Nazismo
Nazismo
Elementi fondamentali dell’ideologia e della pratica politica nazista:
1) definizione dell’unità nazionale in base a elementi razziali (la comunità statale è data dall’identità di sangue); prevalenza dei tedeschi e antisemitismo; eugenetica (sterminio degli handicappati, dal 1937, dei malati mentali, degli omosessuali)
2) antisemitismo: elemento presente fin dal programma del partito del 1924; i primi campi di concentramento sono organizzati fin dal 1933 (Dachau) e dal 1937 (Buchenwald), la soluzione finale comincia nel 1940-41 e viene perseguita fino alla fine del conflitto, anche a scapito di altre attività necessarie al proseguimento del conflitto;
3) teoria dello spazio vitale: il nazionalismo in versione nazista esula in gran parte le rivendicazioni del pangermanesimo, ossia dal desiderio di riunire in un unico Stato tutte le popolazioni di lingua tedesca (desiderio che però potrebbe spiegare l’Anschluss, ma anche l’attacco alla Cecoslovacchia e alla Polonia). Già nel 1924 si parla di colonie in cui far espandere la popolazione tedesca: l’Est europeo è pensato come terra di espansione dello spazio vitale tedesco; deve non solo deve essere conquistato, ma anche ripulito delle popolazioni autoctone che lo abitano (di qui la politica di sterminio rivolta contro gli slavi: alla fine della guerra si contano, per esempio, venti milioni di morti in Russia e quattro milioni e mezzo in Polonia). Rispetto a questa espansione a Est, la conquista della Francia e il suo annientamento ha per Hitler un valore legato solo all’impellente senso di rivincita rispetto alla sconfitta del 1918 (prodotta anch’essa dalla congiura ebraica). La guerra è “la manifestazione più forte e più classica della vita”, ed è condizione permanente e non passeggera della politica di dominio hitleriana;
4) Führerprinzip: forte gerarchizzazione e personalizzazione dell’intera società e della politica. Il partito tende ad assorbire lo Stato, che non è un fine in sé, ma un semplice mezzo per la supremazia razziale tedesca. Concentrazione di tutti i poteri nelle mani di Hitler, in un quadro di violenza politica sistematica e di totale assenza di legalità liberale e democratica. Hitler è anche l’unico a decidere come far oscillare il suo favore tra i vari corpi, vecchi e nuovi, dello Stato;
5) l’economia viene subordinata alle esigenze della politica, senza però che vengano stravolti i rapporti di potere economico. Forte impulso alle opere pubbliche, che rivitalizza l’economia tedesca ed elimina la grande disoccupazione seguita alla crisi del 1929;
6) controllo totalizzante della società e dell’individuo, perpetuato attraverso la mobilitazione ideologica permanente delle masse, tramite tutto ciò che è messo a disposizione dallo sviluppo tecnologico.
A. ROSENBERG (1893-1946)
Autore de Il mito del XX secolo (1930), silloge dell’antisemitismo nazista. La storia è storia di lotta tra razze: la comunanza di sangue fonda l’unità della razza, che a sua volta è all’origine delle espressioni linguistiche, culturali e istituzionali proprie di un popolo.
Il sistema delle opposizioni pone da un lato la morale dell’altruismo, dell’amore universale, del denaro e della democrazia, propria degli ebrei, dall’altro quella fondata sull’onore, sulla libertà e sui valori aristocratici, propria dei tedeschi. Un partito gerarchicamente organizzato deve riportare in auge questa morale e sconfiggere la congiura della plutocrazia, della democrazia e del marxismo. Gli ebrei, simbolo del male, hanno cercato di annientare tutto ciò che di superiore è stato prodotto dalle altre civiltà, vivendo come parassiti e come un focolaio di infezione per le razze superiori.
C. Schmitt (1888-1985)
La filosofia di Schmitt non è riducibile al nazismo, cui però aderì senza strappi, anche se fu costretto ad abbandonare la politica nel 1936, in seguito a un attacco della rivista delle SS.
