Guerra del Vietnam
Guerra del Vietnam
LA GUERRA DEL VIETNAM
di Guido Bassi
"We shall pay any price, bear any burden, meet any hardship, support any friend, oppose any foe, in order to assure the survival and the success of liberty."
Il 20 Gennaio del 1961, dalla collina di Capitol Hill, il Presidente John Kennedy, rivolgendosi alla nazione la esortava a sopportare ogni peso e a pagare qualsiasi prezzo in nome della difesa della libertà.
Gli Stati Uniti orami da 16 anni erano impegnati nella sfida ideologica, economica e militare che aveva come unico e ultimo obiettivo il contenimento dell’ U.R.S.S. e dell’espansione globale del Comunismo. La politica estera americana dal 1947 seguendo le linee tracciate dall’amministrazione Truman cercò di evitare con ogni mezzo che l’influenza sovietica (e dal 1949 anche quella cinese) si espandesse, mettendo a rischio la supremazia americana conquistata grazie allo sforzo bellico nella Seconda Guerra Mondiale.
A inizio anni Sessanta, nel momento in cui la leadership americana iniziava ad erodersi, e nuovi competitori si affacciavano sullo scenario internazionale, l’amministrazione Kennedy rinnovò, reiterpretandola, la sfida lanciata (o accolta, dipende dai punto di vista) da G.Kenan, proponendo accanto alla strategia del contenimento una più audace e innovativa “missione”: la “Nuova Frontiera”.
La sfida rilanciata dall’amministrazione Kennedy, aveva però un limite strutturale, che allo stesso tempo rappresentava il suo punto di maggior forza ma anche la sua debolezza. L’universalità della missione americana, rifacendosi alla tradizione wilsoniana, non consentiva all’establisment americano distinzioni geo-politiche, tanto meno militari. Il “gioco a somma zero”, dove il guadagno di una parte (U.S.A.-U.R.S.S.) implicava la perdita di influenza della controparte, non consentiva ai politici americani di interpretare con chiarezza le differenti situazioni geo-politiche e di elaborare, quindi, una risposta adeguata alla situazione che si aveva davanti. Non è difficile intuire come agli occhi delle amministrazioni, Berlino, il Vietnam o l’America Latina rivestissero, quindi, la stessa importanza strategica, e come ognuna di essa fosse di fondamentale importanza per la propria sicurezza e quella del mondo Occidentale. L’universalità della missione americana non permetteva eccezioni o distinzioni di nessun genere e fu così che il Vietnam divenne, per l’amministrazione Kennedy, una pedina fondamentale nella lotta al comunismo.
A inizio anni Sessanta “perdere” il Vietnam non avrebbe avuto solamente ripercussioni catastrofiche a livello strategico ma anche psicologico. Già dalla metà degli anni Cinquanta, l’amministrazione Eisenhower si era convita che se il Vietnam del Nord, guidato dal leader comunista Ho Chi Min, avesse allargato la propria influenza sul Vietnam del Sud, governato dal dispotico e corrotto regime di Ngo Dinh Diem, con l’appoggio degli americani, sarebbe stato impossibile evitare un “effetto domino” in tutto il Sud-Est asiatico.
La paura di perdere il Vietnam, il timore di un conseguente “effetto domino” in tutto il Sue-Est asiatico, così come era stata persa la Cina a fine anni Quaranta, spinse gli Stati Uniti a sostituirsi alla Francia nella penisola indocinese, e attraverso il sostegno economico e politico a mantenere in vita il fragile governo del Vietnam del Sud.
La penisola indocinese era stata divisa in diverse entità statuali nel 1954 con gli accordi di Ginevra, che diedero vita, oltre ad un Vietnam del Nord e uno del Sud, al Laos e Cambogia. Nei due stati, divisi dal 17° parallelo, si sarebbero dovute tenere elezioni politiche entro il 1956 con l’obiettivo di unificare la nazione sotto un unico governo. Nonostante ciò la paura americana di vedere sconfitto l’impopolare e corrotto regime del sud a favore di una vittoria elettorale delle forze comuniste, spinse l’amministrazione Eisenhower a inviare già nella seconda metà degli anni Cinquanta i primi consiglieri militari e i primi aiuti economici al governo di Diem.
Gli aiuti e l’assistenza americana, non sortirono però gli effetti desiderati, il governo di Diem a inizio 1960 era sempre più impopolare, la corruzione dilagava e le riforme in senso democratico sperate e volute dall’amministrazione Kennedy, che nel 1960 aveva vinto le elezioni presidenziali, stentavano a decollare, creando imbarazzo e perplessità tra l’opinione pubblica americana. Oltre ad attraversare una difficile e profonda crisi interna, il Governo Diem era insediato anche dall’esterno. Sempre più forte era, infatti, l’appoggio popolare dato ai Viet Cong, un gruppo di guerriglieri sud-vietnamiti sostenuto dall’Esercito popolare del Vietnam del Nord che lottava, adottando tattiche di guerriglia, per liberare il territori del sud e unificare il paese nel nome del socialismo.
L’impegno americano in Indocina aumentò dunque rapidamente e gia a metà del 1961 il numero dei consiglieri militari americani nel Vietnam del Sud arrivava a 3000.
Le aspettative dell’amministrazione Kennedy continuavano però ad essere tradite dall’ambiguo regime del Vietnam del Sud e fu così che il 1 Novembre 1963 un gruppo di colonnelli dell’ esercito, aiutati e appoggiati dal Dipartimento di Stato Americano, depose e uccise Ngo Dinh Diem, dando vita ad una giunta militare che si proponeva di unificare il paese e sconfiggere definitivamente la guerriglia comunista. Solamente 12 giorni dopo a Dallas il Presidente Kennedy veniva assassinato, lasciando nelle mani del suo successore, il texano Lindon B. Johnson, la difficile situazione indocinese.
Nonostante il cospicuo incremento di consiglieri militari in Vietnam tra, il 1959 e il 1963, non si può parlare di vera e propria guerra. Gli scontri armati tra il personale americano e l’esercito popolare del Vietnam del Nord furono inesistenti, i consiglieri inviati da Kennedy si limitavano, infatti, a supervisionare le operazioni militari a fornire supporto logistico e ad addestrare le truppe sudvietnamite.
A fine 1963 il coinvolgimento americano in Vietnam era, dunque, ancora marginale. La crisi nella penisola indocinese non calamitava ancora l’attenzione dell’opinione pubblica, e gli sforzi effettuati dall’amministrazione Kennedy per tenere nascosto o comunque sminuire il coinvolgimento americano, aumentarono tra il pubblico la percezione che il Vietnam fosse qualcosa di lontano che non gli avrebbe mai riguardati da vicino.
Tutto cambiò una mattina del 7 Agosto 1964 con l’approvazione della “Risoluzione del Golfo del Tonchino”. Tale risoluzione fu, ed è tutt’oggi, una tra le più controverse e dibattute risoluzioni della storia politico-istituzionale americana. Il 7 Agosto il Senato concesse ampio supporto per aumentare il coinvolgimento statunitense nella guerra “come il Presidente riterrà opportuno”. La risoluzione lasciava aperte due questioni di fondamentale importanza: la prima di ordine giuridico. L’escalation militare in Vietnam non fu preceduta da una formale dichiarazione di guerra del Congresso, la Risoluzione del Golfo del Tonchino, concedeva si pieni poteri al Presidente ma non rappresentava una dichiarazione di guerra. Il conflitto vietnamita a livello giuridico non poteva essere dunque considerato una guerra, in quanto gli Stati Uniti non elaborarono mai una formale dichiarazione.
La seconda questione sollevata dalla risoluzione del 7 Agosto era di ordine istituzionale. Il Congresso, concedendo al Presidente ampi poteri, rinunciava al proprio diritto costituzionale di controllo della politica estera. In base al Secondo Emendamento della Costituzione, spettava, infatti, ai due rami del Parlamento decidere come se e quando impiegare le forze armate in combattimento. Ma in assenza di una dichiarazione di guerra e grazie alla Risoluzione del Golfo del Tonchino Johnson potè impiegare le forze armate senza essere soggetto a alcun tipo di controllo istituzionale, dando vita ad un escalation militare che in 11 anni provocò più di 50.000 morti tra i soldati americani.
Tutto aveva avuto origine pochi giorni prima, quando il 31 Luglio 1964 l’incrociatore americano Maddox riprese una missione di ricognizione nel Golfo del Tonchino, che era stata sospesa per sei mesi. Lo scopo era di provocare una reazione da parte delle forze della difesa costiera nordvietnamita, da usare come pretesto per una guerra più ampia. La Maddox subì un danno superficiale ma che fu sufficiente come pretesto per iniziare il conflitto.
La tattica americana funzionò alla perfezione e poco meno di un anno dopo l’incidente, 3.500 US Marines sbarcarono nel Sud unendosi ai 25.000 consiglieri militari.
La strategia militare adottata dal dipartimento della difesa americano si fondava su un intenso bombardamento aereo delle postazioni nordvietnamite e delle installazioni dei Viet Cong, vera spina nel fianco delle truppe americane. L’imponente macchina bellica messa in campo dagli americani non bastò, tuttavia, ad avere ragione dell’agguerrita e ben organizzata resistenza vietnamita. L’illusione del Dipartimento di Stato di poter vincere la guerra in 40 giorni, si scontrò con le pesanti perdite subite dal contingente statunitense. A inizio 1966 le truppe americane in Vietnam salirono alla cifra record di 500.000, una forza spropositata se paragonata all’esercito nordvietnamita.
Il continuo incremento del coinvolgimento militare avvenne mentre l’amministrazione Johnson e il generale W.Wesmoreland assicuravano ripetutamente il pubblico americano che il successivo incremento di truppe avrebbe portato alla vittoria, la “luce alla fine del Tunnel” era ormai ben visibile.
Le ottimistiche convinzioni dell’amministrazione Johnson vennero frantumate la sera del 30 Gennaio 1968, quando nei salotti americani la televisione, strumento ormai fondamentale per condizionare l’opinione pubblica, trasmise le immagini dell’ “Offensiva del Tet”. Le truppe regolari dell’esercito popolare del Vietnam del Nord assieme ai Viet Cong organizzarono un imponente attacco nel sud. Pur non ottenendo alcun successo militare l’offensiva ebbe un forte impatto sul pubblico americano, creando la percezione che la guerra fosse ormai persa e che ogni ulteriore sforzo sarebbe stato inutile a risolvere una crisi iniziata male e conclusasi nel peggiore dei modi. Gli americani non tardarono a esprimere pubblicamente il proprio dolore e contrarietà ad una guerra che stava decimando un’ intera generazione e di cui non si capivano gli obiettivi. Le manifestazioni di opposizione al conflitto si moltiplicarono, dando vita nei campus universitari ad un acceso e spesso violento scontro sulle responsabilità americane, ma soprattutto sull’intera cultura statunitense. La generazione dei “Baby Boomers”, i figli nati dopo la Seconda Guerra Mondiale, diede vita ad un intenso dibattito politico-culturale sugli obiettivi della politica estera americana e sulla società nel suo insieme. La contestazione studentesca, che contemporaneamente dilagava in tutto il mondo, fu rafforzata dalla decisione del Dipartimento di Stato di ristabilire la coscrizione obbligatoria attraverso un sistema che fu chiamato “lotteria di leva”, il quale, attraverso un meccanismo perverso, estraeva a sorte le future reclute.
A fine 1968 ara chiaro che gli Stati Uniti avrebbero potuto vincere la guerra ad un prezzo che la nazione non era disposta a pagare, il tentativo di conquistare “i cuori e le menti” sia a casa che in Vietnam era fallito, spettava al nuovo Presidente R.Nixon trovare una via di uscita dal pantano vietnamita.
Nixon si rese subito conto che la guerra era ormai persa, adesso gli Stati Uniti dovevano riuscire ad ottenere una “pace con onore”. La strategia adottata da Nixon per sganciarsi dal Vietnam fu però estremamente ambivalente. Da un lato intensificò i bombardamenti sul Vietnam del Nord, allargando le operazioni militari anche al Laos e Cambogia, dall’altro iniziò a ridurre il contingente militare americano provando ad ottenere una vietnamizzazione del conflitto. L’obiettivo della vietnamizzazione era di mettere l’esercito sudvietnamita in grado di reggere sempre più lo scontro con l’esercito del Nord. La “Dottrina Nixon” non si limitò solamente ad un intensificazione dei bombardamenti e ad un contemporaneo ritiro, di fondamentale importanza risultarono essere le trattative diplomatiche avviate a fine 1969 con l’U.R.S.S. e soprattutto con la Cina che aveva una forte influenza sul governo comunista del Vietnam del Nord. Avvalendosi della preziosa collaborazione del Segretario di Stato H.Kissinger, Nixon cerco di indurre la Cina a fare pressioni sul Vietnam del Nord e allo stesso tempo cercò di spaccare definitivamente le già difficili relazioni tra la Cina e i sovietici. La diplomazia risultò, quindi, lo strumento più efficace per uscire dal pantano vietnamita, e così a metà 1969 a Parigi iniziarono le trattative tra le parti. Se Nixon fece della diplomazia uno strumento irrinunciabile per risolvere la crisi vietnamita, è però importante sottolineare che negli anni 1970-1973 furono sganciate più bombe sul Vietnam che in tutti gli anni precedenti e che morirono più soldati che durante la presidenza Johnson.
