Medioevo

 


 

Medioevo

Le origini del Medioevo

Il primo a scrivere una Historia Medii Aevi fu, nel 1688, un professore di storia ed eloquenza, Cristoforo Keller, detto Cellarius. Egli racchiude il periodo medioevale tra il 326, quando Costantino trasferì la capitale dell'impero a Costantinopoli, e il 1453, quando Bisanzio fu presa dai turchi.

In realtà, un periodo storico non è qualcosa di assoluto, ma di relativo e si modella e si definisce in rapporto al problema con cui ci accostiamo alla storia. Il maggiore o minor peso che gli storici hanno dato ai vari elementi, ha fatto nascere diverse tesi: le tre tesi principali sono quella delle origini cristiane del Medioevo, quella delle origini germaniche e quella delle origini arabe.

 

Origini cristiane del Medioevo

Il grande sostenitore di questa tesi nella soriografia italiana è Giorgio Falco il quale, nel primo capitolo de "La santa romana Repubblica", sostiene che, dal momento che la nascita è sempre un atto di vita, è giusto far iniziare il Medioevo dal momento in cui, nella realtà sociale, entra una grande forza vitale nuova, il Cristianesimo. In questa visione, il Medioevo comincia dunque con la costituzione dell'impero cristiano, avviata da Costantino, quindi con il IV secolo.

 

Origini germaniche del Medioevo

La tesi germanistica pone l'inizio dell'età medioevale all'epoca della grandi invasioni, cioè nel V secolo. Essa si contrappone alla tesi romanistica, ancora troppo diffusa nei nostri manuali di storia, secondo cui l'impero romano, cade a causa delle invasioni dei popoli germanici, gente incolta e barbara che, passati i confini distrugge tutto. La tesi germanistica, invece, che non è priva di una sua verità storica, capovolge completamente questa visione e sostiene che l'impero, che non era affatto una solida costruzione, ha finito col dissolversi per l'azione di cause interne. In realtà, i germani si sono inseriti come elemento di rinnovamento ed hanno immesso, nel vecchio e stanco organismo dell'impero romano, nuovo vigore. I popoli germanici, dunque si pongono come fattore di continuità e non di rottura, rispetto al mondo romano, perchè si stanziarono nelle singole regioni assorbendo le tradizioni romane e portando nuove istituzioni; in tal modo, mediante un'opera di trasformazione dall'interno, fecero sì che da una civiltà antica nascesse una nuova civiltà, quella medioevale.

 

Le Invasioni

La prima fase di penetrazione dell'elemento germanico nel mondo romano è sostanzialmente pacifica e va dalla seconda metà del II secolo al IV secolo. I Germani entrano perchè sono attirati dalle terre fertili dell'occidente, ma anche perchè l'Impero stesso ha bisogno di soldati e agricoltori. A questa fase pacifica segue quella delle invasioni che va dal V al VI secolo. Il motivo di fondo che induce molti popoli germanici a varcare i confini dell'Impero sono sicuramente le sue terre ricche e coltivate, ma il motivo occasionale è la sconfitta che i Goti, provenienti dalla penisola scandinava, stanziati nel cuore dell'attuale Russia, ricevono ad opera degli Unni, provenienti dal centro dell'Asia. Essi infatti giungeranno nel cuore dell'Italia spingendo avanti a sè le popolazioni germaniche.

 

I Visigoti

Penetrano in Italia nel 401, ma sono respinti da Stilicone, un generale barbaro romanizzato; alla morte di questi arrivano a Roma che, nel 410, per la prima volta dopo la devastazione compiuta nel 387 a.C. dai Galli di Brenno, subisce l'oltraggio di una invasione straniera. Il nostro massimo storico, Ludovico Antonio Muratori, fu il primo a proporre il 410, anno del Sacco di Roma, come data di inizio del Medioevo italiano poichè in quell'anno cade il mito dell'intangibilità di Roma che aveva animato la storia antica ed inizia una storia nuova.

 

Gli Eruli

Quello degli Eruli fu un regno nato da un colpo di stato. L'Impero era in grave decadenza e sfuggiva al controllo dell'aristocrazia romana: i veri padroni erano ormai i generali barbarici che imponevano persino gli imperatori a loro più graditi. Quando Romolo Augustolo viene posto sul trono dalla classe dirigente romana, essi chiedono che sia loro dato un terzo delle terre sotto il loro controllo. L'aristocrazia romana rifiuta ed allora Odoacre, capo degli Eruli stanziati in Italia, con un colpo di stato depone l'imperatore e, preso il potere, dichiara che l'Impero in Occidente non è più necessario e rimanda le insegne imperiali in Oriente all'imperatore Zenone. E' il 476, tradizionalmente considerato come l'inizio del Medioevo.

 

Gli Ostrogoti

In Italia, alla fine del V secolo, Odoacre è battuto da Teodorico, il capo degli Ostrogoti; questi pone a Ravenna la sua capitale e dà inizio ad una politica che, attraverso la ripartizione dei compiti, mira a raggiungere non la fusione, ma la coesistenza pacifica tra l'elemento romano e quello germanico: ai Germani riserba l'esercito, ai romani l'amministrazione e le leggi.

 

I Franchi

Sul finire del V secolo i Franchi, stanziati in regioni prossime al Reno, penetrano più profondamente nell'attuale Francia. Essi hanno un grande capo, Clodoveo che esprime una concezione dei rapporti con i Romani del tutto diversa da quella di Teodorico, suo contemporaneo e parente. Egli vuole arrivare ad un'intesa profonda, ad una fusione con l'elemento romano e poichè vede nella Chiesa romana la forza dell'avvenire anche sul piano politico, aderisce al Cristianesimo nella forma cattolica e si fa battezzare con i suoi guerrieri. Così il suo regno diventa un'eccezione tra i regni romano - barbarici: la religione nazionale dei popoli germanici, infatti, era l'arianesimo.

 

I Longobardi

I Longobardi, originari della penisola Scandinava, come tutti i Germani, invadono l'Italia nel 568 e vi si stanziano per "fare". Nel suo primo significato la parola "fara" indica la spedizione armata di tutto il popolo, compresi i vecchi, i bambini e le donne; per questo avrà un'importanza decisiva nella storia del nostro paese. Il Muratori che negli "Annali d'Italia" aveva pensato al 410 come possibile inizio del Medioevo, in "Antiquitates Italicae Medii Aevi" vede nell'invasione longobarda il punto di partenza della storia medioevale d'Italia. In primo luogo il grande storico del '700 aveva notato che molte istituzioni importanti della vita italiana dei suoi tempi (liturgiche, ecclesiastiche, culturali..) avevano origine, non nell'antichità classica, ma nel periodo medioevale, inoltre con l'invasione longobarda accade un fatto nuovo: l'Italia, in gran parte strappata all'impero bizantino, perde la sua unità politica.

"Imperciocchè tanti non solo sacri, ma famigliari e politici
riti sono in uso presso di noi, l'origine de i quali non ai
Romani, ma ai barbarici tempi dee riferirsi".

 

Origini arabe del Medioevo

La tesi sulle origini arabe del Medioevo ne sposta l'inizio fra il VII e l'VIII secolo, cioè tra Maometto e Carlomagno. Gli arabi, che vivevano nell'attuale penisola arabica, erano di stirpe semitica, nomadi, dediti alla pastorizia e al commercio. Dal punto di vista religioso erano politeisti ed avevano in comune solo il culto della Pietra Nera che veneravano in un edificio detto Kaaba, alla Mecca. Intorno al 570, alla Mecca, nasce Maometto, uomo di forti interessi religiosi, monoteista convinto. Quando comincia a predicare contro il politeismo suscita dure reazioni da parte della casta sacerdotale e, per sottrarsi alle persecuzioni è costretto a fuggire a Medina. Qui Maometto elabora gli elementi fondamentali della nuova religione, l'Islamismo, basata su due sole verità di fede: non esiste altro Dio che Allah, e Maometto è il suo profeta. I punti caratteristici della dottrina maomettana sono i seguenti: l'individuo deve praticare l'Islàm (totale abbandono a Dio), il concetto di "guerra santa" (è volontà di Dio che gli infedeli siano combattuti e vinti, affinchè il dominio politico - militare dell'Islam si estenda sempre più); la terza caratteristica che contraddistingue il mondo islamico è l'assenza di dualismo tra potere religioso e potere politico, l'autorità, infatti, è unica, perchè i successori di Maometto, i califfi, hanno sia il potere religioso sia politico. Già sotto la guida dei primi califfi, ma soprattutto all'epoca del primo califfato ereditario che ha sede in Damasco, capitale dell'attuale Siria, il popolo arabo, unificato religiosamente da Maometto, si lancia nella guerra santa e compie una serie di conquiste che, per la loro rapidità, non hanno precedenti nella storia del Mediterraneo. In poco più di un secolo, infatti, dall'Arabia si espandono verso est, dove conquistano la Siria, la Palestina, la Mesopotamia, la Persia e giungono fino al fiume Indo, riducendo l'impero bizantino, nella sua parte asiatica, alla sola penisola anatolica. Verso ovest avanzano in Egitto e occupano tutto il litorale africano; nel 711 varcano lo stretto di Gibilterra e conquistano tutta la Spagna fino ai Pirenei. La tesi sulle origini arabe del Medioevo, che, al contrario di quella germanistica, è fondamentalmente una tesi di rottura, fa notare che, nell'Impero romano, tutti i popoli gravitanti sul mediterraneo formano un'unità politica ed economica che si rompe in seguito all'invasione dell'Islam. Il suo massimo sostenitore fu lo storico belga Henri Pirenne, soprattutto nell'opera "Maometto e Carlomagno", pubblicata postuma nel 1937. In questa visione, dove Maometto è l'autore della rottura dell'unità mediterranea e Carlo Magno è l'iniziatore di una nuova età, l'inizio del Medioevo si sposta al VII e all'VIII secolo, perchè soltanto allora finisce il mondo romano.

 

Fonte: http://www.niccolov.it/dispense/Le%20origini%20del%20Medioevo.doc

 

Il Medioevo
di Gina Fasoli

Frattura politica di un' unità culturale

La guerra che l'imperatore Giustiniano ave­va intrapreso per liberare l'Italia dall'occupa­zione dei goti, fu lunga e difficile (535 - 553) e fu accompagnata da terribili carestie e pe­stilenze: la popolazione italica ne uscì spaven­tosamente diradata e stremata. La restaurazio­ne dell'autorità imperiale non fu accompagna­ta da provvedimenti capaci di risollevare l'e­conomia italica e nuove gravissime difficoltà furono provocate dalla venuta dei longobardi, altra popolazione germanica che cercando mi­gliori condizioni di vita aveva lasciato le sue sedi originarie alla foce dell'Elba, e nel corso di circa due secoli era giunta nella pianura pa­dana. Sulle loro vicende dobbiamo soffermar­ci un poco, se vogliamo chiarirci la storia ul­teriore della regione, nel quadro della storia d'Italia.
I longobardi, entrati nella pianura padana nel 568-69, estesero progressivamente le lo­ro conquiste e pur non avendo le forze ne­cessarie per occupare tutta la penisola ten­nero in continuo stato di guerra o di allarme i territori rimasti ai bizantini, che organizza­rono la difesa appoggiandosi alle città e ai centri fortificati minori già esistenti o appositamente creati: da uno di questi nuovi centri difensivi trae origine la città di Ferrara.
Dal canto loro, anche i longobardi si erano insediati militarmente nelle città e negli al­tri centri fortificati e avevano posto dei presi­di anche in località minori strategicamente o tatticamente importanti. Alla metà del VII se­colo la situazione pareva stabilizzata: ai bizan­tini erano rimaste l'Istria, le lagune venete, una larga fascia che andava dall'Adriatico al Tirreno; politicamente e militarmente gover­nata dall'esarca, massimo rappresentante del­l'impero in Italia, che risiedeva a Ravenna, ma in questa stessa zona gran peso aveva la presenza del papa, che andava assumendo cre­scente autorità temporale nella città di Roma e nel territorio immediatamente circostante. Al di là si stendevano i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, mentre l'estremo sud della penisola era rimasto in possesso dei bi­zantini.
La volontà dei re longobardi che risiedeva­no a Pavia di farsi valere nei due ducati, che dalla loro posizione periferica derivavano la possibilità di una politica indipendente appog­giandosi alla Santa Sede, all'esarca e a Bisanzio, portò a una serie secolare di spedizioni militari attraverso l'Italia centrale e contro l'Esarcato; ma queste spedizioni provocarono la reazione del papato, che temeva l'occupa­zione di Roma e di conseguenza una meno­mazione della propria libertà religiosa e delle proprie possibilità di azione ecumenica. Poi­ché l'impero d'Oriente non aveva la capacità di contenere efficacemente la pressione longo­barda, la Santa Sede invocò l'aiuto dei franchi.
I franchi intervennero ripetutamente con la diplomazia e con le armi; alla fine Carlo Ma­gno vinse la resistenza dei longobardi, si im­padronì del loro regno (774), e riconobbe la autorità del papa su quei territori dell'Italia centrale - da Ravenna a Roma - che erano stati dominio bizantino e che diventavano « patrimonio di San Pietro» ossia « Stato del­la Chiesa », mentre al sud sopravvivevano il ducato longobardo di Benevento e gli ultimi domini bizantini.
Da questa ripartizione e dalla diversità del­le ulteriori vicende storiche che ne furono la conseguenza trae origine il diverso sviluppo so­ciale, economico, culturale delle varie regioni italiane, compresa l'Emilia che rimase taglia­ta in due sulla linea della Scoltenna (attual­mente chiamata nel suo corso inferiore Pana­ro) divenuta durevole confine politico fra la Longobardia e la Romania, fra i territori che facevano parte dell'antico regno longobar­do, passato sotto il dominio dei franchi, e in cui i longobardi si erano stanziati piuttosto numerosi, e i territori che dopo essere stati governati dai bizantini, comunemente indicati con il nome di « romani », erano passati sotto il dominio dei pontefici romani. Questa. divi­sione non significò tuttavia la frattura della antica unità culturale, fondata sull'omogeneità geografica, sull'organicità del sistema di comu­nicazioni assicurato dalla via Emilia con tutte le sue diramazioni e dal Po, con tutti i suoi affluenti - a quei tempi in gran parte navigabili - e radicata nella comune tradizione regio­nale romana e cristiana, che aveva i suoi cen­tri vitali nelle città.

 

Città e campagna
Fra il IV e l'VIII secolo, al di qua e al di là del Panaro, le città erano l'ombra di quel­lo che erano state in età romana. Qualcuna di queste antiche città era addirittura scomparsa (Velleia, Claterna, Mevaniola), ma tutte erano piene delle macerie degli antichi edifici, danneggiati da incendi, da alluvioni, da eventi bellici, e infine crollati per mancanza di mez­zi sufficienti per ripararli. La popolazione, di­radata e impoverita, si era quasi dovunque raccolta in quella zona della città che era me­no danneggiata, protetta da fortificazioni più o meno rudimentali, ma le città erano. pur sempre il centro amministrativo, economico e religioso del territorio dell'antico municipium, i cui confini - salvo qualche modificazione marginale - erano stati assunti dalle circoscri­zioni diocesane, a loro volta riprese dai duca­ti longobardi prima e dai comitati franchi poi e sono a un dipresso ancora quelli delle at­tuali province.
Le città dell'area longobarda come quelle dell'area bizantina erano sede dei funzionari delegati dall'autorità centrale a esercitare i poteri civili e militari nel centro urbano e nel territorio, per mezzo di funzionari minori che svolgevano la loro molteplice attività nell'am­bito delle ripartizioni territoriali ad essi asse­gnate. Le città erano anche sede del vescovo, capo spirituale della diocesi, superiore gerar­chico del clero cittadino e rurale e protettore della comunità dei fedeli nei momenti di dif­ficoltà e di pericolo, insieme o contro alle au­torità laiche. Alcuni vescovi finiranno addirittura per ottenere dal sovrano i poteri co­mitati nella loro città; tale sarà il caso dei ve­scovi di Parma, Reggio, Modena e dell'arcive­scovo di Ravenna.
Autorità religiose e autorità laiche si vale­vano - sia pure di momento in momento in maniera e in misura diverse - della collabo­razione dei cittadini più autorevoli per vec­chia tradizione familiare, per saggezza, per ric­chezza, mentre tutta una serie di provvedi­menti relativi alla vita quotidiana della collet­tività cittadina erano deliberati dalla colletti­vità stessa, con formalità che ignoriamo, ma certamente sotto la guida o la spinta di quei cittadini autorevoli che abbiamo già ricorda­to: provvedimenti contenuti nell'ambito che era stato proprio degli antichi municipi, ma arricchiiti da un'intensa partecipazione alla vi­ta religiosa, che raggiungeva uno dei suoi mo­menti più appassionanti nella partecipazione dei cittadini all'elezione del vescovo.
La depressione delle condizioni di vita nel­le città trovava riscontro ed era strettamente connessa alla depressione delle campagne. Fra il IV e il VII secolo la generale crisi demo­grafica e le ricorrenti pestilenze, in connessio­ne con le vicende belliche che coinvolsero tan­ta parte delle regioni italiane, Emilia compre­sa, avevano portato all'abbandono di molte terre coltivate: se in molte zone emiliane la centuriazione sopravvisse ed è tuttora ricono­scibile chiaramente sul terreno, in molte altre le terre abbandonate furono invase dai boschi e dagli acquitrini, presenti ai limiti delle ter­re coltivate anche nei momenti di maggior flo­ridezza dell'epoca romana. La situazione fu ag­gravata da alluvioni e straripamenti di fiumi che non sempre ripresero l'antico corso. Parti­colarmente gravi nelle loro conseguenze furo­no le deviazioni del corso del Po, il grande fiume che condiziona con le sue piene il de­flusso delle acque di tutti i suoi affluenti: ne derivarono modificazioni e spostamenti del del­ta, la formazione di nuove paludi accanto al­le antiche, l'insabbiamento di porti e canali.
Nel corso dell'VIII secolo si ebbe una ri­presa agricola e demografica, favorita anche dal­lo stabilizzarsi del dominio longobardo e dalla relativa pace che si instaurò all'interno del re­gno e nelle regioni contermini. Nel corso del IX secolo il disboscamento e la messa a col­tura di nuove terre si intensificarono e venne­ro intrapresi anche lavori di bonifica locale soprattutto a opera dei grandi monasteri ope­ranti nella regione: Pomposa, Nonantola, Bob­bio. Le grandi bonifiche, che esigevano lar­ghezza di mezzi, abbondanza di braccia, effi­cacia di accorgimenti tecnici ed erano condi­zionate dalla possibilità di agire in maniera coerente e unitaria in vasti comprensori, po­terono cominciare soltanto in età comunale.
A partire dall'VIII secolo vediamo gradata­mente apparire una rete sempre più fitta di insediamenti rurali, sia pure intercalati da bo­schi, stagni, paludi: insediamenti in pianura, nelle ultime propaggini appenniniche e pro­spicienti la pianura, arrampicati nelle vallate montane; semplici aggregati di povere case in­torno a una chiesa, intorno alle curtes dei gran­di proprietari fondiari, piccoli borghi fortifi­cati e qualificati come castelli, fossero fortifi­cazioni costruite alla meglio o edificate a re­gola d'arte da parte di chi ne aveva i mezzi e la volontà, a difesa contro i «pagani» - ricordiamo le terribili scorrerie degli ungari nel X secolo - e contro i « mali christiani ». To­ponimi di antica origine romana si alternano a più recenti toponimi di origine germanica, a toponimi che conservano il ricordo dell'ope­ra di disboscamento e di prosciugamento che ha reso possibile la coltivazione delle prime terre, la costruzione delle prime case.
I documenti che mostrano questo progres­sivo moltiplicarsi di insediamenti rurali, par­lando di coltivatori liberi e di servi, conser­vano memoria dei patti agrari, individuali e collettivi - antenati questi delle «parteci­panze» ancor oggi esistenti - caratterizzati dalla clausola ad meliorandum, clausola che im­pegnava i lavoratori a migliorare la terra che veniva loro affidata scavando canali di scolo, sradicando sterpi, piantando viti e olivi. Que­sti documenti rivelano anche il formarsi di signorie rurali, cioè di grandi complessi fon­diari in cui il proprietario laico o ecclesiasti­co, per il fatto di possedere la terra, eserci­tava nei confronti degli uomini che la lavora­vano autorità giurisdizionale penale e civile, sostituendosi alle autorità pubbliche e non di rado imponendosi anche a chi risiedeva su ter­re adiacenti alle sue, ma appartenenti a medi e piccoli proprietari, a proprietari coltivatori, mai completamente scomparsi. Molti di que­sti grandi proprietari erano enti ecclesiastici, vescovadi, capitoli canonicali o monasteri: il loro patrimonio s'era formato nel corso dei . secoli con le donazioni di re e imperatori, con lasciti di persone pie; i patrimoni laici deri­vavano dal convergere di più o meno remote eredità, da compere, concessioni regie, da usurpazioni di terre ecclesiastiche ricevute un tem­po in godimento, ma in un caso e nell'altro, i prodotti agricoli eccedenti il fabbisogno delle singole aziende agricole e dei proprietari – e nel caso degli enti ecclesiastici delle opere as­sistenziali da essi dipendenti - erano convo­gliati in città e immessi nel mercato cittadino.
Nelle città situate lungo la via Emilia le attività commerciali e artigiane non erano ve­nute mai meno: i documenti sempre più nu­merosi via via che si scende nel tempo, dal­l'VIII al X-XI secolo, attestano l'esistenza di mercati e di fiere, di porti fluviali, di canali navigabili, e ci mostrano anche artigiani e mer­canti che comprano e vendono case e terre­ni, ottengono concessioni livèllarie ed enfiteu­tiche dagli enti ecclesiastici, e i loro figli sal­gono nella scala sociale, diventano notai o ec­clesiastici, ricoprono cariche pubbliche, entra­no in rapporto di dipendenza personale con qualche potente.
Intanto, da un punto di vista politico, la regione si andava ristrutturando intorno a due poli, la casata dei da Canossa, e la sede arci­vescovile di Ravenna.