Elemento giuridico: è astratto, cerca di eliminare il conflitto, si adatta a situazioni di omogeneità sociale e di tranquillità politica, sancisce in realtà la prevalenza di certi interessi su altri, senza essere veramente neutrale. Elemento politico: è basato sul conflitto della diade amico-nemico; ha sempre la guerra nel suo orizzonte; è autoritario; fa esprimere la comunità come unità vivente, usando l’acclamazione, e non la scheda elettorale. Sa generare, con un atto creativo, un nuovo ordine dall’assenza di ordine, dall’eccezione. Poiché il politico è fondato sulla guerra, anche interna, l’ordine dello Stato può essere conservato solo se vigila continuamente contro il potenziale nemico interno.
Per uscire dalle impasses della Germania di Weimar è necessario un capo che sia legittimato direttamente dal popolo e che riaffermi l’autorità dello Stato. Democrazia plebiscitaria, che dovrebbe esprimere la seconda parte della costituzione di Weimar, quella per l’appunto di spirito democratico. Dopo l’avvento del nazismo, tutto ciò viene riletto in funzione dei nuovi poteri: la garanzia contro la tirannide nel nuovo regime è rappresentata dall’uguaglianza di stirpe. Per il resto, è assoluto il primato della direzione politica del Führer. La legge è comando e ciò che conta è la volontà politica che la produce: è quindi legale anche la “notte dei coltelli”.
Stato, movimento e popolo: l’elemento fondamentale, il movimento, è rappresentato dal partito nazista. Solo il partito è fonte della politica; non lo è lo Stato (=la burocrazia e l’esercito), né il popolo (= gli ordinamenti economici, le organizzazioni professionali e l’amministrazione locale).
Fonte: http://www.unitus.it/scienzepolitiche/Didatt_online/fil-soc-mod/Materiali_didatt/Nazismo.doc
Il nazismo e noi
di Roberto Esposito
1. 1933‑2003. E giusto ritornare sulla questione del nazismo a settant'anni dalla sua presa del potere? lo credo che la risposta a questa domanda non possa che essere affermativa: non soltanto perché ogni vuoto di memoria nei suoi confronti costituirebbe un affronto insopportabile per le sue vittime, ma anche perché, nonostante una letteratura sempre crescente, resta nell'ombra qualcosa di esso che ci concerne da vicino. Di cosa si tratta? Cosa ci lega invisibilmente a ciò che pure identifichiamo come la più tragica catastrofe politica del nostro tempo - e forse addirittura di ogni tempo? La mia sensazione è che questo elemento, insieme inquietante e sfuggente, resti coperto, nascosto, dalle pieghe del concetto di totalitarismo. Naturalmente sappiamo tutti quanto quest'ultimo soprattutto nella formulazione di Hannah Arendt - abbia giovato alla conoscenza della svolta radicale che intorno agli anni Venti del Novecento è intervenuta rispetto agli assetti istituzionali, politici, etici della stagione precedente (cfr. S. Forti, 2001). Eppure proprio il concetto di totalitarismo finisce per elidere, o quanto meno sfumare, la specificità dell'evento nazista rispetto ad altre esperienze collocate all'interno della medesima categoria - innanzitutto il comunismo sovietico. Evidentemente ciò non vuol dire che non vi sia nulla che colleghi trasversalmente i due fenomeni la società di massa, la violenza costruttivistica, il terrore generalizzato ed altro ancora. Ma questo nesso, fin troppo palese, non tocca la falda ultima che fa del nazismo qualcosa di inassimilabile ad ogni altra vicenda del passato prossimo o remoto.
Da questo punto di vista anche il rapporto con quella che chiamiamo modernità rivela una profonda differenza tra i due «totalitarismi»: mentre quello comunista, pur con la sua tipicità, scaturisce dal suo ventre - dalle sue logiche, dalle sue dinamiche, dalle sue derive - quello nazista segna un drastico mutamento di rotta. Non nasce dalla estremizzazione, ma dalla decomposizione, della forma moderna. E ciò non perché non ne contenga in sé elementi. frammenti, schegge, ma perché li riconduce, o traduce, in un linguaggio concettuale assolutamente nuovo, del tutto irriducibile ai parametri politici, sociali, antropologici del lessico precedente. Se per il comunismo si può sempre affermare che esso «realizzi» in qualche modo, sia pure in forma esasperata ed estrema, una tradizione filosofica della modernità, ciò non può dirsi in alcun modo per il nazismo. E’ - perciò - prima di altre, più contingenti incompatibilità - che l'incontro con la filosofia di Heidegger si rivelò ben presto un terribile equivoco per entrambi. Ma proprio perché del tutto al di fuori del linguaggio moderno, perché situato decisamente dopo di esso, il nazismo lambisce, in maniera imbarazzante una dimensione che fa parte della nostra esperienza di postmoderni. Contrariamente a quanto proclama la vulgata neoliberale, noi non siamo, non siamo più, nel rovescio del comunismo, ma in quello del nazismo. E’ esso la nostra questione, il mostro che ci insegue non solo alle spalle, ma anche dal nostro futuro.