L’accordo di pace tra gli Stati Uniti e il Vietnam venne firmato il 27 Gennaio 1973, Nixon annunciò il ritiro unilaterale delle truppe americane, impegnandosi tuttavia a fornire aiuti economici e materiale militare al Vietnam del Sud. La strategia di Nixon per non perdere il Vietnam risultò comunque inefficace, il Congresso resosi conto del terribile errore fatto nel 1964 con la Risoluzione del Golfo del Tonchino, vietò ulteriori finanziamenti all’azione militare in Indocina e negò a inizio 1975 qualsiasi aiuto economico al Vietnam del Sud.
Fu così che il debole regime sudvietnamita ormai abbandonato, capitolò il 30 Aprile 1975. Il Vietnam del Nord fu annesso a quello del Sud il 2 Luglio 1976 dando vita alla Repubblica Socialista del Vietnam.
La sconfitta militare in Vietnam, la prima subita dagli americani, lasciò una profonda ferita nella cultura americana, esercitando una profonda influenza sulla politica estera americana, sulla strategia da adottare e sui mezzi per contenere l’Unione Sovietica. La politica del Contenimento, che aveva portato gli Stati Uniti in Vietnam, subì sostanziali ripensamenti. Gli americani non sarebbero stati più gli stessi, l’America aveva perso la propria innocenza nella giungla vietnamita.
Fonte: http://contemporanea.altervista.org/documenti/La_guerra_del_Vietnam.doc
Guerra del Vietnam
La guerra del Vietnam
La guerra del Vietnam (1954-75) fu combattuta come un'altra Corea, in nome dell'anticomunismo. All'inizio l'intervento americano è defilato e di solo appoggio al Vietnam del Sud, per poi intensificarsi progressivamente. Il governo Kennedy vuole nascondere l'esistenza di una vera guerra in Vietnam. Sully, inviato della rivista "Newsweek" dotato di forte senso critico, scrive nel 1962 che l'impresa nel Vietnam era destinata al fallimento; dopo le proteste ufficiali viene sostituito da un altro corrispondente. Ma la crisi ha una brusca impennata con l'incidente del Golfo di Tonchino, al quale il Presidente Johnson fa seguire un news management da guerra fredda (i comunisti hanno attaccato le navi americane, dobbiamo difenderci). La stampa accetta la versione del Pentagono, in televisione l'ambasciatore americano in Vietnam dichiara che i Vietcong tagliano le teste ai capi-villaggio e, dopo averle infilate su punte di bastoni, le mostrano per terrorizzare i contadini. Ormai la presenza americana significa guerra aperta e il generale Westmoreland (capo delle operazioni terrestri) vuole avviare una politica di larga costruzione del consenso, lasciando via libera a tutti i media: non c'è censura, agli accreditati viene fornita ogni cooperazione e assistenza, comprensiva di razioni e alloggio, e la possibilità di muoversi liberamente [9].
All'inizio la guerra è raccontata come una marcia trionfale, giustificata dalla difesa della democrazia contro il totalitarismo. La copertura televisiva della guerra è bassa e occasionale fino al 1965, per poi crescere fino all'aprile del'68 e diventare più regolare fino al 1973. Vero e proprio spartiacque nella rappresentazione della guerra è la rottura del 1968 (per il nuovo clima politico che vede il decrescere del consenso interno ed anche per innovazioni tecnologiche di trasmissione delle immagini e l'uso delle prime telecamere portatili). Per il Vietnam fino al '68 [10] (come poi accadrà per l'intera guerra del Golfo) l'orrore non è mostrato, gli anchorman hanno la funzione di parlare di patrioti, del coraggio dei nostri ragazzi, della precisione delle armi ad alta tecnologia, mentre il nemico è demonizzato come crudele e fanatico, e chi dissente sul conflitto ha un atteggiamento riduttivo e antipatriottico. È una telecronaca soft della guerra, solo il 22% dei filmati mostra scene di violenza, morti o feriti; le storie prevalenti sono quelle degli american boys in azione, non per motivi di censura, ma per una condivisione di cultura, ideologia e punto di vista tra giornalisti e militari. Ecco un esempio di resoconto televisivo:
"I coraggiosi hanno bisogno di leader. Questo è un leader di uomini coraggiosi. Si chiama Hal Moore. Viene da Bardstown, Kentucky. È sposato e padre di 5 figli. Sono i migliori soldati del mondo. In effetti, sono i migliori uomini del mondo. Sono ben preparati, ben disciplinati [...] La loro motivazione è formidabile. Sono venuti qui per vincere" [11].
Inoltre la guerra aerea fa sì che le informazioni a riguardo provengano dai militari e non dall'osservazione diretta. I piloti sono i più intervistati tra i militari, tra essi e il giornalista spesso si verifica un'identificazione: entrambi sono col morale alto, partecipano a un evento che può essere la svolta per la loro carriera e vita.
Per McLuhan il Vietnam è la "prima guerra televisiva". Lo spettatore ha la sensazione concreta di essere testimone della guerra nel suo stesso farsi, partecipa "ad ogni fase della guerra, e le azioni principali vengono ora combattute in ogni casa americana" [12]. La rappresentazione televisiva porta a una teatralizzazione della cronaca di guerra (simile al cinema western e al romanzo d'avventura più che al resoconto), con la quale si idealizza il conflitto e si diffonde la mistica dell'eroe americano. La nuova tecnologia permette una maggiore quantità di informazioni e lo spettatore, ricevendo una molteplicità di stimoli visivi e sonori in un tempo estremamente breve, ha bisogno di una semplificazione, perciò gli si forniscono storie animate da personaggi in contrapposizione che facilitino la comprensione. È l'applicazione dello schema narrativo dei racconti della tradizione popolare, in cui le diverse parti si risolvono nell'antinomia fondamentale eroe / antieroe. Al compiacimento dell'intervista agli eroi, corrispondono le denominazioni del nordvietnamita (nemico, rosso, comunista); i danni alla popolazione civile in televisione diventano la politica calcolata del terrore, se causati dal nemico, fatale errore, se causati dai nostri ragazzi. In questo tipo di cronaca è impensabile che ci sia lo spazio per la critica ("Mentre gli americani combattono e muoiono in Vietnam, vi sono alcuni in questo paese che simpatizzano con i Vietcong", afferma un notiziario dell'ABC del '65, riferendosi ai pacifisti americani).
I bombardamenti massicci dei villaggi vietnamiti provocano sì nel 1965 un dibattito sull'efficacia delle operazioni e sui danni civili, ma la televisione tralascia la questione politica, ponendo piuttosto l'attenzione sull'esperienza personale dei piloti, sulla descrizione delle tecnologie dei sistemi d'arma. Un'eccezione al consenso è il telegiornale della CBS che nell'agosto '65 dà la notizia dell'incendio del villaggio di Cam Ne da parte degli americani, commentando duramente ("non c'è dubbio che il fuoco militare americano può ottenere una vittoria qui. Ma ci vorrà ben più di una promessa della presidenza per convincerlo che noi siamo dalla sua parte"). Nonostante la telefonata del Presidente Johnson all'amico Stanton (dirigente della rete) viene trasmesso anche il filmato, dove si vedono i marine che usano il lanciafiamme contro il villaggio, bambini e anziani compresi, ed abitazioni rase al suolo per rappresaglia. Alla messa in onda seguono telefonate di protesta dei telespettatori, che si lamentano della propaganda comunista e del sostegno dato alla causa del nemico.
La guerra contro un paese nettamente inferiore tecnologicamente stava durando più del previsto, e il Pentagono fa credere che la vittoria sia imminente, nonostante le divergenze interne allo stesso establishment sulla tattica da seguire (una pesante escalation per il generale Westmoreland, una graduale intensificazione per il Segretario di Stato McNamara). Nell'autunno '67, anche per l'approssimarsi delle elezioni presidenziali, l'amministrazione Johnson tenta di convincere l'opinione pubblica che la guerra stesse finendo con successo. Ma l'azione offensiva terrestre del Tet (gennaio '68) non porta i risultati sperati e quando alcuni nordvietnamiti penetrano per qualche attimo nel recinto dell'ambasciata americana a Saigon, Cronkite della CBS commenta sbigottito: "che diavolo sta succedendo? Credevo che stessimo vincendo la guerra". Sempre Cronkite, recatosi di persona in Vietnam un mese dopo, definì la guerra uno stallo di sangue; per l'opinione pubblica era ormai chiaro che l'America stava perdendo la guerra (come annunciato dalla NBC). Johnson rimuove Westmoreland e il 31 marzo 1968 annuncia in televisione la sospensione dei bombardamenti e la propria non ricandidatura.
Con l'offensiva del Tet la cronaca televisiva era cambiata, diventando più drammatica e critica [13]: il news management governativo era entrato in collisione con la crescente contestazione nelle università, nel giornalismo, nel governo stesso e nella popolazione in generale, che ora forniva l'audience per un giornalismo più aggressivo e scettico. D'un colpo crolla lo schema semplificatorio di un Vietnam del Sud democratico contro l'invasione del Nord comunista e con l'intensificazione dell'attività giornalistica aumentano le immagini di vittime civili e di distruzioni urbane: per la prima volta la guerra appare in televisione come un brutto affare. Lo spettatore, di fronte a immagini di combattimenti in campo aperto e di forti perdite americane si convince di una sconfitta, che per i militari è da attribuirsi senza dubbio alla televisione. Per Westmoreland
"la svolta ci fu con la battaglia del Tet. Militarmente la vincemmo noi, ma due giorni dopo il suo inizio Walter Cronkite annunciò in tv che noi avevamo perso, e quella diventò la verità. Se potessi tornare indietro, convocherei una conferenza stampa e darei la mia versione dei fatti." [14].
Un simbolo del nuovo clima politico e giornalistico è la notizia dell'eccidio di My Lai [15] (109 civili vietnamiti uccisi dai soldati americani nel marzo '68). Grazie al lavoro di un giornalista indipendente vengono pubblicate nel novembre '69 le fotografie e un mese dopo compaiono articoli su "Time" e "Newsweek". Solo adesso l'opinione pubblica americana era disposta a leggere e accettare cronache del genere. Con il pentimento in televisione di un soldato reduce da My Lai, mentre la madre accusa l'esercito di avere trasformato il proprio figlio in un assassino, scompaiono i pudori a parlare della natura della guerra e a My Lai seguiranno altri racconti di atrocità (si vedono reduci in televisione che confessano di avere ucciso bambini). Questo a dimostrazione che My Lai è solo un esempio della guerra, non un fatto eclatante in sé; in Vietnam aveva infatti raggiunto l'apice il razzismo americano contro gli asiatici, destato su scala nazionale durante la II guerra mondiale, ma prima di My Lai l'informazione aveva passato sotto silenzio la natura razzista e brutale della guerra e la maniera in cui gli americani trattavano i vietnamiti (l'odio era esteso verso tutti i vietnamiti, poiché il nemico era fisicamente indistinguibile dall'alleato).
Si era ormai rotto il tacito patto consensuale tra media e potere politico e la perdita di fiducia nelle istituzioni aiutò l'emancipazione della televisione. I mass media, che in Vietnam godevano di ampia autonomia, all'inizio avevano come sempre accettato il linguaggio, le prospettive e l'agenda dell'establishment. Solo nel periodo anomalo 1968 - 1973 la televisione documenta la breccia aperta nel consenso americano, portando, secondo l'opinione di molti uomini dei media e dell'esercito, la verità crudele della guerra dentro le case delle famiglie americane in primo piano e a colori, causando la disillusione nei confronti delle istituzioni, il collasso morale della nazione e l'antimilitarismo dell'opinione pubblica. Per i conservatori si tratta di una guerra vinta sul campo e persa in salotto. Si devono però attenuare queste affermazioni: i commentatori televisivi si mostravano sgomenti per le perdite americane, le vite spezzate inutilmente; non veniva certo preso in considerazione il movimento pacifista e di critica radicale alle istituzioni. I corrispondenti non mettevano in dubbio l'opportunità dell'intervento americano, ma solo la sua efficacia, le eventuali critiche sono non per la politica, ma per la tattica americana e per il corrotto e inaffidabile Diem. Quasi tutti desideravano che l'America vincesse la guerra e solamente quando fu evidente che l'opposizione alla guerra era in aumento e che l'establishment stava tentennando, la televisione riprese anche i contrari alla guerra (ovvero i critici moderati parte dell'élite politica della capitale, mentre il 15 gennaio '69 non veniva trasmessa in diretta la maggiore manifestazione contro la guerra). Inoltre in televisione le scene di guerra appaiono irreali, si vedono inquadrati piccoli ometti, i telegiornali sono una selezione di tre minuti del totale delle riprese e questo segmento di scena non è più realistico di una scena di guerra di un film di Hollywood, nel quale il protagonista è il corrispondente e tutto finisce sicuramente bene.
