzi di compensazione, quali sesso, potere e benessere, per superare una condizione di vita, spesso fonte di frustrazioni continue. I comportamenti disturbanti dell'adolescente, secondo molti benpensanti, vanno puniti con il carcere o il manicomio, qualunque cosa pur di non sentirsi chiamati in causa e di non essere disturbati nel nostro benessere.
La televisione e l'adolescente
I mass media e la televisione giocano un ruolo, sempre più fondamentale, nella vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti. L'ambiente domestico (genitori e familiari) e la società, influenzano lo sviluppo cognitivo dei bambini, che s'identificano con la figura dell'insegnante e con i coetanei, compagni di gioco e di studio. La tv diventa, da una parte, uno strumento potenziale al servizio della didattica, se si creano programmi "ad hoc", tesi ad informare in modo obiettivo e realistico, e se i genitori confutano l'illusoria credenza che tutti i programmi rappresentino la realtà, dall'altra, come qualsiasi attività solitaria, anche se interattiva (computer), riduce il tempo che il genitore può dedicare allo sviluppo psico-emozionale del proprio figlio. In sintesi, spetta ai genitori essere la figura principale per la scelta dei programmi televisivi, avvalendosene in primo luogo per l'apprendimento di concetti che potrebbero essere di difficile assimilazione e, in secondo luogo, per evitare che di fronte alla visione di uno specifico programma televisivo possano rinforzarsi quei comportamenti imitativi, di passività e d’identificazione, che già di per sé costituiscono una violenza alla strutturazione autonoma dell'io infantile. Atteggiamenti che spesso sconfinano in atti violenti nei confronti della società, a causa di una sterile emulazione di personaggi e fatti contingenti.
Altra nota dolente è il rapporto tra tv e obesità, dove è evidente la correlazione fra il numero d’ore trascorse davanti al video e la riduzione del tempo dedicato all'attività fisica, associato all'aumento del consumo di cibi fuori pasto davanti alla tv, stimolato dalle accattivanti visioni di spot commerciali. Un dato importante emerso dalla ricerca diretta sul campo è che i ragazzi riferiscono ai genitori le proprie impressioni sui contenuti dei programmi televisivi. Questo fa capire l'importanza dei parenti nel ruolo educativo di quest'ultimi nell'orientare al meglio la scelta dei programmi e, inoltre, rivela il ruolo positivo che la tv può esercitare quale occasione d'incontro e di dialogo fra genitori e figli.

 

Le funzioni non sessuali della sessualità' adolescenziale
La sessualità adolescenziale ha aspetti polivalenti, con vari significati nascosti e, spesso, si tende a considerarne solo l'aspetto erotico, dimenticando che, da una parte, sono frutto di una continuità con le problematiche dell'infanzia, e che, dall'altra, sono il risultato del disegnarsi d'orizzonti nuovi e più vasti.


1. Sesso sedativo ed antidepressivo
Bisogna tenere conto che gli adolescenti sono spesso in situazioni di "crisi" e per questo "abitati", posseduti da un'angoscia che non sanno dove mettere. Vengono in pratica a situarsi in quello spazio logico e affettivo, che li chiama a mobilitarsi per tracciare un'esperienza esistenziale unitaria accompagnata dall'angoscia della scelta.
In questo contesto, la masturbazione nell'adolescente non riveste un ruolo solamente edonistico, ma risponde molto spesso ad un bisogno consolatorio, rispetto agli insuccessi di vita. L'adolescente, divorato da un'angoscia destrutturante, trova in questa pratica la soddisfazione ad un bisogno di riparazione.
La sessualità, relazionale e non, contribuisce in un contesto così conflittuale, ad abbassare il livello di tensione, d'angoscia fluttuante, che sarebbe, altrimenti, poco sostenibile. Per il giovane, l'aspetto consolatorio dell'attività sessuale raggiunge lo scopo d'ottenere una sedazione.
La sessualità viene, in questo modo, adoperata come tranquillante, talora, come sonnifero. E' importante ricordare come i ragazzi possono evocare la loro depressione, attraverso la sessualità. L'aspetto compensatorio rispetto alla depressione non è presente soltanto nella masturbazione, ma anche nella ricerca precoce della relazione con l'altro sesso. In questo caso, "la sessualità genitale" serve a soddisfare un bisogno di contatto. La giovane coppia cerca nella sessualità genitale di colmare una lacuna affettiva, un contatto impossibile con l'adulto, una sessualità, talvolta, impulsiva vissuta con le caratteristiche dell'additività.


