Sociologia del lavoro

 


 

Sociologia del lavoro

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Sociologia del lavoro

 

Sociologia del lavoro riassunti

 

SOCIOLOGIA DEL MERCATO DEL LAVORO

 

CAPITOLO 2  OCCUPATI, DISOCCUPATI, INATTIVI

1- Definizioni. Occupato è chi svolge un lavoro, non inteso come mera attività fisica, definito da tre criteri: la capacità di dare un reddito, la produzione di beni o servizi utili, il riconoscimento personale e sociale. Sono considerate occupate sia le persone che percepiscono un salario o hanno un legame formale col proprio impiego che quelle che lavorano in vista di un profitto della famiglia; la gamma del livello di partecipazione al lavoro è però molto ampia andando da occupazioni marginali e saltuarie al superimpegno di chi ha più di un lavoro.
Disoccupato è un concetto articolato in più dimensioni: una economica (non avere un’occupazione), una di attività (essere alla ricerca di un impiego), una attitudinale (essere disponibile ad accettare un lavoro alle condizioni esistenti), una di necessità (aver bisogno di procurarsi un reddito) e una amministrativa(essere registrato al collocamento e ricevere un’indennità). La disoccupazione è un indicatore di una disponibilità a rispondere ai bisogni della domanda di lavoro (distinzione tra chi ricerca attivamente l’impiego e gli scoraggiati), di squilibrio tra domanda e offerta di lavoro in particolari settori o aree territoriali, del disagio economico e psicologico del disoccupato.
2- Rilevazioni statistiche. Lo strumento per raccogliere informazioni su occupati, disoccupati e componenti inattivi è l’indagine sulla forza lavoro sotto forma di questionario somministrato a un campione di famiglie seguendo delle linee guida standardizzate; in Europa è attivo dal 1992 un ufficio statistico (Eurostat) che raccoglie i dati delle varie nazioni classificando in maniera monovalente e gerarchica le persone. L’intervistato (di almeno 15 anni di età) deve collocarsi in una delle tre categorie (inattivi sono studenti, pensionati, casalinghe e invalidi) e quindi dichiarare se ha svolto attività lavorative o si è impegnato in ricerca di lavoro. Da questo si ricava, a livello italiano, una suddivisione in: occupati dichiarati tali, occupati in condizione non professionale (studenti o casalinghe che hanno lavorato almeno per un’ora nella settimana precedente), disoccupati in senso stretto (perdita del posto precedente), persone in cerca di prima occupazione, inattivi definitisi tali che però si dichiarano in ricerca di lavoro. La somma di occupati e di persone in cerca di occupazione costituisce la forza lavoro o popolazione attiva, traduzione in termini operativi del concetto di offerta di lavoro; gli occupati coincidono anche con la domanda di lavoro, cui bisogna sommare i posti vacanti. Chi non è occupato e non cerca lavoro fa parte della popolazione non attiva, vale a dire bambini, ultrasettantenni, persone in età lavorativa non attive (studenti, casalinghe, pensionati, invalidi).
Secondo le convenzioni internazionali per essere considerati disoccupati occorre essere senza alcun lavoro, essere immediatamente disponibili a lavorare e svolgere specifiche azioni di ricerca di impiego, che per OIL (Organizzazione internazionale del Lavoro) devono essere più recenti di un mese (dilatate a sei mesi per la partecipazione a concorsi pubblici). Le persone tra i 15 e i 64 non parte della forza lavoro si dividono quindi in: persone che non cercano lavoro attivamente, persone disposte a lavorare, ma che non cercano lavoro, persone che non cercano lavoro e non hanno interesse a lavorare. In Italia non è possibile misurare la disoccupazione in base alle registrazioni al collocamento, in quanto queste sono molto più numerose rispetto a  chi davvero cerca lavoro e all’opposto non leggono un 20% di persone in ricerca attiva di lavoro. La propensione a iscriversi è più alta per meridionali, donne, giovani e meno secolarizzati e mostra andamenti ondivaghi secondo iniziative governative connesse a misure di politica del lavoro.
3 – Rappresentazione del mercato del lavoro. Occupazione, disoccupazione e popolazione inattiva sono stocks, fotografano quantità misurate in un dato istante (la settimana precedente alla rilevazione) che risentono di lavori stagionali e che vanno rilevate trimestralmente in modo da misurare valori medi annuali. Il volume della disoccupazione varia secondo il numero dei dimessi o dei licenziati e quello di donne e giovani in cerca di prima occupazione confrontato con quello di chi trova lavoro, di chi rinuncia a cercarlo e di chi si ritira in pensione. Le variazioni della occupazione sono date dal saldo tra posti di lavoro distrutti e creati; esiste in ogni caso una domanda per nuovi lavoratori, anche se l’occupazione non aumenta. L’afflusso principale verso l’occupazione non proviene dalla disoccupazione, ma da chi apparteneva alle non forze di lavoro (studenti, casalinghe): tra il 1996 e il 1997 gli occupati sono aumentati di 50.000 unità a fronte di 1.300.000 flussi di ingresso/uscita e i disoccupati sono cresciuti di 30.000 unità con un flusso equivalente di 1.300.000 unità di uscita/ingresso nella disoccupazione. Inoltre non tutta l’occupazione è stabile, c’è molta mobilità interna al MDL e anche la disoccupazione non è cronica, in quanto il 50% dei disoccupati non sarà più tale dopo un anno. Per analizzare l’evoluzione del MDL si costruiscono i seguenti indici:
- Tasso di attività: rapporto tra forze di lavoro e popolazione totale (tasso lordo) o soltanto in età attiva (tasso netto); misura il grado di partecipazione al MDL di una popolazione, la sua propensione a lavorare o a cercare un lavoro. Tassi di attività specifici si possono costruire per genere, classi di età e livello di istruzione con risultati molto variabili nello spazio e nel tempo.
- Tasso di disoccupazione: rapporto tra le persone in cerca di occupazione e forza lavoro, indica la percentuale di chi non trova lavoro e può distinguersi in tassi più specifici.
- Tasso di occupazione: rapporto tra occupati e popolazione totale o in età attiva, indicatore della domanda di lavoro e del grado di benessere economico, poiché il suo reciproco riferito alla popolazione totale indica il numero di persone a carico di ogni occupato.
Quest’ultimo è diventato l’indice più rilevante: molti lavoratori cercano lavoro solo se pensano di poterlo trovare e le imprese modificano le loro richieste in base alla disponibilità di trovare lavoratori da assumere. Pertanto variazioni della domanda possono provocare variazioni dell’offerta e viceversa senza incidere sul tasso di disoccupazione.
L’uso dei tassi lordi, più semplici da costruire è coerente solo se la quota della popolazione non in età attiva è costante (periodi non lunghi).

 

CAPITOLO 3  IL MERCATO DEL LAVORO DUALISTICO

 

6 – Il ritorno del dualismo territoriale. Il dualismo territoriale Nord-Sud, attenuato solo negli anni ’60, già dalla fine dei ’70 riprende per assumere distanze abissali negli anni ’80 (pieno impiego al Nord, 25% disoccupati al Sud): le curve dell’occupazione e della forza lavoro sono entrambe a U, ma con velocità molto differenti. L’esodo della forza lavoro provoca caduta del tasso di disoccupazione, ma anche di occupazione, mentre al Nord il livello di occupazione diminuisce di poco e l’offerta di lavoro diminuisce molto di più così come il tasso di disoccupazione. Il serbatoio del lavoro agricolo, fatto di sottoccupazione, scomparendo fa salire il divario tra le due zone a sfavore del Sud. Dal 1972 l’occupazione totale del Sud cresce per nuovi insediamenti industriali, ma di più cresce l’offerta di forza lavoro (crollo dei flussi migratori) aprendosi in una forbice vieppiù ampia. Dopo il ’76 l’occupazione totale nel Sud cresce per il traino del settore terziario (fino a raggiungere il 62%) senza passare da una fase agricola a una industriale vera e propria. Il Nord ha un tasso di occupazione che arriva al 41%, mentre il Sud rimane al 31, per una base occupazionale meno solida, con maggior presenza di giovani (crescita demografica) e donne che entrano nel MDL ed un calo dell’occupazione maschile. Risultato sarà l’aumento del tasso di disoccupazione, raddoppiato in 15 anni fino al 20,4%. Negli anni ’90 col nuovo modo di classificare la disoccupazione basato sulla ricerca attiva di impiego, il tasso di disoccupazione del Sud diminuisce, facendo però calare anche il tasso di attività, mentre al Nord il calo è più importante, ma solo della occupazione e non dell’attività. All’inizio del XXI° secolo i divari si fanno abissali: 5% di disoccupazione al Nord (2% a Lecco) con un tasso di attività vicino al 50% contro il 22% al Sud e attività del 23%; la divisione per genere accentua ancora i dislivelli.
A livello generale la congiuntura economica incide in maggior misura nelle regioni con i più bassi tassi di disoccupazione, mentre nelle altre prevalgono tendenze di lungo periodo; le differenze aumentano in congiunture positive e diminuiscono in quelle negative.
7 – La balcanizzazione del MDL italiano. Negli anni 70 e 80 vi è una riduzione della mobilità interna, anche a fronte di squilibri territoriali, che arriva ad arrestarsi sui minimi nazionali negli anni 90. L’aumento del benessere economico, la minore disponibilità di offerta di lavoro e l’aumento dei costi (anche psicologici) dello sradicamento porta a una caduta della mobilità, che si restringe ad ambiti professionali particolari e qualificati o che diventa solo temporanea. La scarsa propensione all’emigrazione non denuncia l’esistenza di disoccupati pigri né falsi, ma l’innalzamento dei gradi di libertà nei confronti della domanda di lavoro disponibile, le attese sul futuro lavorativo, i livelli retributivi che non giustificano uno spostamento in regioni con costi di vita molto più alti. Le regioni meridionali, dotate di un’economia produttiva meno efficiente subiscono prelievi fiscali e contributivi minori a fronte di una ridistribuzione cospicua di risorse provenienti dal Nord. I livelli di vita e di consumo sono quindi comunque elevati, cosa che favorisce un’abnorme sviluppo dei settori commerciale e di servizi alla persona (spesso poco tassabili), in più si può contare sulla struttura familiare che permette di ridurre costi di gestione personale.

 

CAPITOLO 4 Nuova partecipazione al lavoro delle donne

 