Più che al potere sovversivo della televisione, la perdita del consenso sarebbe piuttosto da imputare alla campagna propagandistica nell'ambito delle relazioni pubbliche nel tentativo di fare accettare la versione ufficiale della guerra, che aveva lasciato totale libertà di movimento a qualsiasi corrispondente, fino al punto in cui fu impossibile per l'esercito controllare quella massa di inviati vaganti in tutta l'Indocina (nel '68, momento di maggiore audience, erano quasi 700). Tanto più decisiva fu questa mancanza di controllo, quanto il fatto che il Vietnam fosse una guerra senza un fronte ben definito, priva di un'immagine chiara del nemico sulla quale la nazione potesse concentrare il proprio odio, combattuta lontano dal suolo americano e perciò senza che fosse sentita la necessità di un sacrificio generale.
Si può pensare che con il '68 era scoppiata una critica vitale, dopo che il trauma nazionale per gli attentati a Kennedy e M.L. King aveva fatto cadere a pezzi un mondo comprensibile ed apparire i simboli di sicurezza contro la minaccia comunista (CIA, FBI) essi stessi una minaccia. I media americani non avevano del tutto abbandonato il ruolo di istituzione interna all'establishment, ma non potevano non segnalare l'ondeggiamento della politica estera americana, evidente con l'amministrazione Nixon che annuncia il progressivo disimpegno nel conflitto e intanto fa proseguire i bombardamenti intensivi. Per queste contraddizioni interne alle istituzioni politiche può trovare spazio un giornalismo critico, che causerà le dimissioni di Nixon in seguito alle rivelazioni dello scandalo Watergate. Nel giugno '71 il "New York Times" aveva pubblicato i Pentagon Papers (le carte segrete del Dipartimento della Difesa, comprensive degli inganni durante l'impegno militare in Vietnam) e la consapevolezza del pericolo rappresentato dall'ingerenza militare sulla vita civile e nel condizionamento dell'opinione pubblica [16] raggiunge il centro del sistema politico: nel marzo '72 viene istituita una Commissione d'inchiesta del Senato, presieduta da Fulbright, sulle attività di relazioni pubbliche del Pentagono ("The Pentagon Propaganda Machine", secondo il titolo del libro dello stesso sen. Fulbright).
A fianco dei casi dell'emergente giornalismo critico, in generale l'informazione continua a replicare le fonti ufficiali. Dopo la presa di coscienza nazionale esplosa con My Lai che la guerra non fosse più una giusta causa e che si stesse pagando un prezzo troppo alto, i mass media pensano e scrivono che la guerra sia praticamente finita e le dedicano sempre meno spazio e tempo (inizia a scendere progressivamente anche il numero degli accreditati ufficiali). Il progressivo ritiro delle truppe americane e il conseguente disinteresse dei lettori rende il 1971, anno dei maggiori danni in Indocina per l'aumento esponenziale delle incursioni aeree (bombardati Vietnam, Laos e Cambogia) il periodo meno seguito dai mezzi di informazione, in conformità agli interessi delle autorità militari di indurre l'opinione pubblica all'apatia nei confronti della guerra e all'oscuro dell'escalation dei bombardamenti (il totale delle bombe sganciate sull'Indocina è di circa 4 milioni di tonnellate, pari per potenziale distruttivo a centinaia di Hiroshima). I giornali continuano a denunciare le condizioni dell'esercito americano, pubblicando storie di abusi di droga, di assassini di ufficiali non graditi, ma per quanto critiche queste sono pur sempre cronache giorno per giorno; pochi corrispondenti hanno dimostrato una percezione della dimensione storica degli avvenimenti, pochi hanno investigato insoddisfatti delle versioni ufficiali, pochi hanno fornito analisi di insieme.
Cap. III - L'informazione prima della guerra del Golfo: l'onnipresenza globale della televisione e le nuove guerre invisibili
Dalla fine degli anni '70, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche applicate agli armamenti, si afferma un concetto di guerra come sistema di informazione, comando e controllo. Già nel Vietnam la Divisione Jasons (formata da un gruppo di esperti e scienziati) aveva sperimentato le prime applicazioni dell'elettronica e dei sensori per la localizzazione dell'avversario [17]. La ricerca scientifica su queste tecnologie per scopi militari dà l'avvio a grandi cambiamenti nel settore delle telecomunicazioni. Negli anni '70 si verificano le prime controversie diplomatiche sulla regolazione dei satelliti a diffusione diretta, il cui carattere transnazionale rende difficile l'esercizio della sovranità nazionale formalizzato in una legge coercitiva. Godendo del monopolio di fatto sulla tecnologia satellitare, gli Stati Uniti invocano il principio del libero flusso delle informazioni e quello del "primo arrivato primo servito" [18].
Dagli anni '80 l'uso frequente della tecnologia satellitare per le trasmissioni televisive permette la comunicazione in tempo reale in tutto il pianeta. I satelliti diventano strumenti di diffusione sovranazionale, la dimensione enorme del pubblico potenziale fa sviluppare televisioni per target, settori e argomenti precisi. Il 1 giugno 1980 è la data della prima trasmissione della CNN [19], canale tematico di sole news, che diventerà pioniere e leader (per diffusione e audience) di questo settore, diffondendosi via satellite in tutto il mondo, all'inizio grazie a un accordo con multinazionali alberghiere. Nel 1988 la CNN ha quasi 50 milioni di utenze negli Stati Uniti (più della metà di tutte le utenze), nel 1992 salite a 120 milioni. Il motto del network è "dovunque accade qualcosa, e prima ancora!"
Con la CNN la notizia sta accadendo nel momento stesso in cui si ascolta; questa contemporaneità delle notizie rispetto ai fatti fa sì che la televisione satellitare diventi uno strumento della diplomazia internazionale [20] (quando gli Stati Uniti invadono Panama, Mosca ha protestato chiamando il corrispondente della CNN!). Per il portavoce della Casa Bianca Fitzwater "la CNN ha inaugurato un nuovo metodo di comunicazione tra i governi che permette immediatezza e franchezza"; grazie al satellite, infatti, l'utilizzo governativo della televisione può ora estendersi oltre i confini, è possibile trasmettere direttamente le proprie posizioni ufficiali in tutto il mondo. Diplomatici, politici e militari seguono la CNN. L'ex presidente Carter, osservatore ufficiale alle elezioni di Panama (1989) assiste direttamente a disordini scoppiati nelle strade; per capire cosa stesse accadendo, va in albergo e si sintonizza sulla CNN. La CNN diventa l'immagine dell'informazione contemporanea, anche rispetto all'effettivo ascolto; è come se fosse un'agenzia di stampa in tempo reale che fornisce immagini invece di parole. Di fronte a questo nuovo tipo di informazione planetaria, ci si domanda se esso porti a nuove forme di colonizzazione culturale americana [21]. Ricordiamo che al tempo della guerra del Golfo l'80% del flusso di notizie di tutto il mondo è controllato da 4 grandi agenzie occidentali (Associated Press, United Press International, Agence France Press, Reuter) e l'informazione estera dei Paesi in via di sviluppo è dipendente per le immagini dalle agenzie Visnews, World Television News, CBS News International e CNN [22].
La media diplomacy viene utilizzata consapevolmente sotto la presidenza Reagan, durante la quale si sviluppano tecniche di marketing politico e un uso costante dei media come canale di comunicazione politica. Per Janka, addetto stampa prima di Nixon e poi dello stesso Reagan, gli anni di Reagan videro una manipolazione dell'informazione attraverso l'inondazione [23]. Deaver, il coordinatore della comunicazione dello staff presidenziale, progetta eventi e azioni capaci di attirare i media, programmati come grandi produzioni cinematografiche. Esempi sono le "photo opportunities" (cioè fotografare Reagan in atteggiamenti "spontanei"), la "storia del giorno" (notizia già confezionata per l'uso immediato giornalistico), la "frase del giorno" (lo stesso concetto sviluppato contemporaneamente in diversi luoghi da vari uomini politici, amministratori locali, personaggi pubblici, in modo da avere visibilità sui media intorno a quella determinata tematica).
Caso da manuale di media diplomacy e di politica spettacolo sono i vertici USA - URSS (da quello di Ginevra del 1985 a quello di Malta, 1989) [24]: il mondo guarda i due leader che assumono la parte degli eroi positivi del disarmo e della pace, protagonisti di una recita collettiva che attira le speranze di tutto il pianeta. Anche il sovietico Gorbacev sa utilizzare la media diplomacy, dichiara ad effetto il disarmo unilaterale (a New York, in casa del nemico) e si rivolge direttamente agli americani come un amico, interessato come loro alla pace (scrive su questo tema un volume a puntate, pubblicato sul "Washington Post"). Al di là dei risultati concreti sul piano politico e diplomatico raggiunti nei singoli vertici, conta l'atmosfera amplificata dai media delle strette di mano, delle espressioni facciali, dei colloqui privati, dell'amicizia tra le rispettive mogli. Si realizzano le intuizioni di McLuhan, nel villaggio tribale su scala planetaria in assenza di contenuto è il contenitore (televisivo) stesso che può farsi contenuto, il medium diventa il messaggio [25].
Per questi vertici è utile la ricerca sociologica di Dayan e Katz sui "media events" [26], definiti come quegli eventi storici, soprattutto avvenimenti di stato, trasmessi in diretta e che destano l'attenzione di un'intera società. I media events sono narrati impiagando il potenziale specifico dei media elettronici, in modo da dirigere l'attenzione al racconto di una storia eccezionale, che spezza la routine delle vite dei singoli e dei palinsesti televisivi, storia che diventa archetipo dell'attualità. Essi hanno un carattere di cerimonia, celebrano l'ordine e la condivisione di valori di una società intorno a figure eroiche, ricordando a quella società ciò che essa aspira ad essere piuttosto che ciò che realmente è. La televisione partecipa alla funzione cerimoniale e mette in esecuzione il significato dell'evento, non limitandosi a narrarlo ma realizzandolo effettivamente. Accettando di diffondere l'evento la tv accetta una missione apostolica e rende pubblica la propria condivisione ai valori e agli obiettivi delle istituzioni organizzatrici. Questi rituali moderni possiedono una coerenza narrativa simile alle opere di fiction, che ha poco a che fare con l'aspirazione all'obiettività del giornalista, trasformato da osservatore imparziale in figura sacerdotale, egli stesso partecipante alla cerimonia.
Non tutto funziona, comunque, nella spettacolarità della storia in diretta, nella pretesa obiettività di un occhio neutralmente testimone. Nell'immediatezza della diretta televisiva, si può perdere la distinzione giornalistica tra fatti e notizie, tra realtà e racconto. L'operazione "Restore Hope" in Somalia [27] (nel dicembre '92, causata anche dalle immagini televisive dei morti per fame) vede lo sbarco dei marines in assetto da guerra sulla spiaggia somala già occupata da cameraman e fotoreporter. La storia in diretta diventa allora l'autorappresentazione dei media, che filmano una storia che diventa spettacolo, evento costruito appositamente per i media, ottenendo un estraniante effetto di irrealtà. La rivoluzione romena del dicembre '89 trasmessa in diretta (persino le riunioni del Comitato Rivoluzionario), crea un vero e proprio deragliamento dell'informazione [28], durante il quale la notizia dei massacri compiuti dalla polizia di Ceausescu, certificata dall'autorità delle immagini via satellite, acriticamente amplificata dalla stampa, si rivelerà una clamorosa montatura. Un mese dopo i giornali smentiranno quanto scritto e le fosse comuni piene di morti ammazzati recanti segni di tortura, le decine di migliaia di uccisi e feriti, si ridimensionano in scontri violenti tra manifestanti e polizia che causarono qualche decina di morti. Ma nella coscienza dell'opinione pubblica resta la smentita scritta in articoli di pagine interne, o la forza emotiva delle immagini in diretta dalla storia?
Negli anni '80 il confronto più diretto tra media e politica segna la volontà di ridurre l'informazione giornalistica a canale interno della comunicazione politica e, nel caso di guerra, di escluderla. La guerra delle Falklands-Malvine [29] (1982) è la prima guerra invisibile al tempo della civiltà televisiva dell'immagine. Sono accreditati a partire con la flotta soltanto 29 tra corrispondenti e tecnici (tutti britannici), che subiscono una doppia censura (gli articoli sono controllati prima della trasmissione e, all'arrivo a Londra, dal Ministero della Difesa) e si trovano impossibilitati fisicamente a vedere il conflitto, situazione che causa dipendenza dai portavoce del governo, diventati l'unica fonte. Altrettanto invisibili sono l'attacco americano a Grenada (1983) e l'invasione di Panama (1989) [30], avvenuti in assenza di giornalisti e che non destano grande interesse nei media, proprio nel momento in cui hanno la massima pubblicità rispettivamente l'intifada palestinese e la rivoluzione romena.
