Tolleranza significato

 

 

 

Tolleranza significato

 

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Tolleranza significato

 

La Tolleranza

 

Che cos'è la tolleranza? La domanda può apparire retorica, dato che ha già avuto un'autorevole risposta più di due secoli fa: nel suo Dizionario filosofico (1764) Voltaire rispondeva «È l'appannaggio dell'umanità». Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura». Inoltre, il significato del termine ci può sembrare più che noto, scontato, tanto da considerare il suo opposto, l'intolleranza, un retaggio del passato, sopravvissuto solo in culture "altre" rispetto alla nostra, insomma, perché problematizzare - poiché tale è lo scopo dell'interrogare filosofico - un valore indiscusso della cultura contemporanea? Forse proprio perché concetti e valori mantengono significato e validità solo se sono oggetto di una costante riflessione critica, cioè solo se vengono discussi alla luce di mutamenti storici e culturali. Pertanto, la nostra domanda è solo formalmente identica a quella che si poneva Voltaire, poiché altri sono gli eventi storici, spesso anche drammatici, che l'hanno resa urgente e necessaria, come diversa sarà la risposta, inevitabilmente più "aperta", proprio perché i due secoli trascorsi ci hanno insegnato che la comprensione della complessità storica ed esistenziale richiede l'impiego di categorie concettuali più articolate e sfaccettate. Iniziamo allora la nostra ricerca, declinando maggiormente l'interrogativo iniziale: qual è l'etimologia del termine "tolleranza"? Qual è la definizione corrente di tolleranza? Come e quando ha preso corpo tale definizione? Essa è ancora valida?

 

Da un punto di vista strettamente etimologico, la parola tolleranza discende dal latino tolero, "sopporto". Poiché si sopporta ciò che per motivi di forza maggiore non si può ne evitare, ne modificare a proprio vantaggio, appare subito evidente che il significato del verbo latino connota un atteggiamento sostanzialmente passivo, necessitato.

A questo punto l'analisi etimologica sembra confonderei più che illuminarci: ma la tolleranza non è la disposizione, consapevole e volontaria, a riconoscere legittimità alle idee e ai comportamenti altrui? Che cosa ha a che fare la tolleranza, un atteggiamento cui la nostra cultura attribuisce un'indiscussa positività tanto da ritenerlo costitutivo dell'eticità contemporanea, con la sopportazione, atto che denota disagio, costrizione, limite?

In realtà, come spesso accade, l'etimologia rende conto, proprio attraverso l'apparente divario tra il significato originario e quello derivato, della storia del termine, profondamente radicata nella storia degli uomini. E se è vero, come ha scritto un insigne linguista contemporaneo, che «tutta la storia del pensiero moderno e le principali attuazioni della cultura intellettuale nel mondo occidentale sono legate alla creazione e all'esercizio di poche dozzine di parole essenziali, il cui insieme costituisce il bene comune delle lingue dell'Europa occidentale» (É.Benveniste, Problemi di linguistica generale, II Saggiatore, Milano 1976, p. 401), tolleranza (ingl. toleration, franc., tolérance, ted. toleranz) è sicuramente una di quelle, derivata dal latino tolero ma definita nella sua accezione corrente dalle vicende chiave dell'Europa moderna. Tanto che, pur traendo origine da un verbo latino, utilizzato anche dagli autori cristiani medievali, il sostantivo “tolleranza” acquista spessore semantico e morale, identificandosi con il principio della libertà religiosa, solo a partire dal Cinquecento, quando la società europea sperimentò fino in fondo l'effetto devastante delle guerre di religione, prodotte da intolleranze contrapposte.

Nella società contemporanea il termine ha indubbiamente un'accezione più ampia, che include il significato di tolleranza religiosa ma non si esaurisce in essa: oggi, l'idea di tolleranza è collegata per lo più alla convivenza con minoranze etniche, religiose, sociali o linguistiche o, in un significato ancora più comune, si identifica con una sorta di pluralismo dei valori e viene intesa, in maniera più vasta, «come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale» (N. Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in L'intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di R C. Bori, Il Mulino, Bologna 1986, p. 243). In ogni caso, l'idea di tolleranza, centrale in un'epoca di globalizzazione e insieme di crisi delle certezze assolute, riappare con forza come categoria da rileggere e reinterpretare in un mondo, quale l’attuale, percorso da inedite ondate migratorie ma anche da rinnovati contrasti etnici e religiosi, spesso ispirati a concezioni integraliste e in grado di produrre nuovi e tragici conflitti, insomma, ancora una volta, come già nel Cinquecento, la riflessione sulla tolleranza è stimolata dalla pratica dell'intolleranza.