Dominazione dei da Canossa e degli arcivescovi di Ravenna - La formazione dei comuni

Adalberto Atto di Canossa era stato nomi­nato dall'imperatore Ottone I conte di Mode­na e Reggio (951) e da Ottone II conte di Mantova (977): a questo primo nucleo ven­nero poi aggiunti i comitati di Parma, Piacen­za, Cremona, Bergamo, Brescia; Tedalda, figlio di Adalberto Atto, ottenne dal papa Giovanni XV il comitato di Ferrara (984): le città del­l'Emilia occidentale venivano casi inserite in un vasto principato territoriale che si estende­va dalle Prealpi all' Appennino e che ebbe un notevolissimo ingrandimento quando Bonifa­cio, figlio di Tedalda, divenne marchese di Toscana (1027).
La Santa Sede non era mai stata in grado di governare direttamente e con efficacia le terre dell'Esarcato, dove si era andata di fatto affermando l'autorità degli arcivescovi di Ra­venna, che Ottone III aveva poi riconosciuto come governanti di questa specie di principa­to ecclesiastico che si estendeva da Imola a Ferrara, Comacchio, Rimini e il Montefeltro (999). Bologna - appetita sia dai canossiani che dagli arcivescovi ravennati - rimase fuo­ri dell'uno e dell'altro complesso territoriale non perché fosse in grado di esprimere e realizzare esigenze autonomistiche, ma per volon­tà degli imperatori, in relazione alla loro poli­tica generale.
Né canossiani né arcivescovi si adoperarono per dare alle città e ai territori soggetti alla loro autorità ordinamenti unitari e omogenei e si limitarono a mettere uomini di fiducia nei posti di comando: nominarono i conti, influi­rono pesantemente sull'elezione dei vescovi e degli abati dei grandi monasteri, insediarono loro vassalli in molte località rurali e recipro­camente introdussero nelle file dei loro vas­salli i maggiorenti di altre località rurali, of­frendo loro terre e incarichi in cambio di un giuramento di fedeltà. Tutti furono coinvolti quando tra papato e impero si aperse quel gravissimo conflitto che è conosciuto con il nome di « lotta per le investiture» e che ave­va per obiettivo la liberazione della gerarchia ecclesiastica - a tutti i livelli - da ogni in­tromissione dei poteri laici e la riforma dei co­stumi del clero, la cui corruzione era gene­ralmente attribuita appunto a questa ingerenza e alla troppo larga partecipazione dell'alto clero alla vita politica. La contessa Matilde ultima erede della casa di Canossa - mise la sua potenza politica e militare al servizio del­la Chiesa, mentre gli arcivescovi di Ravenna, con tutti i loro suffraganei, si schierarono nel campo opposto, come imponeva la loro lun­ga tradizione di fedeltà all'impero. Tale di­versità di orientamento culminò da un lato nell'umiliazione di Enrico IV a Canossa (1077) e nell'assedio di Monteveglio (1090), dal­l'altro nell'elezione dell'arcivescovo Ghiberto, nominato papa dal partito imperiale e contrap­- posto con il nome di Clemente III a Gregorio VII (1080-1100).
Era un conflitto politico, ma anche religio­so e non interessava soltanto gli appartenenti a quei gruppi di maggiorenti che avevano sem­pre avuto attività politico-amministrative col­laborando con il conte locale e con il vesco­vo. Non erano in gioco soltanto interessi ma­teriali connessi all'esercizio delle attività tem­porali dei vescovi e alla amministrazione dei beni ecclesiastici che avevano offerto a molte famiglie cittadine la possibilità di acquistare potenza e ricchezza: erano in gioco profondi in­teressi spirituali, l'esigenza di essere guidati a quella salvezza eterna, in cui tutti credevano, da sacerdoti moralmente esemplari e dottrinal­mente preparati, e tutti i ceti sociali si but­tarono nella lotta tanto più appassionatamente quanto più acuti erano in sede locale i motivi per contestare il clero mondanizzato e corrotto, il vescovo o il conte che lo sosteneva, il modo in cui vescovi e conti esercitavano i loro poteri temporali. In circostanze che non sem­pre si riesce a ricostruire puntualmente, furo­no i maggiorenti locali che - città per città, nella regione emiliana come nel resto dell'Ita­lia centro-settentrionale - presero il controllo della situazione e dettero vita a quel nuovo ti­po di ordinamento cittadino che fu il comune, fondato al suo inizio su un accordo giurato tra i promotori e la base, generalmente piutto­sto ristretta, dei loro sostenitori, appartenenti anch'essi ai ceti abbienti, proprietari terrieri e mercanti. In qualche caso - per esempio a Bologna - a far maturare la situazione con­tribuì l'emozione religiosa suscitata dalla pre­dicazione della crociata, che facilitò la conci­liazione e l'accordo tra individui di tendenze diverse. Quasi dovunque il nuovo ordinamento favorì l'insediamento di nuovi vescovi segua­ci della riforma e la ripresa in nuove - forme dell'antica collaborazione fra vescovi e cittadi­ni. Come nelle regioni vicine, i comuni della regione si arrogarono l'amministrazione del­la giustizia, l'esazione dei tributi, il control­lo delle strade e dei fiumi, la promulgazione di leggi. I complessi territoriali che si erano formati intorno ai da Canossa e agli arcive­scovi di Ravenna si sfaldarono, ma i comuni, sotto la guida dei consoli - era questo il ti­tolo scelto dai capi del nuovo sistema di go­verno cittadino - estesero progressivamente la propria autorità politica ed economica al di là della zona suburbana, su tutto il territorio della diocesi, sentita come naturale pertinen­za della città; si imposero ai signori locali e li costrinsero a prender dimora in città per po­terli meglio controllare; si imposero ai comu­ni che si erano nel frattempo formati anche dei villaggi, nei borghi fortificati, nei castel­li dove gli abitanti si erano organizzati e ave­vano posto dei limiti ben precisi all'autorità nei villaggi, nei borghi fortificati, nei castel­li del territorio diocesano-comitale, i comuni si scontrarono l'un con l'altro e si affrontarono in una interminabile aggrovigliata serie di guer­re su tutti i confini, alternamente concludendo e rovesciando alleanze, trascinati da un'irresi­stibile volontà di potenza.

 

Le libertà comunali - La Lega lombarda

Sul «libero comune» e le libertà comunali si è fatta molta retorica: la società comunale non era una società democratica ed egualita­ria quale possiamo intenderla oggi; tuttavia è nelle città rette a comune che per la prima vol­ta, dai tempi di Roma repubblicana in poi, i singoli ridiventano da sudditi cittadini, cioè membri di una comunità politica nei confron­ti della quale hanno diritti e doveri definiti dalle leggi e dalle consuetudini. Nessuno anco­ra riconosceva agli avversari politici diritti u­guali ai propri e tutti tendevano a sopraffarsi con la forza; l'accesso alle cariche pubbliche, che erano elettive e a tempo limitato, era con­dizionato dal censo, tanto più elevato quanto più - era importante la carica e la partecipa­zione all'arengo, cioè all'assemblea cittadina, era riservata a quanti avessero una sia pur mi­nima proprietà immobiliare, ma nessuna altra forma di governo fino alla rivoluzione ameri­cana o alla rivoluzione francese offrirà a un maggior numero di cittadini maggiori possibi­lità di partecipare alla vita politica. Nullate­nentie salariati ne erano esclusi, ma la loro libertà personale era protetta - « l'aria della città fa liberi », si diceva - e tutti avevano coscienza di far parte di una comunità che ave­va le sue tradizioni civili e religiose e le sue specializzazioni mercantili e artigiane, che ave­va nemici contro cui ci si doveva difendere e amici che bisognava aiutare. Tutto questo e­merse in piena evidenza al momento della lot­ta contro Federico Barbarossa, che ebbe il suo e­picentro a Milano, ma coinvolse anche le città emiliano-romagnole, che da Piacenza a Ri­mini entrarono nella Lega lombarda o si schie­rarono con l'imperatore, qualcuna spostandosi ripetutamente da uno schieramento all'altro.
Più che le vicende di questa lotta memoran­da conclusa con l'inserimento dei comuni nel­la struttura politico-amministrativa dell'impe­ro, conviene ricordare che la Lega sembrò dar vita a un sistema ben articolato, capace di e­quilibrare le autonomie locali e un'autorità in­tercittadina, capace di garantire la pace terri­toriale, la pronta e sicura amministrazione del­la giustizia nelle cause fra cittadini di città diverse, la libera circolazione di uomini e mer­canzie, la stabilità e reciprocità del sistema do­ganale, affrontando anche il problema della li­bera navigazione del Po. Senonché, cessato il pericolo della guerra con l'imperatore, fra le città che avevano fatto parte della Lega rie­mersero tutte le antiche rivalità e inimicizie per un momento sopite, ed altrettanto avveni­va in Romagna dove l'impero cercava invano di instaurare un ordinamento unitario.

Evoluzione delle istituzioni comunali

Le guerre fra comuni, combattute dall'eser­cito cittadino, non dovevano essere ancora guer­re totali e disastrose come quelle di mezzo se­colo dopo: la popolazione continuò a crescere e si rese necessaria la costruzione di nuove e più ampie cerchie di mura, di nuove e più am­pie cattedrali, che erano a un tempo luogo di culto e luogo di riunione. Analogamente a quanto avveniva nel resto dell'Italia comunale, anche nelle città della regione le istituzioni ven­nero perfezionate sostituendo l'arengo con un consiglio maggiore e un consiglio minore, meglio regolati nelle procedure e nelle competenze, e mettendo al posto del collegio dei consoli un « podestà », dapprima cittadino e poi forestiero - per esser certi che fosse imparziale nello svol­gimento delle sue funzioni - coadiuvato da una pluralità di altri funzionari che provvedevano al­le crescenti esigenze della collettività, e per o­spitarli fu necessaria la costruzione di palazzi comunali di adeguata capienza. Le circostan­ze in cui avvennero questi cambiamenti mo­strano che essi furono dovuti a un allargamen­to della base politica e un ulteriore allarga­mento si ebbe con la partecipazione al gover­no dei rappresentanti delle associazioni popo­lari - corporazioni di mestiere e società ar­mate - e l'istituzione del «capitano del po­polo», forestiero come il podestà e per le stes­se ragioni. Ma le rivalità che dividevano in fa­zioni le grandi famiglie cittadine e le grandi famiglie rurali inurbate, o contrapponevano « nobili» e «popolari» si esasperarono dovun­que, soprattutto quando la politica autoritaria di Federico II riaprì il conflitto tra impero e comuni, tra impero e papato. Fu qui che Fe­derico II subì le più gravi umiliazioni: la disastrosa conclusione dell'assedio di Parma e la cattura del figlio Enzo alla battaglia della Fos­salta. Ma anche dopo la morte dell'imperatore (1250) i dissensi continuarono.
Le fazioni prendono nome dalle grandi fa­miglie che le guidano - Rossi e Sanvitale, Ai­goni e Grasolfì, Geremei e Lambertazzi, ecc. - si proclamano guelfe o ghibelline, ma nel loro schieramento non c'è nessun contenuto i­deologico, nessuna aspirazione a una migliore giustizia sociale: c'è solo una sfrenata volontà di potenza e di arricchimento nei maggiori, la volontà dei gregari di sfruttare a proprio favo­re la vittoria dei capi, assicurandosi vantaggi e privilegi da cui si vogliono escludere gli av­versari. In questo clima quasi dovunque ven­gono emanate leggi speciali contro i nobili, con­tro i ricchi riottosi e prepotenti: leggi che do­vrebbero contenerne la potenza e che in realtà li mettevano fuori legge.
Nessuna delle città situate lungo la via E­milia ha una storia esclusivamente sua: in bre­ve tempo un buon cavaliere poteva trottare dall'una all'altra traversando borghi e castelli, le notizie si diffondevano rapidissime, così che i sommovimenti di una città si ripercuo­tevano immediatamente in tutte le altre, e cul­minavano nell'espulsione in massa della parte soccombente. Gi esiliati trovavano rifugio nel­le città vicine, si organizzavano sotto il nome di «comune dei fuorusciti» (comune extrinse­corum) e cercavano la via del ritorno in pa­tria con le armi e l'appoggio delle fazioni del­le città vicine.
Le lotte continue sono in realtà conseguen­za della parità di forze dei contendenti, né il governo, emanazione dell'uno o dell'altro, è in grado di farsi obbedire, mentre le associa­zioni popolari, pur essendo numerose e aven­do posti nel governo, non sono abbastanza for­ti per imporsi quale centro di gravità della vi­ta politica, come a Bologna: nelle città di Ro­magna, relativamente piccole e situate in un ambiente ad economia esclusivamente agricola, le classi popolari erano abbastanza numerose per organizzarsi in associazioni e ottenere la partecipazione al governo, in forma più o me­no larga, ma non erano abbastanza forti nu­mericamente ed economicamente per dirigere la politica comunale ed erano diventate an­ch'esse strumento di lotta nelle mani dei ca­pipartito. Infine anche Bologna finì per essere travolta: la città, che dalla presenza dello Stu­dio e dalla frequenza di studenti provenienti da tutte le parti d'Italia e d'Europa derivava una prosperità economica e una consistenza de­mografica che avevano favorito e sostenuto la prevalenza delle associazioni popolari al gover­no e una politica egemonica - quando non era aggressiva - nei confronti delle città vicine, finì per essere coinvolta nei dissidi che le dila­niavano e per espellere dopo lotte violentissi­me il partito dei ghibellini Lambertazzi (1274): ma in questo momento si stava preparando un avvenimento che avrebbe inciso per secoli nel­la storia di Bologna e della Romagna.

 

Bologna e la Romagna sotto il governo papale - Le signorie

La politica di Carlo d'Angiò, che, ottenuto per volontà del papato il regno dell'Italia me­ridionale, tendeva a conseguire una posizione di predominio anche nell'Italia centro-setten­trionale, spinse la Santa Sede a cercare di e­quilibrarne la potenza favorendo l'elezione im­periale di Rodolfo d'Asburgo e facendosi for­malmente riconoscere il possesso della Roma­gna e di Bologna, comprese nelle antiche do­nazioni carolinge, ma nelle quali - da Carlo Magno in poi - tutti gli imperatori avevano svolto un'attività di governo che non teneva molto conto degli antichi diritti papali.
Concluso l'accordo con Rodolfo il 4 maggio del 1278, Nicolò III inviò in Romagna i suoi rappresentanti con il preciso mandato di ripor­tare l'ordine e la pace nella turbolenta regio­ne. L'azione di governo, che, obbedendo a tali direttive, i «rettori» di Romagna cercarono di svolgere, suscitò contrasti e . opposizioni ir­riducibili, accompagnata com'era dalla rigorosa esazione di imposte, dall'obbligo di fornire con­tingenti militari, da inframmettenze negli af­fari interni della città, dall'imposizione di gros­se multe alle comunità cittadine troppo lente nell'ubbidire agli ordini, da controlli e limi­tazioni del commercio dei prodotti agricoli, che era l'unica grande risorsa economica loca­le. Né riscosse favore l'iniziativa di riunire as­semblee provinciali con la partecipazione dei signori feudali, dell'alto clero e dei rappresen­tanti delle città: queste assemblee, sebbene fos­sero convocate saltuariamente, avrebbero po­tuto assumere importanti funzioni consultive e di controllo, e diventare vere e proprie as­semblee parlamentari, come quelle che sullo scorcio del XIII secolo stavano formandosi in altre regioni italiane (Friuli, domini sabau­di, Sicilia) ed europee.
Da 1279 in poi sarà invece tutto un susse­guirsi di rivolte, che si propagavano da una cit­tà all'altra e che accelerarono nelle città roma­gnole, come del resto stava avvenendo in molte altre città italiane, l'instaurazione del governo personale di uomini che nell'incalzare degli e­venti avevano assunto posizioni di primo pia­no. Agli inizi del '300 Ravenna e Cervia era­no ormai. stabilmente governate dai da Polen­ta, Rimini dai Malatesta - che avrebbero poi trapiantato in altre città i vari rami della fa­miglia - mentre Imola, Faenza, Forlì avreb­bero dovuto attraversare difficili momenti di crisi prima di trovare un assetto relativamente stabile sotto il governo – rispettivamente degli Alidosi, dei Manfredi, degli Ordelaffi. Non facile lo stabilizzarsi della dominazione a Mo­dena e Reggio degli Estensi, già saldamente ra­dicati a Ferrara, e incredibilmente aggroviglia­to l'avvicendarsi di uomini e di fazioni al go­verno di Piacenza e di Parma.
Più che il succedersi degli avvenimenti e l'alterno prevalere di un partito sull'altro (fra tumulti cittadini, assedi di castelli del territo­rio e battaglie campali, con tutto il loro se­guito di saccheggi, di incendi e devastazioni che nelle città e nelle campagne coinvolgevano le parti in lotta e la povera gente che avrebbe voluto soltanto vivere e lavorare in pace); e più che le tragedie domestiche che insangui­narono le grandi famiglie in gara, gioverà sot­tolineare due punti: gli uomini che di momen­to in momento raggiungono il potere – in questa regione come nel resto dell'Italia pada­na - appartengono tutti a casate largamente provviste di proprietà terriere, di possessi feu­dali, di castelli e mentre impegnano nei tumul­ti cittadini i propri dipendenti rurali, ricom­pensano i fautori cittadini con assegnazioni di terre nel contado, legandoli con giuramenti di vassaIlaggio. La loro autorità, d'altra parte, non ha altra base giuridica che il conferimento da parte del maggior consiglio cittadino dei pieni poteri politico-amministrativi e del tito­lo di podestà o di capitano o di difensore o addirittura di dominus, cioè di signore. Ed era ovvio che questi signori, pur lasciando in ap­parenza inalterate le istituzioni esistenti, ne condizionassero l'azione e conferissero al loro governo un'impronta nettamente conservatrice.
In questa situazione, Bologna ha un posto a sé: anche qui tra le grandi famiglie si verifi­ca la tendenza al regime personale, validamen­te contenuta e contrastata dalle organizzazioni popolari, fiere della loro lunga, attiva, deter­minante partecipazione al governo; ma a diffe­renza di quanto avviene altrove, gli uomini che riescono ad affermarsi non provengono da casate feudali, ma dall'ambiente borghese: il primo signore di Bologna (1337) fu infatti Taddeo Pepoli, dottore in legge ed erede del­la grande fortuna immobiliare ereditata dal padre esercitando l'attività bancaria; e da una famiglia borghese, che per generazioni aveva esercitato l'attività di beccaio passando poi a quella di notaio, proverranno anche i Bentivo­glio, che dopo vari tentativi tragicamente con­clusi nella prima metà del '400 riusciranno poi a ottenere e conservare il potere fino a 1506.