Questo embargo dell'informazione è possibile anche per la nuova natura delle guerre, che sono limitate e dove la forza aerea è usata per interventi rapidi e di estrema precisione, resi possibili per la raccolta di informazioni dai centri di comando del nemico [31]. Già con la guerra delle Falklands-Malvine (1982) e poi con il raid sulla Libia (1986) assistiamo alla sperimentazione delle nuove tecnologie sviluppatesi nei decenni '70 - '80 (satelliti, raggi laser, fibre ottiche, optronica, informatica, telematica, avionica), sviluppo che dà vita a una nuova generazione di sistemi d'arma centrati non solo sulla potenza, ma sulla qualità (le smart weapons). Esempi sono i satelliti militari che riprendono immagini (durante la guerra del Golfo gli USA avranno 6 satelliti operanti sulla zona); gli aerei spia che possono volare senza pilota a bassissima quota; i clandestini (stealth), aerei invisibili con un'aerodinamica studiata per disperdere l'energia del radar; i sistemi capaci di elaborare autonomamente i dati immagazzinati o dotati di guida automatica (i missili a guida televisiva e a infrarossi che possono colpire obiettivi remoti).
di Mirko Nozzi
Fonte: http://www.giornalismi.info/aldovincent/docs/60.doc
LA GUERRA DEL VIETNAM
Il conflitto in Vietnam è sicuramente fra le guerre che hanno seguito il secondo conflitto mondiale una delle più discusse e problematiche. Fu una guerra polarizzata dall'attenzione mediatica e per questo a lungo discussa e criticata in tutto il mondo, un passaggio sanguinoso dal colonialismo europeo ad una nuova forma di controllo politico: il neocolonialismo e l'influenza che le Superpotenze sovietica e statunitense cercavano di esercitare su gli altri Stati nel tentativo di spostare a proprio vantaggio i delicati equilibri della Guerra Fredda. Fu anche la guerra che costò agli Stati Uniti l'unica sconfitta di questo secolo ed è stata percepita per anni come uno "sbaglio madornale" all'interno dell'opinione pubblica americana e mondiale.
La cronologia della Guerra in Vietnam, le tappe, anno per anno che hanno portato dalla crisi coloniale in Indocina alla sconfitta americana.
La Guerra Fredda, la difficile situazione di equilibrio fra le due Superpotenze come premessa indispensabile per capire il conflitto.
La Guerra d'Indocina: la crisi coloniale del Sudest asiatico e le premesse della guerra in Vietnam.
La rivolta antifrancese in Vietnam
La guerriglia del Vietminh
Dien Bien Phu
La conferenza di pace a Ginevra
Un riassunto dettagliato degli eventi bellici.
Gli Stati Uniti nel Vietnam
Dai bombardamenti all'offensiva del Tet
Verso la liberazione
I commenti e le opinioni di alcuni noti giornalisti e scrittori sul conflitto.
VIETNAM, LA SCONFITTA AMERICANA di Ennio Caretto
I MORTI INUTILI:di Luca Goldoni
La storia del conflitto testimoniata attraverso alcuni articoli del Corriere della Sera.
3 agosto 1964 : ATTACCO NEL GOLFO DEL TONCHINO
16 novembre 1969 WASHINGTON PARALIZZATA DAI MANIFESTANTI di Franco Occhiuzzi
24 gennaio 1973 LA PACE NEL VIETNAM
30 marzo 1975 L'AMERICA LASCIA IL VIETNAM di Ugo Stille
La cronologia della Guerra in Vietnam, le tappe, anno per anno che hanno portato dalla crisi coloniale in Indocina alla sconfitta americana.
1955 |
In seguito alla guerra di Indocina, abolizione della monarchia del V. del Sud e proclamazione di una repubblica presidenziale con a capo Ngo Dinh Diem, che instaura una dittatura appoggiata dagli USA. Nel Nord Ho Chi Minh ristabilisce la repubblica democratica di ispirazione comunista, con capitale Hanoi |
1957 |
Inizio della lotta armata fra l'esercito regolare del V. del Sud, sostenuto dagli USA, e i guerriglieri filocomunisti sudvietnamiti (vietcong) appoggiati dal V. del Nord |
1960 |
Costituzione del Fronte Nazionale di Liberazione del V. del Sud, sostenuto dal V. del Nord, dalla Cina e dall'URSS |
1962 |
Il presidente americano J.F. Kennedy aumenta l'impegno militare nel V. |
1963 |
Colpo di stato nel V. del Sud: Ngo Dinh Diem è sostituito da una giunta militare |
1964 |
Gli USA inviano in V. un forte corpo di spedizione: iniziano i bombardamenti aerei sul V. del Nord |
1967 |
Intensificazione dei bombardamenti aerei statunitensi. A Saigon viene eletto capo dello Stato il generale Van Thieu |
1968 |
Offensiva vietcong e nordvietnamita del Tet: sospensione dei bombardamenti aerei sul V. del Nord e avvio a Parigi dei negoziati di pace |
1970-1971 |
Gli USA cercano di far subentrare alle forze statunitensi l'esercito sudvietnamita. Ai colloqui di Parigi partecipa il Governo Rivoluzionario Provvisorio (GRP) sorto nel Sud in opposizione a quello di Saigon |
1973 |
Firma a Parigi di un protocollo di pace che non pone fine alla guerra: intensificazione dei bombardamenti aerei |
1974-1975 |
Massiccia offensiva del GRP; crollo dell'esercito sudvietnamita, occupazione di Saigon (ribattezzata Città Ho Chi Minh) e definitiva liberazione del Paese |
1976 |
Proclamazione della Repubblica Socialista del V.con capitale Hanoi |
La guerra che ha portato il Vietnam all'indipendenza e all'unità sotto un governo comunista ha come antecedente il conflitto conosciuto come "guerra d'Indocina", che dura dal 1946 al 1954 e porta alla fine del dominio coloniale francese sul Vietnam, che è diviso in due stati V. del Nord e V. del Sud.
La questione vietnamita si è venuta a inserire nella guerra fredda e gli USA, per assicurarsi un baluardo nel sud-est asiatico e temendo un predominio sovietico, appoggiano la creazione (1955) di un governo anticomunista nel Sud, con a capo Ngo Dinh Diem. Dal 1957 si vede una guerriglia rurale, appoggiata dai paesi comunisti, combattere contro il governo del Sud. Quando dal 1960 i guerriglieri vietcong (ora coordinati nel Fronte di Liberazione Nazionale) diventano più pericolosi, gli USA decidono l'intervento diretto a sostegno dei sudvietnamiti per il timore che una vittoria comunista avrebbe comportato la perdita di tutta l'Asia sudorientale (teoria del "domino"). In un'escalation di violenza il numero di militari americani impegnati nel conflitto sale da poche centinaia di uomini a 15000 nel 1961, a 125000 nel 1965, oltre 400000 nel 1967, oltre 700000 dopo il 1968. Dal 1964 l'esercito statunitense bombarda intensamente il Vietnam del Nord per impedire ogni attività economica e ogni rifornimento ai Vietcong aiutati economicamente e militarmente dall'URSS, dalla Cina e da altri paesi comunisti.
Cresce intanto in tutto il mondo il dissenso nei confronti dell'intervento americano (da parte delle forze di sinistra, ma anche da parte delle socialdemocrazie europee e di settori del mondo cattolico, oltre che da paesi non allineati), ma soprattutto all'interno degli USA, dove per sostenere lo sforzo bellico è stata reintrodotta la coscrizione obbligatoria. L'offensiva nordvietnamita del Tet (capodanno buddista nel gennaio 1968) mette in evidenza la crisi del dispositivo bellico americano e gli insopportabili costi umani che una soluzione puramente militare avrebbe comportato.
Le proteste interne agli USA portano il presidente L.B.Johnson ad avviare trattative di pace a Parigi. Il suo successore R. Nixon pur inasprendo la guerra (estensione delle operazioni in Cambogia e Laos 1970; intensificazione dei bombardamenti sul V. del Nord) tenta di ridurre l'impatto interno attraverso una progressiva riduzione del contingente americano ("vietnamizzazione" del conflitto). Nonostante gli accordi di Parigi del 1973 i bombardamenti e le operazioni di guerra continuano. Nella primavera del 1975 il crollo dell'esercito sudvietnamita e l'occupazione di Saigon da parte dei nordvietnamiti pongono fine alla guerra: Nord e Sud sono riuniti nella Repubblica Socialista del Vietnam.
La Guerra Fredda, la difficile situazione di equilibrio fra le due Superpotenze come premessa indispensabile per capire il conflitto.
La seconda guerra mondiale, la più terribile per i combattimenti e gli altri scenari di morte che aveva diffuso ovunque e con particolare predilezione per il vecchio continente si era conclusa con la sconfitta nazifascista e il mondo finalmente sembrava tirare un sospiro di sollievo. La ricostruzione, però, non era facile, su centodieci milioni di persone mobilitate negli eserciti ne erano morte cinquanta milioni inclusi i civili, più della metà coinvolti nei bombardamenti a tappeto che, oltre a mietere vittime, avevano raso al suolo intere città con danni immensi.
I vincitori decisero di organizzarsi perché un simile errore non si ripetesse più in futuro, così nel 1945 veniva costituita l'ONU, la quale avrebbe dovuto mantenere la pace nel pianeta, come la precedente Società delle Nazioni. La neonata organizzazione aveva però più forza e stabilità della precedente grazie ad un Consiglio di Sicurezza in cui buona parte del potere è ancor oggi detenuta dagli "alleati".
L'unione di intenti fra gli occidentali e i socialisti russi verificatisi per sconfiggere il comune nemico nazista non poteva durare a lungo, così a partire dai trattati di Jalta e poi con la conferenza di Parigi, si presero una serie di decisioni destinate a mutare l'assetto politico ed economico del nostro continente.
In questo modo, mentre l'Italia perdeva i territori dell'Istria e la Russia allargava i confini verso ovest (con l'annessione delle repubbliche baltiche e di alcuni territori polacchi), si decideva la provvisoria divisione della Germania. Si crearono così due repubbliche: una filoccidentale e l'altra filosovietica.
La spartizione della Germania non era altro che il primo atto che portò, in seguito, alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti guidati da USA e URSS, a ovest un'area d'influenza statunitense e ad est un'altra sotto quella russa. Questa situazione si sarebbe potuta evitare se la collaborazione attuata dalle potenze vincitrici durante il conflitto fosse proseguita anche dopo la sua conclusione, ma ciò non avvenne. Così ogni tentativo di giungere ad un accordo sul trattato di pace con la Germania fu vano e la nazione rimase divisa. La Germania divisa si presentava come il simbolo più drammatico delle lacerazioni della "guerra fredda" e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti.
Questa nuova situazione portò diversi sconvolgimenti anche sociali, si verificarono infatti grandi spostamenti di popolazione, in particolare da territori passati ad altre occupazioni verso la patria di origine oppure verso occidente, alla ricerca di un migliore tenore di vita. Da questa parte d'Europa si tentava la rinascita su nuove basi economiche e politiche, per questo intento già nel 1957 sei paesi (Italia, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Belgio, RFT) con i trattai di Roma si strinsero nella Comunità Economica Europea (CEE). Di fatto con il rilancio economico l'Europa occidentale si allontanava notevolmente dall'Europa dell'est, una cortina di ferro, fatta di frontiere, muri di filo spinato, ma anche di differenze politiche, economiche e sociali, divideva il nostro continente.
L'opposizione dei due blocchi portò ad un conflitto indiretto di tipo politico e diplomatico, chiamato per questo guerra fredda. Le sua ragioni, cioè quelle della rottura fra le forze che avevano combattuto il comune nemico nazifascista, sono da ricercare negli orientamenti politici americani, che dopo la morte di Roosvelt portarono alla Casa Bianca Truman. Questa amministrazione alimentava, infatti, all'interno una disperata campagna anticomunista e aggravava la situazione con un progressivo irrigidimento verso l'Unione Sovietica. Particolare fu la repressione nei confronti degli oppositori politici; nel blocco orientale al culto della persona di Stalin si accompagnarono uccisioni ed emarginazione nei confronti di chi era avverso al regime (spesso essi venivano segregati in campi di concentramento della fredda Siberia, i gulag). Anche nel blocco occidentale ed in particolare negli USA chi era dichiaratamente comunista era considerato antiamericano, emarginato ed addirittura privato del lavoro, segno dell'assurda psicosi che stava ossessionando il mondo.
A questo confronto i due blocchi si presentano con conformazione e strategie diverse; gli americani mirano ad egemonizzare l'intero pianeta dal punto di vista economico (fenomeno del neocolonialismo) grazie al loro immenso potenziale produttivo a cui corrispondono le immense necessità di un mondo devastato dalla guerra, tentando il superamento della logica delle aree politico-economiche chiuse. Il blocco sovietico invece propone un'egemonia politico militare su un'area geografica definita e almeno all'inizio non è dotato del respiro planetario che anima gli USA. Le caratteristiche che accomunano i due imperi sono l'immensa capacità distruttiva (disponendo entrambi di armamento nucleare ed essendo quindi in grado di distruggersi a vicenda) e la politica interna di ciascuno dei due basata sulla minaccia rappresentata dall'avversario.
Esperimento di laboratorio sulla bomba H. |
L'aspetto militare, purché celato, era considerevole, in quanto si verificò una vera e propria corsa agli armamenti. Le due superpotenze potenziarono, sostenendo enormi costi, i propri arsenali; venne realizzata la bomba H, all'idrogeno, mille volte più potente delle prime atomiche, si costruirono diversi tipi di missili capaci di contrastare ogni attacco, le nuove tecnologie si applicarono a potentissimi mezzi aerei e marini. Tranne in pochi casi (come la guerra in Corea o in Vietnam), non si arrivò ad una guerra aperta perché la pace si reggeva sulla paura di un conflitto che coinvolgendo due enormi arsenali a base nucleare, avrebbe distrutto il mondo; questo era definito equilibrio del terrore.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta le grandi potenze rivedono la loro politica estera. L'economia statunitense espande la sua influenza attraverso le grandi multinazionali, mentre l'Europa e il Giappone sono in forte crescita; nel "blocco orientale" invece vi è tensione per la frattura politica ed ideologica fra URSS e Cina.