1-Il ritorno delle donne al lavoro extradomestico retribuito è il fenomeno più importante della seconda metà del XX° secolo (prima erano impiegate in agricoltura o in manifatture, specie nei periodi bellici), decolla negli anni 70 e cresce fino a stabilizzarsi nei 90. In Italia permane un distacco di partecipazione femminile anche di 10-15 punti percentuali rispetto a molti paesi europei, le ragioni sono culturali e istituzionali: divisione dei ruoli tra generi, fecondità, nuzialità, livello di istruzione, strutture di assistenza ai figli.
Per studiare i modelli di partecipazione femminile si usa la curva dei tassi di attività per età: fino agli anni 70 si avevano due tipi di curve, una a M (paesi nordici) con una presenza elevata fino ai 25 aa, quindi una flessione in età riproduttiva seguita da una ripresa minore intorno ai 35-40 aa; una a L rovesciata (paesi meridionali) con un solo picco a sinistra non più seguito da recuperi in età matura. Dopo gli anni 70 si modificano entrambe assumendo una forma a campana (simile a quella maschile, ma di grado inferiore) con  un lungo tetto dai 25 ai 50 aa, con un ritiro precoce rispetto ai maschi. Ciò accade prima nei paesi nordici, poi in Francia e nel sud (tranne la Spagna) con un sottoslivellamento della classe sopra i 45 aa. Per comprendere meglio le curve bisogna però considerare le coorti e vedere la loro partecipazione: a partire dal 50 ogni generazione mostra una curva dei tassi di attività ben superiore alla precedente con progressiva scomparsa dell’uscita dal MDL per matrimonio o gravidanza. Ventenni e trentenni hanno tassi simili, mentre le over 40 hanno ancora curve più basse rispetto agli altri paesi europei. Nel Nord Italia i distacchi da Francia e Germania sono ridotti a 4-7%, con una crescita dal 78 al 91 di 16% per le trentenni e del 13% per le ultratrentenni; le casalinghe sono il 26% nel 2000, ma solo il 10% sono ventenni. Al Sud c’è una crescita, ma molto inferiore (11 punti per le <30, 7 per le >30), le casalinghe sono ancora il 40% (22% ventenni); molto frequente è il fenomeno di scoraggiamento per cui, specie le >30, smettono di cercare lavoro ed arrivano a tassi di disoccupazione del 60%.
La presenza femminile in Italia nasce nei 70 per l’ingresso di donne adulte tra i 25 e i 50 anni in ambiti di lavoro non familiari, quindi meno conciliabili con le esigenze domestiche e allevative; il part time comincia a essere una realtà sensibile sono dopo gli anni 90.
2 - Il part time non è una categoria omogenea nei paesi occidentali: a) per numero di ore lavorate, che si situa tra le 15 e le 30, al di sotto è attività marginale, con una media di 20 ore settimanali (in Italia è di 22-23, a fronte di un orario pieno medio di 38 h); b) precarietà, in EU i rapporti di lavoro sono spesso permanenti, ma nel Sud molti sono tempo determinato con una percentuale di part timer del 17% contro il 35-45 dei paesi nordici. In I la legislazione del lavoro prevede che per le part timer vi sia un trattamento previdenziale paritario rispetto agli altri, cosa poi (97) recepita a livello comunitario; c) qualità del lavoro dipende dalla connessione con orari socialmente disagiati (turni, notti, weekend) e dallo scopo con cui i lavori stessi sono stati organizzati: se per tenere al lavoro fasce di persone altrimenti non occupate (settore pubblico) o se solo per assicurarsi basso costo del lavoro e flessibilità (settore privato deregolamentato).
Buono o cattivo, le donne devono al part time una maggiore possibilità di trovare lavoro: la relazione tra tasso di occupazione femminile e quota di part time in EU presenta varie realtà e viene definita da un coefficiente di correlazione (vale +1 se la relazione è perfettamente positiva, ovvero se le due variabili aumentano o diminuiscono contemporaneamente; vale –1 in caso di perfetta relazione negativa, quando una aumenta l’altra diminuisce; quando è 0 vi è assenza di relazione) che diventa significativo quando è ± 0,70. A parte i casi estremi di Portogallo e Finlandia (dove quasi non esiste lavoro part time femminile) il coefficiente EU è stato significativo (0,69) fino all’ingresso dei paesi dell’Est.
Negli anni 90 è cresciuta la correlazione negativa tra quota di part time e disoccupazione femminile (-0,59); tale relazione si manifesta solo quando l’occupazione a tempo parziale raggiunge livelli elevati perché prima la diffusione del part time incoraggiava fasce di donne non disposte al full time  a entrare nel MDL, lasciando invariato il livello di disoccupazione.
A livello EU il part time è stato l’unico a salire dagli anni 70 alla crisi del 91-94, dopodiché è comunque sempre cresciuto più del full time fino al 1999 garantendo il 70% dell’occupazione aggiuntiva femminile di quel periodo. In I il part time è ancora una realtà marginale, anche se dopo il 1993 vede una crescita dall’11 al 18%, di cui l’80% a tempo indeterminato costituendo il 40% della crescita occupazionale. Econcentrato nel Nord ed ha coinvolto soprattutto le generazioni più giovani (a livello dei paesi nordici), mentre le ultra50 sono coinvolte soprattutto in GB (lavori poco qualificati); particolarità italiana è il fatto che in termini di occupazione equivalente a tempo pieno si perda solo il 2% contro il 10% della D, il 15% di GB e il 21% di NL.
I settori lavorativi di maggior diffusione del part time sono: distribuzione commerciale, servizi alla persona, ristorazione (40%) seguiti da industria e settore finanziario in maniera inversamente proporzionale al livello di istruzione (in I 19% scuola dell’obbligo, 14% diploma, 9% laurea). Il profilo europeo tipo della part timer (in I c’è minore tipizzazione) è di una donna matura, poco istruita, impegnata in servizi con mansioni poco qualificate e poco pagate.
Le due strategie alla base del part time (flessibilità/economicità e rispondenza a nuove esigenze) hanno diversa diffusione, indifferente alla quota di lavoratrici part time presenti nei diversi paesi, ma di rado sono sintomo di un lavoro di ripiego, accettato solo per l’indisponibilità di un adeguato full time (solo 20% involontarie), anzi spesso le donne passano dal full al part time in base alle proprie esigenze mutate.
Hakim ha suggerito una suddivisione in due popolazioni di donne: le emancipate, che mirano a un full time che le renda indipendenti, e le grateful slaves (schiave condiscendenti) che considerano il lavoro secondario rispetto alla famiglia. Questo porta a condizioni in cui quando il part time è poco diffuso l’occupazione femminile è scarsa e prevalgono le emancipate, alla ricerca di lavori a tempo pieno; quando invece il part time è molto diffuso prevalgono le schiave che cercano un lavoro a tempo parziale. Paradossalmente la diffusione del part time e la proporzione di part timer involontarie sono in relazione negativa e anche il declino del part time involontario al crescere delle occupate a tempo parziale.
Vi è il rischio che molte donne family committed restino intrappolate in lavori part time nel momento in cui cercassero un full time, soprattutto se non più giovani né istruite; la crescita professionale è molto scarsa.
3 – La doppia presenza. Il fatto che in I l’occupazione femminile sia aumentata con poco part time e con pochi miglioramenti dei servizi sociali implica che la vita familiare è cambiata più che nei paesi nordici; si aggiunga la riluttanza maschile per i lavori di casa (italiani primatisti) le ore che la donna dedica al lavoro (retribuito + familiare) superano le 60 settimanali nel 50% dei casi, contro un 21% degli uomini. Le provvidenze sociali, come asili nido e assistenza agli anziani, incidono in maniera cruciale sui tassi di occupazione femminile perché creano lavoro su due fronti: crescita occupazionale nei servizi sociali e maggiore disponibilità sul MDL. La situazione italiana è però di interventi pubblici sussidiari  in denaro alle famiglie e non di sistemi di assistenza fatti anche per favorire la partecipazione al lavoro delle donne.
Lo sfruttamento delle donne immigrate per lavori assistenziali o domestici ha permesso a molte donne italiane di accedere al MDL emancipandosi dentro la famiglia piuttosto che dalla famiglia. Altre soluzioni sono l’impiego di reti familiari per l’assistenza a bambini o anziani o – più a monte – la riduzione degli impegni familiari ricorrendo a posticipazione dell’età matrimoniale e a riduzione della natalità da 2,4 figli per donna nel 1970 a 1,1 (ben sotto il tasso di sostituzione del 2,1) nel 90, con una velocità record nel mondo.
La relazione tra livello di attività e numero di figli è chiarissima: lavora il 78% delle donne senza figli, il 63% di chi ha un figlio, il 56% di chi ne ha due e il 42% di chi ne ha tre; inoltre il tasso di attività delle donne istruite è più alto e risente meno di quelle poco istruite del carico di lavoro familiare.
Domanda finale: la caduta della natalità è conseguenza forzosa della sempre più frequente scelta delle donne per un maggior impegno del lavoro extradomestico non compensato da adeguati servizi sociali o è un fenomeno autonomo, una scelta di valore? Pare che la seconda ipotesi sia più accettata dai demografi, per i quali la diffusione di valori postmaterialistici individualistici è alla base della bassa natalità. Un’altra ipotesi, nata dalla constatazione che i tassi di fertilità restano elevati in situazioni extramatrimoniali, dice che il familismo è una potente spinta a ridurre le gravidanze, a ritardare il matrimonio, a valorizzare la persona nel lavoro. Attualmente i paesi a più elevata occupazione femminile sono anche quelli a più alta fertilità, a fronte di politiche costose per lo stato e le aziende, ma solo garantendo una cospicua struttura di servizi sociali si sfugge da un equilibrio a bassa fertilità ed occupazione.
4- L’istruzione superiore femminile raggiunge livelli sempre più elevati : dal 17% nel ’67 al 25% nel ’72 al 33%nel ’77 al 44% nel ’82 al 50% nel ’92 fino al 60% nel 2000. Ciò ha creato enormi problemi a causa dello squilibrio nei livelli di istruzione per classi di età, per il ricambio nelle popolazione occupata. A fine anni 80 si verifica il sorpasso femmine-maschi nella quota di diplomati-laureati, con un aumento importante del tasso di attività femminile. Nel 2000 il 17% delle donne con licenza elementare sono occupate, il 39% di quelle con licenza media, il 60% di diplomate e il 79% di laureate con curve diversificate: a L rovesciata le prime, a campana le seconde, sia pure a livelli inferiori rispetto ai maschi (tranne che per le laureate). I due terzi dell’aumento di offerta di lavoro femminile si deve all’incremento del livello di istruzione; cresce il peso relativo di diplomate e laureate nella popolazione femminile (non la loro partecipazione al lavoro), tendenza massima negli anni 70 e 80, poi stabile nei 90. L’elemento scolarità (costosa in termini di tempo, impegno, risorse economiche) spinge a cercare un’occupazione da giovani, a mantenerla in età adulta (nonostante marito e figli) e a conservarla fino alla pensione. L’istruzione porta a una minore sudditanza verso genitori e marito, a una maggiore ricerca di indipendenza, autonomia, realizzazione nel lavoro. Il lavoro viene conservato quanto più è gratificante, piacevole e remunerativo; il profilo di partecipazione diventa uguale a quello maschile, con tassi di attività elevati in ogni fase del ciclo di vita e con modesti effetti della vita familiare. Le donne meno istruite hanno invece un modesto attaccamento al lavoro, anche perché si tratta di solito di impieghi nel terziario, meno retribuiti, meno stabili e meno gratificanti.
La quota maggiore di donne con istruzione superiore non si spiega però solo con un ragionamento economicista (far rendere un investimento) o socioculturale (rendersi autonome e realizzarsi), bisogna considerare la maggiore disponibilità delle famiglie e soprattutto l’aspirazione alla mobilità sociale, prima limitata al matrimonio, ora spostata sull’attività lavorativa.
5- Dagli anni 70 cresce l’occupazione femminile, soprattutto nel MDL secondario, quello del lavoro domiciliare o del lavoro irregolare, sfruttando la manodopera femminile meno pagata e più flessibile. Allo stesso tempo però cresce anche la quota di occupazione qualificata, istruita, regolare e duratura, concentrata nel terziario (40% in I, 50% e più in GB e F), ma anche nell’industria (24%, specie nel settore impiegatizio). Tra il ’77 e il ’92 il 30% della nuova occupazione femminile va nel comparto turismo, commercio e ristorazione e un buon 50% nella pubblica amministrazione. Nei 90 quasi tutta la domanda di lavoro viene dal terziario, specie quello avanzato (servizi alle imprese, attività finanziarie e professionali). Gran parte dei servizi sociali e personali sono solo la professionalizzazione di attività familiari: cura di malati, anziani, bambini (assistenza e istruzione); si è creato un circolo virtuoso per cui l’offerta di lavoro crea la sua domanda, la richiesta di servizi allo stato o al mercato privato ha permesso da un lato un’occupazione esterna a molte donne e dall’altro ha creato nuove occupazioni stabili.
In EU nel 2000 il 40% dell’occupazione femminile è nei servizi alla famiglia (istruzione e sanità) mentre solo il 15% è nell’industria e il 20% nei servizi di distribuzione. La crescente scolarizzazione femminile consente l’accesso a posti di lavoro, coerenti col loro percorso scolastico, che si fanno sempre più diversificati; tende ad attenuarsi la discriminazione di genere, tanto che nel pubblico impiego, ove si accede per concorsi ed esami, le donne sono il 50%, il 72% nella scuola e il 55% nella sanità. In magistratura le donne vincitrici di concorso sono passate in venti anni dall’8% al 53%, nella sanità le laureate salgono dal 12 al 34%. Il pubblico impiego garantisce flessibilità maggiore di impegno e di orario, il terziario può permettere turni e impegni a tempo parziale, ma nell’area del lavoro autonomo le professioniste e le imprenditrici devono mettere in conto una quota maggiore di tempo e di impegno. L’adattamento alle esigenze femminili non sempre è possibile se non è aiutato da sostegni esterni o familiari e se non è bilanciato da una minore natalità.
6- L’espansione dell’occupazione femminile è avvenuta in gran parte per la crescente domanda di attività tipicamente femminili: impiegate, cameriere, insegnanti, commesse, infermiere, medici. Rovescio della medaglia è la segregazione, cioè la segregazione dei settori dove sono dominanti e la esclusione da quelli maschili (non è ghettizzazione perché tali occupazioni non sono peggiori delle maschili). Le donne entrano in lavori prima riservati ai maschi quando diventano meno attraenti, quando vi è una forte domanda o quando diventano competitive per livelli di istruzione e di qualifica. Segregazione verticale è quella in cui si vede una diversa posizione gerarchica per donne e uomini nella stessa professione; segregazione orizzontale misura la concentrazione in settori e professioni differenti senza valutazione sulla loro desiderabilità.
Indice di dissomiglianza: proporzione di maschi e di femmine che dovrebbe cambiare settore o occupazione perché vi sia uguale distribuzione per genere in ogni settore od occupazione. Tre fattori distorsivi: la quota di occupazione femminile, il livello di aggregazione delle aree e la loro dimensione relativa. Paradossalmente i paesi EU con più elevati indici di segregazione sono i paesi con più occupazione e più inserimento femminile. In I c’è il più basso indice di dissomiglianza (0,29); i livelli di segregazione elevati dipendono da alta terziarizzazione e occupazione dipendente (maggiore concentrazione di donne tra impiegati, venditori, addetti ai servizi, mentre le posizioni più elevate o produttive sono riservate ai maschi); minore segregazione è favorita da minore fertilità, aumento dell’occupazione totale e ideologia egualitaria contro le discriminazioni di genere. La bassa segregazione in I è dovuta a bassa fertilità e a scarsa diffusione del part time a fronte di una quota di terziario paragonabile a quella di altri paesi. Quando aumenta il part time aumenta in parallelo la segregazione, perché questo è costruito proprio per donne con famiglia cui non sarebbe possibile un full time più qualificato.
In EU le donne sono sovrarappresentate fra impiegati, addetti alle vendite e servizi, sottorappresentate nella produzione industriale (meno in quella qualificata) e nei livelli direttivi; in I sono sovrarappresentate anche nelle attività professionali e lo sono meno nelle attività produttive manuali. In I le giovani che entrano nel MDL sono più istruite dei maschi, ma esiste la segmentazione verticale (anche per questione di anzianità di servizio) perché la carriera richiede alti investimenti di tempo, mobilità e risorse che mal si adattano con la doppia presenza. Il part time poi esclude ogni forma di carriera automaticamente e le donne non entrano nelle reti informali e nei clan interni alle organizzazioni, sono assunte e valutate da maschi, per loro è più facile essere assunte che essere promosse. La segmentazione orizzontale decresce, la verticale no.

 

CAP 5  MODELLI DI DISOCCUPAZIONE IN EUROPA

 