2. Sesso fornitore d'identità
Un'altra dimensione essenziale del vissuto sessuale dell'adolescente è legata alla domanda del "chi sono io?" Cui sente di dover rispondere. Quindi, la sessualità a quest'età, svolge la funzione di fornire "identità" o, quantomeno, di organizzare l'identità. Nel frattempo vive il disagio di un corpo che gli impone un cambiamento biologico e un cambiamento psichico con tempi che, spesso, non sono in sincronia fra di loro. Il ragazzo vive, spesso, il suo corpo come un estraneo, in continua evoluzione, modificato da leggi a lui sconosciute.
Secondo un recente sondaggio sul campo, sono emerse con chiarezza alcune tendenze:
1) lo stabilizzarsi dell'età dei primi rapporti sessuali tra i sedici e i diciassette anni;
2) la diminuita attrazione per l'ambiguità sessuale sottolineata da fenomeni della moda e dalla definizione di ruoli sociali, che differenziano il maschio dalla femmina;
3) una grande importanza giocata dalla coppia che è diventata garanzia contro l’AIDS (favorita, così, dagli adulti);
4) la scoperta della tenerezza, rispetto alla passione, un ritorno ai valori affettivi e alla intimità a due. Perfino la verginità è un valore che torna di moda tra le adolescenti (40% delle intervistate).
Questo modello di coppia-adolescente non segna più la rottura, la separazione dal gruppo di coetanei. Oggi, il gruppo adolescenziale ingloba la coppia come parte integrante. Quindi, la sessualità adolescente risponde ad un bisogno di comunicazione, un modo per essere in contatto con l'altro. Dunque, una sessualità con molti aspetti non sessuali, non erotici, da regolatore dell'umore, a veicolo d'affermazione del sé, a mezzo di comunicazione e di socializzazione.

 