 

Le crisi del XIV e del XV secolo

Non sempre e non dappertutto la signoria risolse la crisi di governo che travagliava le città; in molti casi l'espediente del concentra­mento del potere nelle mani di un signore, che era in realtà il capo di una fazione, pro­vocò nuovi e più gravi contrasti all'interno e all'esterno. Né possiamo dimenticare che il nuovo sistema di governo allontanò dalla vita politica le classi economicamente attive sosti­tuendo i magistrati eletti dalla collettività con funzionari scelti tra i suoi fedeli dal signore. D'altra parte, nelle crescenti difficoltà che in­debolivano tutta l'economia italiana, in relazio­ne alla mutata situazione dei mercati d'Oltral­pe e del Levante, le corporazioni si preoccu­parono assai più degli interessi immediati di categoria che di quelli generali della colletti­vità, e finirono per diventare strumento, della politica del signore, perdendo ogni possibilità di controllarne e di contenerne gli arbitri. Le signorie esercitarono un'azione politicamente diseducativa a tutti i livelli, e non meno di­seducativa fu l'opera dei loro oppositori, ca­paci soltanto di organizzare congiure e assassi­ni politici e di provocare sovvertimenti che av­vantaggiavano o avrebbero dovuto avvantaggia­re solo i diretti promotori. Sono fatti che non si possono ignorare, abbagliati dallo splendore delle arti, rivolte a glorificazione del signore e del suo mecenatismo, che ignorava molte più vere e vaste necessità del proprio Stato.
Le tensioni locali si intrecciano, d'altra par­te, molto strettamente con i tentativi di affer­mazione politica degli Angioini, che cessano soltanto con la morte del re Roberto (1342); sono connesse con la irresistibile penetrazione dei Visconti, che riuscirono a insediarsi salda­mente, sia pure con qualche interruzione, a Pia­cenza e a Parma, a metter le mani su Bolo­gna (venduta per una grossa somma di danaro dai figli ed eredi di Taddeo Pepoli) e a farsi minacciosamente sentire in tutta la Romagna e risentono infine i contraccolpi, le spinte e­spansionistiche di Venezia, che tendeva a im­padronirsi di Ferrara per controllare la naviga­zione sul Po e a insediarsi in Romagna, ine­sauribile riserva di prodotti agricoli, mentre Firenze tendeva anch'essa a travalicare l'Appen­nino, a penetrare nella pianura romagnola, e tutti si scontrano con l'azione continuamente rinnovata della Santa Sede per far valere i pro­pri diritti in una provincia che nominalmente le apparteneva da secoli, ma che in pratica le riusciva assai difficile governare. Particolare ri­lievo assumono le missioni del cardinale Ber­trando del Poggetto (1319-37) e del cardina­le Egidio Albornoz (1353-57, 1358-67): il primo, che avrebbe dovuto contenere la poten­za dei Visconti e imporre l'alta sovranità pa­pale su tutta l'Italia centro-settentrionale, riu­scì a ottenere successi notevoli ma effimeri, da Piacenza a Parma, Reggio, Modena, Bologna e su tutta la Romagna dove, nell'impossibilità di eliminare i signori locali, venne adottato l'espediente di riconoscerne e legittimare l'esi­stenza conferendo loro il titolo di vicari del pontefice e richiedendo un giuramento di fe­deltà, che avrebbe consentito di agire contro di loro se questa fedeltà fosse venuta meno. Ma l'insanabile contrasto fra le autonomie locali e l'accentramento papale che il «rettore» ten­deva a instaurare, obbedendo al mandato ri­cevuto e all'indole sua, provocò una serie di insurrezioni e di rivolte particolarmente vio­lente in Romagna. Più abile e accorto nella sua azione politica fu il cardinale Albornoz, che limitò la sua azione allo Stato della Chie­sa e cercò di creare un sistema di poteri lo­cali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, alcuni dei principali signori cittadi­ni, ma cercando di evitare che potessero far blocco fra di loro e costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio della sovranità pa­pale, che si sarebbe dovuta esplicare nel qua­dro dell'ordinamento regionale, avente al suo vertice il rettore e il parlamento e la sua nor­mativa nelle costituzioni egidiane che sareb­bero rimaste in vigore fino a 1796.
Nel XV secolo, in contraddizione con la po­litica perseguita dai loro predecessori, due pon­tefici vollero creare proprio in Romagna uno Stato per le loro famiglie: Sisto IV conferì al nipote Girolamo Riario il vicariato di Imola e di Forli, mentre Alessandro VI, approfittando della complessa situazione determinata dagli interventi francesi contro il regno di Napoli e il ducato di Milano, inviò il figlio Cesare Bor­gia a riconquistare in nome della Chiesa le città di Romagna, che di fatto avevano riven­dicato la più completa autonomia, con il pro­posito di assicurargli uno Stato nella turbolen­ta provincia. Partendo da Cesena, da tempo già assicurata al diretto governo papale, l'impresa iniziò con l'occupazione di Imola, Forlì, For­limpopoli, invano strenuamente difese da Cate­rina Sforza, vedova di Girolamo Riario (1499). Pandolfo Malatesta cedette senza combattere il dominio di Rimini; Faenza, fedele al suo giovane signore Astorre Manfredi, resisté eroi­camente, ma dovette capitolare (1501). Cesa­re Borgia, proclamato dal papa duca di Roma­gna, si preparò ad attaccare Bologna, che da più di cinquant'anni era governata dai Bentivoglio, apertamente sostenuti dagli Sforza di Milano, dalla repubblica di Venezia, dal comu­ne di Firenze, quale elemento di stabilità in un settore geograficamente e politicamente as­sai delicato.
La morte di Alessandro VI privò repentina­mente il Borgia di quell'appoggio politico e fi­nanziario che gli era necessario per continua­re le sue imprese e l'elezione di Giulio II segnò la fine del suo dominio che del tutto involontariamente aveva preparato la definitiva sottomissione della Romagna alla Chiesa: le cit­tà romagnole a una a una si arresero alle armate papali e anche Giovanni Bentivoglio finì per cedere e lasciare Bologna che si sottomise al pontefice: il solenne ingresso di Giulio II in città, l'11 novembre del 1506, segnò l'inizio di una nuova fase della storia bolognese.
Mentre Parma e Piacenza, passate dal domi­nio visconteo a quello sforzesco erano poi al­ternamente riprese dai francesi padroni di Mi­lano, dagli Sforza, dalla Santa Sede, cui s'erano ad un certo momento più o meno spontanea­mente date, solo assai più tardi avrebbero tro­vato una sistemazione definitiva sotto la dina­stia dei Farnese, insediativi da Paolo III, la si­gnoria Estense fu la sola che riuscisse a superare la tempesta conservando Ferrara e ricuperando Modena e Reggio, che ad un certo mo­mento le erano state sottratte dalla Santa Sede.
La regione rimase cosi divisa in quattro parti caratterizzate da un diverso sistema di go­verno.

 

Fonte: http://www.emilianoromagnolinelmondo.it/wcm/emilianoromagnolinelmondo/storia_cultura/storia_cultura/gruppo_pagine_01/medioevo/Il_Medioevo.doc

 

Medioevo

BASSO MEDIOEVO (XIII-XIV)

 

L’ampio processo di scrittura e sistematizzazione della vita giuridica che si mette in moto nel XII secolo spinge ad una forte istituzionalizzazione la Chiesa. Ai re vengono sottratti gli uffici ecclesiastici (amministrazione dei sacramenti) ed anche il loro comando sul mondo laico tende ad essere integrato e subordinato alla gerarchia dei chierici. Il potere terreno (re e imperatori tedeschi) si mette sulla difensiva ed è spinto a produrre elaborazioni culturali per la propria legittimazione. A partire dal XIII secolo si accentua la contrapposizione fra tre tendenze principali: sovranità assoluta del papato (Innocenzo III inizio ‘200, Egidio Colonna), dell’imperatore (Marsilio da Padova, Ockham, Glossatori), di ogni comunità autosufficiente, sia essa un regno, un dominio o un singolo comune (Quidort, Bartolo da Sassoferrato).

 

INNOCENZO III (ca. 1200)
Supremazia della Chiesa sull’Impero e sulle comunità politiche minori, grazie al suo primato nel campo spirituale, in quanto depositaria della fede cristiana. Tale supremazia si esplica nel potere giurisdizionale della Chiesa, arbitro supremo nel dirimere i conflitti interni alla Respublica Christiana; in pratica deve poter sindacare nell’elezione dell’Imperatore, sulla sua degnità e sul fatto che le azioni dei re non siano peccato.

 

EGIDIO COLONNA
De regimine principum (1285)
De ecclesiastica potestate (1302)
Conflitto fra il papa Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo il Bello; il re vuole sottoporre a tributo le grandi proprietà ecclesiastiche; la controversia sul piano teorico diventa sulla supremazia del potere regio o della Chiesa.
Colonna sostiene la concezione del papa. Il potere politico si fonda sulla forza, l’essenza dello Stato non è il bene comune, ma la struttura che garantisce l’obbedienza ai comandi. Se è così, l’unico modo per conferire legittimità al potere è di istituirlo sulla base del principio di giustizia; e ciò può essere fatto solo dalla suprema autorità spirituale, il pontefice. Dunque il potere dell’Imperatore e dei re deriva dalla plenitudo potestatis del papa.

 

GIOVANNI QUIDORT
De potestate regia et papali (1302)
All’opposto, Giovanni difende le ragioni del re di Francia. I regni, gli Stati, non hanno bisogno di essere legittimati dalla consacrazione ecclesiastica giacché il potere secolare è più antico del sacerdozio cristiano e non ne è derivato. Gli stati derivano dalla natura sociale dell’uomo.

 

DANTE
De monarchia (1311?)
Sostiene l’Impero sul piano temporale. L’Impero è la forza in grado di assicurare la pace universale e la giustizia; esso integra le società particolari, cioè gli Stati, i regni, le città. Vede l’Imperatore come l’unica forza coagulatrice in grado di superare le fazioni italiane e portare la pace. La Chiesa ha la missione di guida spirituale dell’umanità, ma non detiene il potere temporale. L’autorità dell’Impero non dipende dalla Chiesa. Impero e Papato indipendenti l’uno dall’altro, ma pronti a collaborare e a coordinare le proprie azioni. [Skinner: appoggio all’Imperatore come contrappeso al Papa. W. Ullman: soluzione anacronistica perché la realtà politica italiana del tempo era la frammentazione comunale.]

 

MARSILIO  da Padova
Defensor pacis (1324)
Difende la causa di Ludovico il Bavaro, candidato all’Impero ma scomunicato da papa Giovanni XXII, e dunque cerca di dimostrare, attraverso il ricorso ai testi sacri, l’infondatezza della pretesa della Chiesa di esercitare il potere temporale. Teorizza dunque a sostegno dello stato, della supremazia delle sue norme positive rispetto al diritto naturale e divino.
Apprezza la lezione empiristica della Politica di Aristotele. L’origine e il fine dello Stato (e del diritto) sono puramente umani, e dipendono dalla natura sociale dell’uomo; non vi sono presupposti teologici. Le questioni politiche devono essere risolte in base alla razionalità, prescindendo totalmente dalla fede.
Rivendicazione dell’autonomia totale dello Stato. È inutile cercare ordinamenti che realizzino il bene e la giustizia ideali, cui la ragione non può pervenire; la giustizia è una questione mistica e inerente la fede; gli ordinamenti politici devono limitarsi alla prevenzione dei conflitti. La ragione indica che il governo civile, con la sua forza, è necessario come mezzo di pace e di ordine, che sono il maggior bene di una comunità. La ragione umana non può conoscere alcun diritto naturale o divino, solo gli editti positivi dello stato. Non che M. neghi che vi sia una legge divina, con sanzioni ultraterrene, ma appartiene a un ordine diverso da quello terreno: il diritto propriamente detto è il sistema di comandi muniti di sanzione terrena.
Allo scopo di impedire il potere ingiusto, M. enuncia, e connette insieme, due principi molto importanti: la superiorità delle leggi e la sovranità del popolo nel creare le leggi. Circa il primo aspetto, richiamandosi espressamente ad Aristotele, afferma che deve governare la legge, non l’uomo, in quanto la legge è razionalità, intelligenza senza passione; dove non sono sovrane le leggi non vi è Stato propriamente detto. La legge è criterio del giusto e dell’utile sul piano umano, terreno. Essa è comando, precetto coattivo per mezzo di una pena o di un premio, a prescindere dal suo contenuto etico [prima formulazione del positivismo giuridico: riduzione del diritto a comando coattivo dello Stato]. La legge deve rafforzare la vita e la salute dello stato [organicismo: la nazione è un organismo e lo stato è la sua testa].
Per quanto riguarda la sovranità del popolo, il potere coercitivo dei governanti è esclusivo, ma è stato delegato loro dal legislatore umano, cioè la totalità dei cittadini (intesa come la parte “più valida” di essi: gli appartenenti alle corporazioni). La legge ha la sua ragion d’essere unicamente nella volontà espressa dalla totalità dei cittadini; il cittadino è libero se deve ubbidire al comando di una legge alla cui approvazione ha partecipato (in pratica i teorici del diritto formulano le leggi e l’assemblea dei cittadini esprime un giudizio pratico su di esse).
Dunque il potere dei governanti deve essere esercitato nell’ambito delle leggi. Se il governante viola le leggi il legislatore o persone appositamente incaricate devono deporlo (tesi contraria a quella di Tommaso); soluzione “costituzionale” del problema della resistenza attiva al tiranno. [L’analisi va riferita ai Comuni italiani, dunque a strutture di piccole dimensioni. La sua teoria coincide con la difesa delle libertà repubblicane. Per Fassò prima affermazione dottrinale della sovranità popolare. Per Rothbard glorificazione dello stato assoluto, M. dice che lo stato deve avere la sovranità assoluta all’interno del suo spazio geografico, che sia una repubblica cittadina o un regno.]

Una delle principali cause di conflitto (che Aristotele nella sua epoca non poteva indicare) è la pretesa della Chiesa di esercitare una giurisdizione nell’ambito dell’ordine temporale. Contro la pretesa dei papi a ergersi a sovrani dei governanti. Il Difensore della pace deve essere l’imperatore.
Da respingere la pretesa della Chiesa di essere esentata dai tributi perché Cristo aveva detto che andava reso a Cesare quello che era di Cesare; e dall’autorità dei tribunali civili, perché S. Paolo nella Lettera ai Romani aveva affermato che tutti devono essere sottoposti alle autorità superiori in quanto i poteri di queste sono ordinati da Dio.
Odio per la Chiesa come istituzione, organizzazione: nell’ambito della Chiesa, superiorità della comunità dei fedeli rispetto alla gerarchia ecclesiastica. L’autorità ecclesiastica non può rivendicare un potere di coercizione neanche nell’ambito della stessa istituzione ecclesiastica, perché la fede non può essere imposta, deve essere spontanea. Solo il governante può punire l’eretico (dopo aver ascoltato il parere dell’ecclesiastico).
M. coglie un altro carattere importante del diritto: i comportamenti giuridici sono quelli connessi con l’intersoggettività, con l’essere ad alterum, che riguardano azioni che toccano gli altri (actus transeuntes, distinti dagli actus immanentes, che rimangono interni al soggetto, come i pensieri o i sentimenti).
Il principe è esente dalla legge. [Kelly: ma già dal XIII prende corpo l’opinione opposta: in Inghilterra la Magna Charta e il De legibus et consuetudinibus Angliae (1258) di Bracton.]

Altri canonisti che sostengono teorie del consenso della comunità relativamente all’autorità del sovrano sono Duns Scoto (ca 1300), Durandus di St. Porcine e Ockham.

Giovanni Duns Scoto (Opus Oxoniense, Reportata Parisiensia) – Causa prima e assoluta è la volontà di Dio, che è causa di se stessa e non è determinata da nient’altro, quindi neppure dalla ragione. Dio vuole ciò che vuole senza nessun altro motivo se non che lo vuole. Le leggi rappresentano il contrario di tale verità.

 

GUGLIELMO  di OCKHAM
Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo
O. filosofo e teologo: volontarismo in antitesi al tomismo: Dio può modificare la morale e il diritto naturale a suo arbitrio; le azioni buone e le azioni cattive differiscono solo perché Dio ha ordinato le prime e vietato le seconde; ma se Dio avesse ordinato l’adulterio o il furto, queste sarebbero azioni buone. La ragione non ha alcun ruolo significativo, non è che il mezzo di notificazione all’uomo della volontà di Dio.
È un empirista radicale: l’unica conoscenza sicura della realtà si fonda sull’esperienza, i concetti e le idee sono delle astrazioni (nominalismo). Dio, la realtà soprannaturale, essendo di là dall’esperienza umana, esulano dal dominio dell’indagine filosofica e sono puro oggetto di fede. Viene quindi meno il problema fondamentale della Scolastica, la spiegazione o la conferma razionale delle verità rivelate; l’uomo, finché è su questa terra, non può che accettare queste verità per fede.
Individualismo metodologico: contro tutta la tradizione platonico-agostiniana, che affermava la realtà delle essenze universali, nature comuni alle cose, O., svolgendo la tesi dei nominales, dichiara che solo gli individui esistono.
“Rasoio di Ockham” o “principio di parsimonia”: nell’esame di qualunque fenomeno, la spiegazione che ha maggiori possibilità di essere vera è quella più semplice; cioè vanno eliminate tutte le ipotesi non necessarie, superflue. Dunque va “tagliata via” con il rasoio la teoria più lunga e involuta, in modo da risparmiare tempo e fatica inutili. Esempi: nell’ambito della dinamica, è sufficiente dire che “se a un corpo in quiete è applicata una forza esso tende a mettersi in movimento”; non c’è bisogno di aggiungere “purché non lo contrasti la forza di uno stecchino” (o di un coltello, o di un martello e così via all’infinito); tra l’altro, dovendo tenere conto di tutte le infinite variabili, non riuscirei a enunciare la legge. Nel campo dell’azione umana un esempio è il prendere la via più breve per arrivare in un luogo, o compiere il gesto più semplice per compiere un’azione.
È utilizzato da O. per sostenere la sua concezione volontarista contro quella razionalistica: il mondo è stato creato da Dio solo sulla base della volontà, e non per intelletto e volontà come sosteneva S. Tommaso; dunque devono sparire gli “universali”, cioè generi e specie, che non esistono in natura, ma sono solo creazioni della mente umana. Devono sparire tutti i concetti relativi a regole e leggi, come quello di sostanza o di legge naturale. [In biologia la teoria degli universali è suffragata dall’esistenza di barriere naturali alla fertilità degli incroci fra specie diverse.]
Oggi: contro le teorie complottiste: la realtà può essere più semplice di un complicato complotto architettato.