2. In che senso? Abbiamo detto che il nazismo non è una filosofia realizzata - come invece il comunismo. Ma questa non è che una mezza verità, che va completata come segue: esso è piuttosto una biologia realizzata. Se il comunismo ha come trascendentale la storia, come soggetto la classe e come lessico l'economia, il nazismo ha come trascendentale la vita, come soggetto la razza e come lessico la biologia. Certo, anche i comunisti ritenevano di agire in base ad una precisa visione scientifica, ma solo i nazisti identificarono quella scienza nella biologia comparata delle razze umane. Da questo lato bisogna prendere assolutamente per buone le dichiarazioni di Rudolph Hess, secondo cui «il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata» (cfr. RJ. Lifton, 1988, p. 51). In realtà l'espressione era stata usata per la prima volta dal genetista Fritz Lenz nel fortunatissimo manuale di Rassenhygiene scritto con Erwin Baur ed Eugen Fischer, in un contesto in cui Hitler veniva definito «il grande medico tedesco» capace di muovere «il passo finale nella sconfitta dello storicismo e nel riconoscimento di valori puramente biologici» (E. Baur, E. Fischer, E Lenz, 1931, pp. 417-418). E del resto, lo stesso Hitler aveva dichiarato in Mein Kampf che quando un popolo non ha più «la forza per lottare per la propria salute, cessa il diritto di vivere in questo mondo di lotta» (A. Hitler, 1941, p. 35). In un altro influente manuale di medicina Rudolph Ramm aveva nel frattempo indicato nel «medico del Volk» tedesco «un soldato della biologia» al servizio della «grande idea della struttura biologica di Stato del nazionalsocialismo» (R. Ramm, 1943, p. 178). Potere medico e potere militare rimandano l'uno all'altro - aggiungeva Kurt Blome (poi vice di Leonardo Conti al vertice della sanità pubblica) nel saggio del '42 intitolato programmaticamente Artz im Kampf (Medico in lotta) - perché entrambi impegnati nella battaglia finale per la Vita del Reich (K. Blome, 1942).
Bisogna stare attenti a non perdere la qualità specifica dì questa semantica biologica, e medica in particolare, adoperata dai nazisti. Interpretare la politica in termini biomedici e, inversamente, attribuire alla biomedicina una pregnanza politica, voleva dire porsi in un orizzonte radicalmente diverso da quello dell'intera tradizione moderna perché - sono ancora parole di Ramm - «il nazionalsocialismo, a differenza di qualsiasi altra filosofia politica o di qualsiasi altro, programma di partito, è in accordo con la storia naturale e con la biologia dell'uomo» (R. Ramm, 1943, p. 156). E vero che da sempre il lessico politico usa ed incorpora metafore biologiche - a partire da quella, di lungo corso, dello Stato-corpo. Ed è vero, come ha messo in luce Foucault, che a partire dal XVIII secolo la questione della vita si è andata progressivamente intersecando con la sfera dell'agire politico. La stessa idea di National-Biologie, o di biologiche Politik, affonda nella cultura guglielmina e weimariana (cfr. P. Weindling, 1989, pp. 220 ss.). Ma qui siamo di fronte ad un fenomeno assai diverso per entità e significato. La metafora diviene in qualche modo reale: non nel senso che il potere politico passa direttamente a medici e biologi - anche se in più di un caso accadde anche questo - ma in quello, ancora più rilevante, che i politici assunsero un criterio medico-biologico come criterio guida delle loro azioni. In questo senso non si può nemmeno parlare di una semplice strumentalizzazione: non è che la politica nazista si sia limitata ad adoperare a scopo legittimante la ricerca biomedica del tempo. Essa pretese di identificarsi direttamente con essa (G. Agamben, 1995, p. 164). Quando Hans Reiter, parlando a nome del Reich nella Parigi occupata, dichiarava che «questo modo di pensare sotto l'aspetto biologico deve a poco a poco diventare quello di tutto il popolo» perché in esso è in gioco la «sostanza» dello stesso «corpo della nazione» (H. Reiter, 1942, p. 51), era ben consapevole di parlare a nome di qualcosa che non ha mai fatto parte della lingua concettuale moderna - e che, proprio per questo, alla fine della modernità, ci chiama direttamente in causa.