In questa delicata situazione diventa sempre più difficile una politica di rigida opposizione dei due blocchi e se ne sviluppa una più articolata che tenga conto non solo delle due superpotenze, ma anche dell'autonomia degli altri paesi.
Il sistema di relazioni internazionali è così definito da una situazione di "coesistenza pacifica", che indica un nuovo atteggiamento di USA e URSS verso lo sviluppo di un arsenale più flessibile, capace di ridurre le potenzialità di una guerra distruttiva e al tempo stesso di accrescere le rispettiva capacità di egemonia anche su aree che intendevano preservare una posizione politica di neutralità.
Tuttavia l'idea di "coesistenza pacifica" non indica un superamento della divisione del mondo in due blocchi, bensì sottolinea il carattere duraturo di questa divisione e l'atteggiamento di rinuncia delle sue superpotenze ad una vittoria politica o militare definitiva.
Si costituiscono in questo modo diversi piani di convergenza: un principio di accordo sulla riduzione degli armamenti e sull'arresto della proliferazione nucleare in altri paesi, una crescente possibilità di scambi economici e commerciali fra i due blocchi e ultimo, ma non meno importante una definitiva accettazione da parte di ciascuna superpotenza del pieno potere dell'avversario nella sua area. Ne sono esempi la mancata reazione dell'URSS all'invasione di Santo Domingo (1965) e all'analogo atteggiamento degli USA alla repressione in Cecoslovacchia (1968).
Questo tuttavia non pose un freno, anzi stimolò la concorrenza che si manifesto sul piano tecnologico nella corsa allo spazio. Sul piano politico-militare la concorrenza si manifestò attraverso un allargamento dell'arsenale di strumenti utilizzato da entrambe le superpotenze per affermare o rafforzare la propria egemonia nelle diverse aree del mondo. Un arsenale "flessibile" per un contesto internazionale più complesso e movimentato che in passato.
In questo quadro di coesistenza-concorrenza ha luogo il principale evento bellico e politico del periodo: la guerra del Vietnam; una guerra locale che si protrarrà a lungo coinvolgendo a pieno gli USA e indirettamente, ma in modo consistente l'URSS senza modificare gli equilibri globali.
La Guerra d'Indocina: la crisi coloniale del Sudest asiatico e le premesse della guerra in Vietnam.
La rivolta antifrancese in Vietnam
Negli stessi anni in cui si combatteva la guerra di Corea, un'altra regione dell'estremo oriente asiatico, il Vietnam, era attraversata da un conflitto di dimensioni sempre più ampie, che contrapponeva le forze nazionalcomuniste del Vietminh (Lega per l'indipendenza del Vietnam) a quelle della potenza coloniale francese.
L'origine delle tensioni risaliva al 1945. Il Vietnam è una lunga striscia di terra affacciata sul Mar Cinese Meridionale, tradizionalmente divisa nei regni di Cocincina a sud , dell'Amman al centro e del Tonchino a nord: le due aree pianeggianti del delta del fiume Rosso, a nord, e del delta del Mekong, a sud, sono le sedi dei maggiori centri abitati. Nel corso del XIX secolo la Francia aveva conquistato la regione e l'aveva ridotta ad una colonia, unita al Laos e alla Cambogia nella Federazione dell'Indocina francese.
Già nei primi decenni di questo secolo il Vietnam erano sorti diversi gruppi nazionalisti che si dibattevano per la liberazione del Paese dal dominio coloniale, ma l'impulso decisivo alla lotta doveva venire dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale. Le sconfitte subite dalla Francia in Europa aveva avuto come contraccolpo l'isolamento delle colonie e i Giapponesi si erano potuti insediare facilmente in Indocina pur mantenendo l'amministrazione dei funzionari francesi. A questo periodo risale l'unione di diversi gruppi nazionalisti locali nel Vietminh, movimento che riuscì a colmare il vuoto di potere creatosi nel 1945 in seguito alla sconfitta giapponese. Il movimento guidato da Ho Chi Min aveva proclamato il 2 settembre di quell'anno la Repubblica Democratica del Vietnam, controllando il nord del Paese e chiamando contemporaneamente il sud del Paese all'insurrezione coloniale. Questa iniziativa si era scontrata con l'iniziativa delle grandi potenze internazionali, decise a ridisegnare i confini del mondo senza tenere conto dei movimenti di liberazione nazionale. Per il Vietnam nel luglio 1945 alla conferenza di Postdam era stato approvato un piano che stabiliva l'occupazione cinese nel nord del Paese e il progressivo sostituirsi dei francesi alle truppe britanniche nel sud.
Il quadro si era fatto così estremamente confuso e complesso: il governo di Ho Chi Min che al nord doveva convivere con l'occupazione cinese, e che al sud fomentava una guerriglia anti-francese, stretto fra due opposte minacce e trovatosi di fronte al rifiuto di aiuti sia da parte americana che russa, non poté fare a meno di optare per una trattativa con i francesi, che garantisse il riconoscimento al suo governo nelle regioni settentrionali (pur con i vincoli di un protettorato) e portasse contestualmente al ritiro delle truppe cinesi. La scelta non mancava di realismo politico: l'occupazione cinese avrebbe significato presto o tardi l'annessione diretta a Pechino, chiudendo ogni possibile strada all'indipendenza; la presenza francese avrebbe invece costituito un male transitorio, destinato a concludersi con il prossimo e ineluttabile crollo degli imperi coloniali europei.
Le aperture di Ho Chi Min avevano trovato consenso sia nell'ambiente politico francese, consapevole delle difficoltà militari insite in una guerra combattuta nella giungla vietnamita, sia in ambito cinese; la Cina nazionalista di Ciang Kai-Shek aveva ben altre difficoltà per la guerra civile contro Mao Zedong e avrebbe rinunciato all'occupazione del Vietnam in cambio di alcune concessioni dei francesi sul controllo di alcuni porti cinesi. Si giunse così ad un accordo siglato a Parigi nel 1946 in cui in seguito al ritiro cinese i francesi riconoscevano il governo di Ho Chi Min, ottenendo in cambio varie prerogative economiche e l'invio di venticinquemila soldati nel Tonchino per i cinque anni successivi.
La fragilità dell'accordo era implicita nella stessa formulazione, che prendeva un'ambigua commistione di indipendenza nazionale, di divisione artificiosa del Paese e di presenza straniera, ma, ancor più era condizionata dai problemi interni della Quarta Repubblica Francese.
Ho Chi Min |
La precaria situazione politica della Francia aveva portato ad una continua oscillazione fra la fermezza e il negoziato nei rapporti politici internazionali, specie con i territori dell'impero coloniale in disgregazione; subito in seguito agli accordi in seguito all'insediamento di un governo di centrodestra erano stati riproposti i temi della grandeur e della mission civilisatrice con conseguenti tensioni. In questa atmosfera tesa, la notizia di uno scontro fra soldati del Vietnam e una guarnigione francese avvenuto il 18 novembre scatenava la reazione militare: il 23 successivo il porto di Haiphong, a pochi chilometri da Hanoi veniva bombardato causando oltre 6000 vittime tra i civili.
Le truppe corazzate e le unità di fanteria puntarono quindi sulla capitale, ingaggiando una battaglia casa per casa che durò per tutto il mese di dicembre. All'inizio del 1947 il Vietminh era costretto a ritirarsi sulle montagne del nord-est e nelle paludi a sud del fiume Rosso, dove continuarono l'esperienza della Repubblica democratica.
Per assicurare un assetto del territorio che garantisse insieme il potere della madrepatria e il consenso dei nazionalisti più moderati la Francia creò due regimi satelliti: la Repubblica di Cocincina con a capo Nguyen Van Xuan (un vietnamita filofrancese) e il Vietnam vero e proprio guidato dall'imperatore Bao Dai, discendente debole e corruttibile di un'antica dinastia locale.
Parigi riconosceva formalmente ai due stati l'indipendenza e prometteva una prossima unificazione, ma continuava a tenere il controllo dell'esercito, delle finanze, della politica estera.
Il vero interlocutore dei francesi il Vietminh aveva così buon gioco a marchiare Xuan e Bao Dai come "burattini" e a delegittimare i loro governi collaborazionisti (la cui inefficienza e corruzione, d'altra parte, alienava di per sé il favore popolare). il futuro del Vietnam non poteva essere legato alle astuzie diplomatiche di una potenza coloniale in declino, ma passava attraverso una lunga guerra di liberazione nazionale, per la quale Ho Chi Min e Giap capo dell'esercito ribelle preparava le proprie basi nel Tonchino settentrionale.
La guerriglia del Vietminh
Di fronte alla crisi indocinese gli USA avevano sempre mantenuto un atteggiamento neutrale mutato solo in seguito alla Guerra in Corea. In seguito al loro intervento in Oriente gli americani avevano rivisto la loro politica nell'area, anche il seguito al supporto che URSS e Cina avevano fornito ai guerriglieri del Vietminh incominciando a fornire aiuti logistici a militari alle truppe francesi. Queste era vittime di sporadici attacchi della guerriglia nazionalista, che forte dell'appoggio materiale e morale e della conoscenza del territorio, stava fondando le basi per un'offensiva di più ampio respiro.
Nel settembre 1950 Giap attacca e conquista le postazioni francesi al confine cinesi, assicurandosi una migliore via per i rifornimenti e spinge l'offensiva verso i maggiori centri abitati (1951), strenuamente difesi dalle truppe di Jean de Lattre de Tassigny, fautore di una resistente linea di difesa sul delta del fiume Rosso intorno ad Hanoi. Più successo ha l'offensiva dei ribelli nel Laos dove le truppe francesi, colte impreparate vengono sconfitte (1952-1953).
Il generale Henri Navarre, dal maggio 1953 nuovo comandante delle forze francesi in Indocina, decideva allora per un'azione a vasto raggio, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto rivelarsi risolutiva. L'iniziativa militare era sollecitata dall'opinione pubblica francese in seguito ai 90 000 caduti e a nuovi tensioni in Algeria.
La strategia del generale Navarre era ambiziosa. Egli decideva infatti di sfruttare il dominio incontrastato del cielo per organizzare un grande centro di resistenza che avrebbe dovuto bloccare le iniziative del Vietminh sul confine del Laos e permettere incursioni nelle retrovie nemiche: la zona prescelta era la località di Dien Bien Phu, nella vallata del fiume Nam Hou (Tonchino nordoccidentale), a quasi 300 chilometri da Hanoi. Quando la località fosse stata opportunamente attrezzata, Navarre avrebbe fatto partire un attacco simultaneo da Dien Bien Phu, a nord, e dal delta del fiume Rosso, a sud, per imbottigliare le forze della guerriglia e sgominarle.
Dien Bien Phu
Il 20 novembre i primi paracadutisti venivano lanciati a Dien Bien Phu, subito seguiti da altre unità mobili del corpo di spedizione: dopo aver rastrellato la zona e potenziato due campi di atterraggio esistenti perché potessero ricevere i C-47 da trasporto, i francesi trasformavano la posizione in un campo fortificato con reticolati, campi minati, ricoveri di ogni tipo. Nel gennaio successivo la valle era coperta da una serie di capisaldi ugualmente fortificati: in tutto, Dien Bien Phu ospitava circa 12.000 soldati, datati di numerosi pezzi di artiglieria, carri armati leggeri e alcuni cacciabombardieri. Sulla carta, si trattava di una forza formidabile: in realtà l'ottimismo dei francesi cozzava con la distanza delle basi di rifornimento (totalmente dipendenti dal trasporto aereo) e con l'impossibilità di controllare adeguatamente le colline sovrastanti la pianura. Ma soprattutto il generale Navarre non aveva tenuto in debito conto il carattere di "guerra di popolo" del conflitto indocinese. Giap, che dallo studio dell'esperienza cinese aveva ricavato l'indicazione strategica di concentrare le proprie forze contro un solo settore del dispositivo militare avversario, lasciava pressoché sguarnita la zona del delta per ammassare a Dien Bien Phu oltre 50.000 uomini. Il dispiegamento di queste forze nelle colline che sovrastavano le fortificazioni francesi avveniva attraverso un complesso sistema di gallerie e di trincee scavate con pale e picconi dai guerriglieri dalla popolazione civile: si trattava di un lavoro capillare e metodico, diventato l'emblema stesso della "guerra di popolo" vietnamita, che permetteva all'esercito guerrigliero di spostare uomini armati e artiglierie senza che il nemico percepisse le dimensioni esatte di quanto stava accadendo.
Il 13 marzo 1954, dopo tre mesi impiegati a completare lo spiegamento, i guerriglieri del Vietminh passavano dall'assedio all'assalto: mentre gli obici nascosti nella boscaglia colpivano le piste dei due aeroporti, impedendo l'arrivo di rinforzi e isolando la guarnigione, gli uomini di Giap stringevano all'interno del campo i francesi, avvicinandosi attraverso le gallerie e portando sempre più aventi i loro pezzi di artiglieria.