Breviloquem de potestate papae (1342)
De imperatorum et pontificum potestate (1347)
Due temi impegnano la riflessione politica di O.: la questione della povertà e i rapporti tra autorità civile e autorità ecclesiastica. Circa il secondo, tesi sovversiva sulla reciproca autonomia tra Chiesa e Impero; giurisdizione spirituale e secolare devono essere mantenute nettamente separate; Cristo proibì a Pietro di esercitare qualsiasi dominazione sui re e sui popoli.
Il potere civile, come la proprietà, sono istituzioni pienamente umane, storicamente determinate.
Il carattere umano-storico dell’autorità fa respingere a O. la teoria della plenitudo potestatis del papa sostenuta dai fautori della teocrazia: il potere di giurisdizione del pontefice è di natura esclusivamente spirituale. Cristo non è venuto per annullare l’impero di Cesare, anzi ne riconosce la legittimità.
Il potere non è tributario dell’autorità spirituale del papa, l’autorità ecclesiastica non può interferire con l’autorità temporale in materia politica e civile. Il carattere umano-storico dell’autorità demolisce anche la pretesa infallibilità del papa.
L’autorità civile può punire l’eresia, il peggiore dei mali, dunque può ingerirsi negli affari spirituali.
Le leggi positive degli uomini, se sono in contrasto con le leggi divine, sono senza valore.
Nell’ambito dell’autorità civile, il potere si fonda sulla volontà e sul consenso del popolo (della parte sanior, più forte e più valida) ed è limitato dai diritti e dalle libertà dei cittadini. Nessuna comunità può conferire un potere assoluto al governante perché nessuna comunità ha un potere assoluto sui suoi membri.
Secondo Villey, O. è il primo a usare il termine ius nel senso di diritto soggettivo. Quando O., in una disputa con il papa, si oppone al fatto che i francescani potessero avere delle proprietà, distingue lo ius dall’usus in termini che danno al “diritto” una colorazione più soggettiva di quella contenuta nel concetto romano di ius.

[Skinner:] la Scuola dei Glossatori1, interpretando il più letteralmente possibile il codice di Giustiniano, proclamava che il princeps, equiparato all’Imperatore del Sacro Romano Impero, doveva essere l’unico reggitore del mondo. Ciò comportava che i Comuni del Regnum Italicum (la parte dell’Italia settentrionale corrispondente al regno lombardo del Basso Medioevo; in seguito si considereranno anche i comuni del centro) non avrebbero potuto rivendicare alcuna indipendenza de jure dall’Impero.
Il giurista BARTOLO da SASSOFERRATO (commentario del Digesto, ca. 1350) reinterpreta il codice di Giustiniano in una prospettiva più favorevole ai Comuni. Sostiene B.: la legge (intesa come legge dell’Impero) deve sempre piegarsi ai fatti. Poiché i Comuni si danno de facto leggi autonome (statuta), essi detengono sulla loro popolazione lo stesso potere che l’Imperatore possiede in generale, il merum Imperium. Anche se non c’è stata una concessione da parte dell’Imperatore, B. propone di seguire il principio per cui se possono dimostrare che hanno esercitato il merum Imperium di fatto, allora ne hanno anche diritto. La sovranità effettiva comporta la sovranità giuridica. È un passo rivoluzionario, in quanto nel diritto civile viene introdotta la possibilità di essere riconosciuti come entità sovrane completamente indipendenti [primo esponente della sovranità dello Stato]. Giuristi francesi della corte di Filippo il Bello compiono la stessa operazione, estendendo ai regni dell’Europa settentrionale la dottrina applicata ai Comuni. Filippo di Leida riferisce la massima rex imperator in regno suo alla contea d’Olanda.
Per quanto riguarda la struttura istituzionale interna di queste entità sovrane, posizione simile a quella di Marsilio: teoria della sovranità popolare; la sovranità viene delegata, mai alienata; in più, nell’atto di instaurazione di uno Stato i cittadini non conferiscono al governante nessun potere maggiore di quello posseduto da loro stessi, assicurando così che lo stato giuridico del governante sia quello di un rector della collettività [importante contributo al costituzionalismo successivo].
[Tutto ciò confermerebbe che la lunga lotta dei comuni contro l’Imperatore (due secoli) aveva fatto sviluppare anche un sostrato ideologico, in particolare il concetto di libertà come 1) indipendenza politica e 2) diritto all’autogoverno (repubblicano). Tuttavia alla fine del Duecento le esperienze repubblicane dei comuni italiani, a causa delle lotte fra fazioni, sono state già quasi tutte travolte dalle Signorie.]

 

 

1 Diritto - Nel ‘200 si ha la ripresa dello studio del diritto romano: a Bologna sorge una scuola di giuristi, i “Glossatori” (perché apponevano note esplicative a margine, o glosse, dei passi del testo classico), che si dedica alla ricostruzione analitica e all’esegesi del Corpus juris civilis. Il punto culminante di tale attività è la Glossa di Accursio (1250 circa), che riassume e unifica i precedenti lavori bolognesi, e rappresenta lo strumento della recezione del diritto romano negli Stati europei, conservando il suo valore pratico fino alle codificazioni illuministiche del ‘700. Con i Glossatori ha origine anche, ma solo a livello teorico, il diritto pubblico, che ha per oggetto i rapporti fra individui e potere sovrano. I Glossatori rivolgono l’attenzione agli ultimi tre libri del Codex giustinianeo, omessi dallo studio medioevale perché dedicati alle strutture fiscali ed amministrative di un impero che non esisteva più. Si comincia così a discutere in termini giuridici delle strutture dello Stato e del fondamento del potere che le crea, modifica ed estingue.
Sul piano della filosofia del diritto il loro contributo non è particolarmente rilevante, non mostravano alcun interesse per la filosofia. La legittima fonte del diritto è l’imperatore.

I Commentatori (Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi)
Nel ‘300 la glossa, che si attiene alla lettera della norma, sembra aver esaurito il suo compito. Si afferma un nuovo indirizzo, il commento, più libero dalla lettera del testo romano, e volto al senso della norma più che al significato letterale. I “Commentatori”, attraverso l’uso di un metodo dialettico di ispirazione aristotelico-tomista, svolgono un’opera di ricostruzione logica del diritto che mira a risalire dalla lettera della legge alla ratio del legislatore. Essi svolgono interpretazioni sofisticate del Corpus giustinianeo per adeguare il diritto comune alle circostanze concrete e ridurre ad unità logica il coacervo di fonti del diritto diverse. I Commentatori vedevano nel diritto romano un insieme di principi da adattare alla realtà dei singoli Stati per mezzo di interventi interpretativi. Sia i glossatori sia i commentatori sono interessati in primo luogo all’applicazione pratica del diritto, non alla teoria, che va intravista tra le righe.

 

http://www.rothbard.it/filosofia-politica/16Basso-Medioevo.doc

 

ALTO MEDIOEVO (V-XII)

 

Dopo la caduta dell’impero, con la contaminazione del diritto romano con le norme giuridiche germaniche nei regni romano-barbarici, si accendono numerose controversie sulle caratteristiche, la titolarità e i limiti del potere supremo.
Relativamente alla fonte del potere e del diritto a governare, si delineano due concezioni: “discendente” e “ascendente”. La prima, caratteristica della tradizione romana, affermatasi con Diocleziano e Costantino, è di impianto assolutistico e sostiene che il potere sia originariamente concentrato nelle mani del sovrano, che non ne è debitore verso nessun essere umano (nella versione cristiana si è visto che questo potere è stato conferito al sovrano da Dio); i sudditi non hanno alcun ruolo nelle condizioni del suo esercizio e devono solo sottomettersi. La volontà dell’imperatore è la principale fonte del diritto.
La concezione opposta, “ascendente”, di tradizione germanica, si afferma nei secoli VII-IX. Essa è basata sull’origine pattizia e consensuale del diritto e dell’autorità politica. Il potere deriva in ultima analisi dal popolo, che lo delega verso l’alto, al sovrano. Il diritto è concordato tra il re e il popolo, e il re è  vincolato al rispetto delle leggi, che gli preesistono.
Tuttavia l’assimilazione culturale e religiosa che il mondo romano e cristiano esercita nei confronti dei Germani invasori converte questi all’idea prevalente che il potere discende dal sovrano. La teoria (in realtà una mera pratica) del potere “dal basso” vive un’esistenza sotterranea e riemergerà solo verso la fine del XIII secolo. In questi secoli tale concezione, secondo cui il potere legislativo del principe è delegato a lui dal popolo, viene articolata da autori quali s. Isidoro di Siviglia (VII) e Incmaro (IX). Incmaro di Reims, consigliere dell’imperatore Carlo il Calvo, nel De ordine palatii teorizza una pratica radicata nel mondo germanico, e cioè il fatto che il diritto fosse una consuetudine immemorabile della comunità, la cornice in cui il re si collocava, e che egli non poteva modificare ad arbitrio. Qualsiasi mutamento doveva ricevere l’approvazione di un’assemblea degli uomini più importanti della nazione. Nell’XI in Manegold di Lautenbach questa idea assume le vesti di una dottrina contrattualistica:

MANEGOLD di LAUTENBACH
Ad Gebehardum (ca. 1085) - Gregorio VII stabilisce che l’investitura ecclesiastica dei vescovi e del clero spetta al papa, non all’imperatore; l’imperatore Enrico IV lo depone; Gregorio VII lo scomunica e scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà all’imperatore e dunque dall’obbligo di obbedirgli.
Manegold sostiene la legittimità della scomunica. Il popolo elegge il re per essere preservato dalla tirannide. L’obbedienza non è assoluta ma delimitata dal comportamento del detentore dell’autorità politica (distinzione fra autorità e persona che la fa valere); il giuramento di fedeltà è un patto che intercorre fra i sudditi e l’imperatore, in cui i primi si impegnano a prestare obbedienza e il secondo a seguire la legge e amministrare con giustizia; se costui viene meno al suo obbligo, e si comporta in maniera tirannica, i sudditi sono automaticamente sciolti dal vincolo di fedeltà; il re decade dalla carica perché ha violato il patto con il popolo. Contro il tiranno è legittima la resistenza. L’opinione di Manegold è dirompente perché per primo legittima il diritto di ribellione da parte dei sudditi.

GIOVANNI di SALISBURY
Policraticus (1159) -  Vescovo inglese. Cicerone fonte di ispirazione. Il potere politico non può essere solo forza e sopraffazione, deve esprimere dei principi metaempirici. È la legge che fa di una moltitudine di individui un corpo politico, con fini comuni. Le leggi sono stabilite dal monarca (sentito il consiglio dell’ordine ecclesiastico), ma egli deve governare nel rispetto di quelle leggi, che devono realizzare l’equità e la giustizia; se non lo fa è un tiranno, e può essere ucciso (una delle prime formulazioni della resistenza attiva).

ENRICO di BRACTON
La sottomissione del re alla legge sarà precisata nel XIII secolo dall’inglese Enrico di Bracton, il cui De legibus et consuetudinibus Angliae del 1258 è considerato da alcuni studiosi (Fassò) il primo annuncio del costituzionalismo (ma di fatto tale sottomissione è contenuta anche nella Magna Charta, 1215). Henry Bracton distingue, entro il potere del monarca, due parti: la iurisdictio, nominalmente subordinata al diritto (non scritto), paragonabile ai poteri legislativo e giurisdizionale; e il gubernaculum, nominalmente non subordinata al diritto, paragonabile al potere esecutivo.

La maggior parte dei pensatori medievali concordava sul fatto che l’esistenza della comunità politica doveva derivare dal precedente consenso degli individui. L’obbligazione politica cioè deriva dal consenso di coloro che creano lo stato sotto cui vivono.
Il dibattito verteva sull’unanimità o meno del consenso. Due significati di consenso: come espressione della comunità intesa in maniera organica, e come concatenazione delle volontà individuali. Secondo i canonisti, per i diritti assegnati a una comunità in senso corporativo, era sufficiente la maggioranza per decidere su di essi; per i diritti assegnati agli individui uti singuli, era necessario il consenso di tutti (la massima del diritto romano quod omnes tangit, ab omnibus approbetur).
L’evoluzione successiva è la formazione di un’assemblea rappresentativa degli appartenenti alla comunità, sulla base del principio della plena potestas che i canonisti mutuano dal diritto romano (rapporto fra mandante e agente nel diritto privato) e applicano a un contesto prima ecclesiastico e poi politico: il rappresentante agisce “come se” colui che ha fornito il mandato fosse presente, cioè con pieno potere, e dunque vincola il rappresentato.

Canonisti
Graziano (Decretum Gratiani, 1140) – Raccoglie una massa di decisioni delle autorità ecclesiastiche, identificabile con il diritto canonico, a quel tempo di forte impatto perché la giurisdizione della chiesa si estendeva a diverse materie (matrimonio, famiglia, successioni).
Sul piano teorico identifica il diritto naturale con la legge mosaica ed evangelica, cioè con la legge divina positiva rivelata. Le leggi terrene contrarie al diritto naturale devono essere respinte.
La proprietà è soggetta all’autorità del legislatore umano, e dunque può essere anche limitata, sospesa o addirittura abrogata. Le parole: iure gentium est distinctio possessionum et servitus; iure naturae est communis omnium possessio et omnium una libertas peseranno come macigni nei secoli successivi, influenzando soprattutto la scolastica.

 
Per quanto riguarda il rapporto fra il diritto e lo Stato nel Medioevo: supremazia della legge. Per la dottrina medioevale (Graziano) il diritto è, rispetto allo Stato, qualcosa di originario e di indipendente. Il compito dello Stato è di attuare una nozione del diritto preesistente e immutabile. Esistono dei limiti giuridici invalicabili anche per le più alte potestà, sia spirituale che temporale. Per il pensiero romano diritto e Stato erano nozioni correlative, lo Stato era concepito in termini di diritto; per il pensiero medievale il diritto è concettualmente distinto ed anteriore allo Stato.
Il diritto positivo è consuetudine, e la legislazione non è altro che una sua redazione scritta. All’opposto della concezione romana, secondo cui la legge e il diritto sono la creazione di una cosciente e deliberata volontà legislatrice, il diritto è concepito come costume, come un aspetto della vita collettiva; l’atto legislativo è il semplice riconoscimento scritto di quanto già vive come diritto negli usi e nei costumi degli uomini. Tale concezione viene in genere ricondotta alla visione del diritto delle popolazioni barbariche.

 

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Il  medioevo

 

     La Sicilia che i Normanni trovarono nel 1061 era una regione ove i capi musulmani in continua lotta tra loro avevano indotto una situazione di anarchia politica, inoltre, una serie di epidemie e carestie, avevano contribuito molto allo spopolamento delle sue contrade, lasciando ampie zone deserte. I centri urbani ancora esistenti erano pochissimi e città come Messina, Milazzo e Rometta, erano poco più che paesi, neppure tanto grandi. Questo stato di cose, rese loro relativamente facile la conquista e l’impostazione ex novo di quello che sarebbe stato il Regno normanno di Sicilia.

    Durante la dominazione normanna l’isola godette un periodo di relativa pace, i nuovi sovrani estesero il loro controllo sul territorio infeudandolo, promossero la propagazione del cristianesimo latino e diedero il via al ripopolamento delle  terre con coloni provenienti da varie zone della penisola. Fino a questo momento, non abbiamo documenti che possono informarci sulla situazione dell’attuale territorio spadaforese, molto probabilmente nelle campagne esistevano uno o più casali, come del resto risulta da documenti di epoca successiva. Tuttavia per far entrare il lettore nell’atmosfera del tempo e aiutarlo a meglio comprendere quali potevano essere i modi di vita nel territorio che ci interessa, ritengo utile dedicare un pochino di tempo a descrivere sinteticamente la vita quotidiana del tempo. 

    Parecchi centri urbani attuali, in quell’epoca non erano altro che “casali”27 inseriti all’interno di un territorio feudale, ossia, sparuti gruppi di capanne, situate in luoghi sopraelevati e con una buona visuale che permettesse di avvistare repentinamente le minacce provenienti dall’esterno.

    I “villani”, cioè i contadini, erano coloro che davano un effettivo valore alle terre feudali e spesso erano ceduti insieme ai feudi ai quali erano vincolati non potendoli lasciare per trasferirsi in altre terre. Spesso la consistenza numerica dei villani esistenti in un feudo non superava i due o tre nuclei familiari. Si trattava di povera gente, abbrutita dalle disagevoli condizioni di vita, il cui destino era lavorare la terra e cercare di sopravvivere. Troppo spesso ci dimentichiamo di loro eppure, quale grande importanza hanno avuto questi anonimi individui nello sviluppo della storia umana.

    Le abitazioni in cui vivevano questi villani erano dei semplici “pagliai”, ossia delle piccole capanne costruite con pietre a secco e coperte con tetti rivestiti di rami di ginestra. All’interno qualche giaciglio di paglia, un focolare, una cassapanca contenente poche stoviglie di terracotta, pochissimi gli strumenti in metallo. I metalli erano all’epoca scarsi si riciclavano e venivano utilizzati principalmente per costruire armi e attrezzi agricoli.

   L’alimentazione dei contadini era molto povera basata sui cereali, principalmente il grano e l’orzo, i quali all’epoca avevano una scarsa resa produttiva, pochi ortaggi, frutta che veniva raccolta nei boschi, principalmente pere, mele, ciliegie, fichi, castagne. Le proteine animali venivano da uova, latte, formaggi, ricotta, selvaggina e carne di capra, pecora e maiale. L’igiene era praticamente inesistente, si dormiva insieme agli animali e ciò spiega la facile diffusione di malattie epidemiche quali la peste28 e la lebbra. Per i conforti religiosi, questi uomini, si appoggiavano alle chiesette dei monasteri basiliani che già esistevano sul territorio o dei nuovi monasteri di rito latino che con sempre maggior frequenza venivano edificati nelle varie contrade.

Questo standard di vita è applicabile a tutta la Sicilia del tempo e quindi anche ai possibili abitanti del territorio spadaforese. Di essi e del forte legame di questo territorio con la città di Messina abbiamo le prime tracce a partire dall’ultimo quarto del XIII secolo. Infatti, sbirciando tra la ripartizione di collette e la distribuzione di monete, nel computo dell’amministrazione angioina vediamo comparire in documenti del 1270, nella piana di Milazzo, vari casali tra cui San Martino29, e tra gli atti della Cancelleria Angioina appare anche il nome di un tale Leone Callupo di San Martino, il quale figura fra la vasta schiera di actorum notarii (notai d’atti), formati presso la sede messinese tra gli anni 1271- 127230.
 

 

 

 


Particolare tratto da una mappa disegnata da Camillo Camiliani (sec. XVIII).
Sono riportati S. Martino e Cinetico (Venetico)

 

Il periodo che sto trattando è momento storico è particolare, la nobiltà feudale messinese cominciava ad assumere un forte controllo sulla vita della città. L’ascesa di questa classe sociale era iniziata in occasione delle turbolente vicende belliche che avevano segnato l’avvento del regno angioino. Approfittando del momento d’anarchia seguito alla caduta degli svevi e profittando dell’assenza di un efficace controllo regio sul patrimonio demaniale molti si erano impossessati dei beni posseduti dai seguaci degli svevi oppure avevano usurpato cospicue quantità di terra o diritti spettanti al demanio regio.

    Per contrastare il fenomeno delle usurpazioni e venire a capo di questa situazione, il 25 febbraio 1270 Carlo d’Angiò aveva ordinato al Secreto di Sicilia di condurre una scrupolosa e rapida indagine per accertare il numero delle contee, baronie, feudi, castelli e beni burgensatici esistenti in tutta l’Isola31.