3. Solo così si spiega l'intreccio che in quei terribili dodici anni si verificò tra politica, diritto e medicina in una stretta il cui esito finale fu il genocidio. Certo, la partecipazione del ceto medico a forme di tanatopolitica non fu solo del nazismo. E’ noto il ruolo degli psichiatri nell'applicazione della diagnosi di malattia mentale ai dissidenti nell'Unione Sovietica del Gulag o quello dei medici giapponesi che nel Pacifico vivisezionavano i prigionieri americani. Eppure in Germania si trattò di altro. Anche di altro. Non parlo solo degli esperimenti sulle «cavie umane» o delle collezioni di crani ebrei fornite agli istituti di antropologia direttamente dai campi. Si conoscono i graziosi regali anatomici inviati da Mengele al suo maestro Otmar von Verschuer, considerato ancora adesso uno dei fondatori della genetica contemporanea. Su tutto questo c'è già stato il giudizio di un tribunale e anche un codice (di Norimberga) promulgato a conclusione del processo ai medici ritenuti direttamente colpevoli di assassinio (cfr. R. De Franco, 2001). Ma l'esiguità stessa delle condanne rispetto all'enormità della cosa sta a testimoniare che il problema non fosse tanto quello dell'accertamento - pure inevitabile della responsabilità individuale di singoli medici, quanto quello del ruolo complessivo che la medicina giocò nell'ideologia e nella pratica nazista. Perché quella medica fu la professione che dette di gran lunga più delle altre un'adesione incondizionata al regime? E perché il regime conferì ai medici un potere di vita e di morte tanto esteso? Perché sembrò consegnare proprio al medico lo scettro del sovrano e, prima ancora, il libro del sacerdote?
Quando Gerhard Wagner, Fűhrer dei medici tedeschi prima di Leonardo Conti, disse che il medico «tornerà ad essere ciò che sono stati i medici del passato, ritornerà ad essere sacerdote; sarà il medico sacerdote» (cfr. B. Műller-Hill, 1989, p. 107), non farà altro che affermare che a lui, e solo a lui, compete in ultima istanza il giudizio su chi è da tenere in vita e chi va respinto nella morte. Che è egli, ed egli solo, a possedere la definizione di vita valida, provvista di valore, e dunque a poter fissare i limiti al di là dei quali essa può essere legittimamente spenta.
I medici - almeno i molti che si riconobbero nel regime - non ebbero esitazione ad accettare il mandato e ad eseguirlo con alacre efficienza: dalla individuazione dei bambini e poi degli adulti destinati alla «morte misericordiosa» del programma T4 all'estensione di ciò che continuò a definirsi «eutanasia» ai prigionieri di guerra (codice 14f13), fino alla grande Therapia magna auschwitzciense: selezione sulla rampa d'ingresso del campo, avvio del processo di gassificazione, dichiarazione di decesso, estrazione dei denti d'oro dai cadaveri, sorveglianza delle procedure di cremazione. Nessuna fase della produzione della morte in serie sfuggì al loro controllo. Secondo una precisa disposizione di Viktor Brack, capo del Dipartimento Il «Eutanasia» della Cancelleria del Reich, solo essi avevano il diritto di iniettare fenolo nel cuore dei «degenerati» o di aprire il rubinetto del gas per la «doccia» finale. Se il potere ultimo calzava gli stivali da SS, l'auctoritas vestiva il camice bianco del medico. Anche le vetture che trasportavano lo Zyklon-B a Birkenau avevano il segno della croce rossa e l'iscrizione che campeggiava all'entrata di Mauthausen era «Pulizia e salute».