Mentre il crollo militare a Dien Bien Phu si faceva imminente, altri focolai di guerriglia si sviluppavano nell'Indocina francese, guidati da movimenti di ispirazione comunista e appoggiati dal Vietminh: nel Laos il Patet Lao e in Cambogia i liberi Khmer. Di fronte alla prospettiva di una completa resa politica e militare Parigi cercava di ottenere l'intervento americano e chiedeva a Washington incursioni aeree notturne contro il perimetro Vietminh, condotti con i bombardieri dislocati nelle basi delle Filippine. Gli USA, che pochi mesi prima avevano concluso la guerra di Corea con una soluzione diplomatica, erano però perplessi di fronte ad un nuovo intervento militare, tanto più che la Cina avrebbe potuto intervenire a sostegno del Vietminh, come aveva fatto la Corea del Nord, riproponendo il rischio di una generalizzazione del conflitto. Ancor più freddi si dimostravano gli inglesi, per i quali il problema indocinese doveva essere risolto in una conferenza di pace.
Senza il sostegno dell'aviazione americana, il destino dei francesi era segnato: mentre la diplomazia internazionale convocava a Ginevra un'apposita conferenza sull'Indocina, a fine aprile Giap ordinava l'attacco finale e nel pomeriggio del 7 maggio la bandiera rossa del Vietminh veniva issata sul bunker di Dien Bien Phur, nel quale si trovava il comando francese. In tre mesi di battaglia, i francesi avevano perso oltre 7.000 uomini e il Vietminh 20.000.
La conferenza di pace a Ginevra
Lo stesso giorno in cui Giap con una sapiente regia, conquistava Dien Bien Phu, si incontravano a Ginevra le delegazioni di nove Paesi: erano presenti le cinque maggiori potenze (Francia, Gran Bretagna, Cina, Stati Uniti, Unione Sovietica), il Laos, la Cambogia, e i rappresentanti del Vietminh e del regime di Bao Dai.
Come per la Corea, le trattative procedevano con lentezza e infruttuose, mentre la guerra continuava e i guerriglieri conquistavano nuove posizioni avanzando verso il sud del Vietnam. La svolta si aveva a metà luglio, dopo che a Parigi era diventato primo ministro Pierre Mendès-France, uno dei più convinti assertori di una soluzione diplomatica della crisi. Il premier francese trovava un'intesa con il capo delegazione e ministro degli Esteri cinese, Ciu En Lai aveva tre obiettivi precisi: in primo luogo trovare un accordo che togliesse ogni pretesto di intervenire in Cina; in secondo luogo, frammentare il Sudest asiatico in modo da influenzare la vita dei singoli Sati, secondo una tradizione consolidata della politica estera di Pechino; in terzo luogo, dimostrare moderazione nel sostegno al Vietminh, legittimando il governo comunista cinese agli occhi dell'India, dell'Indonesia e degli altri Paesi non allineati dell'Asia. Per Mendès-France, invece, si trattava di giungere a una conclusione nei tempi più stretti possibili: qualsiasi concessione egli avesse ottenuto, sarebbe stato comunque un passo avanti rispetto agli insuccessi dei militari. Gli USA da parte loro, erano reduci dell'esperienza della Corea e, pur temendo la prospettiva di un'Indocina prossima preda del comunismo, erano favorevoli ad una situazione transitoria che limitasse i danni.
Gli incontri per la pace |
In questo quadro, maturava la decisione di dividere il Vietnam in due stati, fissando la linea di confine sul 17° parallelo: il Vietminh avrebbe governato la parte settentrionale, mentre nella parte meridionale sarebbe rimasto al potere il regime di Bao Dai e del suo nuovo primo ministro, Ngo Dinh Diem. Entro due anni una consultazione elettorale avrebbe deciso il destino dei due Paesi.
L'accordo deludeva sia il Vietminh, che nel negoziato guadagnava meno di quanto avesse conquistato in combattimento, sia il regime di Bao Dai, che guardava con preoccupazione al disimpegno francese, ma la logica delle grandi potenze aveva la forza dei condizionamenti politici e militari. Il 12 luglio 1954, dopo nove anni di guerra e la morte di 400.000 tra militari e civili, si arrivava alla firma del cessate il fuoco e al nuovo assetto dell'intera regione: Vietnam del nord (con capitale Hanoi), Vietnam del sud (con capitale Saigon), Laos e Cambogia erano riconosciuti Stati indipendenti e sovrani e il dominio coloniale francese in Indocina aveva ufficialmente termine.
Gli insegnamenti del conflitto erano chiari. In primo luogo, l'epoca del colonialismo era tramontata e le potenze europee non potevano conservare i propri domini d'oltremare. In secondo luogo i regimi collaborazionisti, affidati ad una classe dirigente corrotta ed inefficiente, erano inadeguati al controllo del Paese e risultavano delegittimati di fronte a movimenti di liberazione filocomunisti, impegnati sul terreno fondamentale della riforma agraria. In terzo luogo una "guerra rivoluzionaria di popolo", combattuta nel particolare ambiente della giungla, non poteva essere contrastata efficacemente dagli eserciti tradizionali, costretti a disperdersi in centinaia di teatri locali e a scontare le difficoltà di rifornimento e trasporto.
Un riassunto dettagliato degli eventi bellici.
Gli Stati Uniti nel Vietnam
Di per sé, il fallimento politico e militare dei francesi in Vietnam era una lezione per tutto il mondo occidentale. La precarietà della soluzione diplomatica, con un confine arbitrario come quello che era stato tracciato in Corea, lasciava tuttavia aperta la porta ad un nuovo precipitare della crisi.
Da un lato la divisione fra Nord e Sud lungo la linea del 17° parallelo, non era indicata dagli accordi di Ginevra come assetto definitivo del Vietnam, ma come sistemazione provvisoria per favorire la riorganizzazione delle rispettive aree: due anni più tardi, nel 1956, una consultazione elettorale congiunta avrebbe dovuto riunificare il Paese.
Dall'altro lato, la linea di demarcazione non separava semplicemente due circoscrizioni amministrative, ma due realtà antagoniste per ideologia politica e programmi sociali: a nord il comunismo di Ho Chi Min, a sud il regime conservatore dell'imperatore Bao Dai e del suo primo ministro Ngo Dinh Diem. Il territorio assegnato al nord, inoltre, era sensibilmente inferiore a quello liberato dal Vietminh durante la guerra antifrancese e governato fino alla firma degli accordi secondo il modello comunista: questo comportava la presenza nel sud di un significativo numero di guerriglieri e militanti politici filocomunisti, potenziale nucleo di una futura resistenza armata.
Nel periodo di massima tensione della guerra fredda, e a un solo anno di distanza dalla conclusione della crisi coreana, la pace di Ginevra conteneva così gli elementi per trasformarsi nella premessa di una nuova guerra.
Gli USA, dove la strategia del presidente Eisenhower si atteneva alla dottrina Truman del "contenimento del comunismo", guardavano con preoccupazione alle trasformazioni dell'Asia e al richiamo che vi esercitava la rivoluzione cinese: oltre all'esperienza vietnamita, si sviluppavano allora le lotte degli Huks nelle Filippine, le resistenze contadine nella Malesia e nella Thailandia, movimenti rivoluzionari in Indonesia. Per questo, nello stesso anno degli accordi di Ginevra, gli USA promuovevano la costituzione della SEATO (South-East Asia Treaty Organisation), un accordo firmato a Manila da otto Paesi per la difesa dell'Asia sudorientale contro le "aggressioni" comuniste (oltre agli USA, vi aderivano Australia, Gran Bretagna, Francia, Nuova Zelanda, Pakistan, Filippine, Thailandia). In questa prospettiva, il Vietnam del sud doveva diventare un caposaldo della cerniera difensiva nell'area del Pacifico, baluardo filoccidentale a salvaguardia dell'intera regione indocinese.
Da queste premesse discendeva l'impegno dell'amministrazione americana, che sostituiva il vecchio colonialismo francese nel sostegno ai regimi conservatori dell'Indocina. Alla fine del 1954 giungevano a Saigon consistenti aiuti finanziari dagli USA e, insieme alle risorse, i consiglieri militari che assistevano il governo nella repressione anticomunista.
Il passo successivo era il rifiuto del Vietnam del sud di indire le elezioni del 1956, ufficialmente motivato con il fatto che nel nord il voto non sarebbe stato libero: rendere definitiva la spartizione del Paese corrispondeva al progetto di costruire nel sud una società impermeabile all'influenza comunista, alla quale affidare il ruolo di gendarme dell'Indocina.
Tra il 1954 e il 1963, il Vietnam del sud era governato da Diem, dapprima come capo del governo, poi come presidente della repubblica (nel 1955 un referendum popolare, svoltosi all'insegna dei brogli e delle prevaricazioni, aveva infatti optato per la forma di Stato repubblicana e allontanato l'imperatore Bao Dai). Il suo regime rivelava i limiti di una classe dirigente indigena formatasi all'ombra del potere coloniale, autoritaria e facile alla corruzione, incapace di cogliere la complessità del Paese e di affrontare i reali problemi socio-economici. Mentre generali e alti funzionari lucravano sugli aiuti statunitensi, le scelte politiche di Diem creavano fratture all'interno della società. Sul piano religioso, Diem suscitava l'opposizione della comunità buddista, introducendo provvedimenti restrittivi della libertà di culto e scegliendo la maggior parte dei dirigenti nella minoranza cattolica (10% della popolazione totale): l'autoimmolazione di alcuni "bonzi" (sacerdoti), che si bruciavano in piazza per protestare contro le discriminazioni, era l'espressione clamorosa di un malessere che toglieva consenso al regime e che lo isolava a livello internazionale. Sul piano economico, egli annullava gli effetti della riforma agraria che il Vietminh aveva avviato prima della pace di Ginevra e restituiva le terre agli antichi proprietari, la maggior parte dei quali compromessi con la dominazione coloniale francese. La mancanza di interventi statali a sostegno della produzione agricola, d'altra parte, accentuava il sottosviluppo e la fame, in una regione dove l'alto tasso di natalità determinava un continuo incremento demografico.
I luoghi della guerra del Vietnam |
Le condizioni di vita estreme in cui versava la popolazione contadina favorivano lo svilupparsi della guerriglia, animata dai "vietcong" (i militanti del Vietminh rimasti nel sud del Paese) e appoggiata dal governo della Repubblica Democratica del nord. Le forme di lotta sperimentate nella resistenza antifrancese venivano riprese contro il regime di Saigon: attacchi contro l'esercito governativo, sabotaggi lungo le vie di comunicazione, porzioni di territorio sottratte al controllo statale.
Il Vietnam del sud era un terreno ideale per la guerriglia: la popolazione era confinata nella zona costiera e su alcuni altopiani e tutte le strade (così come la ferrovia che correva lungo la costa) erano facilmente intercettabili in qualsiasi punto; ad occidente, i mille chilometri di frontiera con il Laos e la Cambogia erano coperti da una giungla fitta e indifendibile, attraverso la quale passava il cosiddetto "sentiero di Ho Chi Min", un dedalo di percorsi protetti dalla foresta in parte costituiti da gallerie sotterranee, che collegavano la guerriglia vietcong con il Vietnam del nord. Il delta del Mekong, al sud di Saigon, inoltre molte zone paludose, con una popolazione sparsa lungo una moltitudine di fiumi e di canali in centinaia di villaggi, molti dei quali non raggiunti dalle strade.
Sulla base dell'esperienza coreana, gli americani organizzavano l'esercito sud-vietnamita su basi convenzionali, con carri armati e artiglieria pesante per far fronte ad una possibile invasione del nord: questo strumento si rivelava però inadatto a combattere la guerriglia, articolata in piccole unità regolari con basi nella giungla e numerose squadre volanti di villaggio.
Di fronte all'estendersi della lotta, il governo di Diem decideva la concentrazione della popolazione delle aree a più forte presenza guerrigliera in appositi "villaggi strategici", sorta di zone militarizzate presidiate dall'esercito di Saigon: a garanzia di un maggior controllo centrale, venivano inoltre abolite le rappresentanze di villaggio elettive (la forma tradizionale di autogoverno dei contadini vietnamiti), e al loro posto venivano mandati funzionari nominati dal governo. Queste due scelte si rivelavano la vera molla che forniva alla resistenza una base di massa nelle campagne: la concentrazione dei contadini favoriva la penetrazione della propaganda, mentre il controllo opprimente dell'esercito e la distruzione del tessuto organizzativo tradizionale aumentavano la frattura tra popolazione e governo di Saigon.
Dopo il 1960 nonostante la durezza della repressione, la resistenza rivoluzionaria nel sud si generalizzava, pregiudicando la stabilità del regime. Nel 1963 il presidente Diem, impopolare e scaricato dagli stessi americani, veniva rovesciato da un colpo di Stato militare che apriva un periodo confuso di lotte all'interno della classe dirigente (solo nel 1967, con la conquista del potere da parte di Nguyen Van Thieu, il vertice sudvietnamita si sarebbe stabilizzato) e che determinava un progressivo collasso del Paese.
In questo quadro, maturava la decisione dell'amministrazione di Washington di un intervento militare diretto. La svolta era stata anticipata da Kennedy, che sin dal 1961 aveva inviato a Saigon due compagnie di elicotteri dell'esercito americano per la lotta antiguerriglia: le forze erano gradualmente aumentate, sino ad una presenza di ventimila uomini alla fine del 1963.