    Dall’inquisitio, risultò che le aree demaniali maggiormente soggette al fenomeno dell’usurpazione erano quelle del territorio di Messina e della fertile Piana di Milazzo. Fra le terre usurpate al Regio Demanio, in un atto della Cancelleria Angioina datato 4 maggio 1273, risulta anche il casale di San Martino, del quale si era appropriato insieme al casale di Gricino (Drizzinus) e del tenimento detto Mutus, il milite messinese Roberto di Mileto. Gli inquisitori angioini, avevano stimato in oltre 100 onze il valore di questi beni, che ora rivendicavano al demanio32.

    Tanto interesse  per le terre della Piana di Milazzo era dovuto al fatto che la città di Messina, a causa dell’infelice struttura del suo territorio, per niente adatto alla coltura di frumento, era da sempre costretta ad importare questo prezioso alimento da altre zone dell’isola. Nonostante tutto i messinesi non potevano avere mai la sicurezza di un costante approvvigionamento alimentare e per risolvere, almeno in parte, il problema  si adoperarono per allargare i confini del distretto cittadino. Nel 1294 questo distretto andava da Escalecta usque ad Sanctum Gregorium, ossia da Taormina a Gesso, ma nel 1302 esso fu esteso fino a Milazzo, la cui piana, quasi interamente coltivata a frumento contribuiva a soddisfare le necessità alimentari della città, che nel Duecento era in piena esplosione demografica.

 

    Per sopperire all’infelice posizione geografica formata da zone montuose e serie di colline i messinesi  adottarono sistemi di coltura intensiva che li spinse alla conquista agricola delle aree collinari, mediante la fondazione di numerosi casali, che spesso furono situati lungo le fiumare. I casali fornivano generi alimentari alla città, ma ne dipendevano per il rifornimento granario. Le colture principali erano la vigna e l’ulivo. La produzione del vino eccedeva notevolmente i consumi locali e costituiva una delle voci più importanti dell’esportazione. Secondo un uso comune dell’agricoltura medievale i vigneti erano inframmezzati da alberi da frutto, la cui  produzione era  appena sufficiente per il consumo interno.

   Alla fondazione dei casali era collegato anche l’allevamento del bestiame il quale nonostante le difficoltà dovute alle colture intensive, annoverava buoi da lavoro, muli, asini, maiali, montoni e polli. Un altro elemento importante collegato alla fondazione dei casali era lo sfruttamento del bosco, e in particolare il taglio degli alberi che fu regolamentato da un privilegio del 1296, col quale si concedeva ai cittadini di Messina di far liberamente legna per uso proprio nei boschi delle chiese, dei conti, e dei baroni, posti nei territori e nel distretto cittadino33. Gli abitanti dei casali esercitavano, inoltre, alcune attività preindustriali, come la costruzione di tegole e la produzione di calce e costituivano una buona clientela per i mercanti che operavano a Messina.

    L’usurpazione al Demanio Regio, del Casale di San Martino, da parte di Roberto di Mileto, rientra proprio nell’ottica espansionistica delle classi abbienti messinesi34 che cercavano in ogni modo di estendere le loro proprietà anche oltre i Peloritani, e in particolare nella fertile piana di Milazzo, nel tentativo di acquisire autosufficienza alimentare, ma anche per soddisfare un’ambizione di ascesa sociale che in quell’epoca era riposta nel possesso di beni terrieri.

    Ritroviamo il casale di San Martino in alcuni atti del Tabulario del Monastero di Santa Maria Monialum di Messina stilati nel XIV secolo. Il primo di questi documenti  è il testamento di un tal Francesco Sardo35, un uomo piuttosto ricco, abitante nella fiumara di Rometta. In questo testamento stilato nel casale di S. Andrea il 6 novembre 1315, vengono citati numerosi appezzamenti di terreno situati nella Piana di Milazzo e tra questi: “Casalina duo, ortos duos in tenimento casalis Sancti Martini, videlicet in casali Sancte Anne, dictos de Armuto et Draculi. In dicto casali / ortum unum cum arboribus domesticis dictum de Basilio Dyacono. In predicto tenimento casalis Santi Martini habeo censum quem debet dare annuatim Pascalus Spano pro dicta vinea: terrenum unum. Similiter in dicto teni/mento censum quem dant anuatim filii notari Gerardi Arbalisteri: grana auri decem pro dicta vinea, quem censum non solvant jam sunt anni quatuor. Alia pecia terre cum arboribus domesticiis, quam [terram / habet] Constantinus in predicto tenimento Sancti Martini, quam terram ad cabellam habet notarius Gerardus predictus, ex equa cabella recepit ab eo tarenos duos, petentur ab eo alios tarenos duos. Similiter habeo meos / villanos in tenimento dicti casalis Sancti Martini, videlicet Madiuum Ppajohannem, Matheum Musselli, Philippum Musselli ejus fratrem, Bartholomeum Musselli, Petrum Zervari cum filio suo, Nicolaum Draulum.”.

    In un altro documento datato 26 agosto 1321 Tommaso di Pellegrino, procuratore del Monastero di Santa Maria Monialium di Messina, concedeva in enfiteusi a Bartolotto Vagnarotio, abitante del casale di San Martino, un pezzo di terra “…vacue [sterilis et nemorose] cum arboribus domesticis et silvestribus…”,sito nel casale di “Pichuli  tenimenti Sancti Martini, dictus de Marglufa, / cui confinant ab oriente, meridie et septentrione valloni et nemus curie dicti  casalis, et ab occidente confinant terre 7curie ipsius, quas nunc tenent et possident Petrus de Brandicio et Dominica jugales.”, per un censo annuale di 2 onze d’oro36.
Alla stesura dell’atto era presente anche un tale Helya de Huguicione judice casalis Sancti Martini de Plano /Melacii

    Un Andrea di San Martino appare in un documento, datato 20 dicembre 1328 con il quale la Badessa Balda gli concede in Enfiteusi, un terreno presso il casale di Rapano37.

    Ancora, il 30 maggio 1334 Balda, Badessa del Monastero di Santa Maria Monialium di Messina, concedeva  in enfiteusi un pezzo di terra ed una vigna siti nel territorio di San Martino a Nicolò de Bagala, figlio di Leone de Xeco il quale già in precedenza deteneva i detti beni e pagava un censo annuale di 3.10 tarì d’oro38.

   Anche questo terreno era situato nel territorio del casale di San Martino, Terra di Rametta, “in contrata Flocarie juxta / vallonum de Presmachi versus occidentem, versus orientem est casalinum notarii Johannis de Huguicione et domus hered[um] quondam Dami(an)i et viam puplicam, versus meridiem sunt loca dicta de Changemoni et locum / dictum de Denno, versus septentrionem sunt loca dicta de Changemoni et loca que dicuntur de Malefaco et alios confines; item peciolam [terre] unam sitam juxta terras curie, juxta terras ecclesie Sancti / Nicolai de Floccari, secus vallonum Floccari et alios confines; item vineale unum, situm juxta vineam Nicolai Milleri, prope locum Bartholotti de Pagano, prope locum notarii Nicolai de Spano et / alii sunt confines ”.

   Da questi documenti si deducono dati interessanti. Innanzitutto, che San Martino faceva parte della Terra di Rometta, e a questa era strettamente collegato sia a livello sociale che economico. Deduciamo poi che il Monastero di Santa Maria Monialium di Messina deteneva in questo territorio vari appezzamenti di terreno, e così anche un certo Francesco Sardo, abitante nel casale di Sant’Andrea, il quale possedeva due casalini con relativi orti, appezzamenti di terreno con alberi da frutto, vigneti, e sei villani.

   Dai sopracitati documenti apprendiamo, inoltre, i nomi di vari notai che vivevano nel territorio di San Martino o che vi detenevano proprietà. Molto interessanti sono i toponimi indicati, e in particolare S. Anna, Floccari e Pichuli, che in seguito troveremo indicati come casali del feudo di San Martino. Interessantissima la citazione di una chiesa di San Nicolò di Floccari, della quale non conosciamo altro.

    Ulteriori notizie circa il feudo di San Martino, le ricaviamo dai Capibrevi di Giovanni Luca Barberi dai quali apprendiamo che ai tempi di Federico II d’Aragona, il feudo di San Martino39, era costituito da cinque casali: S. Anna, Grippani (o Grippari)40, Ricoli (o Phiculi), Partiniti (o Paterniti) e Floccari41, ed apparteneva al messinese Francesco Romeo, cui succedette il figlio Raimondo.

    Siamo nella prima metà del Trecento, la guerra tra Angioini e Aragonesi era ancora in corso,  a Messina e in Sicilia si affermava il potere sempre crescente della casata messinese dei Palizzi e la città viveva una relativa tranquillità. La politica cittadina dell’epoca era orientata  verso l’opposizione all’invasione angioina e all’inimicizia verso i Catalani e gli interessi economici da essi sostenuti. Su tutti e due i fronti, però, la situazione era destinata a precipitare. Nel 1340 i Palizzi tentarono di eliminare il duca Giovanni d’Aragona, fratello del re e principale esponente del potere catalano, ma le loro trame fallirono provocando la caduta in  disgrazia dei membri della famiglia Palizzi e dei loro sostenitori.

A completare  il  quadro negativo si aggiunse, nel giugno 1341 lo sbarco degli Angioini nei pressi di Milazzo e l’inizio dell’assedio della città. Per fronteggiare rapidamente la situazione il duca Giovanni sospese tutti i provvedimenti verso i messinesi che si fossero recati in forze nella piana per affrontare gli Angioini. Le operazioni militari che seguirono furono una serie di scaramucce di scarso risultato e nell’agosto del 1342 Milazzo capitolò agli Angioini. Nello stesso periodo morì anche re Pietro d’Aragona e il trono passò al figlio Ludovico, che essendo minorenne governò sotto il baliato dello zio Giovanni, il quale riprese la sua politica repressiva contro la classe dirigente messinese. Quest’ultima, non potendo accettare la perdita delle proprie prerogative politiche e soprattutto economiche, reagì violentemente. Nell’ottobre 1342, scoppiò a Messina un tumulto guidato dal giudice Giovanni Manna (o Magna), cui si aggregarono un gruppo di nobili messinesi, tra i quali il nostro Raimondo Romeo, signore di San Martino. La rivolta ebbe esito sfavorevole per i messinesi e anche Raimondo Romeo, per la sua fedeltà alla famiglia Palizzi, fu privato del feudo e condannato a morte.

    Il feudo di San Martino, tornato alla Corona, fu venduto all’asta insieme ai suoi casali e acquistato, per la somma di 40 onze dal giudice Francesco Spina, il quale con privilegio dato in Catania l’11 giugno del 1343 ne ricevette l’investitura in perpetuo per se e i suoi successori, insieme al consueto obbligo di prestare servizio militare. Alla   morte di Francesco Spina il feudo di San Martino fu ereditato dalla figlia Costanza, che aveva sposato Rinaldo Lancia  dal quale aveva avuto un figlio, Francesco. A quest’ultimo, il feudo andò in eredità. Venuto a mancare Francesco Lancia, gli subentrò il figlio Rinaldo, riguardo alla successione e investitura del quale Giovanni Luca Barberi dice che nulla appare negli atti della Regia Cancelleria42, ad eccezione di una nota al foglio 270, anno 1453, dalla quale si fa riferimento ad una investitura  concessa dall’arcivescovo di Palermo Simone “Preside del Regno”.

    Intanto, il vicino feudo di Venetico che era appartenuto alla famiglia Aldoino estintasi senza eredi, era stato incamerato dalla Real Corte, e venduto dal re Alfonso d’Aragona a Corrado Spadafora43, il quale lo acquistò in perpetuo e con formula ampia, il 10 giugno 1447, insieme Al feudo di Mazzarà, dietro pagamento di 300 onze e con l’obbligo del servizio militare di un cavallo armato per ogni 20 onze di reddito44. Il nobile Corrado Spadafora aveva due figli: Federico e Giacomo. Il primo ereditò il feudo di Venetico, che nel frattempo era stato elevato a Baronia, il fratello Giacomo, invece, ereditò la Baronia di Mazzarà.

    Nel 1456, Federico Spadafora, fu confermato Console (della Repubblica Veneta) di Sicilia, dal re Alfonso d’Aragona e il 2 marzo 1459, con atto rogato dal notaio Leonardo Camarda di Messina, acquistò da Rinaldo Lancia il feudo di San Martino con tutti i suoi, Casali, boschi, inservienti, dogane, luoghi di sosta, abitazioni ed altre pertinenze pagando la somma di 226 onze (550 scudi), e ricevendone regolare investitura data in Palermo dal viceré Lupo Ximenes de Urrea il 4 maggio 1459 VII  indizione45.

    Federico Spadafora sposò Bernardina Colonna e da lei ebbe tre figli, a Corrado diede in dote il feudo di San Martino, con la clausola che in perpetuo venisse trasmesso in dote ai figli maschi e con il patto che qualora questi, non avesse avuto figli maschi legittimi, il feudo passasse ad un altro figlio maschio di Federico. Neanche a dirlo, Corrado morì prima di suo padre, il quale ritornò così in possesso del feudo di San Martino. Come conferma l’investitura data da Don Giovanni de la Nuca, Presidente del Regno, il 13 giugno149846.

    Morto anche Federico Spadafora, il feudo di San Martino passò al primogenito Francesco, che ne ebbe l’investitura in perpetuo per se e per i suoi eredi e successori il 7 novembre, XIII Indizione 150947, divenendo così Barone di Venetico e San Martino.

 


27 Casale è il termine latino con cui si indicavano dei piccoli nuclei abitati normalmente aperti e ubicati in zone fertili dal punto di vista agricolo. La popolazione tipo di un casale era composta da un minimo di tre quattro fino a circa  trenta nuclei familiari. I  casali esistevano anche nel periodo arabo ed erano chiamati rahl o menzil.

 

28 Il termine peste o pestilenza, non indica necessariamente questa malattia, ma spesso comprende forme influenzali, tifo, colera e altre malattie di tipo epidemico.

29 I Peri Uomini città e campagna in Sicilia dall’XI al XIII secolo Bari 1990 p. 326

30. L. CATALIOTO, Terre, baroni e città in Sicilia nell’età di Carlo I d’Angiò. Messina 1995.;. I Registri della Cancelleria Angioina, ricostruiti da R. FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani, Napoli, 1950, VI, p. 328 (1271-2)

31 R. FILANGIERI,  I Registri… cit. III, 208 Per approfondire questo periodo vedi L. CATALIOTO, Terre, baroni… cit.

32 L. CATALIOTO Terre, baroni … cit., p.124; R. FILANGIERI  I Registri… cit., X, pp.68-70; E. PONTIERI, Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII, Napoli, 1942, pp.264-267.

 

33 Capitoli e privilegi di Messina, a  cura. di C. GIARDINA, Palermo 1937, p.89

34 Il ceto nobiliare era rappresentato dai miles, la piccola nobiltà del distretto che fino al 1282 non ebbe molta voce in capitolo. Mercanti, grandi proprietari terrieri e giuristi: pur essendo vicini per censo e possibilità ai milites,  fino al Vespro avevano formato un gruppo ben distinto da questi.

35 H PENET, Le Chartrier de S. Maria di Messina, Vol. I (1250-1429), Messina 1998, pp.346, 347.  (Parigi, Biblioteca Nazionale, Nuove Acquisizioni Latine, da questo momento NAL 2582, n.171). 
E’ interessante notare che quest’atto, tradotto in latino il 15 giugno 1316, era stato scritto originariamente in greco, riportando la datazione bizantina (annus mundi) 6824, corrispondente al 1315 dell’era cristiana.

36  H. PENET, Le Chartrier… cit. pp.375-377 (NAL. 2582, n.26).

37 Ibidem, p.419, (NAL. 2582, n.39).

38 H. PENET, Le Chartrier… cit. pp.429-431 (NAL. 2582, n.43).

 

39 G.  L. BARBERI, I Capibrevi, Vol. II, i Feudi del Val di Demina; In Documenti per scrivere la Storia di Sicilia, pubblicati a cura della Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1886, p.70.

40  V. AMICO Dizionario topografico della Sicilia di V. Amico tradotto dal latino e annotato da G. Di Marzo, Palermo 1856, Vol. I, p.547, “Lat. Gripparum. Sic. Gripparu (V.D.) Casale nel territorio di Messina a settentrione, che appartenevasi nel 1320 a Francesco Romeo, ed indi a Raimondo figliuolo di lui. Comprosselo Francesco Spina sotto Ludovico, e sua figliuola cinse di benda nuziale Rinaldo Lancia, quindi nel censo del Re Martino dicesene signora la madre di Antonio e di Francesco Lancia. Se l’ebbe dai Lancia sborsatone il prezzo Ludovico Spadafora nel 1459. I cui successori possiedono oggi con la terra dei Martini”.

41  V. AMICO, Dizionario… cit. Vol. I, p.465, “Floccaro. Lat.            Floccarium (V.D.) Casale appartenentesi nel 1320 a Francesco Romano ed al tempo del Re Martino a Francesco Lancia, e soggetto alla madre di lui della famiglia Romeo”.

 

 

42 BARBERI G. L., I Capibrevi,  cit., Vol. II, p.71

43 Corrado Spatafora fu Pretore di Palermo nel 1418 e stratigoto di Messina nel 1445

44 Privilegio dato in Tivoli il 10 giugno 1447. DE SPUCHES, Storia dei feudi, Palermo 1924/41, vol. VII, p.227.

 

45 G. L. BARBERI, I Capibrevi,  cit. p.72. Registrato dalla Regia Cancelleria nel libro relativo agli anni 1458-59 al foglio 540.

46 G. L. BARBERI, I Capibrevi, cit. p.72. Registrato dalla Regia Cancelleria nel libro relativo al 1498 al foglio 544.

47 G. L. BARBERI, I Capibrevi, cit. p.72. Registrato dalla Regia Cancelleria nel libro relativo  al 1509 al foglio 215.

 

 

Fonte: http://www.prolocospadafora.it/libro/medioevo.doc

 

Medioevo

LA SESSUALITA’ NEL MEDIOEVO

Nel Medioevo il corpo umano era considerato sotto due fondamentali punti di vista: da un lato abbiamo il culto e l’esaltazione del corpo di Cristo martoriato, dall’altro il tentativo da parte della stessa Chiesa di mortificare e limitare i desideri della carne. I teologi del tempo arrivarono a far coincidere il “peccato” sessuale con il peccato originale, fonte di ogni male per l’uomo. In verità questa dottrina così rigida riguardo i costumi sessuali serviva a dare alla Chiesa un controllo sempre maggiore sulla popolazione.

 

Addirittura nel corso dell’anno vi erano tre periodi della durata di quaranta giorni durante i quali, secondo i precetti della Chiesa, ci si doveva astenere dall’avere rapporti sessuali. Questo è un dei motivi per cui le nascite erano più o meno concentrate sempre negli stessi lassi di tempo; partorire nove mesi dopo una di queste “quaresime” era molto disdicevole e, anzi, era considerato un vero e proprio peccato. Inoltre l’attività sessuale era consentita solo dopo il calar del sole, in quanto il giorno doveva essere interamente dedicato al lavoro, che aveva la specifica funzione di purificare il corpo. Anche la domenica era giorno di astinenza, poiché consacrata al Signore. Era poi diffusa la credenza che fare l’amore mentre la donna aveva le mestruazioni avrebbe portato alla nascita di un bambino malato di peste e si vietava (o comunque si sconsigliava) l’attività sessuale durante le gravidanze e l’allattamento, per non recare danni al figlio. Dunque in verità le coppie sposate e totalmente fedeli avevano poco spazio per vivere serenamente la loro sessualità.