Nella terra di nessuno di questa nuova teo-bio-politica i medici erano davvero tornati i grandi sacerdoti di Baal - che dopo qualche millennio si ritrovava di fronte i suoi antichi nemici ebrei e poteva divorarli a piacimento. Si è ben detto che Auschwitz-Birkenau è stato il più grande laboratorio di genetica del mondo (E. Klee, 1997).
4. Come è noto, il Reich seppe ben ricompensare i suoi medici. Non solo con cattedre ed onorificenze, ma anche con qualcosa dì più concreto. Se Conti passò alle dirette dipendenze di HimmIer, il chirurgo Karl Brandt, già incaricato dell'operazione «Euthanasia», divenne uno degli uomini più potenti del regime, sottoposto, nel suo ambito - quello, illimitato, della vita e della morte di ciascuno - soltanto all'autorità suprema del Fűhrer. Per non parlare di Irmfried Eberl, «promosso» a trentadue anni comandante del campo di Treblinka. Questo vuol dire che tutti i medici tedeschi, o anche soltanto quelli che aderirono al nazismo, vendettero consapevolmente l'anima al diavolo? Che furono dei semplici macellai in camice bianco? In realtà, anche se sarebbe più comodo pensarlo, le cose non stanno affatto così. Non soltanto la ricerca medica tedesca era una delle più avanzate, se non la più avanzata, del mondo - al punto che Wilhelm Hueper, padre della carcinogenesi professionale americana, chiese al ministro nazista della Cultura Bernhard Rust di ritornare a lavorare nella «nuova Germania». Ma i nazisti lanciarono la più poderosa campagna del periodo contro il cancro restringendo l'uso dell'asbesto, del tabacco, di pesticidi e coloranti, incoraggiando la diffusione del cibo integrale e la cucina vegetariana, mettendo in guardia sui potenziali effetti cancerogeni dei raggi X (cui nel frattempo sottoponevano a scopo di sterilizzazione le donne che non valevano neanche il costo di una salpingectomia). A Dachau, mentre il camino fumava, si produceva miele biologico. Lo stesso Hitler, del resto, detestava il fumo, era vegetariano e animalista, oltreché scrupolosamente attento a questioni di igiene (cfr. R.N. Proctor, 2000)
Che significa tutto ciò? Questa attenzione addirittura ossessiva per la sanità pubblica, che ottenne peraltro effetti non irrilevanti sulla mortalità per tumore nella Germania del tempo? La tesi che si affaccia è che tra questa attitudine terapeutica e il quadro tanatologico entro cui essa sì inscrisse non vi fosse solo contraddizione, ma connessione profonda: proprio in quanto ossessivamente preoccupati della salute del corpo tedesco, i medici operavano, nel senso specificamente chirurgico dell'espressione, l'incisione mortifera nella sua carne. Benché ciò risulti tragicamente paradossale, insomma, è per eseguire la propria missione terapeutica che essi sì fecero carnefici di coloro che reputavano o inessenziali o nocivi all’incremento della salute pubblica. Da questo punto di vista, per quanto costi farlo, si deve sostenere che il genocidio è stato il risultato non dell'assenza, ma della presenza, di un'etica medica pervertita nel suo contrario. Dire che nella visione biomedica del nazismo sia saltato il confine tra guarigione ed assassinio è ancora poco. Bisogna arrivare a concepirli come due versanti di uno stesso progetto che faceva dell'uno la condizione necessaria dell'altra: solo assassinando quanto più persone possibile, si potevano risanare coloro che rappresentavano la vera Germania. Da questo angolo di visuale appare persino plausibile la circostanza che almeno alcuni dei medici nazisti avessero veramente creduto di rispettare nella sostanza, se non nella forma, il giuramento di Ippocrate di non nuocere in alcun modo al malato. Solamente che identificavano il malato, anziché nel singolo individuo, nel popolo tedesco nel suo complesso: era precisamente la sua cura a richiedere, la morte di massa di tutti coloro che ne minacciavano la salute con la loro stessa esistenza. In questo senso siamo costretti a difendere l'ipotesi, prima affacciata, che il trascendentale del nazismo sia la vita piuttosto che la morte. Anche se poi, paradossalmente, la morte veniva considerata la sola medicina atta a conservare la vita: «Il messaggio dei nazisti - alle vittime, ai possibili osservatori e soprattutto a se stessi - fu: tutte le nostre uccisioni sono uccisioni mediche, dettate da ragioni mediche ed eseguite da medici» (RJ. Lifton, 1988, p. 191). Nel telegramma 71 inviato dal bunker di Berlino, con cui Hitler comandava di distruggere le condizioni di sussistenza del popolo tedesco dimostratosi troppo debole, fu improvvisamente chiaro il punto limite dell'antinomia nazista: la vita di alcuni, e infine di uno, è consentita soltanto dalla morte di tutti.