L'escalation veniva bruscamente accelerata da Lyndon Johnson diventato presidente dopo l'assassinio di Kennedy. Nell'agosto 1964 un incidente nel Golfo del Tonchino, dove navi di pattuglia nordvietnamite si scontravano con la flotta statunitense, offriva il pretesto per una risoluzione del Congresso, che concedeva al presidente ampi poteri discrezionali rispetto alla questione vietnamita (la cosiddetta "risoluzione del Tonchino"): l'8 marzo 1965 i Marines sbarcavano sulla spiaggia di Da Nang, vicino al confine del 17° parallelo, e il generale William Westmoreland veniva nominato comandante militare delle forze americane in Vietnam; l'anno successivo i bombardieri b 52 iniziavano a colpire obbiettivi sul territorio del nord; nel 1968, la presenza americana era ormai salita a 540.000 uomini.
La tesi di Washington si fondava sul presupposto che la resistenza dei vietcong non foss'altro che un'"aggressione nordvietnamita" e che rientrasse nella strategia di conquista del mondo da parte del comunismo. Se a livello internazionale i rapporti con l'URSS conoscevano allora la stagione della coesistenza pacifica, le frizioni tra Mosca e Pechino e la progressiva autonomia della Cina dal Cremlino dimostravano che i centri direttivi del comunismo si moltiplicavano e che la minaccia non aveva perso la sua urgenza. Ciò che era stato fatto in Corea quindici anni prima, doveva quindi essere ripetuto in Vietnam perché, secondo la cosiddetta "teoria del dominio", alla caduta di un birillo sarebbe seguita, a uno a uno quella di tutti gli altri .
Sulle valutazioni dell'amministrazione Johnson pesavano le attitudini mentali di una classe dirigente abituata a ricondurre ogni conflitto locale alla più ampia contrapposizione tra Est e Ovest e i condizionamenti di un'ideologia che non lasciava spazio a Paesi terzi. Se l'influenza del Vietnam del nord nel processo rivoluzionario era innegabile (attraverso il sentiero di Ho Chi Min, Hanoi inviava rifornimenti alimentari, armi, addestratori militari, propagandisti politici, unità combattenti), l'appoggio di massa ottenuto dalla lotta nel sud non si spiegava se non con il generale malessere della popolazione contadina, con l'incapacità del governo di Saigon di dare risposte ai bisogni delle campagne, con le contraddizioni il sistema fondato sulla conservazione dei privilegi e sulla repressione militare.
L'incomprensione (o la sottovalutazione) del carattere "popolare" della resistenza vietnamita spingeva gli USA ad impaludarsi in un conflitto che avrebbe rappresentato un'unicità nella loro storia, portandoli ad una sconfitta ancora più disonorevole di quella riportata dai francese nel 1954.
Dai bombardamenti all'offensiva del Tet
La strategia militare americana puntava al logoramento della guerriglia e si articolava sulla combinazione di azioni terrestri e incursioni aree: mentre alle forze regolari di Saigon era lasciato il controllo delle zone più popolate della costa, l'esercito americano si impegnava nell'area a sud di Saigon e nelle zone di confine con il Laos e la Cambogia, dove i guerriglieri avevano le loro basi e da dove passavano le infiltrazioni di truppe del nord; contemporaneamente, l'aviazione effettuava incursioni a nord del 17° parallelo, colpendo strade, ferrovie, ponti, depositi di materiale, installazioni petrolifere, ma anche la città di Hanoi e Haiphong.
L'aspetto più caratteristico dell'impegno militare americano era il ricorso agli aggressivi chimici, con largo uso di bombe al napalm, defolianti e diserbanti: lo scopo era la distruzione della fitta vegetazione della giungla, per togliere alla guerriglia le stesse condizioni ambientali della resistenza, ma l'uso indiscriminato di erbicidi si risolveva in un inquinamento diffuso del suolo, che distruggeva le coltivazioni. Secondo una denuncia del New York Times, nel solo 1965 oltre trentamila ettari di terreno coltivato erano stati diserbati, con il conseguente impoverimento di un'economia già al limite della sussistenza.
La durezza degli attacchi che provocavano decine di migliaia di morti tra i vietcong e tra i civili (oltre un milione al termine della guerra), ma anche numerose vittime tra i soldati americani, permetteva agli USA di vincere tutti gli scontri nei quali si trovavano impegnati: questo tuttavia non diminuiva la combattività della resistenza, né rallentava i rifornimenti attraverso il "sentiero di Ho Chi Min". La combinazione di lotta partigiana, sostegno della popolazione rurale e appoggio militare del nord, unite alle particolari condizioni ambientali, trasformavano il Vietnam del sud in un territorio incontrollabile, dove i marines erano attaccati alle spalle da un nemico che avevano appena sconfitto sul fronte.
Gli aiuti militari ed economici, che Hanoi riceveva dalla Cina e (in una logica bipolare) dalla stessa URSS, permettevano d'altra parte alla Repubblica Democratica del nord di fronteggiare le difficoltà e di reggere nonostante le devastazioni dei bombardamenti. Ogni qualvolta un successo sul campo illudeva i comandi militari americani su una prossima conclusione del conflitto, l'emergenza scoppiava in un altro punto del territorio.
Le difficoltà degli USA si rivelavano con tutta la loro evidenza all'inizio del 1968, quando, sotto la direzione del generale Giap, unità nordvietnamite e guerriglieri vietcong lanciavano l'offensiva del Tet (il capodanno buddista). Mentre la maggior parte delle truppe americane era impegnata ai confini con il Laos e sul 17° parallelo, oltre cinquantamila combattenti attaccavano contemporaneamente Saigon, Huè e una trentina di capoluoghi di provincia: nella capitale i guerriglieri riuscivano a penetrare nel centro stesso della città, dove costituivano un governo rivoluzionario provvisorio.
La reazione americana fu violenta: in un mese di contrattacchi e di rastrellamenti, tutti i centri furono riconquistati e oltre trentamila guerriglieri vennero uccisi (da allora, il ruolo dei vietcong sarebbe stato ridimensionato e l'onere dei combattenti sarebbe ricaduto sulle unità del nord). Se l'offensiva del Tet si concludeva con una sconfitta, essa costituiva però un'evidente vittoria psicologica per le reazioni che determinava all'estero: la credibilità dell'amministrazione americana ne risultava fortemente minata (lo stesso Johnson era costretto alla rinuncia della propria ricandidatura alle presidenziali di quell'anno) e la strategia del logoramento, con la quale Washington aveva pensato di piegare la resistenza, si rivelava perdente. La convocazione a Parigi di negoziati di tregua, che sarebbero iniziati nel gennaio 1969, sanzionava il riconoscimento da parte americana che la guerra non poteva essere vinta e che bisognava accettare la via della soluzione diplomatica.
Verso la liberazione
All'interno degli USA la guerra in Vietnam non era popolare: il prezzo pagato dai soldati americani (47000 morti alla fine del conflitto), i costi altissimi dell'impresa (trenta miliardi di dollari nel solo 1966), la lontananza e l'estraneità del teatro delle operazioni, la durata di un conflitto del quale non si riusciva a vedere la fine, l'imbarazzo per le difficoltà che la superpotenza nucleare incontrava di fronte a un Paese sottosviluppato del Terzo Mondo, moltiplicavano i dubbie il disagio morale per un'impresa iniziata senza valutarne bene le conseguenze.
Su questo tessuto di fondo, alimentato anche da gesti clamorosi di dissenso (come la renitenza alla leva da parte del campione di pugilato Cassius Clay "Mohamed Alì") e dai servizi televisivi sulle conseguenze drammatiche dei bombardamenti (la guerra del Vietnam è stata la prima ripresa dalla televisione e "portata" attraverso il teleschermo in tutte le case), si innestava l'opposizione aperta dei movimenti di contestazione giovanile: non solo negli USA, ma in tutta l'Europa occidentale, il ribellismo della generazione del Sessantotto faceva del Vietnam il simbolo della lotta contro l'imperialismo, contro la società del benessere che lo esprimeva.
L'opposizione si accentuava nel 1970 quando, nelle remore dei negoziati di pace, il presidente Richard Nixon estendeva il conflitto alla Cambogia e al Laos, sia con bombardamenti che si proponevano di tagliare alla guerriglia le vie di rifornimento, sia favorendo un colpo di Stato a Pnom Pehn che determinava la caduta del principe Cambogia Sianouk e l'instaurazione del regime autoritario del generale Lon Nol: durante le manifestazioni che si svolgevano in molte città americane, le forze dell'ordine intervenivano duramente e nell'università di Kent State, nell'Ohio, quattro manifestanti rimasero uccisi.
La spinta congiunta dell'opposizione interna e delle difficoltà militari induceva l'amministrazione Nixon ad una svolta, sancita alla fine del 1970 dalla decisione del Congresso di revocare la risoluzione del Tonchino. Pur continuando con le operazione aeree di bombardamento, gli americani iniziavano un progressivo disimpegno e ritiravano le proprie truppe che a fine 1972 si ridussero a 43000 uomini. Il 27 gennaio 1973 a Parigi veniva firmata la pace tra USA e Vietnam del nord.
Il ritiro americano accelerava l'esito della crisi indocinese. Nel Laos il movimento del Patet Lao, appoggiato dalle forze di Hanoi, giungeva al potere conquistando nel 1974 la capitale Vientiane; in Cambogia la rivolta contro il regime di Lon Nol portava alla vittoria del movimento rivoluzionario dei Khmer Rossi di Pol Pot; in Vietnam, l'offensiva delle forze del nord determinava il crollo dell'esercito di Van Thieu e, il 30 aprile 1975, la caduta di Saigon, da cui venivano evacuati poche ore prima gli ultimi funzionari e consiglieri americani rimasti. Iniziata come guerra di contenimento del comunismo, l'avventura degli USA in Vietnam si concludeva così con la trasformazione di tutta l'Indocina in una regione governata da regimi rivoluzionari.
I commenti e le opinioni di alcuni noti giornalisti e scrittori sul conflitto.
Ci affidiamo alle testimonianze e alle conclusioni di chi un conflitto lo ha visto e commentato con i propri occhi; presentiamo un articolo di Ennio Caretto, corrispondente all'epoca dal Vietnam del Corriere della Sera:
VIETNAM, LA SCONFITTA AMERICANA di Ennio Caretto
Il 9 giugno del '72, una fotografia che sarebbe assurta a simbolo delle atrocità della guerra del Vietnam sconvolse gli Usa: ritraeva una bambina di nove anni, nuda e urlante, che correva sull'asfalto, le carni piagate dal Napalm. Oggi quella bambina, Phan Thi Kim Puc, vive in America, è moglie e madre, e ha chiamato il figlio Huan, Speranza.
Una foto emblematica del conflitto in Vietnam, i terribili effetti del Napalm sui civili |
Ancora. Il 14 marzo '73, un pilota venne liberato dopo cinque anni e mezzo dallo "Hanoi Hilton", il carcere delle torture e del lavaggio del cervello nord-vietnamita, minato nel fisico e nella mente. Oggi, l'ex prigioniero, John McCain, è un senatore repubblicano, ed è un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Ci sono voluti quasi un trentennio, il crollo dell'Urss, l'allacciamento dei rapporti con un Vietnam sì, sempre comunista, ma molto diverso, perché la Superpotenza riuscisse a chiudere il capitolo della sua unica sconfitta in questo secolo. Ancora cinque anni fa, essa pareva incapace di accettare la realtà. Sebbene il presidente Reagan avesse eretto un emotivo monumento ai caduti, una parete di marmo nero con 60 mila nomi che scende nel prato di Washington, la guerra vietnamita era "tabù". Se qualcuno ne parlava era solo per recitare il mea culpa, come Robert McNamara, il suo promotore, il ministro della Difesa del presidente Kennedy: "uno sbaglio madornale" disse tra le lacrime.
Per la maggior parte del mondo, non ci furono mai dubbi, né ce sono tuttora: l'America non doveva intervenire nel Vietnam, ma lo fece e pagò un caro prezzo. A causa del Vietnam, quelli a cavallo del '70 furono gli anni dell'antiamericanismo in Europa, della crisi dell'Alleanza atlantica, del fulgore sovietico, del mito delle rivoluzioni. La Superpotenza si spaccò in due: mentre McNamara ricorreva al "body count", cioè la conta dei cadaveri nemici per vincere la battaglia della pubblica opinione, i figli dei fiori organizzavano dimostrazioni di protesta nella strade sputando sui reduci, e l'attrice Jane Fonda si faceva ritrarre ad Hanoi su un fusto di un cannone nelle braccia del nemico. A vent'anni dalla pace nel '95, Mc Namara si convertì al colpevolismo. Nel libro "che non avrei mai voluto scrivere" ammise, attribuì la disfatta nel Vietnam alle "lacune culturali storiche" degli Usa e della loro "cieca fede per le tecnologie". Definì la guerra "più che inutile, dannosa: perché fu la matrice del nostro cinismo, della rottura del rapporto fiduciario tra stato e cittadino, dell'anti-politica". Nel Vietnam, ammonì, affondano le radici del rifiuto dell'America di affrontare i suoi problemi dei fiaschi successivi all'estero, dello scandalo Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon. Milioni di vite umane sacrificate per nulla, vent'anni rubati a due generazioni?