Ovviamente l’atto sessuale nel momento in cui lo si poteva portato a termine doveva essere moderato sotto ogni aspetto: una delle funzioni più importanti era la riproduzione, ma il sesso coniugale aveva soprattutto lo scopo di “arginare” l’uomo (e anche la donna), soddisfacendo i suoi bisogni carnali così che non fosse indotto a trovare soddisfazione in altri rapporti non controllati ed istituzionalizzati. Non si poteva assolutamente dare libero sfogo alla lussuria: le donne in particolare dovevano essere totalmente passive; inoltre san Bernardino dice che un dei pochi motivi per una moglie di non ubbidire al marito è quando questo le chiede di unirsi “come animali”. Ingoiare lo sperma era considerata una pratica di stregoneria: per purificarsi da questo peccato si sarebbero dovuti passare sette anni a pane ed acqua.

L’omosessualità era ovviamente uno dei peccati più gravi, paragonabile addirittura al cannibalismo. Chi fosse stato accusato di avere rapporti sessuali con persone del proprio sesso (in particolare si trattava di uomini, in quanto l’omosessualità femminile era poco diffusa) era condannato a morte: veniva arso vivo come un eretico, su pire di legno e finocchio (a quest’ultimo, utilizzato per “addolcire” l’odore della carne bruciata, si deve l’appellativo utilizzato in maniera dispregiativa nei confronti degli omosessuali ancora oggi).



La donna era considerata impura, poiché colpevole di indurre l’uomo in tentazione ed in quanto causa prima del peccato originale. Soltanto le vergini e le vedove sono considerate meno “sporche”, poiché in qualche maniera controllano la loro sessualità. La colpevolizzazione della donna arriva davvero a livelli estremi. Ad esempio sant’Agostino scrive queste parole molto crude:

 “ed ecco che siamo nati tra le feci e l’urina ed è nel peccato che mia madre mi ha concepito”.

Egli afferma dunque che la donna nel momento in cui si è concessa all’uomo nell’atto sessuale ha commesso peccato. In effetti già san Paolo definiva l’istinto che porta uomini e donne ad unirsi carnalmente come frutto dell’intervento di Satana. Il demonio era allora descritto molto dettagliatamente, soprattutto per quanto riguarda la sua anatomia sessuale: il pene era lungo, rigido e rivestito di pezzi di ferro o squame; il suo sperma era gelido (dunque non utile alla procreazione, ciò a simboleggiare che l’atto era fine a se stesso). Molte donne furono in questo periodo accusate di aver avuto rapporti con il demonio: si tratta delle cosiddette streghe, perseguitate dall’Inquisizione durante tutto il Medioevo. Inoltre Satana era considerato il diretto ispiratore di ogni genere di sogno erotico. Chi faceva quel genere di pensieri durante il sonno doveva poi fare penitenza, poiché era come aver commesso un peccato.

 

 

 

 

 

Abbiamo però anche un'altra faccia della medaglia: il Medioevo è il periodo in cui si assiste alla nascita della concezione di amor cortese, che dalla letteratura dei trovatori provenzali arriva poi a influenzare notevolmente i circoli letterari  italiani, in primis per quanto riguarda il Dolce Stil Novo.  In questo caso la donna è vista non più come strumento del demonio, bensì come un angelo di Dio, con vere e proprie capacità purificatrici. Il rapporto tra il poeta o cavaliere e la sua “domina” era quasi sempre spirituale piuttosto che fisico, ma in alcuni casi si arriva a considerare questa forma di amore extraconiugale come l’unico modo per poter realmente vivere il sentimento. Molto spesso ,infatti, nelle famiglie nobili moglie e marito erano uniti per motivi più politici più che amorosi. La donna poteva in questo genere di relazione esercitare un potere immenso sull’uomo, il quale doveva affrontare delle prove durissime per dimostrare la sua completa fedeltà (si può ben immaginare che queste fortunate signore si divertissero nel potersi prendere una meritata rivincita sul genere maschile). Una di queste prove arrivava davvero al limite dell’adulterio: la donna accoglieva l’uomo, nudo, nel suo letto e gli permetteva di baciarla, ma non di avere un rapporto completo (una prova di resistenza insomma).

 

Vi erano però donne che, più o meno volontariamente, erano tenute a restare se mpre fedeli ai mariti, anche quando questi partivano per lungo tempo (ad esempio per affrontare una Crociata). Infatti in questo periodo fu inventato uno strano e (a mio parere) inquietante strumento di controllo: la cintura di castità. Comparsa per la prima volta in Italia nel XIV secolo, aveva inizialmente lo scopo di proteggere giovani vergini dalle violenze sessuali. Presto però la sua funzione principale divenne quella di impedire alle mogli di tradire il marito. Francesco da Carraia, nobile fiorentino, regalò una di queste cinture alla moglie infedele. Oggi è conservata presso il palazzo del Dogi a Venezia. Queste cinture erano formate da una struttura in metallo con due piccole aperture (ornate con spunzoni affilati) le quali permettevano le normali funzioni fisiologiche ma impedivano ogni tipo di rapporto sessuale. Spesso quando i mariti partivano si diceva che lasciavano le mogli  “sotto chiave”: rinchiuse in casa e con addosso la cintura di castità, della quale l’uomo si teneva la chiave. Molte donne accettavano questa condizione, ritenendola una prova di fedeltà assoluta. Spesso però riuscivano a procurarsi in qualche modo una copia delle chiavi, se non altro per evitare le infezione che potevano risultare anche mortali. Esisteva anche un modello maschile di cintura di castità: in questo caso non per evitare l’adulterio ma per impedire la masturbazione, che secondo le credenze del tempo portava alla cecità e alla pazzia.

Nonostante le opposizioni della Chiesa, in questo periodo era necessario utilizzare metodi per il controllo delle nascite, poiché le famiglie potevano mantenere solo un certo numero di figli. In verità qualcuno utilizzava come perfetto metodo contraccettivo l’astinenza, ma si trattava di pochi virtuosi. Già allora vi erano infatti delle tecniche per limitare il rischio di gravidanza: oltre alla pratica del coito interrotto (osteggiata da sant’Agostino e san Tommaso), abbiamo l’utilizzo di diaframmi fatti con cera d’api o di pezze di lino per bloccare lo sperma. Inoltre vi erano le solite superstizioni: bere bevande fredde, rimanere passive durante l’atto sessuale, trattenere il fiato al momento dell’eiaculazione dell’uomo, saltare violentemente dopo il rapporto, erano considerati metodi per evitare una gravidanza indesiderata. Quando questi metodi non funzionavano, spesso si ricorreva all’aborto, fortemente condannato dalla Chiesa. Esso veniva praticato con modalità che mescolavano credenze popolari con un poco di scienza medica (ma giusto un poco…). Ad esempio si facevano lavande interne o si utilizzavano varie sostanze quali catrame, piombo, succo di menta, semi di cavolo e addirittura urina animale. Anche così però non si era certi di interrompere la gravidanza: in tal caso il neonato veniva abbandonato presso una chiesa (in questi anni nascono anche i primi orfanotrofi).

Nonostante la Chiesa avesse un’enorme influenza sulla popolazione, vi era comunque una notevole libertà dei costumi, soprattutto nel periodo in cui era diffusa in tutta Europa la peste nera: una maggiore consapevolezza della volubilità della vita umana portava l’uomo ad una ricerca sfrenata dei piaceri terreni. Dunque permane l’usanza romana di recarsi ai bagni pubblici, ora considerati luoghi di depravazione, dove uomini e donne stavano assieme nudi nelle vasche e venivano a volte anche serviti prelibati banchetti (il cibo era spesso legato all’attività sessuale in quanto altra debolezza della carne). Spesso questi bagni erano dotati di stanze private, dove risiedevano le prostitute pronte ad accogliere i clienti. Inoltre gli indumenti indossati ai tempi tendevano ad enfatizzare i caratteri sessuali: le donne portavano abiti molto scollati e spesso avevano il seno scoperto anche in pubblico (soprattutto per l’allattamento); gli uomini indossavano calzoni attillati che invece che nascondere i genitali li evidenziavano.

Anche in seno alla Chiesa vi erano elementi che non rispettavano alla lettera i precetti morali imposti da questa:  addirittura nel XIII secolo era usanza diffusa che i preti avessero delle concubine! Ciò era giustificato affermando che avendo a loro disposizione delle donne di bassa moralità i preti non avrebbero corso il rischio di corrompere donne oneste, nel caso non fossero riusciti a contenere i loro istinti. Addirittura in alcune zone di Francia, Scozia ed Inghilterra pare che i parroci godessero della cosiddetta “jus primae noctis”, ovvero del diritto di togliere la verginità alle giovani spose. Questo “diritto” fu in seguito limitato: il prete solo a volte poteva inserire simbolicamente una gamba nel letto della donna. Neppure le donne di Chiesa erano esenti a questa degenerazione morale: infatti molte di esse ricorrevano all’aborto in seguito a relazioni illecite, spesso intrattenute con altri ecclesiastici. La depravazione era diffusa ad un livello tale da raggiungere i massimi vertici: papa Giulio II nel 1510 arrivò ad aprire una casa di tolleranza per cristiani, e così fecero anche altri dopo di lui.

In realtà la dottrina cattolica (che veniva comunque ribadita, in modo alquanto ipocrita ) considerava la verginità come lo stato di massima elevazione morale. Dunque gli ecclesiastici, in quanto votati alla castità, erano superiori rispetto a tutti gli altri uomini che non erano cappaci di dominare l’istinto. Come già detto, in realtà il matrimonio non era imposto per consentire la procreazione: quella poteva avvenire in qualsiasi genere di rapporto. Il vero motivo era la necessità di un controllo degli istinti, che rendesse gli uomini che non erano abbastanza forti da rimanere casti almeno in condizione di non dare libero sfogo alla lussuria, peccato molto grave agli occhi di Dio. Sant’Agostino afferma che il matrimonio non è un male, in quanto “stringe una società naturale tra due sessi”, caratterizzata dalla reciproca fedeltà e dalla procreazione; ma, nonostante ciò, l’astensione da qualunque rapporto era comunque preferibile, poiché se tutta l’umanità riuscisse ad astenersi “molto più presto si adempierebbe la città di Dio e si aprirebbe la fine dei tempi”.

 

Differente è invece la visione luterana della sessualità: infatti la svalutazione delle opere dell’uomo porta a non considerare la verginità come un elemento che migliora la posizione di questo davanti a Dio. Inoltre gli esseri umani, proprio in quanto tali,  non sono in grado di resistere agli istinti, poiché non è nella loro natura. Dunque la miglior condizione di vita non è più il celibato, bensì il matrimonio. Nonostante ciò, questo non è considerato dai protestanti come un sacramento, bensì come un semplice contratto tra due persone, il quale può anche essere sciolto. Sono comunque riprese da Lutero delle ideologie di base del cattolicesimo: la condanna totale dell’adulterio e l’obbligo da parte i entrambi i coniugi di saldare il “debito coniugale”, ovvero di concedersi al marito o alla moglie ogni qualvolta venga richiesto (sempre nei tempi stabiliti ovviamente). Addirittura il monaco tedesco arriva ad affermare che una donna che rifiuta il suo uomo deve essere condannata a morte.

In realtà è molto difficile fare un quadro generale relativo ai costumi di un periodo tanto vasto, durante il quale esistevano moltissime realtà differenti tra loro per luoghi e tempi. Resta comunque un’ immagine che sotto certi aspetti non è troppo differente da quella del mondo moderno, ancora ricco di contraddizioni riguardo al sesso: dal timido velo di pudore che spesso ne copre l’esistenza, al televisore che la usa come merce. Fatto sta che si tratta di qualcosa di trasversale, che sta alla base dalla natura e della sopravvivenza di ogni specie e che l’umanità dovrebbe imparare a vivere con più serenità e rispetto.

Chiara Calzana

http://sofisticando.yolasite.com/resources/La%20Sessualit%C3%A0%20nel%20Medioevo.doc

 

L'EDUCAZIONE NEL MEDIOEVO
L'INFANZIA
Nella tradizione antica, l'infanzia si suddivideva in due fasi. L'infantia, che durava fino ai sette o otto anni, costituiva il periodo in cui il bambino necessitava di cure. Era seguita dalla pueritia, cui subentrava all'età di 14-16 anni l'adolescentia, che apparteneva già all'età adulta. Questa concezione, ripresa nel VII sec. da Isidoro di Siviglia, conservò la propria importanza per tutto il ME. I bambini erano considerati esseri malleabili; macchiati dal peccato originale alla nascita, attraverso il Battesimo diventavano membri della Chiesa. Dopo la cresima e il conseguente passaggio alla pueritia, erano ritenuti in grado di lasciare il tetto fam. e di guadagnarsi da vivere, a seconda del sesso e dell'origine sociale, in una fam. sconosciuta o già nota. A partire da questa età i bambini dei ceti alti ricevevano un'educazione in un nucleo fam. estraneo, in una scuola o presso una corte. L'abbandono (Infanzia abbandonata) o l'Infanticidio costituivano una minaccia in particolare per i figli illegittimi. Gli orfani trascorrevano l'infanzia fino ai sette anni anche in conventi, ospedali o orfanotrofi e venivano poi spesso impiegati come manodopera in appalto (Appalto di manodopera minorile).

Per gli uomini del Medioevo l'età difficilmente era definita in termini quantitativi, ma si identificava con categorie culturali.
Fu Isidoro di Siviglia  (sec. VII) ad elaborare la classificazione più importante che divideva la vita umana in cicli temporali diversi (sei età): l'infanzia, dalla nascita ai sette anni,
L'infanzia era considerata da Isidoro una forma di incompletezza fisica e mentale superabile solo con l'età.
A partire dal secolo XIII alcuni trattati medici e pedagogici si occuparono specificamente del benessere del bambino, mostrando un maggior rispetto per questa fascia di età, pur essendo destinati all'attenzione solo dei figli delle classi più elevate ed, in particolar modo, ai maschi, mentre per le femmine gli accorgimenti erano minori.
La durata dell'infanzia delle bambine, infatti, era più breve rispetto a quella dei loro coetanei maschi.. Il diritto romano e canonico fissavano il superamento della condizione infantile a 14 anni per i maschi e a 12 per le femmine, che corrispondeva alla capacità minima richiesta per unirsi in matrimonio.
Fin dalla nascita erano previsti per le neonate regole igieniche particolari e norme dietetiche distinte da quelle dei maschi (si consigliava ai genitori di dare da mangiare alle bambine solo lo stretto necessario per la sopravvivenza!).
Una particolare attenzione si aveva per l'educazione femminile. Le fanciulle prive di ruoli sociali significativi non necessitavano di cure particolari. Gli unici valori che si richiedevano fermamente erano: l'umiltà, il pudore ed il timore verso il marito. Le attività ludiche consigliate per le fanciulle erano simulazioni di lavori domestici o del ruolo di future mamme.
I loro giocattoli preferiti erano i bambolotti, che spesso rappresentavano Gesù. Raramente le bambine ebbero il privilegio di essere indirizzate alla lettura, alla musica o alla danza. L'infanzia delle bambine spesso veniva bruscamente interrotta da matrimoni precoci che segnavano per sempre la loro vita.
Un'altra pratica che segnava profondamente la vita dei bambini era l'oblazione, frequente soprattutto nella società altomedievale. Essi, compiuti i sei-sette anni, erano consegnati dai genitori a un monastero con l'offerta di una somma di denaro che doveva servire al loro mantenimento. L'oblazione segnava una scelta definitiva, dalla quale il giovane poteva sottrarsi solo con la fuga.
L'ISTRUZIONE
Il momento in cui i bambini entravano a scuola dipendeva dalla capacità dei genitori di trasmettere loro le basi dell'istruzione. L'inizio dell'educazione didattica coincideva generalmente con la fine dell'infanzia. Fino al XIII secolo, l'educazione scolastica era stata una prerogativa esclusiva degli ecclesiastici ( "scolaro" era infatti sinonimo di chierico). Nel XIV secolo si moltiplicarono delle piccole scuole parrocchiali in tutte le città europee e nuovi internati destinati ai bambini poveri; contemporaneamente l'alfabetizzazione cominciò a diffondersi anche nelle campagne.
Gli umanisti-pedagoghi italiani del tardomedievo deploravano i metodi troppo rigidi e le percosse troppo violente, anche se le punizioni corporali non erano escluse dai mezzi di educazione.
Il ritmo della scuola si rifaceva alle esigenze lavorative dei grandi; infatti le lezioni iniziavano la mattina presto verso le sei e terminavano la sera tardi. L'istruzione scolastica procedeva dalla lettura e scrittura allo studio dell'abaco, cioè della matematica e a quello del latino, che si svolgeva grazie all'ausilio dei testi classici. L'abaco era lo strumento di base per la matematica, cioè una sorta di tavola con i numeri incolonnati che aiutava i bambini a fare calcoli. I conti erano fondamentali anche e soprattutto per coloro che andavano nelle botteghe per imparare il mestiere. L'istruzione delle fanciulle era molto diverso da quella dei maschietti, poiché l'alfabetizzazione era prevista solo se erano intenzionate ad entrare in convento. I bambini erano spesso presenti nei luoghi dove lavoravano i genitori, iniziando così il loro apprendistato. L'età per iniziare l'apprendistato non era generalmente inferiore ai 12-13 anni.