2- Discriminazioni di genere: le donne sono più disoccupate degli uomini ovunque tranne che in GB e SW, mentre in Irl e SF sono allo stesso livello, con dislivelli che vanno da uno (D, Au, Dan) a undici punti (E). Le donne non sono più discriminate nei paesi ove la disoccupazione totale è più elevata e vi dovrebbe essere maggiore concorrenza sul MDL, né nei paesi dove sono più presenti come conseguenza dell’eccesso di offerta: la discriminazione di genere è più elevata dove vi è una ridotta capacità del paese di creare nuovi posti di lavoro. I, E e Gr dove il tasso di occupazione totale è basso (55%) vedono elevata discriminazione di genere, mentre GB e Sw, dove lavora il 70% della popolazione presentano uno svantaggio relativo minore se non nullo. La parità di accesso è quindi garantita solo nei paesi in cui i posti di lavoro non sono un bene scarso, anche se bisogna comunque considerare il committment verso la famiglia proprio e sociale. In I la maggior parte di donne disoccupate sono giovani che vivono in famiglia, in F sono adulte che vivono col partner, in Dan e GB sono donne sole, talora con figli (ma con un alto grado di assistenza sociale).
3- Discriminazione per età: il tasso di disoccupazione varia più per età che per sesso, le fasce più deboli sono giovani  e anziani. Tre modelli: 1) I, tasso molto alto per i giovani maschi, scende fino al minimo per i quarantenni e non aumenta quasi per gli anziani; per le donne il tasso giovanile è più elevato e cala continuamente fino a al minimo in età anziana E, P, Gr e B) 2) D, dalla fine degli 80 la disoccupazione giovanile scompare e il tasso rimane simile sino ai 55 aa, quando aumenta per l’effetto dei prepensionamenti. I giovani in realtà godono di un sistema di formazione duale che alterna scuola e lavoro e li classifica come occupati a tempo parziale (Dk, Au) 3) GB curva a U molto aperta con tasso per i giovani doppio rispetto agli adulti, che sono comunque al 10%, per crescere di nuovo verso l’età anziana (F, Sw).
I giovani sono più esposti, specie in I, E e Gr, mentre gli adulti sono molto più protetti; i paesi si differenziano più per la discriminazione verso la disoccupazione giovanile che per il tasso globale di disoccupazione. Nei ’90 esiste una relazione tra indice di discriminazione (differenza tra tasso di disoccupazione dei giovani maschi tra i 15 e i 24 anni e quello dei maschi totali diviso per il tasso di disoccupazione totale) e tasso di disoccupazione totale. I giovani non sono più discriminati nei paesi in cui la disoccupazione totale è più elevata e dovrebbe esserci maggiore concorrenza sul MDL. Forse invece esiste un eccesso di offerta di lavoro giovanile che congestiona il MDL, per cui i giovani dovrebbero essere più discriminati nei paesi dove sono di più (baby boom). A conferma sta la riduzione della discriminazione alla fine dei ’90, contro sta la somiglianza tra paesi con uguale incremento delle coorti giovanili, ma con tasso di disoccupazione molto diverso.
E’ importante la capacità di un paese di creare posti di lavoro: la penalizzazione giovanile è maggiore nei paesi ove minore è il tasso di occupazione totale: se l’offerta di lavoro è elevata i giovani sono meno esclusi.
Anziani: sono penalizzati in paesi come D e Sw, ove spesso sono prepensionati figurando come disoccupati. Negli altri paesi vi è un picco tra i 55 e i 59 aa quando non vi sia accesso agli ammortizzatori sociali e in caso di perdita del lavoro non riescono a reimpiegarsi. Non vi sono però tra i paesi EU relazioni tra disoccupazione globale, tasso di occupazione e attività degli anziani. La vera discriminazione sta nelle politiche nazionali che favoriscono pensioni di anzianità o che invece mandano in pensione molto tardi.
4- Diversa struttura della disoccupazione. Le differenze dei tassi di disoccupazione nei paesi EU si riassumono in tre modelli in base al genere:
-modello della disoccupazione prevalentemente maschile, si ha in D, GB (60%) Irl e Sw
-modello paritario uomini – donne, si ha in B, P, SF
-modello della disoccupazione prevalentemente femminile, si ha in I, F, Gr, Dk fino al 60%
Tre modelli si hanno anche per le differenze di età, per cui:          in I il 60% sono giovani, il 30% adulti e solo il 9% anziani
In D il 25% sono giovani, il 40% adulti e il 30% anziani
In GB il 42% sono giovani, il 40% adulti e  il 20% anziani
In Sp, Gr e I in cerca di lavoro sono soprattutto giovani, in B, F, NL, P, SF e GB sono adulti (ma con 40% di giovani), in D, Dk, Au eSw sono più adulti con una quota elevata di anziani.
I giovani sono per lo più persone in cerca del loro primo lavoro, mentre gli adulti sono disoccupati per perdita del loro posto: in D e Dk l’80% dei disoccupati è tale (70% in F, P, SF), mentre in I il 60% è senza esperienza e solo il 10% è un vero disoccupato. In Gr il 50% è giovane e il 30% disoccupato, In GB e Au vi è una quota del 20% di persone (specie donne) in cerca di lavoro a cavallo tra attività e inattività; in Sp il 30% è composto da giovani, spesso però impiegati in lavori temporanei che li tolgono dalla categoria dei cercatori di primo impiego. L’I degli anni 90 vede un doppio squilibrio statistico: da una parte non si contano tra i disoccupati i cassintegrati (che dal punto di vista economico lo sono e che rappresentano il 10% dei disoccupati), dall’altra si contano ancora persone che non lavorano ma che non sono alla ricerca attiva di lavoro; quadro finale dell’I è quello di un paese dove è molto difficile l’ingresso nel sistema occupazionale, ma poi è basso il rischio di restare senza lavoro e di perderlo definitivamente.
5- Disoccupazione e famiglia. La posizione della persona in cerca di lavoro in seno alla famiglia è un parametro importante, che influisce sulle risorse psicologiche ed economiche della persona e della famiglia stessa. Diversa è la posizione del capofamiglia (breadwinner) dal giovane che vive coi genitori, da chi vive da solo. Di solito a capifamiglia poco colpiti dalla disoccupazione corrispondono giovani più colpiti: così è in I dove solo il 2% dei capifamiglia risulta disoccupato, contro il 25% dei giovani in famiglia; in GB lo sono il 7% dei capi e il 13% dei figli, in D la percentuale ( a fronte di un tasso globale del 4%) è quasi paritaria intorno al 3%.
Anche l’età di uscita dei giovani dalle famiglie è molto diversa fra le nazioni; in I il 77% degli under 30 sta coi genitori, contro il 16% di Dk, il 29% di NL, il 32% in GB, il 36% in D e il 40% in F (Sp col 72% e Gr col 57% sono più vicine). Questo porta a leggere tre diversi gruppi: 1) I, Sp e Gr in cui la maggioranza di persone in cerca di lavoro sono figli che vivono in famiglia, mentre i capifamiglia sono solo il 20%; 2) GB e D in cui il 53% sono capifamiglia, per lo più maschi (15% donne); 3) F, B, Au e NL in cui la percentuale di capifamiglia è più bassa (39-45%), ma più alta è la quota di coniugi (28-33%).
L’impatto della disoccupazione di lunga durata accentua le differenze: la percentuale di disoccupati di lungo periodo è più alta per i capifamiglia nei paesi in cui i essi sono più rappresentati e così per i giovani nei paesi ad alta percentuale giovanile.
In I solo il 2% dei disoccupati vive da solo (contro il 5% di Sp, il 30% di GB e F, il 33% di D e Sw e il 50% di Dk e NL) in quanto non esistono indennità di disoccupazione ed è quindi giocoforza appoggiarsi alla famiglia per il sostentamento; la percentuale di figli che vivono in famiglie senza alcun reddito è solo dell’1,1%, mentre nel 55% dei casi i genitori occupati o pensionati sostengono figli in cerca di lavoro. Nei paesi nordici invece vi sono meno giovani disoccupati, meno giovani in famiglia, più giovani che mantengono capifamiglia disoccupati (14-19%).
7 – Welfare state e mancanza di lavoro. In EU chi resta senza lavoro riceve quasi sempre un sussidio destinato a sostenerne il reddito, sia dal punto di vista assicurativo che da quello assistenziale. Dal punto di vista assicurativo è come un risarcimento per la rottura del rapporto di lavoro ed è legato all’ammontare e alla durata dei contributi versati in passato, a prescindere delle sue condizioni economiche. Dal punto di vista assistenziale i sussidi sono finanziati dal sistema fiscale e sono previsti per chi si trovi in stato di bisogno, non sono legati al passato lavorativo ed essendo più modesti sono elargiti a tempo indefinito, finchè perdura lo stato di bisogno periodicamente verificato.
Per valutare la generosità dei sistemi di protezione si valutano: il tasso di rimpiazzo (rapporto tra l’ammontare del sussidio e il salario) e la durata; inoltre si guardano le condizioni di accesso (l’aver lavorato in precedenza e per quanto tempo) e di comportamento (il ricercare attivamente un lavoro). L’indennità di disoccupazione di tipo assicurativo è proporzionale all’ultimo salario, variabile per proporzione e durata secondo anzianità, età, situazione familiare e livello di retribuzione: se allo scadere dell’indennità la persona dimostra di essere privo di lavoro e in condizioni di bisogno succede un sussidio a tempo indeterminato, molto inferiore all’indennità di disoccupazione. I paesi più generosi sono Dk, Sw e NL, i meno generosi I, Gr e GB. In I non esiste un sussidio di tipo assistenziale e l’indennità è comunque modesta (portata dal 30 al 40% dell’ultima retribuzione per sei mesi, nove per gli ultra 50). I lavoratori espulsi dai processi produttivi con licenziamenti collettivi hanno diritto a un’indennità di mobilità che arriva fino all’80% per periodi variabili dai 12 ai 36 mesi e che possono ancora prolungarsi per gli over 55 fino alla pensione. Vi sono poi altre forme di indennità di disoccupazione di ammontare e durata ridotti, ma ripetibili tutti gli anni per i lavoratori stagionali in agricoltura, edilizia, commercio, turismo e industria di trasformazione agricola; hanno tasso di rimpiazzo intorno al 30%, durano tre mesi e sono in realtà una forma di assistenza all’integrazione del reddito annuo dei lavoratori stagionali piuttosto che di copertura assicurativa del rischio di perdere il lavoro. Negli anni 90 si è attivata un’altre rete di protezione di ultima istanza: i lavori socialmente utili, destinati a fornire servizi alla collettività utilizzando soggetti svantaggiati (usciti da CIG e mobilità, senza avere l’età del pensionamento) senza scadenze.
Recentemente si è vista una generale tendenza internazionale a ridurre la generosità dei sussidi di disoccupazione, sia riducendone importo e durata, che restringendone le condizioni d’accesso e imponendo obblighi rigorosi nelle effettive ricerche di lavoro.
L’I, oltre al sistema di protezione meno generoso, ha anche il minor tasso di copertura: su 100 persone in cerca di lavoro solo 6-7 ricevono un’indennità o un sussidio, contro una media EU di 40-50 nella maggior parte dei paesi. Questo perché la maggioranza dei disoccupati italiani sono in realtà giovani in cerca di primo impiego, senza i quali il tasso salirebbe al (comunque basso) 25%.
Considerando la quota di persone in cerca di lavoro che percepisce indennità o sussidi suddividiamo l’EU in tre gruppi: B, Dk, D, Irl, SF, Au e Sw che danno ampia protezione (65-80%) a chi ha perso il lavoro e a chi non l’ha mai avuto; F, GB e NL che danno un sussidio al 43-52% dei soggetti; I, Gr, P e Sp che assistono non più del 25% di disoccupati.
Tali sussidi riducono il rischio di perdere il lavoro, rendono più facile accettare occupazioni poco stabili, riducono la resistenza a mutamenti economici con riallocazione dei lavoratori in altri settori. Inoltre i lavoratori possono cercare un nuovo lavoro in maniera più mirata, senza disperdere il proprio patrimonio accettando il primo impiego propostogli. Una maggiore generosità prolunga la durata della ricerca, ma non favorisce inerzia o parassitismo sociale, non corrode la motivazione al lavoro. A livello macrosociale una maggiore generosità non coincide con tassi più alti di disoccupazione, né le riforme per aumentare il livello di indennità hanno portato a una crescita di disoccupazione, casomai solo a un suo prolungamento in periodi di particolare crisi come negli anni 70. Livelli più bassi di generosità e copertura indicano una minore probabilità che la perdita del lavoro sia adeguatamente compensata, quindi una maggiore probabilità che si scivoli verso la povertà, la rottura dei legami sociali e il malessere psicologico. Le probabilità che una persona abbia accesso a un sussidio evidenziano che: le donne ne percepiscono molto meno degli uomini, la relazione tra grado di copertura e durata assume una forma a U rovesciata (massima tra i 6 e i 12 mesi, minima dopo i 24), la relazione con l’età è crescente (meno protetti i giovani, di più gli over45), quando in famiglia vi è un altro disoccupato la probabilità di percepire un’indennità è inferiore, specie per gli uomini. Chi è alla ricerca di lavoro da pochi mesi è meno protetto perché è registrato nelle liste da poco tempo o è un dimesso volontario inizialmente escluso da sistemi di sussidio. Chi è disoccupato da lungo tempo è meno protetto o perché ha una ricerca molto debole o una situazione familiare non troppo grave. I giovani non hanno diritto a indennità assicurative perché alla ricerca del primo impiego, invece gli ultra 45enni sono più protetti sia per anzianità contributiva che per stato di bisogno legato al loro ruolo di capifamiglia. Gli adulti maschi sono i più protetti in assoluto, anche a discapito di donne che avrebbero le medesime caratteristiche e necessità. Le particolarità dell’I, ancora priva di un moderno sistema rivolto a fronteggiare il rischio di perdere il lavoro, sono che vi è una bassa differenza nel grado di protezione tra uomini e donne, capifamiglia e coniugi, inoltre al crescere della durata della ricerca non si ha la curva a U rovesciata della diffusione dei benefici, ma si ha una diminuzione costante. Aldilà di una fascia protetta di persone provenienti da imprese medio-grandi che hanno diritto alla CIG o alla mobilità, gli altri, specie i giovani, hanno garanzie di reddito scarse e brevi.
9- Discriminazione giovanile: prospettiva comparata. L’idea che un’alta disoccupazione giovanile sia dovuta a un eccesso di ingressi sul MDL presuppone l’ipotesi che vi sia uno stock di impiegati inamovibili che sbarrino l’accesso alle nuove generazioni, cosa non reale. Si è visto che è il rischio per gli occupati di perdere il lavoro influisce sulla composizione di chi cerca lavoro,nel senso che maggiore è la presenza di persone in cerca di primo lavoro e minore quella di disoccupati in senso stretto, ma ciò non prova nulla perché questo rischio comprende la probabilità di perdere il lavoro, ma anche di ritrovarlo. Occorre dunque considerare non il grado di garanzia dell’occupazione, quanto il tasso di rotazione del lavoro, poiché tra protezione dell'occupazione e turnover non esiste relazione alcuna. In I la probabilità di perdere e ritrovare il lavoro è in linea con quella di altri paesi, anche poco discriminanti verso i giovani, in quanto in I vi è una ampia rete di aziende piccole con mobilità altissima, scarsa tutela sociale e frequenti passaggi da un posto all’altro senza transitare dalla disoccupazione; la protezione istituzionale degli insiders è limitata al settore pubblico e alle grandi imprese e sul MDL esiste un’accesa competizione tra outsiders e disoccupati, favoriti nella ricerca di un nuovo posto. I motivi di ciò sono: le imprese non sanno come valutare i giovani, mancando questi di esperienza (cosa smentita da contratti a tempo determinato e formazione lavoro); le imprese non hanno convenienza ad assumere giovani in quanto meno produttivi a fronte di costi sovrapponibili e a livelli di istruzione più elevati. Le imprese operano una sorta di discriminazione statistica per cui una persona è giudicata in base alle caratteristiche tipiche del gruppo di appartenenza, a segnali di ordine generale quali età, scolarità, genere, ambiente di origine; non si spiega perché il giovane debba essere meno produttivo, visto che è più istruito, più entusiasta, più capace di innovazione: il requisito dell’esperienza sembrerebbe relegato a settori in cui vi sia scarsa innovazione tecnologica e organizzativa. Tali imprese a gestione tradizionale preferiranno persone più mature ritenendole più affidabili e disponibili, secondo l’assioma per cui un uomo sposato e con figli dedichi più risorse e opponga meno resistenze ad un ambiente lavorativo dal quale dipende il benessere suo e della sua famiglia. Questo problema viene definito col termine di socializzazione al lavoro, di cui i giovani alla prima esperienza sono naturalmente privi e che non riusciranno ad acquisire fino a quando saranno impegnati solo in esperienze saltuarie e poco qualificate.
L’immagine del capofamiglia poi è sempre stata difesa in prima battuta da sindacati e opinione pubblica, anche  a fronte di proclami contro la disoccupazione giovanile, quando siano da applicare dei criteri di scelta nel suddividere una risorsa scarsa di posti di lavoro. In più la seniority, l’anzianità di servizio, coi suoi collegamenti di socializzazione del lavoro, ha un posto rilevante anche nel caso dei licenziamenti, diventando criterio talora legale (carichi familiari).
Un’altra ipotesi sulla maggiore vulnerabilità alla disoccupazione per i giovani è legata allo sfasamento qualitativo tra le esigenze della domanda di lavoro e le capacità e aspirazioni dei giovani stessi. Sembra che la scuola dia una preparazione astratta, avulsa dalla realtà del MDL e quindi poco fruibile, cosa che ha spinto verso un taglio specialistico della formazione, atta a preparare diplomati o laureati già pronti all’uso in azienda. I reali bisogni del sistema produttivo sono però diversi: la richiesta è sì di figure professionali specifiche, ma le competenze necessarie vanno comunque costruite sul lavoro, senza specialismi obsoleti, piuttosto con una capacità di apprendere e una vasta preparazione generale.
Si aggiunga poi che a fronte di un livello di scolarità sempre più elevato non corrisponde un’altrettanto rapida crescita dell’offerta di posti di lavoro nelle fasce più alte della gerarchia occupazionale, quindi i giovani o si accontentano di lavori inferiori alle attese o protraggono a lungo il loro ingresso nel MDL fino a quando non si presenti un’occasione adeguata.
Anche le imprese tendono a non assumere giovani a livelli inferiori alle loro qualifiche scolastiche temendone la demotivazione e l’abbandono, più che le eccessive pretese. In D, dove la disoccupazione giovanile è quasi scomparsa, tale squilibrio non si è verificato grazie al sistema della formazione duale, fondata sull’alternanza tra scuola e lavoro e sull’integrazione tra apprendimento teorico ed esperienza pratica (con in più la valorizzazione di ruoli lavorativi di operaio altamente specializzato, non meno appetibili di altri percorsi formativi); in questo modo si formano anche reti istituzionali con le imprese che così danno e ricevono segnali affidabili sulle caratteristiche ambite e verificate nei giovani.
I paesi dove la discriminazione verso i giovani è ancora maggiore sono I, S, Gr in cui vi è lunga convivenza dei ragazzi coi genitori, minore protezione dei redditi, minore collegamento tra scuola e imprese; al contrario in D e Au i giovani escono presto dalla famiglia, i sussidi sono generosi ed estesi e vi è un buon collegamento scuola-azienda. Stato sociale e famiglia si compensano nel far fronte alla mancanza di reddito delle persone prive di lavoro (eccezione di F e GB in cui i legami familiari sono più deboli e i sussidi limitati): nei paesi del Sud i giovani restano in famiglie e cercano lavoro, ma con intensità bassa e livello alto; nei paesi nordici i giovani escono di casa presto e diventano concorrenti degli adulti nella ricerca di posti di lavoro.
Non è chiaro se il prolungamento della vita in famiglia sia causa o conseguenza della mancanza di lavoro e se l’uscita precoce sia dovuta alla diffusa presenza di occasioni di lavoro e alla protezione del welfare state o se sia l’opposto. Esping-Andersen (99) cerca di sintetizzare queste due opzioni in una sequenza così costruita: un forte familismo comporta scarsa partecipazione femminile al mondo del lavoro, quindi bassi  livelli di occupazione totale; poche occasioni di lavoro generano scarse risorse per finanziare il welfare state e impongono che sia assicurata un’elevata sicurezza occupazionale per il capofamiglia breadwinner maschio adulto. Questo processo autoalimentante va in crisi quando la familizzazione dei rischi della disoccupazione non regge più sul piano economico o culturale o quando la crescente richiesta di lavoro da parte delle donne genera eccessive tensioni sul MDL. A fondamento della discriminazione verso i giovani sta la scarsa capacità di un paese di creare occupazione; conseguenza: se la maggiore discriminazione verso i giovani non dipende dalla più elevata protezione per gli adulti, allora non è vero che per aumentare l’occupazione giovanile occorra deregolare ancora più il MDL.

 

CAP 6   IL MODELLO ITALIANO

 