No, o per lo meno non completamente, è la risposta che il revisionismo storico fornisce oggi a queste domande negli Stati Uniti. Rivisitato dopo che le ferite si sono rimarginate e le polemiche attutite, riesaminato alla luce della vittoria che cambiò il corso dell'umanità, il conflitto del Vietnam comincia a trovare una parziale giustificazione. Neppure gli innocentisti possono cancellare gli orrori del defoliante "agente arancio" e la corruzione del regime di Saigon, o possono riscattare la teoria del dominio: cade il Vietnam, cade l'Asia. Ma il conflitto vietnamita non è visto soltanto più nei termini dell'irredentismo di Ho Chi Min.
Retrospettivamente esso appare a molti americani una tappa sia pure buia e dolorosa, del tormentato cammino verso "la democrazia in ogni paese" nella seconda metà del ventesimo secolo. Senza quel conflitto ha rilevato per esempio il nonagenario George Kennan, l'architetto della dottrina del contenimento dell'Urss e della Cina, forse l'espansionismo comunista non si sarebbe fermato. Il conflitto aggravò la frattura fra Mosca e Pechino, ne consumò molte energie e assommato alla successiva e fatale spedizione del Cremlino in Afganistan, indusse a poco a poco il comunismo a ripiegare su se stesso. A uno a uno crollarono i miti di Stalin, di Castro e dello steso Ho Chi Min.
C'è chi sostiene che l'operazione dei revisionisti è solo di recupero, e che il conflitto vietnamita non sarà mai considerato "giusto".
Ronald Regan, il vincitore della guerra fredda, non fu però di quella opinione. Considerò il conflitto un male inevitabile: prima o poi, sostenne, l'America sarebbe stata obbligata a rispondere alla grande sfida comunista con una sfida globale non locale. Aggiunse: i mezzi furono sbagliati, ma il principio era giusto. Su quella base, Regan, arrivato alla Casa Bianca sei anni dopo la pace del Vietnam, capovolse la sfida: costrinse l'Urss e la Cina a una gara militare ed economica che le avrebbero sfiancate. Il muro di Berlino crollò senza che si sparasse un colpo di cannone.
Insieme con altri giornalisti italiani, anch'io fui diretto testimone degli ultimi giorni a Saigon. Non ho mai scordato ciò che vidi: i ricchi che ballavano al Circle sportif come i passeggeri sulla tolda del Titanic; i poveri che mendicavano o rubavano sui marciapiedi; i contadini ignari del conflitto uccisi dal fuoco incrociato dei due eserciti; la folla in fuga ai primi missili che urla in francese "la grande guerre, la grande guerre!"; il colonnello che si sparava alla tempia al Parlamento, pagando con la vita la lealtà all'alleato americano; i potenti che si mettevano in salvo e i guerriglieri Vietcong nascosti nell'albergo Continental, quello del romanzo "Ugly American" Graham Greene.
Ce ne andammo vergognandoci di essere stati degli osservatori estranei, protetti da una sorta di immunità. In contrasto con molti colleghi mi ero persuaso che la maggioranza dei sudvietnamiti non volesse l'unificazione, e che quella del Vietnam del Nord fosse una guerra di conquista. Come bianco e europeo, mi sentii reo di due tradimenti:l'intervento non richiesto prima e il colpevole abbandono poi.
E non mi capacitai che lo scontro ideologico tra le Superpotenze fosse sfociato nello stupro dell'Indocina e in milioni di morti, cambogiani e laotiani inclusi. L'occidente -non solo l'America- e il Vietnam, la Russia e la Cina sono oggi chiamati a lavorare insieme per cancellare quella macchia.
I MORTI INUTILI:di Luca Goldoni
E' quasi assurdo buttare un occhio pietoso sul Vietnam solo adesso che c'è la pace in vista. Eppure proprio in questi giorni m'è accaduto di ascoltare gente diversa, in ambienti diversi, commiserare il Vietnam.
Ci eravamo abituati a questa guerra remota, ogni sera un filmato al telegiornale, ogni tanto un rotocalco con una copertina atroce, una strada sbarrata per un corteo, che roba è, carovita? No, Vietnam: una parola che era diventata vuota, intercambiabile, per chi protestava sfilando e chi protestava imbottigliato in auto. (...) i grandi mezzi di informazione ci rendono sempre più informati e sempre più indifferenti. (...) Adesso che si parla di accordo, anzi sembrava che la fine del conflitto fosse questione di ore, la morte ha improvvisamente riacquistato un valore individuale: c'è un soldato nel sud o nel nord, c'è un marinaio, c'è un pilota che muoiono mentre "si stanno definendo" i dettagli dell'accordo. E' quasi grottesco e irriverente stabilire una graduatoria dell'infamia della morte in guerra. Eppure è più forte di noi. I morti dell'ultima oro, i morti mentre si intingono le penne nel calamaio delle trattative sembrano ancora più assurdi e più inutili. L'ultimo soldato morto in una guerra ha sempre avuto una sua mesta celebrità. (...) Forse sapremo il nome dell'ultimo pilota americano morto in Vietnam; non sapremo certo quello dell'ultimo vietcong o dell'ultimo sudvietnamita, i visi tutti uguali, gli sguardi più rassegnati che atterriti degli uomini del terzo mondo dove anche la morte costa di meno.
Se c'è un'agitazione sindacale e le trattative riprendono, succede che anche lo sciopero venga revocato. Le trattative in Vietnam sono alla stretta finale, ma nessuno revoca la guerra. Anzi, si legge nelle corrispondenze che non si è mai combattuto così duramente a Quang Tri e che "nelle ultime ventiquattr'ore" i bombardamenti dei B-52 -che oramai non hanno assegnati obiettivi ma aree- sono stati più massicci dall'inizio della guerra. Anni e anni di conflitto hanno dimostrato che, militarmente, in Vietnam non ha vinto nessuno. (...)Ciò che è insopportabile è l'idea che, mentre si giocano le ultime carte a tavolino, nel Sud e nel Nord Vietnam si continua non a vincere o a perdere, ma soltanto a morire.
Una donna resterà vedova mentre si discuterà su un vocabolo dell'accordo, un figlio resterà orfano mentre si metterà una virgola. Il Vietnam è sempre stato troppo lontano per toccarci emotivamente: questo tardivo requiem per gli ultimi morti, un poco ci riscatta. Se questi morti dell'ultima ora riescono a farci trasalire, se non proprio a commuoverci, a strapparci un attimo da un'indifferenza elevata a dottrina, è forse segno che da questa disumanità può nascere ancora una scintilla umana.
25 novembre 1972
La storia del conflitto testimoniata attraverso alcuni articoli del Corriere della Sera.
Dall'escalation militare americana nel Sudest asiatico alle delusioni e agli smacchi patiti in una guerra contestata anche negli Stati Uniti. Dagli archivi del "Corriere della Sera" gli echi di quel conflitto e di quelle polemiche
3 agosto 1964 : ATTACCO NEL GOLFO DEL TONCHINO
Un grande incidente navale si è verificato oggi nelle acque del golfo del Tonchino, che bagnano le coste del Nord del Vietnam a occidente e quelle della Cina comunista a nord, e nelle quali è l'isola cinese di Hainan. Il cacciatorpediniere americano Maddox è stato attaccato da tre torpediniere di nazionalità sconosciuta con siluri e con armi di bordo. L'unità ha risposto all'attacco e, con l'aiuto dei caccia di una portaerei, ha messo in fuga gli aggressori. Una delle torpediniere è stata colpita e immobilizzata mentre le altre due hanno potuto proseguire la navigazione a velocità ridotta. Nessun danno a bordo del cacciatorpediniere americano (...) Le torpediniere, che hanno attaccato il Maddox non recavano contrassegni che consentissero di stabilire la loro nazionalità, ma è opinione generale che si sia trattato di unità del Vietnam del Nord (...)
Il comandante americano per il Pacifico, ammiraglio Gant Sharp, è stato avvertito dell'attacco mentre stava rientrando al suo quartier generale di Pearl Harbour da un'ispezione nel Sud Vietnam. "Questo incidente potrebbe portare un cambiamento dell'attuale situazione e potrebbe acuire l'attuale crisi nel Vietnam", ha dichiarato l'ammiraglio ai giornalisti scendendo dall'aereo. (...) Finora nessun commento è stato fatto dalla Casa Bianca a proposito del grave incidente. Si apprende d'altra parte che il governo del nord Vietnam ha protestato oggi per un'incursione di quattro cacciabombardieri americani contro un villaggio situato non lontano dal confine con il Laos. (...)
16 novembre 1969 WASHINGTON PARALIZZATA DAI MANIFESTANTI
di Franco Occhiuzzi
La capitale è rimasta paralizzata da un folla di pacifisti: 250 mila secondo la polizia, ma più di 300 mila secondo gli organizzatori di queste tre giornate di protesta contro la guerra del Vietnam. I manifestanti sono affluiti a Washington con ogni mezzo per partecipare alla marcia "contro contro la morte". Migliaia di persone con zaini pieni di cibo, sacchi a pelo e manifesti contro la guerra sono partiti durante la notte da New York e da decine di altre città americani diretti a Washington, la maggior parte dei manifestanti ha viaggiato a bordo noleggiati appositamente dal "Comitato per la moratoria della guerra in Vietnam" e da altre organizzazioni. (...) La marcia ha preso l'avvia dal cimitero nazionale di Arlington. Ognuno dei partecipanti ha ritirato un cartello con il nome di uno dei 46 mila soldati americani caduti nel Vietnam. Altre marce sono state organizzate in città della costa del Pacifico (...). Ad Hollywood l'attore cinematografico Peter Fonda si è messo all'ingresso di un cinema invitando la gente a boicottare il film "Easy Rider" da lui interpretato in segno di protesta contro la guerra del Vietnam. Anche altri attori di Hollywood, fra i quali Paul Newman (...) hanno chiesto al pubblico di non recarsi a vedere i loro film durante il periodo di dimostrazioni contro la guerra in Vietnam.
24 gennaio 1973 LA PACE NEL VIETNAM
Il presidente Nixon ha annunciato questa sera alla nazione che a Parigi è stato siglato da Kissinger e dal negoziatore nordvietnamita Le Duc Tho un accordo per il Vietnam, e ha annunciato il cessate il fuoco comincerà alle ore 1 (italiane) di domenica 28 gennaio. La firma solenne dell'accordo avverrà sabato a Parigi. L'annuncio dell'accordo è stato dato contemporaneamente a Saigon e ad Hanoi. Il Presidente americano nella sua allocuzione, ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno ottenuto quello che egli aveva promesso cioè una "pace con onore" (...). Il Presidente ha aggiunto che la soluzione rispetta anche gli obiettivi del presidente sudvietnamita Van Thieu e di tutti gli altri alleati, i quali hanno approvato. Tutti i soldati americani in Vietnam verranno ritirati entro 60 giorni dalla firma e tutti i prigionieri di guerra verranno liberati entro due mesi. Il Presidente ha concluso "Continueremo ad aiutare i sudvietnamiti e tutti gli altri popoli del Sudest asiatico". Scene di giubilo sono avvenute in tutti gli Usa. A Saigon il presidente Thieu ha detto che Hanoi è stata costretta a riconoscere che il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud sono due Paesi separati e a riconoscere al tempo stesso la sovranità del Vietnam del Sud.
30 marzo 1975 L'AMERICA LASCIA IL VIETNAM di Ugo Stille
La vicenda del Vietnam, che per un decennio ha dominato e lacerato la vita americana, creando negli Stati Uniti una profonda crisi, al tempo stesso politica, psicologica e morale, si è chiusa oggi con un epilogo drammatico e rapido. Nel corso della notte, dopo una riunione di emergenza alla Casa Bianca del consiglio nazionale di sicurezza, il presidente Ford ha ordinato l'evacuazione immediata e totale degli ultimi americani (circa 900) rimasti a Saigon. La manovra di evacuazione, condotta con l'impiego di 80 elicotteri, sotto la protezione degli aerei della squadra del Pacifico, è durata meno di venti ore (...) Subito dopo la dichiarazione della Casa Bianca il segretario di Stato Kissinger ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha dichiarato che l'operazione di sgombero è stata preceduta da contatti con Hanoi e il governo rivoluzionario provvisorio del Sud Vietnam e anche l'URSS ha fornito "un certo aiuto". (...) Rimangono tuttavia ancora da chiarire le circostanze che hanno accelerato i tempi dell'epilogo, dando ad esso il carattere di un'improvvisa operazione di emergenza. (...)
Gli interrogativi ancora non risolti riguardano gli sviluppi che nelle ventiquattro ore hanno creato una "situazione di emergenza" e costretto Washington ad accelerare i tempi dell'evacuazione. L'impressione nella capitale è che l'emergenza è stata il prodotto di due sviluppi intrecciati: il primo è che Hanoi e i Vietcong hanno posto come condizione assoluta per l'inizio di negoziati armistiziali con Saigon il ritiro di tutti gli americani dal Sud Vietnam; il secondo è che si è avuto un crollo improvviso del dispositivo militare sudvietnamita.
Fonte: http://ipertestiscuola.altervista.org/storia/guerravietnam.zip
autore del testo non indicato nel documento di origine del testo
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