Fonte: http://fenal.it/doc/asilonido/INFANZIA%20NEL%20MEDIOEVO%20DAL%20VII%20al%20XIV%20secolo.doc

 

IL MEDIOEVO: CIVILTA' E CULTURA

1. L’origine del potere temporale della chiesa e la rinascita dell’impero (VIII-X sec.)

Autorità crescente della chiesa. In seguito alla dissoluzione dell'impero roma­no sotto la pressione delle migrazioni ger­maniche, in Italia la Chiesa si trovò a esercitare non solo funzioni spirituali, di conforto e di protezione dei più deboli, ma anche un vero e proprio ruolo poli­tico. Grazie alla sua solida organizzazio­ne gerarchica, il clero aveva acquistato una funzione centrale nella conservazio­ne del ruolo amministrativo, sociale e culturale della compagine imperiale, anche perché era quasi soltanto tra gli uomini di Chiesa che si potevano trova­re persone istruite, in grado di svolgere le funzioni un tempo di competenza del­lo stato. L’autorità della Chiesa, inoltre, aveva avuto modo di rafforzarsi nei perio­di turbolenti della costituzione dei regni romano-germanici e dell'anarchia feuda­le. Nel vuoto di potere determinato dall’indebolimento dell'impero d'Oriente e nel disordine e nella violenza che ne segui­rono, furono i vescovi a diventare un soli­do punto di riferimento per la popola­zione, anche sul piano amministrativo e politico. Nella Chiesa di Roma, inoltre, l'Occidente poté trovare la propria unità culturale e morale.
L'estensione del cristianesimo sotto il pontificato di Gregorio Magno. Sotto la guida di alcuni grandi pontefici, infatti, il cristianesimo si era diffuso anche tra le popolazioni di origine germanica, un tempo pagane o ariane. Tra di essi va senza dubbio ricordato Gregorio Magno, che fu papa dal 590 al 604. Egli munì la Chiesa - che possedeva già allora una soli­da potenza economica e un consistente patrimonio territoriale, grazie alle dona­zioni compiute dai fedeli - di una salda organizzazione morale, amministrativa e disciplinare, allo scopo di rafforzarne il prestigio e di accrescerne l'autorità. Gre­gorio, dunque, può ben essere considera­to il fondatore del potere temporale del­la Chiesa. Il consolidamento di tale pote­re venne favorito dagli stessi Longobardi che, dopo essersi convertiti al cristianesi­mo di Roma e aver adottato la cultura latina, si adoperarono per restituire all'I­talia l'unità politica e territoriale che ave­va nell'antichità.
Rinasce l’impero. La crescente autorità della Chiesa provocò una serie di con­trasti con l'impero bizantino, che non ammetteva l'indipendenza del potere religioso da quello politico e vedeva nel pontefice romano solo un patriarca sot­toposto al potere dell'imperatore. Il papa­to per accrescere la sua autonomia dal­l'impero d'Oriente e difendersi dall'e­spansionismo longobardo - interessato a riunire il nord e il sud della penisola italiana, inglobando anche il cosiddetto "patrimonio di San Pietro" - cercò quin­di un appoggio politico in Occidente e lo trovò nel regno dei Franchi di Pipino il Breve. Tale alleanza proseguì e fu consolidata con il successore di Pipino, Carlo Magno, che fu incoronato "imperatore dei Roma­ni" nel Natale dell'800 per mano di papa Leone III. Rinasceva così l'impe­ro anche in Occidente, il Sacro roma­no impero, che appariva superiore al primo perché si avvaleva della consa­crazione papale. Con ciò ci si avviava verso il definitivo distacco fra Roma e Bisanzio.
Il sacro romano impero. Il Sacro roma­no impero fu la prima forma di aggrega­zione dei popoli occidentali dopo il 476. Carlo Magno si trovò a capo di un terri­torio che aveva come confini, da nord a sud, il Mar Baltico e il Mediterraneo, e, da ovest a est, l'Oceano Atlantico e il fiu­me Ems in Germania: esso comprende­va circa quindici milioni di abitanti con tradizioni e culture differenti. Carlo cercò di controllare questo organismo attraver­so un governo unificato, basato su isti­tuzioni politiche nuove. A differenza dei precedenti re germanici, che non aveva­no una sede stabile, Carlo fissò la sua resi­denza ad Aquisgrana, in Germania. Per discutere con i notabili e per emanare le leggi, due volte all'anno venivano con­vocate delle assemblee (diete) e, in pri­mavera, veniva riunita un'assemblea gene­rale dell'aristocrazia laica ed ecclesiasti­ca, per approvare le sue decisioni e le leg­gi da lui emanate e per organizzare le spedizioni militari (Campo di Maggio). Carlo si preoccupò di curare l'educazio­ne intellettuale e spirituale dei ceti domi­nanti: per questo, fondò la Scuola pala­tina. Istituì anche numerose scuole e biblioteche e favorì la cir­colazione di libri e la riproduzione di manoscritti, copiati dai monaci amanuensi, dette impul­so al commercio, all'industria e alle arti, avviando così quella fioritura culturale che è nota come "rinascita carolingia".
Marche e contee. Carlo divise il territorio, considerandolo suo patrimonio personale ed ereditario, in contee (regioni interne) e marche (regioni di frontie­ra), che affidò a conti e marchesi. Il siste­ma era basato sul principio della fedeltà: conti e marchesi dovevano al sovrano aiu­to e obbedienza sia in tempi di guerra sia in tempi di pace, divenendo suoi vassal­li. Come contraccambio il sovrano assi­curava loro il godimento temporaneo di beneficio, generalmente un appezzamento di terra, da restituire alla morte del vassallo o in caso di tradimento. L'intento dell'imperatore era quello di crea­re una vasta rete di legami personali tra sé e i propri collaboratori; il sovrano cer­cava inoltre di evitare possibili abusi di potere da parte di quest'ultimi attraver­so l’invio dei missi dominici, addetti a supervisionare l'operato dei vassalli. Quel­lo che era stato un punto di forza dei re carolingi, cioè la distribuzione di terre ai loro "fedeli", divenne il loro punto debo­le quando le conquiste finirono ed essi non poterono più assegnare ai vassalli le terre occupate. I vassalli riuscirono pian piano a rendersi indipendenti dall'auto­rità del sovrano e l'area dell'impero si fra­zionò in numerose signorie locali.
La nascita dei regni feudali. Alla mor­te di Carlo (814), dopo un periodo di lotte per la successione, si giunse al trat­tato di Verdun (843), con il quale l'im­pero venne diviso fra i tre figli dell'im­peratore Ludovico il Pio: Lotario ebbe l'Italia e la Lotaringia, Ludovico la Germania, e Carlo, detto il Calvo, la Francia. Nacquero così tre regni separati che solo nell'885 Carlo, detto il Grosso, riu­si per breve tempo a riunificare: nell’887, infatti, si ebbe il definitivo smembra­mento dell'impero e si formarono i pri­mi regni feudali, tante piccole isole indi­pendenti e in lotta fra loro.

2. Società ed economia: il feudalesimo

Le origini del feudalesimo. Il feudale­simo è l'organizzazione politica, socia­le ed economica che ha caratterizzato la storia europea fra il X e il XIII seco­lo. Tale sistema, sorto in Francia e poi diffusosi in vaste zone dell'Europa, vide prevalere il mondo rurale su quello urba­no e il frazionamento dell'autorità e del­l'unità territoriale dello Stato. Dopo Carlo Magno, i sovrani istituzionaliz­zarono la consuetudine di concedere terre in usufrutto ai propri collabora­tori mediante una cerimonia solenne (investitura), durante la quale chi rice­veva il beneficio (o feudo, costituito generalmente da terreni) si dichiarava vassallo (servitore) del suo signore e gli giurava fedeltà. Dato che spesso i feu­di erano molto vasti, i grandi feudata­ri potevano concedere a loro volta par­te del loro territorio ai propri sottopo­sti (valvassori), i quali facevano altret­tanto con i valvassini, creando un siste­ma gerarchico piramidale. In seguito, nel corso degli anni, i vassalli riusciro­no a ottenere speciali prerogative (immu­nità) che in origine spettavano esclusi­vamente al potere centrale e si resero così sempre più indipendenti dall'au­torità del sovrano.
L'ereditarietà dei feudi. I feudatari si batterono perché il beneficio concesso non fosse più revocabile e vi riuscirono: nell'887 con il capitolare di Quierzy Car­lo il Calvo sancì l'ereditarietà dei feudi maggiori, mentre nel 1037 con la Con­stitutio de feudis Corrado II il Salico rico­nobbe anche l'ereditarietà dei feudi minori. In questo modo si verificò un grave indebolimento del potere centrale. All’interno della gerarchia feudale, infatti, ogni inferiore si sentiva obbligato solo nei riguardi del suo immediato superiore e non del sovrano; così i grandi feudatari avevano il potere di scatenare la ribellio­ne di tutti i loro subordinati contro la suprema autorità centrale. I sovrani per­tanto, per riaffermare la propria auto­rità, cominciarono a battersi per la pro­gressiva eliminazione dei privilegi e delle ­prerogative feudali.
La composizione della società feudale. La società feudale era divisa in nobiltà, piccoli proprietari, artigiani, commer­cianti e lavoratori della terra. Della nobiltà facevano parte tutti coloro che potevano ­diventare vassalli del re e quindi grandi, ­medi e piccoli feudatari (nobiltà fondiaria), nonché abati e vescovi (nobiltà ecclesiastica). Vi erano poi coloro che vivevano nelle città e che, essendo per questo meno sottoposti al controllo del fedeudatario che risiedeva nel suo castello in campagna, potevano avviare alcune attività economiche. C'era, infine, la massa dei contadini che viveva in semi­-schiavitù, obbligata com'era a lavorare gratuitamente, a pagare tasse per usu­fruire di strade, mulini ecc. e a subire il controllo e le decisioni del feudatario in ogni ambito della vita. Migliori erano le condizioni dei liberi coloni, che riceve­vano dal signore terre in affitto da col­tivare in autonomia, pur riservando a lui una parte della produzione.
L'economia curtense. Proprio per la dif­ficoltà di procurarsi prodotti all'esterno, nelle grandi proprietà terriere si tende­va a produrre tutto ciò che serviva per la sopravvivenza dei signori e dei conta­dini: in primo luogo cereali, base dell'a­limentazione, frutta, vino. Questo tipo di economia è definita curtense, da cur­tis, un possedimento fondiario di dimen­sioni più o meno ampie, che costituiva l’unità minima delle grandi proprietà terriere, tipiche soprattutto della Gallia, delle valli della Loira e del Reno, dell'In­ghilterra e del Nord Italia. La curtis, che poteva appartenere a un signore laico o ecclesiastico, era divisa in due parti distin­te: la pars dominica (dal latino dominus, "padrone, signore") o parte padronale o riserva, e la pars massaricia (dal latino medievale massa o mansus, "podere affi­dato a famiglia contadina") o colonica.
Pars dominica e pars massaricia. La pars dominica, gestita direttamente dal proprietario e dai suoi amministratori, aveva al centro la residenza del signore o l’abbazia. Le terre della pars dominica, coltivate da servi che dipendevano diret­tamente dal signore, erano in genere le terre migliori e gran parte di esse era costituita da bosco, sfruttato per il pasco­lo e la caccia. La seconda zona della cur­tis, la pars massaricia,era costituita dagli appezzamenti di terreno concessi a col­tivatori, liberi o servi, da cui il proprie­tario pretendeva il pagamento di cano­ni in denaro, o più spesso in natura. I detentori dei mansi avevano l'obbligo di prestare un certo numero di giornate di lavoro gratuite (corvées) nella pars domi­nica.
Le condizioni sociali. Tutti gli abitanti del contado, comunque, vivevano in con­dizioni di estrema miseria: le terre era­no poco produttive, soprattutto a causa dell'arretratezza delle tecniche agrico­le, e non rare erano carestie ed epide­mie, che, anche per le condizioni abita­tive malsane e per l'assenza delle più ele­mentari norme di igiene pubblica e pri­vata, si diffusero a più riprese in Occi­dente per tutto il Medioevo. La vita eco­nomica divenne stagnante: all'interno del feudo si produceva tutto ciò che occor­reva alla popolazione; dall'esterno arri­vavano, e non senza difficoltà, scarsissi­me merci. Solo le città marinare, in virtù dei loro commerci, riuscirono ad avere un maggiore sviluppo economico.

3. Lo scontro tra papato e impero

Inevitabile dissidio tra papato e impe­ro. Come riconoscimento ufficiale di ciò che aveva fatto in difesa della Chiesa, Car­lo Magno era stato consacrato imperato­re dallo stesso pontefice, dando vita al Sacro romano impero. Il gesto di Leone III intendeva essere una manifestazione pubblica della preminenza del pontefice sull'imperatore, subordinando di fatto la nomina imperiale al papa. Negli anni suc­cessivi, questo delicato equilibrio di pote­re si spezzò, giacché gli imperatori, come protettori della Chiesa, cominciarono a pretendere di nominare i vescovi e di inter­venire nelle elezioni dei papi, mentre que­sti ultimi, in quanto destinati a incoro­nare l'imperatore, rivendicarono la supe­riorità del potere ecclesiastico su quello imperiale. Fu nella notte di Natale dell'800, quindi, che venne gettato il seme del futu­ro dissidio fra Chiesa e Stato.
I vescovi-conti. L'impero non soprav­visse alla morte di Carlo (814) e sulle sue rovine sorsero i primi regni feuda­li, le cui vicende dettero vita a quella che viene definita l'anarchia feudale. Fu Ottone I di Sassonia (962-973), giunto al massimo della sua fama dopo aver sconfitto gli Ungari e gli Slavi, a ricostituire il Sacro romano impero, ma in veste germanica: a differenza di quel­lo carolingio, esso escludeva la Francia e gravitava intorno alla Germania. Otto­ne I tentò di far valere la superiorità imperiale nei confronti dell'altro gran­de potere universale, il papato. Per ren­dere la sua autorità veramente effettiva anche nei confronti della grande nobiltà laica, egli valorizzò la feudalità ecclesia­stica, molto potente in Germania, con­ferendo a vescovi e abati l'autorità civi­le e militare nei territori loro affidati. In tal modo si annullava l'efficacia del­la legge sull'ereditarietà dei feudi. Con il suo provvedimento egli contrappose ai feudatari laici, che si trasmettevano di padre in figlio il governo di vasti territori, i feu­datari ecclesiastici, i cosid­detti vescovi-conti, alla cui morte i feudi rientravano a far parte del patrimo­nio della corona. Otto­ne I inoltre si riservò il diritto di decidere la nomina del pontefice (privilegio ottoniano).
Decadenza della chiesa. L’iniziativa di Ottone I rafforzò la struttura del­l'impero e accrebbe l'importanza delle città, sedi dei vescovi, ma allo stesso tempo provocò un rapido decadimen­to morale e spirituale della Chiesa, i cui alti prelati, tutti presi da preoccu­pazioni politiche e mondane, andaro­no sempre più allontanandosi dal com­pito morale e religioso loro affidato. Inoltre l'istituzione dei vescovi-conti comportò l'inevitabile intrusione dell’'imperatore nella vita della Chiesa, che si trovava sempre più assoggettata all'impero. Da Ottone I in poi, infat­ti, i sovrani cominciarono ad attribui­re, oltre all'investitura laica con lo scet­tro, anche quella ecclesiastica, con il pastorale. La pesante ingerenza impe­riale, persino nell'elezione del pontefi­ce, determinò un'energica reazione da parte della Chiesa, scatenando la cosid­detta "lotta per le investiture". Tale con­flitto di potere si intrecciò con una situa­zione di grave corruzione del clero, cui cercarono di opporsi forze riformatrici laiche ed ecclesiastiche, come gli ordini riformatori dei cluniacensi e dei cister­censi, i movimenti eremitici, come quello dei camaldolesi e dei vallom­brosani, e le organizzazioni laiche cit­tadine: in questo processo di moraliz­zazione del clero il monastero fran­cese di Cluny ebbe un ruolo fon­damentale.
La casa di Franconia e l’infeudamen­to della chiesa. Nel 1024, in Germa­nia, con la morte di Enrico II, ultimo discendente della dinastia sassone degli Ottoni, il potere passò alla casa di Fran­conia, i cui rappresentanti ressero fino al 1125 le sorti dell'impero, portando il processo di infeudamento della Chiesa alle sue estreme conseguenze. Quando però nel 1056 salì al trono il figlio di Enrico III, Enrico IV ancora minoren­ne, i fautori della riforma della Chiesa colsero l'occasione per dare inizio a un'o­pera di radicale rinnovamento dei costu­mi del clero e per sottrarre la Chiesa alla supremazia imperiale.
Verso l’autonomia del papato. Tra que­sti, accanto al monaco Pier Damiani, che proprio in quegli anni condannava con parole infuocate la corruzione eccle­siastica, ebbe un ruolo di primo piano Ildebrando di Soana (Grosseto), un monaco benedettino formatosi alla scuo­la di Cluny, convinto assertore della riforma e autorevolissimo consigliere di pontefici. Quando nel 1058 il partito riformatore riuscì a far nominare papa uno dei propri esponenti, Niccolò II, vescovo di Firenze, Ildebrando lo con­vinse a rivendicare l'autonomia del papa­to rispetto all'autorità imperiale e a ottenere ­che l'elezione del pontefice non avvenisse più secondo la volontà dell’imperatore, ma per libera scelta del collegio dei cardinali. Il Concilio latera­nense, convocato da Niccolò II nel palaz­zo Laterano (1059), stabilì l'istituzione di un collegio di cardinali per l’elezione del papa e ribadì la condanna della simonia e del concubinato del clero.
L'attività riformatrice di Gregorio VII e i Dictatus papae. L’opera di riforma intrapresa dalla Chiesa si fece ancora più rigorosa, trasformandosi in aperto con­flitto contro l'impero, quando nel 1073 lo stesso Ildebrando di Soana venne elet­to papa con il nome di Gregorio VII. Pochi anni prima Enrico IV, raggiunta la maggiore età, aveva iniziato a gover­nare e aveva assunto - fedele alla linea politica dinastica - un contegno di aper­ta sfida verso la Chiesa, eleggendo a suo piacimento vescovi e abati, cui poi con­cedere feudi. Gregorio VII reagì minacciando la scomunica e riaffermando, con i Dictatus papae («Pre­cetti del papa», 1075), l'assoluta superiorità del papa su ogni altra potestà terrena e il suo diritto di giudicare e deporre i vescovi e lo stesso imperatore, eso­nerando così i suddi­ti da ogni vincolo di sottomissione e di obbedienza all'auto­rità imperiale. Quan­do Enrico IV, per tut­ta risposta, fece depor­re i vescovi tedeschi fedeli al papa, Gregorio VII non esitò a scomunicarlo, pro­vocando la rivolta dei suoi feudatari. L'imperatore, esautorato agli occhi dei suoi sudditi, fu costretto a implorare dal papa, ospite a Canossa di Matilde di Toscana, la revoca della scomunica (1077); il potere laico si piegava dunque al pote­re ecclesiastico, ma il conflitto tra papa­to e impero si protrasse ancora anni.

Dictatus Papae
I. Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata.
II. Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis.
III. Quod ille solus possit deponere episcopos vel reconciliare.
IIII. Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententia depositionis possit dare.
V. Quod absentes papa possit deponere.
VI. Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere.
VII. Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes congregare, de canonica abbatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et inopes unire.
VIII. Quod solus possit uti imperialibus insigniis.
VIIII. Quos solius pape pedes omnes principes deosculentur.
X. Quod illius solius nomen in ecclesiis recitetur.
XI. Quod hoc unicum est nomen in mundo.
XII. Quod illi liceat imperatores deponere.
XIII. Quod illi liceat de sede ad sedem necessitate cogente episcopos transmutare.
XIIII. Quod de omni ecclesia quocunque voluerit clericum valeat ordinare.
XV. Quod ab illo ordinatus alii ecclesie preesse potest, sed non militare; et quod ab aliquo episcopo non debet superiorem gradum accipere.
XVI. Quod nulla synodus absque precepto eius debet generalis vocari.
XVII. Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur absque illius auctoritate.
XVIII. Quod sententia illius a nullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit.
XVIIII. Quod a nemine ipse iudicari debeat.
XX. Quod nullus audeat condemnare apostolicam sedem apellantem.
XXI. Quod maiores cause cuiuscunque ecclesie ad eam referri debeant.
XXII. Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit.
XXIII. Quod Romanus pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter effecitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur.
XXIIII. Quod illius precepto et licentia subiectis liceat accusare.
XXV. Quod absque synodali conventu possit episcopos deponere et reconciliare.
XXVI. Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romane ecclesie.
XXVII. Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere.

Il concordato di Worms sancisce il primato papale. L'atto conclusivo dl tale conflitto avvenne soltanto nel 1122, quando Enrico V e il papa Callisto II (1119-1124) stipularono il concordato di Worms. L'imperatore rinunciava a ogni intervento nell'elezione del pontefice; l'investitura spirituale dei vescovi con il pastorale e l'anello, simboli della consa­crazione religiosa, doveva essere fatta solo dal papa, mentre l'imperatore poteva aggiungere l'investitura temporale con la spada, simbolo del potere politico, solo per i vescovi-conti. In Germania, la con­sacrazione temporale doveva precedere quella religiosa, per rafforzare il potere imperiale sui signori laici, mentre in Italia l'investitura temporale doveva essere successiva a quella ecclesiastica, per non sminuire il potere del papa. Pur trattan­dosi di un accordo di compromesso, il concordato permetteva a un papato ormai indipendente da pesanti interferenze lai­che di stabilire un primato su tutta la gerarchia ecclesiastica e di esercitare con­seguentemente il proprio potere su un territorio vastissimo.