2 – Disoccupazione intellettuale: nei ’90 il 5 e il 30 % dei disoccupati maschi e l’8 e il 37% delle femmine sono laureati/diplomati, con scarse differenze Nord-Sud e fra famiglie di diverse condizioni economiche (se non per reti di relazioni informali). Si tratta di un fenomeno transitorio, di inserimento, che però incrina il sentimento di sicurezza che ha sempre accompagnato le condizioni di vita delle classi superiori o medie. La teoria del capitale umano, per cui un maggior bisogno di istruzione è un requisito per lo sviluppo economico e l’autonoma pressione delle classi subalterne che vedono la scuola come un metodo di mobilità sociale portano a un eccesso endemico di forza lavoro istruita mal impiegata.
Questo spreco può assumere due forme opposte: la prima (tipica degli USA dove il MDL è molto mobile e i lavori hanno parità di status sociale) vede lo piazzamento dei giovani meno istruiti da parte dei più scolarizzati; la seconda è più europea, tipica di un MDL meno mobile e più legato a una relazione stretta tra occupazione e status sociale, e vede un una dequalificazione professionale e un declassamento sociale con squilibrio tra titolo di studio e livello del posto di lavoro; conseguenza sarà che i disoccupati scolarizzati rimarranno tali piuttosto che accettare un lavoro di basso livello ed entrare in concorrenza coi poco scolarizzati.
La relazione tra i livelli di istruzione e le soglie di accettabilità sociale slitta progressivamente verso l’alto nel corso dei decenni per posizioni lavorative equivalenti; ogni gerarchia e ogni corrispondenza fra istruzione e lavoro sono frutto di convenzioni sociali, dipendenti dalle aspettative di una data società in un dato momento. Il vero problema nasce quando la domanda o l’offerta di lavoro cambiano troppo rapidamente perché le aspettative sociali possano adeguarvisi; come paradigma le dimensioni culturali di una società cambiano più lentamente di quelle tecnologiche ed economiche.
La specificità intellettuale della disoccupazione è stata esaltata da un modo non corretto di considerare la fase di ingresso dei giovani nel MDL (se si considera la fascia 15-29 aa senza considerare l’anno di uscita dalla scuola si sottostimano i meno secolarizzati e si sovrastimano i diplomati e laureati, bisogna invece considerare i giovani  ad un’uguale distanza dall’uscita dalla scuola).
L’andamento dei tassi di disoccupazione negli anni 90 vede livelli elevati per ogni grado di scolarità negli anni di crisi 94-96ma dopo le difficoltà di ingresso si fanno inversamente proporzionali alla scolarità. Nel Nord già nei 70 la disoccupazione giovanile non era caratterizzabile come intellettuale, coi laureati sempre ai tassi più bassi; negli anni 80 e 90 le difficoltà di ingresso per gli scolarizzati si riducono, anche a fronte della riduzione delle leve giovanili e della aumentata richiesta di personale qualificato. Nel Sud invece le difficoltà di ingresso sono molto superiori, per qualsiasi titolo di studio, e continuano a crescere, stanti una diminuzione dei meno istruiti e un effetto di piazzamento tra laureati e diplomati, a svantaggio di questi ultimi (tasso doppio) che a loro volta non riescono a spiazzare coloro che si dedicano a lavori manuali invece che intellettuali. Il tasso di disoccupazione dei diplomati meridionali nei 90 è del 40% più alto dei settentrionali con una riduzione solo nel lunghissimo periodo per abbandono di ricerca (femminile) o per spiazzamento verso livelli inferiori. I reali livelli di scolarità per i giovani sono sottostimati per colpa dell’elevato tasso di abbandoni di superiori e università che non si possono misurare, ma che possono costituire fattore di vantaggio competitivo in competenza e flessibilità.
3 – L’Eurostat valuta dal 92 i livelli di istruzione delle persone in cerca di lavoro e degli occupati suddividendoli in tre gruppi: alto, medio e basso (senza tener conto dei diversi sistemi scolastici e dei livelli di abbandono); l’I  è classificata a basso livello di istruzione e in essa si vede il vantaggio dei giovani istruiti, che però è inferiore a quello che hanno in F e GB. Il vantaggio, visibile anche calcolando i modelli di probabilità di cercare un posto per livello di istruzione (non si considera la fase di ingresso, ma l’intero arco della presenza sul MDL), permane molto meno accentuato che in altri paesi come F, GB e D. La connotazione intellettuale della disoccupazione giovanile italiana si imputa alla rigidità dell’offerta: i giovani istruiti, sostenuti dalle famiglie non accettano occasioni di lavoro inferiori alle aspettative e non spiazzano categorie inferiori. Inoltre l’I, come la Sp, è il paese che con un numero percentuale più basso di istruiti (36% diplomati e 10% laureati contro una media Eu di 435 e 21%) ha un minore vantaggio comparativo: ciò perché la struttura della domanda di lavoro è diversa, più orientata verso qualifiche basse, per cui i suoi giovani istruiti – pochi in termini demografici – sono troppi in termini economici.
4 – Superata la fase d’ingresso nel MDL l’istruzione risulta di grande vantaggio per conservare il lavoro, tendenza che si accentua negli ultimi decenni. L’effetto di protezione di laurea/diploma è più forte considerando separatamente le sue due componenti principali: la probabilità di entrare in disoccupazione e la durata della ricerca di un nuovo lavoro. Gli adulti istruiti disoccupati hanno una durata di ricerca media molto più lunga, perciò – stante il loro basso tasso di disoccupazione – hanno bassa probabilità di perdere il lavoro. In I i disoccupati istruiti tra i 25 e i 49 aa sono l’8,5% (EU 5%), i non istruiti il 12% (EU 13%), il differenziale è basso, il livello di protezione dell’istruzione è tra i meno elevati in EU, vi è però un vantaggio nell’accesso a posizioni professionali di livello elevato: svolgono lavori intellettuali in I il 90% di laureati, il 35% di diplomati e solo il 5% di non istruiti (in EU 70, 25, 10%). La mobilità professionale ascendente è però molto minore, per la scarsità di aziende medio-grandi che permettano una carriera ascensionale, per cui è giustificato aspettare anche a lungo un impiego di livello conforme a studi e aspettative. Nella tabella ISTAT del 92 si vede che i tassi di disoccupazione sono bassi per le categorie superiori (1-2%), mentre salgono in quelle basse (10%); il rischio di entrare in disoccupazione è bassissimo per le prime (0,2%), elevato per le seconde (1,3%); la durata media di ricerca di un nuovo lavoro è maggiore per profili dirigenziali (20 mesi) che per lavori intellettivi qualificati e non qualificati (12 mesi).
6 – Al prolungato soggiorno nella scuola segue un lungo periodo di ricerca del primo lavoro, anche se spesso un primo contatto col MDL avviene prima dell’impiego definitivo. Il lavoro minorile tocca 4-500.000 giovani nelle vacanze estive o durante tutto l’anno, è distribuito sia nel Sud (con abbandono scolastico) che nel Nord-Est (senza abbandono), spesso per aiutare familiari e parenti (in vere subculture del lavoro giovanile) in attività di commercio, turismo, artigianato, talora con la prospettiva di continuare l’attività, ma spesso (al Sud) di essere sostituiti da coorti di più giovani.
Studenti lavoratori sono il 20-50% secondo le aree geografiche (< al Sud e nelle aree ad alta disoccupazione) e i diversi tipi di scuola (superiori: < per licei, > per istituti tecnici, frequentati da classi sociali inferiori; università: > per facoltà umanistiche o economiche, < per medicina o ingegneria). Sono lavori saltuari, precari, irregolari, spesso a termine o stagionali, in agricoltura, turismo, servizi, terziario; il denaro guadagnato viene spesso impiegato per spese personali degli studenti per garantirsi uno spazio autonomo e non per il bilancio familiare.
Il limbo dei lavoretti è un passaggio presente a qualunque livello formativo, dalla scuola dell’obbligo alla laurea. Secondo l’ISTAT nel 99 dal conseguimento del titolo al primo lavoro passano in media 4 anni (di più al Sud) nei quali si può proseguire una carriera scolastica poi interrotta o impiegarsi in spezzoni di lavoro spesso non congruenti con la formazione e retribuiti solo il 30-50% in meno della più bassa paga regolare.
Nel Sud i poco scolarizzati accedono a vari lavori manuali in agricoltura, servizi, artigianato; gli istruiti trovano poche mansioni congrue cui finiranno poi per adattarsi, specie i maschi, mentre le femmine per motivi sociali e culturali preferiscono l’abbandono.
Nel Nord la situazione è migliore per l’offerta di lavori saltuari nel terziario, che talvolta possono diventare definitivi, anche se non sempre a tempo indeterminato e ad alto livello di qualificazione.
I lavori precari, specie al Sud, consentono solo un prolungamento dell’attesa del posto definitivo, in quanto non danno nuove capacità né arricchiscono la rete di conoscenze utili per l’occupazione vera, la cui ricerca diventa ancor più selettiva e, sempre nel Sud, limitata a impieghi statali o parastatali che coinvolgano profondamente l’identità sociale della persona. L’attesa si fonda sul sostegno economico della famiglia e sulle sue aspettative di mobilità sociale fornite da un buon lavoro, cosa che privilegerà giovani provenienti da famiglie di buon livello economico e con una buona rete di conoscenze.
A parte la protezione familiare gli adulti disoccupati sopravvivono con lavori occasionali e precari, essendo minime le forme di sussidio specifico, e con sussidi aspecifici elargiti in forma di pensioni di invalidità.
Il lavoro nero coinvolge poco i veri disoccupati, in quanto scarsamente coinvolti in reti informali, ma ciò non è vero in I, specie nel Sud, dove invece le attività instabili, saltuarie e irregolari (senza sbocchi e logoranti) contribuiscono alla sopravvivenza e non distraggono dalla ricerca di una occupazione definitiva, né illudono di essere fuori dalla disoccupazione.
7- Gli elevati livelli di disoccupazione degli anni 70 e 80 non hanno portato con loro povertà e tensioni sociali, il fatto che i capifamiglia fossero quasi tutti occupati ha svolto una forte protezione; la povertà si lega piuttosto all’età avanzata e alle cattive condizioni di salute (sono poveri il 13% dei disoccupati e il 5% di disoccupati è povero) in quanto in I la maggior parte dei disoccupati è giovane e vive in famiglia; anche qui però vi sono forti differenze tra un Nord equilibrato e un Sud in cui si concentrano il 60% della povertà e il 45% della disoccupazione.
La mancanza di lavoro può avere effetti differenti secondo le diverse fasi del ciclo di vita: il lavoro è un elemento centrale nelle esperienze di vita dei giovani e la sua mancanza può bloccarne lo sviluppo sociale e impedire la formazione di una famiglia propria prolungando l’adolescenza, situazione non alleggerita dallo svolgere lavoretti che permettano un certo grado di indipendenza finanziaria, ma non una identificazione sociale di persone adulte (specie i maschi) autonome e progettuali.
8 – I disoccupati devono ricercare attivamente lavoro, altrimenti sono inattivi; le dimensioni della ricerca di lavoro sono tre: l’intensità, frequenza con cui si  compiono le diverse azioni di ricerca, l’estensione da uno solo a più metodi di ricerca, la natura dei metodi scelti, distinti per grado di formalità e tradizionalismo. Sono tradizionali e formali i concorsi, le iscrizioni al collocamento, tradizionali e informali le visite presso possibili datori di lavoro, informali le reti di conoscenze personali, moderni e formali le risposte ad annunci su giornali e internet.
Il numero di metodi usati non è un indicatore di intensità, bensì di estensione della ricerca, infatti non vi è relazione tra estensione dei metodi e durata della ricerca: chi ha appena iniziato la ricerca usa gli stessi metodi di chi sta cercando da anni. Il fattore decisivo è il livello di istruzione, i più istruiti usano più metodi sia perché dispongono di maggiori risorse informative, sia perché possono accedere a metodi propri di MDL preclusi ad altri. I metodi differiscono per impegno economico e di tempo, i più costosi sono usati da chi cerca lavoro più attivamente e con richieste più elevate, inoltre alcuni metodi sono mirati verso certi tipi di lavoro e inutili per altri. Percentualmente stanno diminuendo l’iscrizione presso il collocamento e le visite dirette presso le aziende, mentre aumentano le risposte ad annunci e gli accessi ad agenzie private.
Dalla vasta gamma di modalità di ricerca emergono tre fattori: il primo comprende metodi formali e istituzionali (collocamento, concorsi), il secondo prevede l’uso di giornali per inserire o rispondere ad annunci, il terzo comprende segnalazioni, visite e reti informali; il diverso grado di utilizzo dei mezzi dipende dal grado di istruzione con in scala le visite, le iscrizioni al collocamento, i giornali e i concorsi pubblici. Le donne preferiscono non utilizzare reti informali, i disoccupati di lungo termine passano da metodi attivi ad altri meno (collocamento, concorsi).
Negli altri paesi EU il concorso pubblico non esiste, i canali utilizzabili sono quindi solo formali/istituzionali; tre gruppi di nazioni:

  • GB, D e NL in cui la ricerca è formale e organizzata con annunci e agenzie, solo il 20% usa le relazioni informali personali;
  • F, B e Irl in cui il comportamento è formale e informale, il 65-80% usa giornali o relazioni personali,
  • I, Sp e P usano un mix di metodi informali e organizzati e i giornali sono usati da meno del 20% dei cercatori.

Canali con cui si trova il lavoro: il collocamento è il meno efficace, garantendo solo l’8% di successi poi in scala vi sono gli annunci, le visite, i concorsi e al top le relazioni interpersonali familiari ed amicali, anche se hanno la loro importanza i subentri in attività familiari. Anche qui vi sono differenze secondo il livello di istruzione, il genere, la durata della disoccupazione.
Le relazioni informali sono il metodo più efficace, specie in I e Irl, dove raggiungono il 70% dei successi, meno in GB, F e Dk; funzionano in maniera inversamente proporzionale all’efficienza dei servizi pubblici di collocamento e alla presenza di grandi industrie che vanifichino i rapporti interpersonali di fiducia e di informazione personalizzate. Le informazioni sono un bene raro nel MDL sempre più frammentato a causa della crescente importanza delle piccole imprese: ogni rete di relazioni, per quanto ampia sia è sempre limitata ed ha accesso differenziato in base al grado di collegamento tra le sue parti. Fondamentale è il rapporto di fiducia tra le persone inserite nella rete, fiducia che deve garantire le qualità “umane” prima che professionali, spesso insondabili preventivamente, del candidato. Secondo Granovetter esistono: legami deboli (i più efficaci) e forti. I deboli non investono relazioni fiduciarie, ma costituiscono semplici canali in cui scorrono informazioni su posti disponibili e persone in cerca di lavoro; la catena di persone non deve essere troppo lunga, deve essere disinteressata e ripetitiva, con scarso coinvolgimento affettivo e pochi impegni reciproci. Legami forti sono propri delle relazioni familiari e amicali, sono meno efficaci perché più limitate nello spazio e nella profondità ed hanno un coinvolgimento troppo elevato. La forza dei legami deboli si basa su due presupposti, il primo è che stabiliscono relazioni, seppure occasionali, con persone di ambienti diversi, mentre i forti non consentono di uscire dal proprio; il secondo è che sono sufficienti informazioni generiche perché domanda e offerta di lavoro si incontrino. Paradossalmente le persone con livello sociale e istruzione superiore, che dovrebbero giovarsi di legami forti entro il loro ambiente, non vi ricorrono; la domanda di affidabilità – da sempre forte – va ancora accrescendosi ed è amplificata dal ricorso a legami deboli senza rapporti di obbligazione reciproca, ma con garanzia personale.
Per lavori poco qualificati sarà fondamentale una disponibilità all’impegno e una flessibilità nei compiti, per i livelli più alti saranno rilevanti altri valori quali l’adesione a culture d’impresa e l’inserimento in reti di relazioni o ambienti sociali.
L’I al contrario di USA e altre nazioni in cui prevalgono legami deboli, vede una notevole importanza dei legami forti che danno accesso a occupazioni ristrette entro i confini di classe, ma basilari in un sistema in cui il momento topico è l’ingresso nel MDL, stante la scarsa mobilità ascendente, e l’elemento garanzia di fiducia è tra i più considerati.
La probabilità di trovare un lavoro e quella di ottenere una buona posizione lavorativa (job and status atteinment) sono legate al capitale sociale detenuto da un individuo, cioè dalla sua capacità di mobilitare relazioni con persone il cui status elevato possa fornire un miglior aiuto nella ricerca; l’alternativa tra legami forti e deboli diventa qui secondaria, perché concerne solo il modo in cui un individuo ha conseguito il proprio capitale sociale, acquisito o ascritto. La contrapposizione cruciale sta tra quantità e qualità delle relazioni, cioè tra l’estensione e la numerosità dei contratti e lo status della contact person. Il capitale sociale è una risorsa distribuita in modo diseguale tra le classi sociali e tende a riprodurre i privilegi ascritti delle persone in cerca di lavoro; non resta che contare sulla regolazione pubblica per assicurare una distribuzione imparziale delle opportunità di lavoro e per promuovere le persona dotate di minori relazioni con persone di status sociale elevato.

 

CAP 7 LA DOMANDA DI LAVORO NELLA SOCIETA’ DEI SERVIZI

 