Pertanto, la ricognizione storica di questo termine chiave della cultura europea deve proprio prendere le mosse dall'analisi del rapporto, sempre inversamente proporzionale, tra intolleranza e tolleranza.

 

Il primo dato inoppugnabile di ogni ricerca volta a tracciare la storia della polarità intolleranza/tolleranza è la constatazione, da un lato, della sua estraneità ai parametri concettuali dell'uomo antico, dall'altro, della sua appartenenza alla storia della diffusione e della istituzionalizzazione della dottrina cristiana.

Ciò non vuol dire che la cultura antica non contemplasse alcuna forma di discriminazione nei confronti degli "altri", dei "diversi", che erano, ad esempio per l'uomo greco, lo straniero, la donna, lo schiavo. Discriminazione, però, è sinonimo di distinzione, non di intolleranza. Certo, chi discrimina distingue in base a una scala di valori di cui egli ritiene di incarnare quelli positivi e "gli altri" quelli negativi, ma ciò non impedisce la convivenza reciproca all'interno di una medesima società. Si pensi, ancora una volta, alla società greca e alla condizione da essa assegnata alla donna, di cui Aristotele aveva teorizzato l'inferiorità naturale. O, ancora, ai barbari, nemici della repubblica romana ma, in seguito, cittadini dell'impero multietnico dei Cesari. Del resto, la religione pagana, vera e propria istituzione pubblica, finalizzata a promuovere e a rafforzare il senso di appartenenza del singolo allo Stato, si caratterizzò più per la coesistenza pacifica di culti diversi e per il sincretismo religioso che per eventuali pratiche persecutorie, che, anche quando furono attuate, come nel caso dei martiri cristiani, non furono determinate da odio religioso, bensì da ragioni politiche. I Romani non pretendevano affatto la conversione intima dei cristiani, ma l'atto di sottomissione simbolica all'autorità dell'imperatore.

Per contro, l'intolleranza religiosa divenne appannaggio della politica imperiale quando il cristianesimo si trasformò in religione di Stato (Editto di Tessalonica, 380), suggellando quel processo di reciproca integrazione tra Chiesa e Stato avviato da Costantino che, in cambio di concessioni politiche sempre più rilevanti quali l'inserimento di vescovi nella corte e l'ammissione della giurisdizione papale, aveva ottenuto la possibilità di esercitare un controllo sulle strutture istituzionali e nelle dispute dottrinali della Chiesa.

Dobbiamo, allora, considerare l'intolleranza una componente strutturale del messaggio cristiano?

Per rispondere a tale interrogativo, è necessario riflettere preliminarmente sulla natura delle cosiddette religioni rivelate. In effetti, le religioni fondate su una rivelazione - ossia sulla diretta comunicazione della verità da parte di Dio – come l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo, sembrerebbero comportare "naturalmente" l'intolleranza, radicata nel carattere esclusivistico connesso alla convinzione di possedere l’unica assoluta verità, in realtà tra tale convinzione e la pratica, "umana, troppo umana", dell'intolleranza non vi è un rapporto diretto, scontato. Si pensi, ad esempio, alla politica religiosa dell'impero ottomano, che, pur imponendo il predominio della religione islamica, tollerava che altre comunità religiose - Greci ortodossi, Armeni ortodossi ed Ebrei - si organizzassero in modo autonomo e paritario. Appare evidente, allora, che l'intolleranza non è tanto costitutiva di determinate fedi religiose, quanto dei modi e delle procedure della loro diffusione e istituzionalizzazione, che si realizzano all'interno di specifici contesti storici.

 

Il cristianesimo non fece eccezione: credo religioso incentrato sull'amore (l'agápe -ajgavph - nel lessico neotestamentario), l'amore di un Dio padre degli uomini, egli stesso fonte inesauribile d'amore e che l'amore comanda a tutti i suoi figli come il primo e fondamentale dovere, diede di fatto origine a un'organizzazione, la Chiesa, il cui ruolo di depositaria della Verità si concretizzò in una prassi prevalentemente intollerante, in stridente contrasto con i valori stessi che intendeva difendere. In particolare, gli appelli alla patientia e alla caritas, frequenti nel testo evangelico, trovarono un limite insuperabile nei mutati rapporti tra Chiesa e potere imperiale, che garantirono alla prima non solo il monopolio delle coscienze, bensì anche il ricorso agli strumenti coercitivi e punitivi del secondo, funzionali al mantenimento di quel monopolio.Tale processo produsse, del resto, profonde lacerazioni all'interno della stessa comunità cristiana, poiché non pochi fedeli si opposero allo snaturamento dello spirito delle origini conseguente al compromesso con il potere. Pertanto, proprio a partire dal IV-V secolo, parallelamente alla supremazia riconosciutale dall'Editto di Tessalonica, la Chiesa iniziò a sperimentare il "tarlo" dell'eresia, che ne costituirà per secoli la minaccia più grave, minandone dall'interno la coesione e la coerenza dottrinali.