Psicopatologia dell'adolescente
I problemi degli adolescenti, i loro interessi, i loro comportamenti, la loro sessualità, sono per tutti gli adulti un argomento di generale curiosità, di grande preoccupazione e, infine, di grande nostalgia.
L'adolescenza è, comunque, una fase di conflitti, ma anche di nuovi equilibri e di nuovi adattamenti, perché emergono sulla scena psicologica, più o meno lentamente, grosse e complesse novità: scoperte, accettazioni, conflitti, capacità, nuove condotte.
I bruschi cambiamenti somatici hanno profonde ripercussioni psicologiche, più o meno immaginarie e simboliche. La crescita fisica, più o meno disarmonica, produce una modifica dello schema corporeo delle relative gnosie, della rappresentazione intrapsichica del corpo e dello spazio, nonché, di tutte le equazioni di distanza (con, talora, l'insorgere di goffaggine, maldestrezza, disattenzione spaziale, difficoltà ad organizzare movimenti fini, ecc.).
L'adolescenza è una crisi di passaggio e di trasformazione fra la sessualità infantile a quell'adulta. Anche se il concetto di crisi postula uno scontro, uno scompenso, una rottura d'equilibrio, tutto ciò non è costante né di per sé deve essere assimilato agli scompensi della patologia. Per questo, contro il concetto di crisi negli adolescenti si è parlato di processo evolutivo, in altre parole di secondo processo di "individuazione-separazione".
Come il bambino piccolo si distacca dalla madre per internalizzare la prima esperienza familiare, l'adolescente si distacca dagli oggetti intra-familiari per una più matura conquista della sua identità. Esaminando il passaggio fra pre-pubertà e adolescenza, risulta più chiaro l'individuazione-separazione dell'adolescente. La prima è caratterizzata da debolezza istintuale (periodo di latenza) e da intenso sviluppo dell'io (testimoniata dall'attività conoscitiva e dal buon adattamento, fino all'idillio familiare), la seconda da esplosione istintuale (rivolta genitale). Il distacco dai genitori internalizzati, gli interessi extra-familiari, l'innamoramento, la crisi d'identità, la nuova strutturazione e rappresentazione del sé. Tutto ciò per la conquista di una nuova identità attraverso una nuova separazione.
E, quando questo non avviene, l'io resta immaturo e si verificano disturbi legati alle fissazioni pulsionali pregenitali. In altre parole nell'adolescente affiora un equilibrio mentale diverso dalla fanciullezza, un equilibrio da cui dipenderà la salute e il progresso o la malattia. In questa fase le relazioni sociali dei ragazzi sono caratterizzate dalla ricerca d'amicizie intime dello stesso sesso (l'amico o amica del cuore) che sono idealizzati perché costituiscono, in realtà, una ricerca della propria identità sessuale, attraverso un modello d'identificazione esterno. E' una tendenziale omosessualità fisiologica, non patologica, che accompagna la svolta successiva del distacco dalla figura materna, dopo che sono ricomparsi l'attaccamento e la paura della seconda infanzia (che sono propri del cosiddetto complesso edipico). Il rapporto triangolare edipico con i genitori è superato in modo definitivo, quando lo sviluppo è normale. Con questo superamento l'adolescente accetta il proprio ruolo sociale maschile o femminile e compie una definitiva scelta eterosessuale. 
Negli adolescenti le dinamiche difensive assumono particolari connotati. Anna Freud, ha descritto in modo esemplare il meccanismo difensivo dell'intellettualizzazione, cioè la ricerca attraverso l'esercizio del pensiero di un miglior controllo degli istinti. Si pensi a quei ragazzi che hanno interminabili discussioni di filosofia, di politica o di costume, oppure cercano ansiosamente inquadramenti dottrinali politici o religiosi. Le dinamiche sono molteplici, ma negli adolescenti sottoposti a spinte istintuali, appaiono massicce, arcaiche, inadeguate. Tutti gli adolescenti appaiono egoisti e pieni di sé, ma si tratta di un passaggio obbligato del loro sviluppo per rinforzare le strutture dell'io ed anche per organizzare un modello od una meta, che sia un'immagine soddisfacente di se stessi, il cosiddetto "ideale dell'io ".  
Secondo una ricerca psicodinamica l'ideale dell'io deriva dall'idealizzazione dei genitori da parte del bambino, ma anche dall'idealizzazione del bambino da parte dei genitori ed infine dall'idealizzazione di sé da parte del bambino stesso. Inoltre, vi è il gruppo di compagni che fornendo richieste e attivando identificazioni, costituisce una parte importante dell'ideale dell'io dell'adolescente. Nel periodo adolescenziale le insidie sono ovunque, con numerosi conflitti possibili. Il contrasto fra una richiesta libidica intensa e scarsi modelli d’identificazione, in una società che, nonostante le apparenze, è sempre più coercitiva e infantilizzante, può creare e crea situazioni di pericolo irreversibili per i nostri ragazzi. Essi sempre più spesso fuggono nella scorciatoia apparente, della sintomatologia dissociale, ovvero verso le psico-sociopatie più o meno strutturate. Fra queste anzitutto le patologie deficitarie globali e settoriali.   Il ritardo mentale è un mancato sviluppo globale delle funzioni di vertice della mente, per cui le capacità rimangono povere, poco duttili e integrate, con prevalenti disturbi d’adattamento (incapacità sociali, dipendenza, rigidità, reattività, insoddisfazione, etc.). I difetti settoriali (percettivi, espressivi, linguistici, motori, d'attenzione, di memoria, ecc.)
Si traducono ben presto in difficoltà scolastiche d'apprendimento e conseguenti incapacità relazionali più o meno importanti. I disturbi nevrotici e depressivi (ansiosi, isterici, ossessivi, depressivi) determinano personalità rigide, complicate, disadattate.
I disturbi cosiddetti 'borderline' sono caratterizzati da anomalie della condotta, spesso gravi per difetto d'integrazione e di controllo pulsionale, con incostante 'giudizio di realtà'. Infine i gravi disturbi 'psicotici', che determinano incoerenza del pensiero, perdita del controllo critico, produzione d’idee deliranti e di fenomeni allucinatori, auto ed etero-aggressività, isolamento sociale. I disturbi psicopatologici, qui brevemente elencati, hanno grande importanza e grande specificità in adolescenza, per i fattori endogeni connessi con lo sviluppo, ma soprattutto per le particolari condizioni della maturazione psico-sociale.
1. Adolescenti e suicidio
Leopardi ha scritto: "A me la vita è male". E' come dire: "La vita mi fa del male".
Il suicidio, inteso come modo per uscire dalla vita, nasce dalla convinzione d'aver perduto ogni possibilità d'essere amati e dalla fantasia di trovare una liberazione da una situazione insostenibile.
Per il suicida, la morte tende ad assumere un significato liberatorio, perché essa riveste, paradossalmente, il significato di luogo dove si può stare sereni e tranquilli, finalmente liberati da "una cattiva vita". Le cause del suicidio sono sempre molteplici e difficili da stabilire poiché variano da caso a caso. Secondo diversi studi effettuati sull'argomento, risulta che gli adolescenti d’oggi soffrono per mancanza di sicurezza, d'identità, in rapporto ai cambiamenti repentini della società e della qualità della vita di famiglia, a causa del numero crescente delle separazioni e dei divorzi, dell'uso di droghe ed alcol, della pressione per i successi scolastici, risoltisi, invece, in delusioni fallimentari, nonché a causa dell'angoscia per il futuro. Fra le motivazioni apparenti più frequenti dei suicidi adolescenziali, troviamo quelle di un brutto voto a scuola oppure di una bocciatura.
Il vero problema è il significato interiore della frustrazione vissuta in seguito alla bocciatura o al cattivo voto. Il giovane può pensare che entrambi, non sarebbero tollerati dai genitori e questo potrebbe significare, una brusca separazione da loro e, quindi, un motivo sufficiente per desiderare la morte.