1 - Anche in I la crescita dell’occupazione degli ultimi 30 aa si deve alle attività terziarie, dal 42% del 72 al 63% del 2000, fenomeno più accentuato nel Sud (67%) sostenuto dall’intervento pubblico, con un salto dall’agricoltura al terziario senza toccare l’industrializzazione.
Le spiegazionipossono essere che all’aumento del reddito delle famiglie aumenta la domanda di servizi più di quella di manufatti (neoclassici) oche vi sia una più lenta dinamica della produttività rispetto a quella industriale per l’impermeabilità al progresso tecnico (terziario meno efficiente, keynesiani) oancora che il terziario sia cresciuto non tanto per le esigenze della domanda, quanto per le pressioni di un’offerta eccedente. La natura molto eterogenea del terziario non concede  una posizione di dominio ad alcuna spiegazione.
La tripartizione classica delle attività si fonda su un concetto merceologico più che economico, perché classifica gli occupati secondo il prodotto dell’impresa in cui lavorano invece delle mansioni svolte all’interno dell’azienda. Il processo di terziarizzazione altro non è che l’esternalizzazione di servizi specialistici prima interni  quali la pubblicità o il marketing o l’IT dovuta a una specializzazione organizzativa, che sposta semplicemente occupati dall’industria al terziario e richiede un nuovo calcolo dell’occupazione riferito ai due dati. Oltre alla componente di servizi alle imprese il terziario ha una forte parte nei servizi finali o al consumo: sanità, istruzione, sicurezza, divertimento, turismo, ristorazione, distribuzione. La dinamica dei servizi finali, privati o collettivi, dipende dalla soluzione che la società dà al funzionamento di tre sistemi essenziali: il sistema politico (sicurezza e ordine sociale), il sistema di riproduzione biopsichica (attività per mantenere la salute) e sistema di riproduzione socioculturale (cultura e stile di vita di una società). Le funzioni di riproduzione sociale possono essere svolte da tutti in seno alla famiglia o in attività volontarie, oppure essere specializzate affidandole a persone che ne facciano una professione (polizia, amministrazione, istruzione, sanità, assistenza, ristorazione, etc.). Una società moderna vede una maggiore complessità ed ha esigenza maggiori di conoscenza e di regolazione, oltre che di assistenza (allungamento della vita) e di svago (aumento del tempo libero).
Parallelamente si può sviluppare anche una self service economy ovvero un’autoproduzione di servizi all’interno della famiglia o in associazioni di volontariato, specie se l’intervento statale è di trasferimento di fondi alle famiglie piuttosto che di offerta di servizi collettivi.
Dopo l’alternativa tra servizi finali e self service economy si pone quella tra fornitori pubblici e privati di servizi, con tre situazioni tipiche: a) forte carico fiscale e servizi largamente diffusi (Sw), b) carico fiscale medio-alto con prevalenza di supporto monetario alle famiglie (EU), c) basso carico fiscale e servizi finali privati (USA, J). In Sw l’elevata pressione fiscale ha generato una forte espansione del settore pubblico (30% dell’occupazione) con apertura del MDL alle donne, anche se molto segregate; negli USA all’opposto prevalgono servizi privati con un altissimo tasso di attività femminile e molte famiglie monopersonali. In Eu GB tende a somigliare agli USA, mentre F e D vedono minor terziarizzazione dovuta ad alti costi del lavoro e a maggiore autoproduzione di servizi in seno alla famiglia.
In I la situazione è simile, si preferiscono supporti alle famiglie a scapito di un settore di servizi pubblici che impegna solo il 9% degli occupati, a fronte di un  tasso ti occupazione totale più basso di quello medio EU; l’I si distingue per scarsa occupazione nei servizi intermedi alle imprese (con forza lavoro più qualificata ed alta tecnologia) e per elevata quota di addetti ai servizi finali privati (commercio, ristorazione, turismo, lavori domestici), maggiore addirittura che negli USA. Si tratta di solito di microimprese o di occupazione indipendente, sempre in crescita, stante la scarsità di offerta dei servizi pubblici, anche negli anni di crisi economica (scontata invece dall’altra parte del terziario) fino a contare il 14% dell’occupazione totale. I sevizi non destinati alla vendita, ovvero quelli pubblici, vedono diminuire negli anni 90 la loro crescita e la loro quota di partecipazione al settore del terziario passa dal 40 al 19% a fronte dell’aumento dei servizi privati, tendenza comune a tutta EU.
Capitolo a parte è il Sud ove la sovraterziarizzazione è tutta dovuta al settore pubblico: nell’81 la quota pubblica nel Sud era 2,5 volte rispetto al Nord e nel 97 era del 23% contro il 12 del Nord e il 18 del Centro, anche se il rapporto con gli utenti vede differenze quasi nulle essendo molto basso il tasso di occupazione privata.
2- Considerando il tasso di occupazione (rapporto tra occupati e persone in età da lavoro) l’I ha solo il 53% contro una media EU del 63 e punte del 76 in Dk, la grossa disparità non è nella fascia degli uomini adulti – in linea con gli altri paesi –, ma dei giovani e delle donne, distanti 13 e 14 punti percentuali rispetto alla media, sebbene in alcuni paesi il dato sia sovrastimato a causa del part time e in I sia sottostimato per l’economia sommersa. Il part time occupa buona parte delle donne nei paesi nordici, infatti se consideriamo il tasso di occupazioneequivalente al tempo pieno” si riduce di 2 punti in I, di 10 in Dk e D, di 16 in GB e di 20 in NL, cosicché la distanza dell’I si dimezza. Tutto questo distacco si deve al Sud, dove solo il 40% lavora (maschi adulti al 76%, giovani al 19%, donne al 25%).
Il tasso di occupazione totale è più alto nei paesi in cui più alta è la percentuale di persone impiegate nei servizi, infatti i tassi di agricoltura e industria vedono dati simili in tutta EU e negli USA, la grossa differenza sta nel solo 30% di I e Sp contro quote del 40 o 50% di F e GB e del 54% degli USA. Gran parte di questo lavoro è femminile: nascono posti di lavoro per fornire attività assistenziali altrimenti svolte nelle famiglie e anche nuovi posti in altri settori che si sviluppano quando le famiglie non hanno più tempo per autoprodurli. In I è molto debole l’occupazione terziaria nel turismo (?), nei servizi alle imprese, nella sanità, nell’assistenza sociale, nelle attività ricreative, cose di cui poi soffrirà la qualità di vita delle famiglie, dove le donne devono far fronte ai bisogni insoddisfatti di cura e assistenza. Le differenze territoriali sono le solite: il Nord ha livelli occupazionali fra i più alti al mondo, tanto da stentare a trovare manodopera per le industrie manifatturiere, anche se non decollano ancora servizi alle imprese innovativi e servizi sociali soddisfacenti; il Centro è influenzato dalla alta burocratizzazione della capitale; il Sud è un disastro con industria al 10%, servizi alle imprese al 2,5%, servizi pubblici al 14% grazie al pubblico per un totale del 41% di occupazione.
L’I vede quindi un Nord sovraindustrializzato e sottodimensionato per i servizi (come in F e D) e un Sud con un vuoto occupazionale enorme per l’industria manifatturiera non compensato da una quota sufficiente di servizi, se non quelli pubblici.
4 – Alla terziarizzazione settoriale se ne accompagna una professionale, nel senso che si riduce il lavoro manuale operaio: dal 48% nel 68 al 46 nell’81, al 38 nel 92 al 35 nel 2000 in I (in ritardo rispetto ad altri paesi). L’innovazione tecnologica ha modificato molto l’ambiente e le prestazioni per molte figure professionali: ambienti puliti, pochi sforzi fisici, alta qualificazione e specializzazione.
La grande impresa, che in I ha avuto un importante sviluppo solo nel ventennio fascista, è in declino ovunque, travolta da processi di decentramento produttivo, di innovazione tecnologica e di deindustrializzazione. Gli anni 60 sono stati quelli di maggiore sviluppo industriale, specie in unità di dimensioni medio-piccole, fino a raggiungere il 38% degli occupati dipendenti nel 71, con produzione in serie di tipo fordista e parcellizzazione taylorista del lavoro. La classe operaia nata in questi decenni comincia a ridursi già dal 75 fino a raggiungere il 20% nei 90. Dall’81 al 91 l’occupazione nell’industria scende dell’11%, ma arriva a calare del 40% nelle grandi aziende, cosa che si ripete negli anni 90 fino a portare la quota degli operai impiegati in grandi aziende al 62%. La quota di operai della grande fabbrica supera appena le 300.000 unità, il 6% degli operai totali (concentrati in aziende piccole e spesso a bassa qualificazione), mentre appena venti anni prima erano più del triplo.
La quota di lavoro manuale diminuisce ancora di più al di fuori dell’industria manifatturiera, scendendo dal 65 al 41% nel settore trasporti e dal 39 al 24% nei servizi. Nasce però una nuova serie di lavori manuali, per lo più dequalificati sulla spinta della terziarizzazione: è l’operaio dei servizi, figura dispersa e variegata che va dalla custodia alla sicurezza, alla manutenzione, alla cura della persona, alla preparazione dei cibi; si tratta di prestazioni semplici, bisognose di scarso tirocinio e sapere specifico, ma per contro di resistenza a orari e condizioni di lavoro disagiate (turni asociali, ambienti isolati, rapporti servili). La mobilità del lavoro per costoro è altissima, la sostituibilità immediata, le possibilità di carriera nulle; vi accedono talora immigrati, donne e poco scolarizzati, talaltra giovani anche istruiti come condizione transitoria verso un impiego definitivo più qualificato, quindi senza identificazione col lavoro ritenuto non centrale per la propria esperienza di vita.
5 – Qualificazione del lavoro. Negli anni si è assistito ad una sempre maggiore qualificazione del lavoro nelle aziende tradizionali (upskilling), mentre nel settore dei servizi crescono attività a basso contenuto professionale (i Macjobs) per cui i cattivi lavori diventano sempre peggiori e non danno alcuna possibilità di crescita personale e professionale. Le etichette professionali tradizionali spesso non hanno più significato e l’analisi dei mutamenti tra le occupazioni si deve integrare all’analisi dei mutamenti all’interno delle occupazioni; vi sono occupazioni emergenti, ma di modesto impatto sociale e professioni che aumentano di poco il loro livello, ma creano molti posti di lavoro perché già largamente diffuse e ben rimpiazzate dal ricambio occupazionale generazionale.
Dal 1992 l’EUROSTAT fornisce per tutti i paesi EU la composizione dell’occupazione secondo l’ISCO (International Standard Classification of Occupation) che si fonda su tre criteri: il settore di specializzazione, la funzione svolta, il livello di responsabilità o di autonomia nei processi decisionali. Vi sono tra i paesi notevoli differenze: persone occupate in compiti manageriali o di elevata specializzazione sono in I meno della metà della media EU (3,4 contro 8,4%) per non parlare delle punte di GB e NL quasi doppie della media; in I vi è una più alta percentuale di persone nelle professioni tecniche e consulenziali (ancora distaccate però da D e Sw); alta è invece la percentuale di addetti alle vendite e ai servizi e ancor più di tecnici specializzati; in linea con le medie i lavori manuali poco o nulla specializzati.
Si evidenziano quattro grandi aree (professioni intellettuali, attività non manuali dequalificate, attività manuali qualificate e attività manuali non qualificate) che dividono i paesi EU in più gruppi: agli estremi stanno GB, NL, B e Sw da un lato (altissima percentuale di attività intellettuali e non manuali, bassa di quelle manuali anche specializzate) e Sp e P (basse attività intellettuali, anche non qualificate, alte percentuali manuali); in mezzo stanno I e D, con varia composizione di attività manuali e intellettuali; F, Irl e Au sono anche in posizione intermedia con meno parte manuale specializzata, Sf e Dk sono simili ai paesi nordici.
Il profilo dell’I vede una scarsa percentuale di dirigenti e imprenditori, ma un punto di forza nella alta presenza di artigiani e operai specializzati (42%) e una elevatissima qualificazione dei servizi alle imprese, cosa che ben si confronta con la struttura delle aziende italiane di dimensioni piccole, poco abitate da figure ad alta scolarizzazione, ma rafforzate da artigiani con grandi capacità di apprendimento pratico sul campo.
Il settore dei servizi oggi costituisce la parte più ampia dell’offerta occupazionale; la sua varieganza è enorme: dai servizi alle imprese (ad altissimo grado di professioni intellettuali, quasi il 90%) ai servizi di riproduzione culturale e biologica ai servizi alle famiglie. Questo ultimo campo non vede un’alta percentuale di lavoro intellettuale, spesso si basa su imprese a livello familiare, mentre i servizi di tipo culturale, biologico e politico sono ben rappresentati (specie sanità e scuola, meno la pubblica amministrazione) intellettualmente: la scuola al 79%, la sanità al 70% (ma con carenza di figure intermedie e scarsa percentuale di impiegati rispetto alla popolazione totale), l’amministrazione al 29% (pletora di mezze maniche con pochi dirigenti e tecnici specializzati).
Nella seconda metà degli anni 90 la qualità professionale in I è aumentata sensibilmente, dal 23 al 29%, riducendo il distacco da paesi come D, F e GB, specie in settori ad alta intensità di lavoro intellettuale qualificato: del milione di posti di lavoro come saldo positivo del quinquennio 1995-2000 vi sono oltre 500.000 posti in meno in attività manuali a fronte di 1.600.000 posti nuovi di cui un milione di profilo intellettuale qualificato, 300.000 non manuale non qualificato e il rimanente (spesso occupato da immigrati) manuale non qualificato. Professioni emergenti sono tutte quelle legate ai servizi alle imprese (IT, HR, R&D), le libere professioni, i servizi personali; professioni declinanti sono: artigiani, operai specializzati.
6 – Nuove professioni e nuove competenze. Tre fenomeni hanno investito l’intera struttura occupazionale: 1) la diffusione di computer, 2) delle nuove competenze cognitive, comunicative e sociali chieste a fasce sempre più ampie di lavoratori 3) della professionalizzazione che sta distruggendo la logica del posto, dopo quella del mestiere.
1) Nell’I del 2000 il 42% dei lavoratori utilizza un pc, contro una media EU del 45% e punte del 70%, cosa che richiede una istruzione trasversale ai diversi settori occupazionali e contesti merceologici con una destrutturazione di organizzazioni e ruoli lavorativi
2) Le nuove competenze prevedono attività di trattamento ed elaborazione di informazioni piuttosto che attività di trasformazione e manipolazione di materie, per cui le risorse operative cedono importanza a favore di risorse tecnico-specialistiche e gestionali (guidare processi lavorativi, implementare efficienza, assumere responsabilità interpersonali), quindi più savoir-faire che know-how. Diventano quindi molto importanti le abilità sociali: dal gestire rapporti con clienti o utenti al comunicare e guidare altre persone. Cresce così l’importanza delle culture aziendali o professionali cui bisogna aderire accettandone miti e riti per assicurare un’omogeneità di comportamenti sul lavoro che non si otterrebbero con le macchine o col comando autoritario. Diventa fondamentale l’affidabilità del lavoratore, caratteristica che si trae dalla sua personalità, dalla sua identità e dal suo inserimento in una rete di relazioni; sono diventate determinanti le “life skills” ovvero le competenze che attengono alla vita personale di un lavoratore, competenze cognitive (saper trovare soluzioni e prendere decisioni), relazionali (saper interagire) e affettive (gestire le proprie emozioni e implementare l’autostima). Non sono queste delle qualità che si possano apprendere, si acquisiscono nelle reti di relazioni in cui si è inseriti (famiglia, scuola, amicizie, lavoro).
3) Il terzo fenomeno investe lo stesso modo di definire un sistema occupazionale. Se la domanda di lavoro è costituita da una massa indistinta di compiti lavorativi (attività elementari per produrre beni e servizi) su tali compiti si costruiscono le varie occupazioni da affidare ai lavoratori, ovvero il mestiere. Il mestiere è la combinazione di abilità manuali e competenze tecnico-merceologiche acquisite grazie all’esperienza che prescindono dall’impresa, ma che sono legate ai materiali (mobilità interaziendale permessa, ma non intersettoriale). L’industrializzazione ha però distrutto la logica del mestiere: i compiti lavorativi sono stati parcellizzati, ognuno ha una mansione e il principio organizzatore del lavoro passa dal mestiere all’azienda (staff) e l’occupazione diventa un job o posto (mobilità interaziendale bassa a favore della carriera interna). Le nuove tecnologie impongono impianti e sistemi produttivi poco diversificati tra i vari settori, prescindendo dall’esperienza e dalla conoscenza dei materiali. Si fondano piuttosto su competenze generali e capacità di gestione e combinazione delle risorse. Le aree professionali emergenti sono definite dalle risorse e dal livello piuttosto che dal settore merceologico o dalla tecnologia: fabbricazione, trattamento dei dati, gestione e amministrazione, ricerca e sviluppo, ingegneria, manutenzione, vendite, alta direzione.
Oltre ai confini settoriali si attenuano anche quelli aziendali, si diffondono lavori parziali, a tempo determinato, con alta mobilità a spese dei posti fissi. Al job si sostituisce una figura professionale con carriere legate a rapporti dipendenti o di collaborazione con diverse aziende aldilà di confini aziendali e settoriali. E’ un fenomeno che riguarda soprattutto le fasce più qualificate e innovative del lavoro intellettuale (tecnologi, progettisti, analisti finanziari, esperti di marketing e formazione) che richiedono sapere scientifico, codici di comportamento, autonomia e discrezionalità acquisiti nel percorso formativo e anche sul campo.
Al committment verso l’impresa si sostituisce quello verso la professione e dalla carriera aziendale organizzativa si passa a quella occupazionale, dove la fiducia gioca un ruolo enorme, poiché spesso non è facile o possibile accertare le competenze tecniche; ciò indebolisce le tradizionali gerarchie aziendali, i mestieri e i posti perdono importanza (senza scomparire), le identità lavorative si trasformano orientandosi verso un’identificazione con la comunità professionale.