 

L'intolleranza parve, allora, lo strumento più adatto alla salvaguardia dell'ortodossia, quale retta credenza nei dogmi ufficialmente insegnati, da qualsiasi contaminazione ereticale: separare il "buon grano" (il buon cristiano) dalla "zizzania" (l'eretico), come, a partire dal IV secolo, divenne abituale ripetere sulla scorta della famosa parabola del Vangelo di Matteo (13,24-30), divenne l'imperativo di una Chiesa che, in quanto "cattolica" (cioè universale) non poteva tollerare il particolarismo dottrinale e rituale proprio di ogni eresia.

La distinzione, però, non comportò fin dall'inizio la necessità dell'eliminazione anche fisica dei dissenzienti: Agostino, che anche a questo riguardo rappresentò l'auctoritas a lungo indiscussa, si convinse della bontà della persecuzione, intesa però come strumento essenzialmente correttivo, non punitivo. Ciò significa, per il vescovo di Ippona, che la Chiesa deve accettare il ricorso all'uso della forza in questioni di fede solo come rimedio estremo, finalizzato al recupero dell'eretico, che, incapace di ravvedersi autonomamente dalle proprie erronee convinzioni, deve essere "costretto" alla Verità.

Tuttavia, durante il Medioevo, la compenetrazione, per quanto problematica e conflittuale, di Chiesa e Stato, all'interno di una società che a partire dall'XI secolo si autoqualifica come "cristiana", favorì una radicalizzazione del rapporto ortodossia/eterodossia. La ricerca della più rigorosa unità religiosa si spinse fino alla creazione di istituzioni che, come la famigerata Inquisizione del XIII secolo, furono appositamente preposte alla repressione del dissenso e della devianza religiosa, mentre le leggi civili ed ecclesiastiche iniziarono a prevedere per gli eretici la condanna al rogo. Considerato, nel senso più rigoroso della parola, un fuorilegge, l'eretico divenne passibile di morte, perché, come ebbe a teorizzare Tommaso d'Aquino, egli era responsabile del delitto di falsificare la fede e, perciò, doveva essere condannato alla stessa stregua dei falsari, ossia "giustamente" messo a morte.

 

Generalmente considerata come un'èra di pura intolleranza, tuttavia l'epoca medievale, proprio in quanto "epoca" - ossia periodo storico di lunga durata - e, pertanto, definita solo in modo riduttivo da espressioni di carattere generale, conobbe anche i primi tentativi di instaurare, almeno in ambito intellettuale, il confronto e il dialogo tra fedi diverse. È esemplare, a questo proposito, il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo, grande maestro di dialettica nonché attivo protagonista della rinascita culturale della Francia del XII secolo. In questo testo compare per la prima volta un tema destinato ad avere grande fortuna tra i successivi sostenitori della tolleranza religiosa: l’esistenza in ogni uomo di una legge naturale (coincidente in ultima analisi con la stessa ragione umana), che gli indica i principi fondamentali della vita morale, gli insegna a risalire a Dio, ripercorrendo a ritroso la razionalità del creato, e gli addita la concordanza di tutte le religioni alla luce della ragione. Fermamente convinto che non si possa credere ciò che prima non si è capito (intelligo ut credam, "capisco per credere"), Abelardo non concepisce la ragione in antitesi alla fede, anzi, la considera sia strumento indispensabile all'approfondimento delle verità di fede, sia fonte di verità, certamente parziali (dato che solo il cristianesimo è l'orizzonte della piena verità), ma non fallaci. Pertanto, il confronto tra la religione cristiana e le altre fedi, tra la verità di Dio e le verità dei filosofi è reso possibile dalla natura stessa della rivelazione cristiana che, in quanto realizzazione massima, compimento ultimo della verità, non esclude ma comprende e recupera le singole verità parziali. Certo, la prospettiva abelardiana non è assimilabile alle successive teorizzazioni a favore del pluralismo religioso, in quanto è comunque incentrata sulla preminenza teologica e morale del cristianesimo, tipica della cultura medievale. Tuttavia, essa riduce la distanza tra fede e ragione, tra il cristianesimo e le altre religioni, considerate non come errate interpretazioni della verità, bensì come diverse vie di accesso a essa.

 

(testo tratto da La Tolleranza, Trattato teologico politico, a cura di Marina Maruzzi, collana “Filosofia e dintorni”, Paravia 2002, introduzione pagg. 9-11)

Fonte:

http://www.marialuigia.eu/public/nicoli/

http://www.marialuigia.eu/public/nicoli/TOLLERANZA%20(evoluzione).doc

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