TAB. 1    FATTORI DI RISCHIO SUICIDARIO

1) precedente tentativo di suicidio
2) disturbi psicopatologici rilevanti clinicamente
3) abuso d'alcol e sostanze stupefacenti
4) disturbi della personalità
5) patologia della struttura familiare (p.e. scarsa capacità di comunicazione all'interno del          
nucleo familiare o perdita di un genitore per morte, separazione o divorzio)
6) suicidio di un genitore o parente stretto
7) sieropositività HIV, AIDS
8) disoccupazione, delinquenza giovanile, promiscuità sessuale.    

 
2. Prevenzione primaria degli atti autolesivi
 
L'obiettivo preventivo primario per evitare che un soggetto inizi seriamente a pensare o progettare d'uccidersi, è quello di garantire un corretto sviluppo psicofisico del giovane eliminando, per quanto possibile, tutte le cause di disagio psichico ed ambientale. I campi d'intervento dovrebbero essere rappresentati dalla famiglia, dalla scuola, dai servizi sociosanitari, dal mondo del lavoro.
Abbiamo già accennato ai fattori patologici all'interno della famiglia che connotano le cause del disagio giovanile. Risulta, comunque, molto frequente rilevare genitori che s'occupano poco dei loro figli, rimanendo in pratica assenti dalla loro vita, per motivi di lavoro o per desiderio di realizzazione della propria personalità al di fuori dell'ambito familiare. Questo vuoto emozionale ed educativo innescato dalla crisi della famiglia potrebbe in parte essere compensato dalla scuola. Il ruolo degli insegnanti è di primaria importanza nel rafforzare l'autostima dei propri alunni migliorando le capacità individuali di far fronte agli eventi negativi della vita, nonché nel consolidare i legami affettivi e solidaristici.
Così, come i servizi sociosanitari dovrebbero acquisire specifiche competenze in quella fascia d'età, l'adolescenza, ancora oggi troppo spesso "terra di nessuno".
Fondamentale risulta l'inserimento nel mondo del lavoro, ma anche lo sviluppo d’attività sportive e ricreative potrebbero togliere dalla strada parecchi ragazzi sottraendoli al ricatto della micro e macrocriminalità.
 