 

CAP 8     FLESSIBILITA’ DEL LAVORO E OCCUPAZIONI INSTABILI

 

1 – Il sistema della flessibilità tra mercato interno ed esterno. La crisi della grande impresa manifatturiera porta alla fine del modello fordista di produzione in grande serie di beni standard e taylorista di divisione del lavoro in mansioni semplici e ripetitive. Secondo i principi dell’economia di scala le imprese miravano a produrre volumi sempre più ampi di merci identiche per ridurne il costo unitario, dal momento che il basso potere d’acquisto del consumatore imponeva la concorrenza più sul prezzo e meno sulla qualità. Il maggior potere di acquisto e la crescente sofisticazione del gusto dei consumatori hanno imposto di puntare sulla qualità e di accelerare il ritmo di innovazione e di differenziazione dei prodotti personalizzando il bene o il servizio. Ciò impone di ridurre i volumi delle produzioni a scapito del prezzo che verrà percepito come indicatore di qualità e prestigio e cesserà di essere strumento di previsione del mercato per le imprese.
Nasce l’economia di scopo o dell’appropriatezza secondo cui è importante produrre beni e servizi appropriati nel tempo e nel luogo in cui sono richiesti dal mercato; l’efficienza di un’impresa si misura qui sulla prontezza di risposta agli impulsi del mercato, quando non sulla capacità di anticiparli. Il nuovo modello organizzativo deve integrare commercializzazione, progettazione e produzione permettendo rapide e continue variazioni sia nei volumi che nelle caratteristiche dei prodotti.
L’elasticità di queste imprese richiede un uso flessibile delle risorse umane, ben diverso dal modello dell’impresa taylorista. Distinguiamo:
Flessibilità salariale, classificata secondo due dimensioni:una strutturale, ovvero le differenze retributive legate ai livelli di produttività secondo territorio, settore, qualifica ed età; una congiunturale, legata al grado di adeguamento dei salari alle fluttuazioni cicliche del sistema economico nazionale (macrostrutturale) e all’andamento economico di impresa mediante premi di produzione o di risultato (microstrutturale).
Flessibilità della forza lavoro, ha due componenti: una statica, che attiene alle differenziazioni delle situazioni di lavoro e una dinamica riguardante le capacità di aggiustamento rapido ai mutamenti. Le aree interessate sono: l’orario di lavoro, la mobilità esterna e quella interna. L’orario si varia con una flessibilità che va dagli straordinari, ai turni al part time. La flessibilità esterna o numerica riguarda il grado di libertà che ha un’azienda di adeguare il volume e le caratteristiche professionali all’andamento della produzione o ai mutamenti tecnologici (assunzioni-licenziamenti, contratti atipici, subappalti, esternalizzazioni). La flessibilità interna o funzionale prevede la possibilità di spostare i lavoratori o variarne il contenuto della prestazione in condizioni di elevata polivalenza professionale. Tali presupposti si verificano solo se l’azienda ha un alto coinvolgimento dei propri impiegati, ottenuto garantendo un lavoro stabile e un percorso di carriera interno non lungo e cristallizzato, ma polivalenza, salari legati a risultati collettivi, gerarchia snella. Alla sicurezza occupazionale si aggiungono elementi simbolici come la cultura e lo stile aziendale per integrarsi in un circolo virtuoso di fiducia e lealtà tra dipendente e impresa.
Esternalizzazione è il processo per cui un’azienda affida funzioni o fasi del ciclo produttivo ad altri soggetti o imprese con contratto di subappalto o fornitura o consulenza, per cui si acquista il risultato della prestazione e non la prestazione stessa (lavoro dipendente). Accanto a un nucleo fisso di dipendenti l’impresa organizza diverse fasce periferiche a geometria variabile, garantendosi una dimensione di flessibilità detta dualistica, sia numerica che di posizione, nata come risposta a momenti di crisi o di accelerazione dei mutamenti, ma presto trasformatasi in fenomeno strutturale. Il ricorso alla flessibilità esterna è minore per aziende piccole e ad alta tecnologia o qualità dei prodotti.
Differenze nazionali nella flessibilità. Negli USA, patria della deregulation, non vi sono vincoli ai licenziamenti, se non il principio della anzianità di servizio, ma la divisione dei compiti è solitamente rigida e la polivalenza professionale scarsa, per cui i costi di riorganizzazione sono elevati in caso di mutamenti di organico. In EU la situazione non è omogenea: la D è il tipico esempio di combinazione tra elevata flessibilità funzionale e scarsa flessibilità esterna per lavori che richiedano forte coinvolgimento ed elevata fiducia dei lavoratori (simili sono I e F), mentre la GB è più simile al modello americano.
In generale vi è una netta relazione tra flessibilità funzionale e livello di formazione per cui solo in un contesto di stabilità i lavoratori sono motivati a investire in formazione, cosa che di per sé riduce il turnover; i settori a maggiore propensione innovativa (anche in I) sono quelli a minore mobilità del lavoro, tutt’al più job-to-job. La flessibilità funzionale è innovativa (miglioramento produttivo o intellettuale), la numerica è difensiva (compressione dei costi).
Vi sono tre differenti forme di sicurezza dell’occupazione: la sicurezza dell’impiego in una data impresa, la sicurezza della mansione e la sicurezza di restare occupati in un dato mercato, anche in imprese diverse; la flessibilità interna preserva il primo, ma non il secondo, la flessibilità esterna salva il secondo, nega il primo, ma non il terzo.
La flessibilità può assicurare effetti positivi sulla dinamica dell’occupazione e la produttività delle imprese, ma la minore sicurezza del posto di lavoro sostituisce ampie oscillazioni dell’occupazione su un numero elevato di persone a una maggiore stabilità per poche persone.
2- Lavori atipici e temporanei. Si differenziano rispetto al modello classico di occupazione dipendente con subordinazione a un solo imprenditore, integrazione in una organizzazione produttiva, contratto di assunzione a tempo indeterminato, impegno a tempo pieno, protezione legislativa o contrattuale, perché sono privi di una o più di tali caratteristiche. Non sono considerati atipici quelli indipendenti come le prestazioni coordinate e continuative senza subordinazione, il cottimismo, il subappalto con subfornitura, se i lavoratori appaltatori non hanno alcun rapporto con l’azienda appaltante. Diverso è il caso in cui tra le due entità non vi è separazione di organizzazione anche se si utilizzano gli stessi strumenti e sedi con prestazioni di manodopera pienamente integrate nell’impresa committente.
Nel lavoro interinale i lavoratori sono assunti a termine da agenzie di lavoro e inviati in missione presso aziende che li utilizzano come propri dipendenti senza alcun rapporto di lavoro: esempio estremo di lavoro atipico in quanto somma la temporaneità del rapporto alla dissociazione tra impresario e utilizzatore.
I lavori a domicilio sono subordinati, benché retribuiti a pezzo e non a tempo e fisicamente esterni all’azienda, alla cui organizzazione però sono legati; nel lavoro a tempo determinato manca il requisito del rapporto senza scadenze e in quello parziale manca il requisito del tempo pieno. Le protezioni legislative e contrattuali sono molto minori in questi casi e le indennità di disoccupazione ridotte.
Grazie ai lavori atipici le imprese possono esternalizzare parte dell’occupazione senza rinunciare ai vantaggi dell’inserimento nella propria organizzazione produttiva, controllando la regolarità e la qualità delle prestazioni lavorative con una maggiore libertà nelle politiche di gestione e selezione del personale a costi ridotti. La forma atipica di lavoro più importante è quella temporanea, dagli stagionali, ai contratti a termine agli interinali, la sua media nell’EU è del 13% (con estremi al 7% in GB e 33% in Sp) in aumento costante dagli anni 60 agli 80 e poi di nuovo negli anni 90 con ritmi ancor più elevati (I dal 5 al 10% negli anni 90), contribuendo a cerare un sentimento di insicurezza, soprattutto per la protezione in caso di perdita del lavoro.
Dagli anni 80 i governi EU hanno assunto una posizione favorevole verso i lavori atipici considerandoli piuttosto un passo avanti rispetto alla disoccupazione che un passo indietro rispetto al lavoro stabile (cosa poi non riscontrata in alcun paese) e hanno garantito loro una, almeno formale, protezione sociale. Non si sono peraltro rilevate relazioni tra grado di protezioni offerte e quota di lavoratori temporanei.
I settori dove maggiore è la quota temporanei sono l’agricoltura, il turismo, l’edilizia e i servizi alla persona.
Le aziende assumono per fronteggiare picchi produttivi sia stagionali che imprevisti in relazione positiva con le dimensioni dell’impresa (in I specialmente imprese con più di 15 dipendenti per norme restrittive sui licenziamenti); i giovani assunti con contratti temporanei di formazione sono una alta percentuale (77% in D, 60 in I e Dk, meno in F e B ove però vi sono lunghi periodi di prova) fino ai 24 anni, dopo diventano di meno fino a scomparire dopo i 30; spesso tali contratti sono usati come periodo di prova, essendo i programmi di formazioni delle mere formalità, e si concludono con assunzioni a tempo indeterminato in percentuali varie secondo i diversi paesi, il genere e l’età dei lavoratori. Chi vi accede sono di solito giovani (il 40% ha meno di 25 aa), soprattutto maschi, spesso involontari (tranne alcune categorie di lavori estivi redditizi e lavoratori professionalmente forti) e con un grado di istruzione medio-bassa (diploma o scuola dell’obbligo). Chi dopo i 35 aa, specie se donna e/o meridionale, permane nell’area del lavoro temporaneo difficilmente ne uscirà per inserirsi in occupazioni stabili.
3 – Il lavoro interinale. E’ stato introdotto in I nel 97 nel pacchetto Treu con dei limiti precisi: le imprese possono stipulare contratti con le agenzie per sostituire lavoratori assenti e per usare temporaneamente qualifiche non previste dai normali assetti produttivi; inizialmente erano escluse le qualifiche di basso livello e poi la contrattazione collettiva ha aggiunto la necessità di utilizzare qualifiche di difficile reperimento sul MDL locale e l’esigenza di far fronte a punte di attività come l’acquisizione di commesse o il lancio di nuovi prodotti: quest’ultima novità è stata la vera molla allo sviluppo del lavoro interinale, in quanto ad essa fanno riferimento il 70% delle richieste (restano escluse attività pericolose, sostituzione di scioperanti e assunzioni in aziende interessate da licenziamenti collettivi). Tutti i settori sono stati inclusi, anche il lavoro domestico e il pubblico impiego, con una soglia massima dell’8% che però arriva al 20 e anche al 50% in giornali e CED; nessun limite alla durata e alla prorogabilità delle missioni (i 24 mesi previsti sono facilmente aggirabili). Le agenzie per essere autorizzate devono essere dotate di buona solidità economica e organizzativa, non possono svolgere attività di selezione e collocamento e devono fornire agli organismi pubblici informazioni sui contratti conclusi e sui lavoratori coinvolti, inoltre devono destinare il 4% dei salari a un fondo destinato alla formazione professionale dei lavoratori.
Le diverse legislazioni pongono paletti differenti, da una totale deregulation inglese e nordica a una regolamentazione più restrittiva in F e B, alcuni mettono limiti alla durata, altri chiedono indennità di fine missione, altre rapporti stabili con l’agenzia (D); con tutto ciò il lavoro interinale resta una fascia veramente marginale sull’occupazione totale, non più dell’1,5% con punte del 3% in GB e dello 0,5% in D (in I addirittura lo 0,25%), è e sarà sempre un mercato di nicchia, non destinato a sconvolgere il tradizionale assetto dell’occupazione dipendente né a prosciugare la disoccupazione. La sua espansione è avvenuta in un periodo di crescita dell’occupazione e forse ha sostituito una parte di lavoro stabile, ma il suo vantaggio sta scomparendo se non per veri picchi produttivi o per eliminare gli straordinari, infatti un’ora di lavoro interinale costa all’azienda più di un’ora di un dipendente, anche a tempo determinato, in quanto bisogna aggiungere al costo del lavoratore un margine del 20-30% destinato all’agenzia. Si ricorre all’interinale quindi per missioni brevi (1-2 mesi) per cui sarebbe impossibile ammortizzare i costi di selezione, assunzione e amministrazione del personale e per situazioni imprevedibili o improvvise in cui conti il fattore tempo a ripagare l’eccesso di costi. Se i bisogni di lavoro transitorio sono ripetuti e prevedibili si preferisce il tempo determinato (agricoltura, turismo), se sono addirittura programmabili si ricorre al part time orizzontale o verticale (grande distribuzione).
E’ l’industria manifatturiera, specie metalmeccanica, che assorbe oltre il 40% delle missioni in I, seguita  da settori commerciali, alberghieri e dei servizi di pulizia. Il 75% delle missioni interessano le grandi imprese dell’I del N-O, il 20% va solo in Lombardia, mentre il 40% dei lavoratori sono meridionali altrimenti esclusi da tali posti per mancanza di informazioni e di appoggio logistico.
Il lavoro interinale, nato come regno delle segretarie è ovunque sempre più maschile (65%) e operaio-industriale con mansioni poco qualificate, solo un 30-40% è impiegatizio, e comunque poco qualificato anche qui (contabili, gestione dati, call center); oltre il 60% ha meno di 30 anni, il 30% ne ha meno di 25, le donne quarantenni hanno un ruolo significativo nel sesso femminile; i titoli di studio sono limitati al 5% di laureati e al 35% di diplomati. Spesso i lavoratori non hanno nemmeno una competenza specifica, ma devono essere addestrati sul campo e l’agenzia vende fiducia più che professionalità essendo la selezione fondata più sugli aspetti relazionali e caratteriali del lavoratore di cui non si possono indagare le reali qualifiche. Molti giovani vivono il lavoro interinale come una situazione che non impegna la loro identità personale, per cui ogni missione è un’esperienza singola che non fa loro correre il rischio di restare intrappolati in una situazione provvisoria o inadeguata alla loro formazione scolastica o professionale, a meno che non si intravedano delle possibilità di un’assunzione a tempo indeterminato o una prospettiva di mobilità interna (cosa che avviene nel 20-25% dei casi, specie dopo aver svolto alcune missioni – non dopo la prima – di durata media). Solo il 14% degli interinali diventa un professionista del provvisorio (che però lavora sempre) a cui bisogna aggiungere un 6% di marginali che lavorano pochi mesi l’anno a fronte di molte missioni intraprese.
3 – La ripresa dell’occupazione indipendente. Fino alla metà dei ’70 continua il processo di salarizzazione dei lavoratori, processo che si arresta e si inverte plafonandosi a fine anni 90: in I gli indipendenti extraagricoli sono il 30% nei ’50, 22% nel 77, 24% nell’84 e 28% nel 91, record assoluto nei paesi EU (GB 12%, Sw 10%, B 13%). Il self employed organizza la sua attività senza vincoli, non percepisce salari, sopporta il rischio d’impresa e può avere attività manuali o di servizio, essere un coadiuvante in attività familiari, essere un professionista intellettuale, essere un imprenditore con dipendenti. In I gli autonomi senza salariati sono il 25%, contro il 4% di D e il 5% di F, quindi la gran parte della rinascita spetta al tradizionale lavoro in proprio. La loro forte crescita si deve all’esigenza delle imprese più grandi di esternalizzare fasi o servizi del proprio ciclo di lavoro, utilizzando personale esterno spesso legato da contratti di subappalto o consulenza con un solo committente.
Altro fenomeno legato all’indipendenza è il franchising, per cui un’azienda proprietaria di un marchio concede di vendere beni o servizi ricavando una percentuale sulle vendite e monopolizzando le forniture di materiali e conservando il controllo su una rete di indipendenti senza rischi. Fenomeno italiano (5% dell’occupazione totale, 80% delle cooperative EU) è il subappalto a cooperative in cui i soci sono lavoratori indipendenti che, in cambio di una partecipazione – più o meno reale – ai processi decisionali dell’impresa, fanno un uso molto flessibile delle proprie prestazioni senza rispetto per i contratti collettivi di lavoro.
Elemento unificatore di tutti i lavoratori indipendenti, professionisti, imprenditori, artigiani, cooperatori volontari e non, è il lungo orario di lavoro (da 45 a 50 ore settimanali) non sempre compensato da elevati guadagni, anche se i fenomeni di elusione ed evasione fanno sottostimare il reale reddito degli autonomi dal 20 al 50%.
La stabilità del lavoro autonomo sarebbe garantita, mentre non lo è il guadagno: si va da situazioni molto instabili di chi è legato a un solo committente ad altre di reddito variabile seguente a servizi destinati a una vasta clientela, cosa che comunque  li fa dichiarare più soddisfatti del loro lavoro, percepito come più stabile, dei salariati.
La popolazione degli autonomi è abbastanza omogenea: uomini adulti, capifamiglia, con esperienze pregresse in funzioni di salariati e reti di relazioni sviluppate, con una discreta disponibilità in denaro iniziale; le donne sono ancora marginali, tranne che nei lavori familiari o di assistenza. La quota cresce con l’età : 24% di ventenni, 36% di cinquantenni, 63% di sessantenni (donne 13, 28, 56%).
In I nel 2000 il lavoro indipendente è più diffuso nel commercio (53%) e nei servizi privati alle imprese (45%), seguono ristoranti e alberghi (44%), edilizia (39%), e servizi alle persone (35%), mentre l’industria vede solo il 17%; nel decennio precedente si è assistito a un crollo dei piccoli commercianti e degli artigiani e una netta salita di lavori ad alta qualificazione in servizi alle imprese, finanziari e sociali.
Secondo l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico) il lavoro indipendente è cresciuto nei paesi dove è più rigida la legislazione relativa alla sicurezza dell’occupazione dipendente, dove minori sono le indennità di disoccupazione e più elevati i contributi previdenziali (I al massimo livello di entrambi).
5 – Tra indipendenza e subordinazione: le collaborazioni. Tra un’impresa e un lavoratore può esistere un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa senza vincolo di subordinazione fondato su tre elementi: la coordinazione (in modi, tempi e luoghi), la continuità (azioni ripetute) e la natura personale e professionale dell’opera prestata (il prestatore non investe capitali per acquisire attrezzature e strumenti); l’autonomia organizzativa distingue tale situazione dal lavoro dipendente, la continuità dalla prestazione occasionale e l’assenza di capitale dall’imprenditoria. Con la riforma pensionistica del 95 che prevede un fondo speciale per queste attività si evidenziano due milioni di persone con tali caratteristiche, è il popolo del 10% (poi salito al 19) di aliquota contributiva, insufficiente a garantire pensioni decenti anche dopo 30 anni di lavoro, ma utile per sanità, assistenza in maternità, assegni familiari e assicurazione contro gli infortuni. La stima di veri parasubordinati non supera però le 700.000 unità, essendo gli altri doppi lavori o pensionati o amministratori e sindaci di società, si tratta comunque del 10% di tutti i lavoratori dipendenti e il 13% di lavoratori in proprio, con una quota di lavori intellettuali pari o superiore al 30%.
Sono concentrati nelle regioni del Nord terziarizzato ed esternalizzato (25% sono in Lombardia) concentrati nel comparto dei servizi non commerciali e turistici (36%) seguiti da commercio, ristorazione e industria (22%) con rilievo essenziale in settori come l’editoria, lo sport e gli enti locali. Sono di solito figure ad elevata qualificazione intellettuale e tecnica (informatici, traduttori, formatori, pubblicisti, animatori, guide turistiche, allenatori, ricercatori, infermieri) utilizzati da imprese di medie o grandi dimensioni per utilizzarne le competenze specialistiche ottimizzandone gli elevati costi; sono laureati per il 17% e diplomati per il 33%. Il 65-80% dichiara di avere un solo committente, cosa che da un lato espone al rischio di rottura del rapporto e inattività, dall’altro garantisce una lunga e stabile durata di rapporto basato sull’affidabilità e sull’efficienza non facilmente sostituibili.
La loro retribuzione è molto varia (media di 500-1000 € al mese) e si traduce in risparmio per le imprese sia per la parte retributiva (non essendo previsti straordinari o maggiorazioni per orari disagiati) che per quella contributiva (dal 25 al 13%) rispetto ai dipendenti, con una contrattazione del tutto libera riguardo agli orari di lavoro, all’utilizzo delle attrezzature dell’impresa e della collaborazione coi dipendenti. Anche il livello professionale è molto vario, con gradi infiniti di dipendenza-autonomia e qualificazione professionale. In genere chi arriva a lavori di collaborazione nell’attesa di trovare un lavoro stabile definitivo ne sottolinea gli aspetti negativi, chi invece vi arriva dopo un percorso inverso ne apprezza l’autonomia e l’ambiente stimolante, pur non dimenticando le indubbie difficoltà (pagamenti, orari, instabilità).
Il 60-75% sono maschi, la metà dei quali dai 35 ai 54 anni e il 30% giovani, spesso alla prima esperienza lavorativa, come ingresso nel MDL.