In nomine sanctae et individuae Trinitatis. Ego Heinricus, Dei gratia Romanorum imperator augustus, pro amore Dei et Sanctae Romanae Ecclesiae et domini papae Calixti et pro remedio animae meae dimitto Deo et sanctis Dei apostolis Petro et Paulo Sanctaeque Catholicae Ecclesiae omnem investituram per anulum et baculum et concedo in omnibus ecclesiis, quae in regno vel imperio meo sunt, canonicam fieri electionem ac liberam consecrationem. Possessiones et regalia beati Petri, quae a principio huius discordiae usque ad hodiernam diem, sive tempore patris mei sive etiam meo, ablata sunt, quae habeo, eidem Sanctae Romanae Ecclesiae restituo; quae autem non habeo, ut restituantur fideliter iuvabo. Possessiones etiam aliarum omnium ecclesiarum et principum et aliorum tam clericorum quam laicorum, quae in werra ista amissae sunt, consilio principum vel iusticia quae habeo reddam; quae non habeo, ut reddantur fideliter iuvabo. Et do veram pacem domino papae Calixto Sanctaeque Romanae Ecclesiae et omnibus, qui in parte ipsius sunt vel fuerunt; et in quibus Sancta Romana Ecclesia auxilium postulaverit, fideliter iuvabo et, de quibus mihi fecerit querimoniam, debitam sibi faciam iusticiam. Haec omnia acta sunt consensu et consilio principum, quorum nomina subscripta sunt: Adalbertus archiepiscopus Mogontinus, F. Coloniensis archiepiscopus, H. Ratisbonensis episcopus, O. Bauenbergensis episcopus, B. Spirensis episcopus, H. Augustensis, G. Traiectensis, Ö. Constanciensis, E. abbas Wldensis, Heinricus dux, Fridericus dux, S. dux, Pertolfus dux, marchio Teipoldus, marchio Engelbertus, Godefridus palatinus, Otto palatinus comes, Beringarius comes. (SR) EGO FRIDERICUS COLONIENSIS ARCHIEPISCOPUS ET ARCHICANCELLARIUS RECOGNOVI (ed. in WEILAND, Monumenta Germaniae Historica, Constitutiones, I, pp. 159-160)

4. La nascita e lo sviluppo dei Comuni

La rinascita dei centri urbani. Il profon­do rinnovamento spirituale, sociale ed economico verificatosi in Europa intor­no al Mille aveva dato origine a una rapi­da rinascita delle città, favorita dallo svi­luppo del commercio, dalla maggiore circolazione di moneta e dalla formazio­ne di grossi capitali nelle mani di intra­prendenti mercanti. Tra l’XI e il XII seco­lo le città subirono una profonda evolu­zione anche di natura politica, soprat­tutto in Italia: esse infatti si liberarono progressivamente dal rigido controllo dei feudatari e conquistarono una sempre maggiore autonomia e indipendenza. Al chiuso e ormai statico mondo feudale, basato sui valori della proprietà terriera e della guerra e su un'economia di tipo curtense, si andava così contrapponen­do il dinamismo della città, con la su forza operosa, con la sua intraprendenza, con il suo desiderio di lavoro e di gua­dagno e, soprattutto, con l’aspirazione a esercitare direttamente tutte quelle funzioni amministrative e politiche che erano state fino a quel momento una prerogativa del vescovo-conte o del feudatario laico.
Nascono i primi comuni. Sorsero così le prime forme del movimento comunale, che trovò terreno fertile in Francia, in Germania e nei Paesi Bassi, ma che si svi­luppò soprattutto nell'Italia centro-se­ttentrionale: qui i Comuni approfittarono del progressivo indebolimento dell'autorità imperiale per comportarsi poco a poco come piccoli Stati indipendenti, sia pure di dimensioni territorialmente modeste. Il governo comunale era basa­to sulla elettività delle cariche, elemento radicalmente nuovo rispetto al rigido ordinamento feudale. In Italia le prime città che giunsero a darsi una costituzio­ne comunale, e quindi a governarsi da sole furono le repubbliche marinare, città portuali che, per la loro particolare posizione geografica e per le ampie pos­sibilità di commercio offerte dal mare, riuscirono abbastanza facilmente a sot­trarsi al predominio bizantino o longo­bar_do e a raggiungere l'indipendenza. Già nel IX secolo, quindi, il "Comune" era una realtà operante ad Amalfi, Pisa, Geno­va e Venezia, dove la popolazione eleg­geva liberamente i propri governanti e organizzava in modo del tutto autono­mo le proprie forze militari.
Dalle libere associazioni cittadine al comune. Molto più tardi invece, e più preciisamente tra l’XI e il XII secolo, sor­sero i primi Comuni nelle città dell'en­troterra. Un esempio emblematico è quel­lo della città di Milano, che giunse tra i1 1040 e il 1045 alla creazione del Comu­ne dopo un'aspra lotta sostenuta dal popolo contro Ariberto da Intimiano. La rivendicazione di autonomia delle città si fondava sulla presa di coscienza della loro forza economica, della loro capacità di creare ricchezza, di attrarre un numero crescente di persone e di mol­tiplicare le attività produttive. Nell'am­bito delle città più ricche e popolose i nobili senza feudo, i mercanti e gli arti­giani, cresciuti di numero e di impor­tanza, cominciarono a riunirsi sponta­neamente in libere associazioni, tenden­ti a difendere gli interessi degli associa­ti e a sottrarli all'arbitrio dei loro anti­chi signori.
Divenute col tempo sempre più forti e organizzate, tali associazioni ottennero in molti casi la protezione del vescovo-con­te locale, che trovava in esse un alleato nella lotta contro i grandi feudatari del contado e che quindi era ben disposto a concedere agli "associati" particolari favo­ri e diritti (immunità), come ad esempio quello di portare armi e disporre libera­mente dei propri beni. In tal modo, però, il vescovo-conte perdeva parte della pro­pria autorità, mentre le associazioni pri­vate diventavano sempre più forti e ten­devano a sostituirsi a lui per dare vita a un nuovo sistema di governo. Natural­mente, l'iniziativa partiva sempre dai cit­tadini più importanti, più attivi, più riso­luti, che si univano in un patto giurato per costituire un libero Comune, il pri­mo esempio di democrazia in Europa. Tale trasformazione avvenne in modo gra­duale, attraverso concessioni più o meno spontanee o usurpazioni violente. Dopo una fase di aspre lotte contro i feudatari del contado, le comunità rurali vennero a loro volta progressivamente incorpora­te dal Comune vincitore, tanto che nel XIII secolo si può dire che il feudo nel­l'Italia centro-settentrionale fosse già scom­parso. In tal modo, intere regioni finiro­no per fare capo economicamente e poli­ticamente a una città, trasformandola in un piccolo Stato repubblicano fondato su una completa fusione tra centro urba­no e territorio rurale circostante. Tale Sta­to deteneva attraverso i propri rappresentanti poteri quasi sovrani: creava le sue leggi, coniava le sue monete, aveva i suoi tribunali, armava il suo esercito e dichiarava le sue guerre. Ecco perché il Comune medievale può essere definito un'associazione privata e volontaria sorta tra membri di classi socia­li diverse in difesa di determinati diritti e interessi.
Una nuova economia. La nascita del Co­muni è strettamente legata al sorgere di una economia commerciale, che prese il sopravvento sull'economia delle cor­ti, di carattere essenzialmente agricolo. Essa era fondata non sulla proprietà ter­riera, ma sugli scambi, sul denaro e sul lavoro, ed era gestita da una nuova clas­se di persone intraprendenti e insoffe­renti verso i ristretti limiti del feudo, che intrecciavano relazioni commerciali con genti e paesi anche lontani nei mercati e nelle fiere annuali, come quelle famose delle Fiandre e della Champagne e in seguito dei nuovi centri commerciali di Lione, Colonia, Norimberga, Augusta. Amburgo e Lubecca. In tal modo la cur­tis feudale, costituita attor­no al castello e al borgo a esso unito, si immiserì sempre più e perse importan­za: si ricominciò a viaggiare, proprio men­tre le città, abitate da una popolazione eterogenea, dedita a una grande varietà di mestieri e professioni (notai, medici, scrivani, mercanti, artigiani ecc.), anda­vano ampliando le proprie mura e costruen­do nuovi edifici religiosi e civili.
Disuguaglianza tra le classi. I Comuni erano dunque nati come fieri difen­sori della propria libertà; essi però non garantivano a tutti i loro cittadini un'u­guaglianza giuridica, in quanto lasciava­no sussistere profonde differenze di clas­se. Esistevano al loro interno quattro classi sociali - i nobili, il popolo grasso, il popolo minuto e la plebe -, in peren­ne lotta fra loro per rivendicare diritti e libertà. Ai conflitti interni si aggiunsero rapidamente anche le guerre tra Comune e grandi feudatari e tra Comune e Comu­ne. Si venne determinando così una situazione ­di instabilità politica, che tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo rese precario il funzionamento delle istitu­zioni comunali e impossibile garantire l’ordine e la tranquillità. Per uscire da questo stato di crisi, molti Comuni, che fino ad allora erano stati retti dai Consoli, espressione dell'aristo­crazia cittadina, affidarono il loro governo a ­Podestà chiamati da un'altra città per avere la garanzia che fossero estranei (almeno in teoria) alle lotte locali. Nep­pure così però si riuscì a eliminare la cre­scente conflittualità. Nel XIII secolo la grande borghesia, sen­tendosi economicamente forte, cercò di impadronirsi del potere, detenuto pre­valentemente dagli aristocratici. Dopo fasi più o meno lunghe di conflitto, essa riuscì a imporre l'elezione di un Capi­tano del popolo, incaricato di tutelare i suoi interessi contro le prepotenze o gli abusi dei nobili, con l'assistenza di un Consiglio minore delle Arti e dei Prio­ri, costituito dai capi di tutte le Corpo­razioni o Arti, e di un Consiglio mag­giore o del popolo, di cui faceva parte tutta la borghesia cittadina. Questo nuo­vo tipo di governo comunale sanciva la definitiva affermazione della grande bor­ghesia cittadina, che fondava il proprio potere sulla ricchezza e sul controllo eco­nomico esercitato mediante le Arti o Corporazioni di mestiere.

5. La lotta dei Comuni contro l’Impero

L’inevitabile conflitto con l’impero. Per quanto costituitisi senza fare gran chias­so e spesso col favore imperiale, i liberi Comuni si rivelarono ben presto come un vero e proprio pericolo per gli ideali “universali” feudali, sostenuti dall'imperatore e dal papa. I Comuni, infatti, gra­zie al loro dinamismo economico, si era­no sempre più svincolati dal sistema feu­dale e rivendicavano la loro piena indi­pendenza. Inoltre, una volta divenuti una specie di piccoli Stati indipendenti, pur considerandosi sempre vassalli dell'im­pero, tendevano inevitabilmente all'au­tonomia politica e amministrativa e alla conseguente eliminazione di ogni inter­vento imperiale nella vita cittadina: essi governavano con proprie istituzioni e proprie leggi, si difendevano con propri eserciti, spesso grandi e ben addestrati, e si erano a poco a poco dimenticati dei loro doveri nei confronti dell'imperato­re. In realtà, quella dei Comuni e quella dell’impero erano due forme di civiltà diametralmente opposte: una era diret­ta dal basso, l'altra dall'alto; una era rura­le, l'altra cittadina; una era statica, l'altra era dinamica; una era aristocratica, l'al­tra sempre più borghese. Era inevitabile che esse entrassero in conflitto e che una delle due dovesse soccombere. Ciò avvenne tra il XII e il XIII secolo nel corso di sanguinose lotte, che assicurarono la vit­toria alle autonomie cittadine e segnarono la lenta e progressiva decadenza dell’i­mpero.
Prima discesa di Federico Barbarossa in Italia (1154-1155). A dare inizio alle ostilità fu uno dei più grandi impe­ratori del Medioevo, Federico I di Sve­via (1125-1190), detto il Barbarossa, che sperò di poter unificare l'intera Europa sotto la propria autorità. Per raggiun­gere tale scopo, Federico decise di inter­venire in Italia, soprattutto per tre moti­vi: assoggettare i Comuni italiani, acqui­stare un'indiscussa supremazia sul papa­to ed estendere l'influenza germanica sull’Italia meridionale ai danni dei Nor­manni. A incoraggiarlo a tale impresa, furono non solo le molte famiglie feu­dali desiderose di abbattere la potenza comunale, ma anche alcuni Comuni, come Pavia, Lodi e Como, preoccupati per l'espansionismo di Milano, nonché lo stesso papa, che contava sull'aiuto imperiale per rovesciare il Comune popo­lare affermatosi a Roma sotto la guida del monaco agostiniano Arnaldo da Bre­scia, la cui veemente predicazione con­tro la corruzione e l'immoralità del cle­ro aveva costretto il pontefice a lasciare la città. Nell'ottobre del 11541'impera­tore intervenne in Italia con un piccolo esercito e a Roncaglia, presso Piacenza, convocò una dieta, in cui revocò i dirit­ti imperiali di cui si erano appropriati i Comuni e, dopo aver distrutto Asti, Chie­ri e Tortona, si fece incoronare a Pavia re d'Italia. Si diresse poi verso Roma e strinse un accordo con il papa Adriano IV (l'unico papa inglese della storia), che in cambio della cattura di Arnaldo gli concesse l'incoronazione imperiale (1155). Egli però non riuscì a ingraziarsi la popo­lazione dell'Urbe, che insorse contro di lui, costringendolo a tornarsene in tut­ta fretta in Germania.
Verso il tramonto dell'autorità impe­riale. Il Barbarossa ritornò più volte in Italia, per contrastare l'autonomia dei Comuni lombardi e l'ostilità rinnovata­gli dalla Chiesa con Alessandro III, oppo­sitore dell'impero. Nel 1164 alcune città venete si unirono in una lega antimpe­riale (Lega veronese) e il loro esempio venne seguito in Lombardia, da Brescia, Bergamo, Mantova e Milano, che dette­ro vita con altre 36 città alla Lega lom­barda (1167), sostenuta anche da Ales­sandro III. Nel 1174 si verificò lo scon­tro risolutivo: il Barbarossa, deciso a distruggere definitivamente i suoi avver­sari, venne battuto dalla Lega lombarda, prima ad Alessandria e poi a Legnano e fu costretto a ristabilire la pace col papa (tregua di Venezia, 1177) e con i Comu­ni (pace di Costanza, 1183), ai quali veni­vano riconosciuti diritti sovrani, seppure con limitati obblighi feudali. Maggior successo fu ottenuto da Federico I ne­ll'Italia meridionale, dove combinò le nozze tra suo figlio Enrico e Costanza d'Al­tavilla, ultima discendente della dinastia normanna: in tal modo il regno norman­no dell'Italia meridionale fu unito all'im­pero. Nel 1190 il vecchio imperatore, morì, seguito di lì a poco (1197) dal figlio Enrico VI, che lasciò un erede di appe­na tre anni, Federico II, destinato a diven­tare una delle personalità più forti e affa­scinanti della storia medievale.

6. Federico II e la fine della supremazia imperiale

La teocrazia di Innocenzo III. Dallo scontro tra Comuni e impero la Chiesa era uscita rafforzata e volle riaffermare il potere non solo spirituale, ma anche temporale del papa sul mondo intero, soprattutto con l'ascesa al soglio ponti­ficio di Innocenzo III. Egli, infatti, qua­le rappresentante di Dio in terra, si rite­neva superiore a tutti gli uomini, e quin­di anche all'imperatore, e intendeva porsi come incontrastato arbitro delle vicende po­litiche internazionali, secondo gli ideali della teocrazia.
L’ascesa di Federico II. Il momento era favorevole al colpo di mano del pontefi­ce, in quanto l'impero era indebolito dal­le lotte di successione seguite alla mor­te di Enrico VI, fra i ghibellini, sosteni­tori  della casa di Svevia, e i guelfi, fauto­ri della casa di Sassonia. Per venire a capo della situazione e contrastare l'azione antiecclesiastica del vincitore sassone, Ottone di Brunswick, Innocenzo III pen­sò di puntare su Federico II, posto sot­to la sua tutela dalla madre Costanza d'AItavilla. Tra Federico, che godeva del sostegno del re di Francia Filippo II Augusto, e Ottone, appoggiato invece dal re di Inghilterra Giovanni Senza Terra, si aprì un duro conflitto, che terminò nel 1214 con la battaglia di Bouvines (Francia setten­trionale) e che vide la vittoria di Federico. Incoronato imperatore (1215), Federico II si mostrò da subito intenzionato a occuparsi dell'Italia, dove intendeva fondare uno Stato unitario e indipen­dente dalla Chiesa, disinteressandosi dei problemi della Germania, dove i grandi feudatari approfittarono della sua lonta­nanza per attribuirsi spazi sempre più ampi di autonomia politica.
Le riforme di Federico Il. Stabilita la corte a Palermo, Federico dedicò tutta la sua attività a riorganizzare il regno di Sicilia, da lui considerato "la pupilla dei suoi occhi". Con l'intento di creare uno Stato forte, accentrato e laico, egli con­centrò tutti i poteri nelle sue mani, sen­za lasciare nessuno spazio ai feudatari e alle autonomie locali. Si impegnò per favorire lo sviluppo dell'agricoltura e del commercio nell'isola e per rivitalizzare l'arte e la cultura. A fondamento del suo programma politico, Federico emanò nel 1231 le cosiddette Costituzioni melfi­tane (da Melfi, presso Potenza), destina­te a costituire un documento legislativo di eccezionale importanza e modernità, basato su due principi fondamentali e decisamente rivoluzionari per l'epoca: l'indiscussa superiorità dello Stato e l'u­guaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, fossero essi europei o arabi, cristiani o musulmani, ecclesiastici o feudatari, borghesi o con­tadini. È evidente che questo modo di concepire lo Stato, che egli voleva esten­dere a tutta la penisola, portava all'ine­vitabile rottura tra papato e impero, nonché alla lotta contro i potenti Comu­ni dell'Italia settentrionale, decisi a difen­dere l'autonomia conquistata.
Federico II e i comuni. I Comuni, costi­tuitisi in una nuova Lega lombarda, ven­nero dapprima battuti nel 1237 a Corte­nuova (presso Bergamo), poi sconfissero a loro volta le truppe imperiali a Parma (1248) e a Fossalta (1249), dove venne catturato lo stesso figlio di Federico, Enzo. L'imperatore non rinunciò a preparare la propria rivincita, ma morì improvvisa­mente proprio mentre stava riunendo un grande esercito in Puglia (1250). La sua scomparsa non riportò la pace, in quan­to la lunga lotta tra impero e Comuni aveva esasperato i contrasti tra le città e tra le opposte fazioni dei guelfi e dei ghi­bellini, che continuarono a combattersi, cercando l'appoggio ora del papato, ora dell'impero.
L’ascesa degli stati nazionali. Il regno di Federico II segnò comunque una svol­ta politica decisiva, in quanto contri­buì a rafforzare l'idea di uno Stato for­temente accentrato. Egli si era reso con­to che la rivendicazione dell'impero di estendere la propria autorità su tutta l'Europa era diventata anacronistica. In Francia, Inghilterra e Spagna, infatti, si stavano formando monarchie naziona­li, nelle quali intraprendenti sovrani avviavano un processo di espansione e di riunificazione territoriale, destinato a ridi­mensionare il potere della nobiltà feu­dale a vantaggio di uno Stato centrale. In Inghilterra tale processo venne ini­ziato nel 1154 da Enrico II, capostipi­te della dinastia dei Plantageneti, men­tre nel regno di Francia la svolta verso la monarchia nazionale venne attuata dal re capetingio Filippo II Augusto, aveva l'obiettivo di recuperare i ter­ritori francesi in mano inglese per con­solidare l'unità territoriale del regno. Dopo la battaglia di Bouvines (1214), egli rafforzò il proprio potere e poté assumere per primo il titolo di "re di Francia" invece di "re dei Francesi", a sottolineare il fondamento nazionale del suo dominio. Nella Spagna, preva­lentemente in mano araba, il processo di unificazione nazionale venne avvia­to da Alfonso VIII di Castiglia (1158­1214), il quale nel 1212 sconfisse gli Arabi a Las Navas de Tolosa (Andalu­sia): l'islamismo iberico rimase così con­finato nell'estremo sud della penisola entro la breve striscia di territorio che costituì il regno di Granada.

Fonte : http://www.luzappy.eu/medioevo/medioevo.doc

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