3. Prevenzione secondaria degli atti autolesivi
 
La prevenzione secondaria consiste nel riconoscimento dei primi segnali di un comportamento autolesionistico per intervenire prima che assumano rilevanza preoccupante. In quest'opera di screening devono essere coinvolti i familiari e tutte le figure professionali in contatto con il mondo giovanile. L'aspetto fondamentale è rappresentato dal colloquio con l'adolescente, cercando di stabilire una relazione nella quale si realizzi la comunicazione delle esperienze del giovane. L'atteggiamento di comprensione e di disponibilità può favorire l'instaurarsi di un rapporto di fiducia. Quando sono individuati uno o più fattori di rischio è necessario esercitare un'azione di controllo su di loro stabilendo contatti con le persone disponibili nella comunità, in modo da seguire il giovane, non solo a livello individuale, ma anche nel suo contesto familiare e sociale
In ogni caso bisogna prestare attenzione a segnali comportamentali d'allarme.


TAB. 2 SEGNALI COMPORTAMENTALI DALL'ALLARME CHE PRECEDONO GLI ATTI AUTOLESIVI NEGLI ADOLESCENTI

  1) tristezza, pianto, depressione dell'umore
2) astenia, abulia, affievolimento delle energie
3) aumento o diminuzione improvvisa del sonno
4) aumento o diminuzione improvvisa dell'appetito
5) aumento della svogliatezza, della noia e calo dell'attenzione
6) diminuzione della capacità di concentrarsi, di prendere decisioni
7) disforia, aggressività, cambiamenti repentini del tono dell'umore
8) tendenza ad arrabbiarsi e a litigare, seguito da lunghi periodi di silenzio
9) abbandono delle attività sociali, tendenza alla solitudine
10) perdita degli interessi sociali e sportivi
11) peggioramento del rendimento scolastico
12) continue disattenzioni in classe e facile distraibilità
13) abbandono senza ragione di cose precedentemente possedute
14) comportamenti a rischio (correre in moto, in macchina, etc.)
15) crescita dei sensi di colpa, riduzione dell'autostima
16) perdita delle speranze per il futuro, assenza di progettualità
17) uso d’alcol, psicofarmaci e droghe
18) negligenza nella cura dell'aspetto personale e dell'igiene
19) allusioni alla morte nei temi, nelle poesie e in altri scritti
20) improvviso disinteresse per la vita di relazione
21) cambiamenti degli interessi e dei comportamenti sessuali

 
Molti di questi comportamenti sono ovviamente comuni alla gran parte dei giovani per cui acquistano un significato specifico solo quando si trovano associati a specifiche cause di rischio, specie se coesistono fattori precipitanti o situazioni favorenti.
 
4. Prevenzione terziaria degli atti autolesivi
 
Se vi è già stato un tentativo di suicidio è necessario determinare i dettagli compresa la pericolosità dei mezzi adottati che spesso riflette la gravità del desiderio di morire dell'adolescente. Tale pericolosità va definita sulla base dell'atto compiuto, del danno conseguente e delle circostanze in cui si è realizzato il tentativo. Occorre ricordare che qualsiasi tentativo di suicidio, sia esso dimostrativo oppure potenzialmente letale, accresce, enormemente, la possibilità che possa verificarsi un’ulteriore condotta autolesiva nella stessa persona. Questi giovani andrebbero, pertanto, seguiti con particolare attenzione dai servizi sociosanitari nel tentativo di eliminare i fattori eziopatogenetici che hanno portato al gesto suicidario.
 