 

CAP 9  OCCUPAZIONE SOMMERSA E DOPPIO LAVORO

 

2 – Dinamica e composizione dell’occupazione non regolare. In I, come in tutta l’EU del Sud l’occupazione irregolare è molto diffusa, arrivando al 20-26% (35% in Gr, 23 in Sp) mentre è quasi sconosciuta nel Nord (2-9%) ed è intermedia in GB, F e D (4-14%); i settori interessati sono l’agricoltura, l’edilizia, i servizi e le piccole unità manifatturiere e oltre ai lavori completamente irregolari vi è una larga fascia di redditi che sfuggono al fisco per minori entrate dichiarate o per doppi lavori non denunciati.
Sono quindi oltre 3 milioni i lavoratori irregolari in I (contando anche la componente dei 600.000 lavoratori stranieri) in fase di contrazione nell’ultimo decennio, ma solo per la contrazione dell’occupazione totale in settori quali agricoltura ed edilizia; in realtà è in crescita in tutti i campi ove limitata è l’innovazione tecnologica, soprattutto in agricoltura per la presenza di immigrati, pensionati e donne adulte e nelle costruzioni, mentre è meno accentuata nell’industria, se non nei rami del confezionamento a bassa tecnologia aggiuntiva. Si è passati da una occupazione irregolare prevalentemente agricola ad una terziarizzata, specie nel Mezzogiorno con punte del 35%, anche nell’ambito dell’occupazione dipendente per tutta una serie di fattori quali: imprese di dimensioni piccole, prossimità della domanda finale delle famiglie, immaterialità della prestazione offerta, mancanza di un luogo fisso ove svolgere l’attività. Se si aggiunge che spesso tutta la filiera produttiva non ha interesse a regolarizzare le prestazioni per ridurre i costi si capirà il motivo di tale diffusione.
In I all’economia sommersa tradizionale, fatta di arretratezza organizzativa economica e sociale se ne aggiunge una nuova frutto di tre nuove tendenze dell’economia contemporanea: la crescita della domanda di servizi a famiglie e persone, la disintegrazione dell’apparato produttivo in una catena di subappalti e forniture, la diffusione delle tecnologie leggere quali quelle informatiche.
3 – Il lavoro nero. L’occupazione irregolare è il tipico caso di free rider in cui si cerca di non pagare i crescenti costi dei servizi necessari al funzionamento dei moderni sistemi economici e sociali, pur mantenendone i vantaggi: il risparmio ottenuto sul costo del lavoro concerne solo la sua parte previdenziale e fiscale, tanto che viene a costare – a parità di salario per il lavoratore – il 60% in meno all’impresa tra contributi, assicurazioni, ferie, tredicesima e tfr. Il lavoro nero attecchisce meglio nelle reti di piccole imprese e attività indipendenti ed è favorito da scarsità di controlli e levità delle sanzioni, oltre che da una subcultura che non ne riprovi il comportamento. Il free rider rompe il patto sociale di solidarietà e fa pagare ai regolari anche i costi sostenuti per i servizi di cui gode senza parteciparvi.
Oltre al minor costo il lavoro irregolare ha il vantaggio della maggior flessibilità, sia di orario che di licenziamento che di retribuzione, con l’aspetto negativo della scarsa qualità, dello scarso impegno e della scarsa stabilità da parte del lavoratore. Si distinguono cinque tipologie:

  • Occupazione di lavoratori subordinati da parte di un’impresa che condiziona l’assunzione alla clandestinità del rapporto col lavoratore consapevole o meno della sua irregolarità; di solito si ha con lavoratori deboli e vulnerabili (immigrati, minori, donne, dequalificati) sfruttati, malpagati e poco interessati a una copertura sociale.
  • Occupazione di lavoratori subordinati con l’accordo a non dichiarare il rapporto; si ha con lavoratori già occupati regolarmente che hanno interesse a non far sapere la loro condizione al sistema assistenziale.
  • Occupazione di lavoratori subordinati (consensuali o imposti) da parte di privati: collaboratori domestici.
  • Lavoro indipendente per conto di un’impresa che nasconde una condizione di subordinazione o un part time invece di un full time.
  • Lavoro indipendente svolto in via principale, anche questo legato alla posizione nella famiglia e verso il sistema assistenziale.

Il lavoro nero non è però sempre frutto della deregolazione, talvolta offre dei vantaggi quali la possibilità di svolgerlo a domicilio (donne che conciliano famiglia e lavoro), la flessibilità dei tempi e dei modi, l’opportunità di poter percepire ancora sussidi o pensioni. L’economia irregolare si fonda su legami di reciproca tacita complicità in quanto non si può ricorrere a canali istituzionali o visibili per accedervi, il rapporto fra le parti è diretto e spesso intimo, la convenienza della domanda e dell’offerta è mutua e l’omertà totale anche in caso di sfruttamento. Chi rompe il patto silente rischia lo sradicamento dalla società nelle cui reti ha trovato quel lavoro, talvolta assumendosene anche i vantaggi quali un’equa ripartizione dei guadagni e la posizione di forza relativa in caso di minacciato licenziamento cui può seguire una denuncia del rapporto irregolare (anche sapendo che poi non ne troverà più alcuno).
4 – Doppio lavoro e sistema delle garanzie. Non è detto che tutte le posizioni lavorative in nero siano coperte da lavoratori privi di garanzie previdenziali e giuridiche, infatti il 60% di queste sono occupate da doppiolavoristi, talvolta nel rispetto della legislazione fiscale, essendo questo esplicitamente proibito solo per il comparto pubblico (con eccezioni). Secondo l’ISTAT circa 6.500.000 lavoratori (il 30% circa del totale) sarebbero interessati da un vero doppio lavoro (non da attività plurime marginali, ma da una seconda occupazione aggiuntiva minoritaria solo per impegno di tempo) soprattutto in agricoltura, dove su 100 occupati in via principale ve n’erano 270 nel 1999 come seconda attività indipendente responsabile del 25% della produzione agricola nazionale a fronte di una quota di occupati del 18%. Il secondo lavoro agricolo è un modo di integrare il reddito, ma anche di tenere in vita aziende contadine altrimenti destinate a scomparire, sia nel Sud che nel Nord.
Un 15% è impegnato in seconde attività industriali o terziarie, soprattutto uomini (per le donne prevale la doppia presenza casalinga) in modalità indipendenti nel turismo, nei trasporti, e nei servizi domestici con un’enorme varietà di compiti e di qualifiche professionali.
La domanda di doppio lavoro proviene da famiglie e clientela diffusa che non avrebbe beneficio da una messa in regola o dall’accedere a lavoratori regolari, se non altro per risparmiare l’IVA. Per un terzo il doppiolavorista recupera competenze di precedenti attività precarie poi abbandonate, per un terzo svolge mansioni simili al primo lavoro e per l’ultimo terzo svolge un’attività del tutto diversa dalla primaria. La percentuale maggiore proviene da grandi aziende e settore pubblico (ministeri, scuola, sanità) che garantiscono stabilità e protezione, anche se vigono formali divieti, spesso non rispettati dagli stessi dirigenti di tali strutture, i quali si ricreano a volta delle equipes parallele o almeno delle complicità silenti con la giustificazione dei bassi salari e della scarsa valorizzazione. Su guadagni e impegno di tempo vi sono poche notizie, le stime parlano di un 40% dell’unità di lavoro standard.
Quattro dimensioni possono spiegare la diversa diffusione del doppio lavoro: Vincoli, Risorse, Stimoli e Pressioni.
I vincoli sono determinati dagli orari del primo lavoro, dall’obbligo di presenza sul suo luogo, dall’alta densità di impegno in energie, dalla libertà dell’ambiente, dal controllo gerarchico e dal rischio di sanzioni, oltre che dalla curiosità dei colleghi.
Le risorse sono il possesso di qualità personali o professionali, acquisite o no, per le quali vi sia una buona domanda di lavoro indipendente.
Gli stimoli sono gli eventuali squilibri tra istruzione e mansioni, la deprivazioni economiche e l’utilizzo delle conoscenze acquisite.
Le pressioni maggiori sono esercitate dal reddito familiare per l’aumento di carichi (figli) o per aumentare il livello di benessere.
5 – Lavorare meno lavorare tutti. Il doppio lavoro extragricolo è un importante problema per una politica dell’occupazione che miri a ridistribuire le occasioni di lavoro riducendone l’orario. La riduzione di orario può indurre alla ricerca di un secondo lavoro se questo è organizzato in modo da permettere una buona autodeterminazione dello stesso lasciando libere ampie parti della giornata; invece l’idea di creare maggiore occupazione in certi settori riducendo l’orario lavorativo si scontra con la non fruibilità di spazi e luoghi e con la scarsa permeabilità degli ambiti di doppio lavoro all’entrata di nuova occupazione.
Perché sia possibile sostituire attività secondarie con attività principali occorre che: gli spezzoni di lavoro secondario siano ricomponibili in orari continuati; che la domanda sia disposta a impiegare lavoratori monoccupati con le dovute garanzie istituzionali; che i disoccupati abbiano le caratteristiche adatte a queste attività e che siano in grado di entrare con successo nei mercati tipici dei plurioccupati.
Numerosi secondi lavori sono nati come tali: quelli con specializzazione tanto rara da non permettere agli utenti di utilizzarne più di una frazione di tempo (consulenze, traduzioni), lavori che derivano da picchi di domanda concentrati in poche ore o giorni, prestazioni richieste a chi all’interno di un’istituzione pubblica ricopra lo stesso tipo di attività richiesta, attività che si svolgono in unità economiche di proprietà del plurioccupato (studi, piccole imprese).
Negli altri lavori i plurioccupati tendono a vincere la concorrenza dei disoccupati, anche nel campo libero dell’irregolare, perché al maggiore carico di esperienza e conoscenze aggiungono l’affidabilità e la sicurezza di non accampare future pretese alla fine del rapporto.
Se si stima intorno al 20% la percentuale di occupati maschi che svolgono un secondo lavoro extragricolo, la stima di posti di lavoro a tempo pieno che si potrebbero creare compattandone le prestazioni in unità di lavoro standard (cosa comunque molto difficile) non supererebbe il 7% che scenderebbe all’1% considerando anche i limiti di condizioni e sostituibilità. Per eliminare la tendenza al secondo lavoro occorrerà anche vincere le resistenze dei plurioccupati, attenuando stimoli e pressioni economiche al secondo lavoro, rafforzando i meccanismi di controllo e valutando anche l’impatto politico della questione. Una società matura deve saper coniugare alcuni principi generali: assicurare un buon livello di sicurezza sociale a prescindere dalla stabilità lavorativa distribuendone il costo su tutta la collettività; riorganizzare alcuni mercati di beni e servizi in modo da farvi operare imprese e lavoratori più produttivi e meno attratti da attività irregolari; responsabilizzare sindacati e organizzazioni di categoria per regolare le attività produttive e controllarne gli abusi.
Una soluzione copernicana sarebbe smettere di combattere il doppio lavoro, ma liberalizzarlo rendendolo regolare.

 

CAP 10  GLI IMMIGRATI NELLA SOCIETA’ TERZIARIA

 

1 – Vecchia e nuova immigrazione in EU. L’I è l’unico paese che non ha dovuto far ricorso a immigrati stranieri per sostenere lo sviluppo industriale degli anni 60 e 70 attingendo a un enorme bacino domestico di forza lavoro agricola non istruita e desiderosa di promozione economica e sociale attraverso un lavoro salariato. Gli altri paesi: D, CH, F, B, NL sono ricorsi agli stessi bacini con varie regolamentazioni che prevedevano di solito l’accesso a tempo e scopo definiti, con rientro programmato alla scadenza del contratto. Nel 74 si chiudono le frontiere a nuove immigrazioni, se non per riunioni di nuclei familiari, cosa che non tocca il flusso italiano che si arresta per dinamica propria; la causa è la crisi petrolifera e delle grandi imprese, oltre alla concorrenza dei paesi asiatici nelle produzioni manifatturiere ad alta densità di lavoro non qualificato. La chiusura delle frontiere provoca una riduzione del turnover di immigrati molto inferiore alle aspettative: chi era dentro non usciva più per il timore di non poter rientrare; il movimento migratorio accelerava il suo processo di maturazione articolato in quattro stadi. Nel primo i lavoratori sono tutti maschi celibi provenienti dalle aree meno arretrate del paese di esodo con l’intenzione di ritornarvi dopo pochi anni. Nel secondo cresce l’età e la percentuale di sposati (senza moglie), si prolunga la permanenza e si riduce il turnover con estensione a fasce meno qualificate. Nel terzo aumentano l’età e la percentuale di donne, mogli e figli, diminuisce il tasso di attività e cresce la domanda di servizi e infrastrutture così come il tasso di ritorno. Il quarto stadio segna la maturità con allungamento del soggiorno, ricongiunzioni familiari e sviluppo di una identità culturale che farà nascere problemi legati alle minoranze etniche.
Gli immigrati, anche di seconda generazione, svolgono lavori ai livelli più bassi della scala nell’industria e nei servizi, spesso senza un rapporto permanente e con maggiore facilità di espulsione.
La chiusura delle frontiere nei paesi nordici ha provocato flussi di immigrazione non autorizzata (priva di permesso) o clandestina (illegale) diretti verso paesi dell’EU meridionale, molto più permeabili e dotati di nuova recettività per forze lavoro non qualificate e flessibili spesso regolarizzate da grandi manovre sanatorie (quattro in I per 800.000 persone).
In I il flusso è diventato rilevante nella seconda metà degli 80 con 100.000 ingressi l’anno, sicché nel 2000 erano oltre 1,5 milioni pari al 2,7% della popolazione a fronte di 1.2 milioni di permessi di soggiorno (cui aggiungere minori e clandestini). Dal 92 i controlli di frontiera sono diventati più rigorosi e le espulsioni rispettate, ma molti sono i metodi per entrare irregolarmente o clandestinamente nel paese con visti turistici o di studio o con vere manovre invasive. I flussi provengono dalle località più disparate, dal bacino del Mediterraneo e dai paesi dell’Est in primis, sia da aree rurali che da zone urbanizzate, talora con gradi di istruzione rilevanti, anche se non riconosciuti o utilizzati; molto importante è la presenza femminile non più legata al ruolo di moglie, ma di lavoratrice (quasi sempre domestica, ma ora anche in aziende) il cui movente è prima la sopravvivenza che l’emancipazione e le cui rimesse consentono la vita dell’intera famiglia nel paese d’origine.
3- Gli immigrati nei MDL italiani. L’ISTAT non riesce a rilevare in maniera accurata la presenza di lavoratori immigrati extracomunitari, infatti nel 99 erano 360.000, circa un terzo delle stime più reali. A non funzionare erano originariamente i meccanismi per la regolarizzazione, come se tutto il resto del MDL italiano fosse trasparente. Le cose migliorano dal 98 quando non si richiede più la non disponibilità di personale italiano per rilasciare permessi di lavoro, ma si chiede la garanzia di uno sponsor anche per chi arriva senza un lavoro pronto. Il numero degli avviamenti al lavoro (utile perché permette di analizzare i flussi) è di circa 100.000 unità l’anno per tutti i 90 con grandi differenze secondo le aree territoriali: maggiore nelle grandi città e nelle zone più dinamiche come il Nord-Est. Le donne sono oltre 200.000 impiegate in famiglie grazie al traino di organizzazioni ecclesiastiche, poi seguite da catene interpersonali. Per gli uomini migliorano le condizioni di vita, ma non le qualificazioni professionali: chi lavora nell’industria nel 77% dei casi è un operaio generico, solo il 3% è specializzato e spesso percepisce stipendi più bassi dei colleghi italiani.
Tra i diversi settori economici l’industria assorbe il 27% della forza, i servizi il 20%, il lavoro domestico il 30%, l’agricoltura il 16%, l’edilizia il 7%. Gli immigrati sono assunti di solito da aziende piccole, sono pagati al minimo sindacale, vengono utilizzati nei lavori che richiedono più forza, resistenza e disponibilità a turni, anche se ultimamente accedono anche a lavori più competenti, lo status sociale resta sempre molto basso e le possibilità di elevazione scarse.
Nel commercio, dopo la caratterizzazione dell’ambulante che vende bigiotteria o articoli contraffatti, si sta organizzando un ethnic business fatto di imprenditori e rivenditori che si rivolgono a un mercato di immigrati, ma anche di italiani, con attività piccole e frammentate, ma vivaci.
Modelli territoriali di inserimento lavorativo degli immigrato in I sono:

  • Il modello industriale del Nord-Est e delle regioni centrali come Emilia e Marche in cui si ha una forte prevalenza della domanda da piccole imprese manifatturiere, meno edili e da un buon comparto di lavoro domestico urbano.
  • Il modello metropolitano con forte domanda proveniente dalle famiglie e dai servizi per la qualità della vita urbana.
  • Il modello meridionale suddiviso in due sottomodelli: il rurale dedito ad agricoltura e pastorizia e l’urbano domestico.