Linee di prevenzione nel mondo giovanile dei problemi alcol - droga correlati
 
Particolare interesse riveste il concetto di prevenzione riguardo alle problematiche alcol-droga correlate, nella fascia giovanile della popolazione, in un arco d'età estremamente delicato, quale è quello che va dai tredici - quattordici anni, fino al raggiungimento della maggiore età. (1) Il sopraggiungere della fase puberale e, quindi, della ricerca, spesso contraddittoria del proprio essere nel mondo, creano delle eventualità di fasi d'incontro - scontro con il mondo circostante, specialmente con il mondo degli adulti. La scuola rappresenta, quando l'adolescente scelga e possa continuare gli studi, un prezioso momento di decodificazione del disagio giovanile.      
Più difficoltoso e problematico appare il compito di seguire il giovane, quando questi abbandona la scuola e non abbia una famiglia attrezzata ed attenta verso le sue problematiche.
La scuola, invece, sia da parte del genitore che dell'insegnante, pur nella diversità dei ruoli e delle situazioni, appare strumento importantissimo, nel decodificare il disagio e, talvolta, l'inquietudine del mondo giovanile. Le capacità d’ascolto, le capacità di saper offrire un'atmosfera di calda empatia ed, inoltre, i tentativi di rivedere le proprie esperienze d’adolescente, mettendole a confronto con quelle narrate dai coetanei, sono stimolate dall'ambiente scolastico.
Un doveroso plauso va fatto, in questo contesto, alle recenti decisioni governative di prolungare l'obbligo scolastico sino ai sedici anni. In ambito scolastico l'obiettivo principale deve essere quello d'offrire all'adolescente uno spazio in cui parlare apertamente del suo mondo interiore, delle emozioni che sperimenta e delle difficoltà che incontra. In particolare è essenziale ascoltare i sogni ed i desideri del ragazzo, gratificandolo nella sua parte creativa. Aiutandolo a rimuovere gli ostacoli ed ancora insegnandogli a farlo in prima persona, per attuare la parte concretamente ed opportunamente realizzabile del sogno. Importante è la funzione garantita dai singoli adulti nei vari ruoli, ma in modo particolare dalle istituzioni. L'apertura di uno "sportello informativo" dovrebbe consentire un'attenta e precisa informazione di tutte quelle attività, che sono organizzate per essere fruite dal mondo giovanile, quali:
-   le associazioni sportive del territorio, nel quale vive il ragazzo;
-   le biblioteche;
-   gli impianti sportivi;
-   le attività culturali;
-   le varie forme d’aggregazioni giovanili (religiose e laiche);
-   i distretti sociosanitari, in modo particolare per una corretta informazione sulla
sessualità (consultori familiari, etc.);
-   i vari presidi della ASL che operano sul territorio (servizi per la prevenzione delle tossicodipendenze, centri d’igiene mentale, etc.).
Tutto questo nell'ottica che non è necessario creare, per i giovani, presidi ed interventi nuovi e nuovissimi, ma utilizzare al meglio e possibilmente potenziare le strutture ed i mezzi di cui siamo già detentori.

 