CAP 10  LE POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO

 

1 – Tra le politiche del lavoro e dell’occupazione si possono comprendere cinque famiglie di programmi pubblici:

  • Disposizioni dirette a disciplinare sia la natura dei rapporti di lavoro e delle obbligazioni che ne derivano, sia le condizioni della prestazione a tutela della salute e dei diritti civili del lavoratore (orario, sicurezza, discriminazioni).
  • Interventi diretti a regolare le modalità di incontro tra domanda e offerta sul MDL, cioè le procedure di assunzione e licenziamento e a modificare quantità e qualità dell’offerta di lavoro (scolarità, programmi di formazione e riqualificazione)
  • Misure di mantenimento o garanzia del reddito che assicurino i lavoratori da rischi di disoccupazione, malattia, infortunio, invalidità e vecchiaia.
  • Azioni volte a fornire un quadro istituzionale alla rappresentanza collettiva dei lavoratori e dei conflitti tra imprese e sindacati, sia a controllare la dinamica retributiva (compresi interventi di fatto con ruolo di mediazione)
  • Interventi per aumentare l’occupazione in generale o di particolari categorie di lavoratori considerati deboli: dagli incentivi in su.

Le politiche del lavoro sono spesso legate ad altre politiche settoriali e influenzate dalla politica macroeconomica del governo. Quando si parla di politica del lavoro ci si riferisce solo agli interventi che hanno un rapporto diretto con il MDL e comportano una spesa per il bilancio pubblico (seconda, terza e quinta famiglia); si distingue tra politiche passive, di mera garanzia del reddito per chi è senza lavoro (indennità e prepensionamenti) e quelle attive dirette a rendere più efficiente il funzionamento del MDL adeguando le caratteristiche professionali dell’offerta, favorendo l’incontro tra domanda e offerta, creando occasioni di lavoro anche per chi si trova in posizioni svantaggiate.
L’I dedica a queste politiche pubbliche una percentuale minima del PIL: non più dell’1,8%, contro una media EU del 2,8 e punte del 10%  in NL (anche se GB è ancor più bassa), per la bassa partecipazione alle politiche di sostegno del reddito, compresa la CIGS. I pochi cassintegrati o mobilizzati sono molto visibili, mentre i molti senza indennità si vedono poco e percepiscono meno del 5% del reddito per persona occupata (un quinto rispetto a danesi e olandesi). L’I spende poco anche per sostenere i disabili e per combattere l’esclusione sociale (1,6% del PIL contro la media EU del 2,2), per contro è molto generosa nelle pensioni che toccano il 13% del PIL (media EU 11%).
Le spese per le politiche attive consistono per tre quarti in automatici sgravi contributivi alle imprese che assumono giovani come apprendisti o in formazione e adulti disoccupati di lunga durata; poco si spende per misure innovative e mirate, dalla formazione continua all’incontro tra domanda e offerta ai progetti per evitare l’esclusione e favorire l’occupazione dei disabili.
L’analisi dell’impegno dei diversi paesi non risponde alla domanda se le politiche del lavoro, specie quelle attive contribuiscano a ridurre la disoccupazione: la correlazione è forte solo per le spese in politiche passive di sostegno al reddito, minori nei 90 rispetto agli 80 per la fine di spese per prepensionamenti, a fronte di tassi di disoccupazione simili. Comunque tre studi internazionali concludono che le politiche attive, in particolare i programmi di formazione e servizi per l’impiego sono quelle che si correlano alla maggior riduzione dei tassi di disoccupazione.
E’ difficile conciliare i tre obiettivi delle politiche attive: ridurre la disoccupazione, ridurre la spesa pubblica, ridurre la povertà, se poi non vi è  una disponibilità ragionevolmente elevata di posti di lavoro vacanti tutti gli sforzi risulteranno poco efficaci; la crescita economica è una condizione necessaria per aumentare l’occupazione, ma non è sufficiente, bisogna aumentare l’elasticità di rapporto tra dinamica dell’occupazione e quella del prodotto nazionale e impedire che posti di lavoro restino vacanti. Gli interventi più efficaci sono sempre quelli più costosi, quindi in contrasto col primo dei suoi obiettivi, gli altri fanno uscire dalla disoccupazione, ma non dalla povertà; i migliori sono quelli mirati su persone o gruppi particolari, peggio funzionano i programmi generalisti.
Ogni programma di politica del lavoro deve essere il frutto di un equilibrio tra i suoi tre obiettivi se vuole essere efficace ed equo, un ruolo essenziale spetta ai servizi pubblici per l’impiego che devono operare come un’agenzia integrata capace di combinare le funzioni di collocamento, di pagamento di indennità e di avviamento dei disoccupati ai programmi di politica attiva del lavoro.
Il criterio di valutazione di queste politiche è calcolare la percentuale di persone interessate dal programma che hanno trovato lavoro, depurate di tre effetti: spreco (quando le imprese avrebbero assunto comunque quelle persone), di sostituzione (quando le imprese avrebbero assunto altre persone) e di spiazzamento (quando le assunzioni sarebbero avvenute, ma in altre imprese).
Un caso a parte sono le fasce deboli, che talvolta non si manifestano spontaneamente, non si iscrivono al collocamento, non seguono programmi di qualificazione (temendo ulteriori esclusioni), hanno paura della stigmatizzazione della loro posizione con incasellamento definitivo nella categoria di debolezza professionale.
Nelle politiche del lavoro bisogna quindi conciliare equità sociale (assicurare migliori opportunità ai soggetti più svantaggiati) ed efficienza (collegare alla crescita economica l’aumento di occupazione) con un mix centrato sul luogo e sul tempo si azione.
2 – I problemi di politica attiva in EU e in I. Dal 98 i paesi UE hanno stabilito un quadro di riferimento comune per le politiche del lavoro con un traguardo di un tasso di occupazione del 70% (60% femminile) nel 2010 con un approccio di coordinamento aperto che lascia agli stati piena sovranità nelle politiche, ma che ne orienta le scelte imponendo di approvare ogni anno un piano di azione nazionale per l’occupazione (PAN). Il confronto con gli altri piani è il solo incentivo a conformarsi agli indirizzi europei per la distribuzione dei fondi sociali. Linee guida.

  • Migliorare le capacità di inserimento professionale (occupabilità), con l’obiettivo di trovare un’occasione di lavoro o formazione ai giovani entro 6 mesi e ai disoccupati entro l’anno, di favorire la transizione scuola-lavoro, di combattere discriminazioni.
  • Sviluppare l’imprenditorialità e la creazione di posti di lavoro mediante semplificazione amministrative, riduzione di carichi fiscali e sviluppo di nuove opportunità a scapito del sommerso.
  • Incoraggiare la capacità di adattamento delle imprese e dei lavoratori: concertazione tra sindacati e imprese per modernizzare l’organizzazione del lavoro (flessibilità) e investire in formazione continua.
  • Rafforzare le politiche per le pari opportunità su divari retributivi, percorsi di carriera, facilitazioni per gli impegni familiari.

Fondamentale per tutti è realizzare un approfondito monitoraggio delle politiche del lavoro verificandone spese sostenute, soggetti coinvolti e risultati raggiunti. Le guidelines sono passate da una generica attenzione alla prevenzione della disoccupazione di lunga durata alla modernizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e al maggiore investimento in istruzione, con scarsa attenzione alla relazione con la politica economica e ai forti squilibri territoriali nazionali (come è il caso dell’I).
Per l’I un approccio fondato sulle politiche attive pare adattabile solo alla realtà del Nord in cui si vede la necessità di interventi di riqualificazione e di invecchiamento attivo dei disoccupati adulti prima di incanalarli in percorsi di mobilità, favorendo l’incontro tra domanda e offerta. Ciò si scontra comunque con la debolezza delle forme di politica passiva e con la carenza di strutture organizzative. Anche l’adozione nel 2002 di schede professionali personali al posto delle liste del collocamento, con l’esclusione dalla disoccupazione per chi non aderisca al colloquio e alla ricerca di lavoro o di formazione, non ha portato a risultati sensibili per la esiguità delle sanzioni.
Nel Sud le politiche del lavoro sono secondarie alle politiche economiche e industriali volte a far nascere nuove attività produttive non assistite, autonome e capaci di creare posti di lavoro reali.
3- Incontro domanda-offerta di lavoro. Il primo obiettivo dell’intervento pubblico è abbreviare i tempi di disoccupazione attraverso una migliore diffusione delle informazioni riducendo gli svantaggi per i soggetti meno dotati di risorse economiche e informative: le piccole imprese che non possono permettersi società di selezione di personale e le fasce deboli non inserite in reti di relazioni. Una maggior trasparenza del MDL rende più compatibili le esigenze delle imprese (più informate sull’offerta), dei lavoratori (meglio orientati nei percorsi più richiesti) e degli organismi pubblici (più puntuali nell’approntare programmi di sostegno).
La struttura pubblica deve interpretare, organizzare e raccogliere le richieste delle imprese medio-piccole (le grandi hanno uffici HR) garantendo professionalità, riservatezza e non esclusività del rapporto; dall’altro lato deve intervistare il lavoratore in cerca rilevandone le esperienze professionali, le conoscenze, le aspettative e le disponibilità. Dal confronto deve nascere un’integrazione dei dati (spesso le imprese richiedono i posti meno interessanti e i lavoratori che afferiscono sono i più deboli) con la creazione di una rosa di candidati per ogni ruolo emerso; la scelta finale spetta comunque sempre all’impresa.
5- Il modello EU di presenza pubblica nel MDL. Fino a metà anni 90 il sistema pubblico italiano era limitato all’attività degli uffici di collocamento che non facevano altro che registrare avviamenti al lavoro e iscrizioni alle liste di disoccupazione, senza veri interventi che risolvessero i problemi locali. Ciò non era sufficiente ad una missione che vedesse l’incontro tra domanda e offerta, il sostegno ai soggetti deboli, l’osservazione del MDL, la promozione dell’occupazione. L’aumento contemporaneo di occupazione e disoccupazione, la grande accelerazione della tecnologia, la compresenza di vacancies e disoccupati, la scarsa mobilità territoriale erano le nuove sfide cui rispondere con interventi che fossero anche di politica economica. Occorreva una struttura integrata che comprendesse i tradizionali servizi per l’impiego, le funzioni di orientamento e formazione professionale e le misure di politica dell’occupazione, la sintesi di quello che è l’Istituto federale per l’impiego della Germania: nazionale, ma localistico, amministrativo, ma decisionale, presente, ma attivo, aperto in modo paritario a sindacati e imprenditori. L’organismo di governo stabilisce i piani di politica del lavoro, gli obiettivi e gli strumenti, ma la responsabilità di perseguire gli obiettivi e di scegliere gli strumenti viene affidata a delle agenzie pubbliche autonome dall’apparato amministrativo.
I tratti tipici del modello europeo di servizi per l’impiego sono: decentramento territoriale (amministrativo e politico), integrazione funzionale (collocamento e politiche attive), separazione politico-amministrativa, approccio promozionale e fornitura di servizi qualificati a lavoratori e imprese, coinvolgimento delle parti sociali.
6- Nuovi servizi per l’impiego. Nel 1995 si confrontano due progetti per una riforma europea : il primo progetto prevede un servizio nazionale dell’impiego con un’articolazione che consentisse l’autogoverno a livello locale mentre al ministero resterebbero i compiti di vigilanza e indirizzo, la gestione è affidata a organismi tripartiti (stato, regioni e parti locali) finanziati da fondi ripartiti secondo le esigenze locali nel principio della solidarietà tra regioni. Tale organismo ha autonomia su tutti i compiti della politica del lavoro, tranne che per quelli ispettivi (stato) e formativi (regioni).
Il secondo progetto prevede il riconoscimento alle regioni di tutte le competenze in materia di organizzazione del MDL, delle politiche del lavoro, del sostegno all’occupazione (escluse le funzioni ispettive) con risorse finanziate su base regionale e da un fondo di solidarietà nazionale. Nel 97 partono i decreti Bassanini che trasferiscono a regioni ed enti locali un gran numero di funzioni amministrative nel quadro di un federalismo a Costituzione invariata e il decreto Montecchi che prevede: conferimento a regioni e province dei compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro (promozione dell’incontro domanda-offerta, inserimento delle fasce deboli, orientamento ai lavori socialmente utili, reinserimento dei disoccupati e dei mobilizzati); organizzazione di un sistema regionale per l’impiego con la costituzione di una commissione regionale con le parti sociali; formazione di centri per l’impiego provinciali per bacini di almeno 100.000 abitanti; trasferimento agli enti locali del 70% del personale ministeriale addetto al collocamento; riserva al ministero dei soli compiti ispettivi e organizzatori di flussi di immigrati e di gestione dei sistemi informatici; autorizzazione di imprese private per la mediazione domanda-offerta.
Esperienze internazionali evidenziano che il livello ottimale di azione è quello locale, provinciale con l’eccezione delle grandi aree metropolitane e delle piccole regioni. L’integrazione delle quattro aree principali delle politiche attive del lavoro (informazione e orientamento, incontro tra domanda e offerta, promozione dell’occupazione e sostegno ai soggetti deboli) è fondamentale, le notizie e le informazioni devono circolare al meglio, le criticità vanno evidenziate, le caratteristiche dell’offerta e i requisiti della domanda vanno avvicinati. Perdono invece centralità i progetti formativi, delegati alle regioni e mirati su progetti specifici e l’erogazione dei sussidi di disoccupazione, affidati all’INPS.
Il punto centrale è l’elevata professionalità richiesta al centro di coordinamento, che non deve ricoprire tutte le funzioni (se ne possono delegare alcune a strutture private o non profit), ma deve garantire la loro integrazione e l’incontro tra domanda e offerta. I risultati per i disoccupati non sono stati in realtà migliori, sindacati e associazioni imprenditoriali sono stati poco coinvolti, quando non esclusi; le regioni hanno recepito con tempi molto lunghi la nuova legislazione; le risorse sono rimaste sempre scarsissime; il rapporto uffici – territorio è ancora povero (uno ogni 100.000 abitanti, contro una media EU di 3-4 volte superiore) con un numero di addetti pari a 10.000 persone (spesso a bassa specializzazione o anziane). Non è poi ancora attivo il SIL (sistema informativo del lavoro) col compito di collegare gli archivi di tutti i centri per l’impiego per far circolare tutte le informazioni su posti vacanti e persone in cerca di lavoro, è stata solo eliminata nel 2002 la mole delle liste di collocamento.
I nuovi servizi però non hanno un bilancio negativo, soprattutto al Nord forniscono una buna qualità del servizio e stanno facendo dimenticare l’immagine polverosa dei vecchi uffici di collocamento: a loro si deve circa il 30% di avviamenti al lavoro. Sono poi partite le società private di collocamento (affiancate alle società di selezione già presenti in forma di head-hunter per figure professionali elevate), che pur lasciando ai  servizi pubblici alcuni vantaggi competitivi quali la gratuità per le imprese e il possesso di banche dati molto più ampie e aggiornate, vantano un approccio più commerciale e di maggior valorizzazione dei soggetti più appetibili con minor considerazione per i più deboli.

 

Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Sociologia%20del%20lavoro/Riassunti%20di%20Sociologia%20del%20lavoro.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Sociologia del lavoro tipo file : doc

 

 

Sociologia del lavoro

 

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Sociologia del lavoro

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

 

Sociologia del lavoro