Lo sport e il disagio giovanile
 
Per la salvaguardia dello stato di salute dell'adolescenza la pratica dello sport è indispensabile. E' un complemento essenziale e piacevole per lo sviluppo psicofisico. E' uno strumento certamente indispensabile per la maturazione psicologica del giovane e per una migliore definizione della sua personalità. Inoltre, presenta alcune caratteristiche comuni alla struttura familiare e scolastica, in quanto, anch'esso stabilisce regole da seguire, impegni e responsabilità da dover accettare. Contiene, però, elementi importanti estranei alla comune routine familiare e scolastica, elementi che il ragazzo giudica tipici della vita adulta, perché comportano libertà di scelta, d’azione ma, soprattutto, garantiscono una sensazione d’indipendenza. Lo sport è avvertito com’evasione dalla realtà e dà al giovane la sensazione di libertà e di completezza del proprio io.
Alcuni sport di gruppo sono in grado d'unire i giovani, di creare situazioni sociali basate su interessi comuni, stima vicendevole, collaborazione. Nell'ambiente sportivo si definiscono situazioni psicologiche importanti che portano all'amicizia come pure all'espressione di un’ostilità controllata, nel significato d'ostacolo, d’avversario da superare, ma anche da rispettare.
La pratica sportiva favorisce lo sfogo fisiologico dell'aggressività del ragazzo, aggressività legata al suo essere umano e, talora, accresciuta dai doveri familiari e scolastici ed allena il giovane ad utilizzare quest'energia per la sua economia psichica, stabilendo limiti e regole, che insegnano l'osservanza dei diritti degli altri. Ogni attività sportiva presenta un valore psicoterapeutico, soprattutto negli adolescenti in uno stato di disagio esistenziale con turbe nevrotiche, caratteriali.
Ragazzi poco adattati all'ambiente sociale, timidi, timorosi, insicuri, schivi, iperprotetti dalla famiglia o all'opposto non protetti dal contesto familiare. Questi adolescenti traggono enorme giovamento da una regolare e controllata attività ginnico - sportiva, talora imposta all'inizio, ma in seguito accettata con piacere.
E' possibile così attenuare sul nascere una deviazione nevrotica o addirittura risolvere le problematiche dell'adolescente trasferendo il complesso conflitto psichico del ragazzo nelle molteplici situazioni presenti nella competizione atletica
 
Brevi considerazioni sulla condizione adolescenziale
 
L'aggravarsi d’alcuni fenomeni di grande rilievo sociale, come le tossicodipendenze e le devianze giovanili, contribuiscono a rendere più esteso ed urgente il bisogno che nuove forme d'intervento per l'adolescenza. In alcuni stati europei, così come negli Stati Uniti, si è avuta di pari passo una crescita di risorse specifiche per questa problematica fascia d’età. In Italia questo non si è ancora verificato e a tutt'oggi vi è una forte carenza di risposte specifiche ai problemi dell'adolescenza. Per certi versi si può affermare che si tratta di una popolazione esclusa dai servizi socio-assistenziali esistenti ed istituzionalizzati.
L'incremento del disagio adolescenziale richiede una forma d’intervento innovativa per rispondere ai bisogni di prevenzione degli adolescenti. L'adolescenza costituisce una fase evolutiva della vita dell'uomo particolarmente ricca di tratti comportamentali e stati psicologici incerti e contraddittori, con forti tensioni emotive e mutamenti che si verificano a livello fisiologico, psicologico ed interessano l'intera personalità. L'intervento preventivo dovrebbe, perciò, rappresentare un momento contenitivo di tali aspetti di vulnerabilità da realizzare attraverso la cooperazione di varie strutture ed istituzioni sociosanitarie già presenti sul territorio, quali, i consultori familiari, i servizi d’igiene mentale, i servizi per le tossicodipendenze, ma anche e soprattutto con il coinvolgimento delle organizzazioni giovanili di volontariato e d’aggregazione culturale, ricreativa e sportiva. Un nuovo modello d’intervento integrato e multidisciplinare, coordinato da una specifica struttura sociosanitaria, rivolto ai giovani ed alle loro famiglie. Un intervento formativo ed informativo dove ogni ragazzo può trovare uno spazio per le proprie esigenze. Una struttura di servizio dove trovare un sostegno sociale in un momento particolare della vita dell'individuo, per sviluppare gli aspetti positivi della personalità, compensandone le debolezze le frustrazioni ed i conflitti tipici dell'età adolescenziale. Risulta, perciò, opportuna una strategia preventiva a supporto della stima di sé, per meglio affrontare il senso d’ansia che invade l'adolescente “sano” in questo periodo di transizione, ma anche  per ridurre l'insorgere di più gravi disturbi del comportamento sociale, dell'individuo in maturazione.
 
fonte: http://www.sstrinita-villachigi.com/public/news/NUOVI%20VOLTI%20DEL%20DISAGIO%20ADOLESCENZIALE%20E%20GIOVANILE.doc

autore: a cura del Dr. Vincenzo Manna
Medico - Psicoterapeuta – Specialista in Neurologia e Psichiatria

 

 

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