5. Si sa che Michel Foucault ha interpretato questa dialettica tanatologica in termini di biopolitica: nel momento in cui il potere assume la vita stessa ad oggetto dei suoi calcoli e a strumento dei suoi fini, è possibile, quantomeno in presenza di determinate condizioni, che decida di sacrificarne una parte a beneficio dell'altra (M. Foucault, 1998, pp. 206-227). Senza nulla togliere alla pregnanza di tale prospettiva, credo, però, che essa non basti a spiegare tutto. Perché il nazismo - a differenza di tutte le altre forme di potere passate e presenti - ha spinto tale possibilità omicida alla sua più compiuta realizzazione? Perché esso, e solo esso, ha rovesciato la proporzione tra vita e morte a favore della seconda fino al punto di progettare la propria autodistruzione? La tesi che proverei ad avanzare a questo proposito è che la categoria di biopolitica vada integrata con quella di immunizzazione. Perché solamente quest'ultima mette chiaramente a nudo il nodo mortifero che stringe la protezione della vita alla sua potenziale negazione. Non solo: ma identifica nella figura della malattia autoimmune la soglia al di là della quale l'apparato protettivo si rivolge contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere portandolo all'esplosione (cfr. R. Esposito, 2002).
Che sia questa la chiave interpretativa più adeguata a cogliere la specificità del nazismo è, d'altra parte, provato dalla particolarità del male da cui esso ha inteso difendere il popolo tedesco. Non si tratta di una malattia qualunque, ma di una malattia infettiva. Ciò che si voleva ad ogni costo evitare era il contagio da esseri inferiori ad esseri superiori. La lotta a morte costruita e diffusa dalla propaganda del regime è quella che oppone il corpo e il sangue originariamente sani della nazione tedesca ai germi invasori penetrati al suo interno con l'intento di minarne l'unità e la stessa vita. Si conosce il repertorio che gli ideologi del Reich hanno adoperato per raffigurare i loro pretesi nemici e innanzitutto gli ebrei: essi sono, di volta in volta e contemporaneamente, «bacilli», «batteri», «virus», «parassiti», «microbi». Andrzej Kaminski ricorda che anche gli internati sovietici furono a volte definiti negli stessi termini (A.J. Kaminski, 1997, pp. 84-85). E, del resto, la caratterizzazione parassitaria degli ebrei fa parte della storia secolare dell'antigiudaismo tedesco e non solo tedesco. Eppure nel vocabolario nazista tale definizione acquista una diversa valenza. E’ come se quella che fino ad un certo momento restava una pesante metafora prendesse realmente corpo. Ciò è l'effetto della integrale biologizzazione del lessico di cui si diceva: gli ebrei non somigliano ai parassiti, non si comportano come batteri - lo sono. E. come tali vanno trattati. Perciò il termine giusto per il loro massacro tutt'altro che il sacrale «olocausto» - è «sterminio»: esattamente quello che si usa per gli insetti, i ratti o i pidocchi. In questo senso bisogna attribuire un significato assolutamente letterale alle parole di Himmler rivolte alle SS arrivate a Char'kov secondo cui «con l'antisemitismo è come con la disinfestazione. Allontanare i pidocchi non è una questione ideologica, è una questione di pulizia» (cfr. A.J. Kaminski, 1997, p. 94). E del resto lo stesso Hitler usava una terminologia immunologica ancora più precisa: «La scoperta del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni di questo mondo. La battaglia in cui siamo oggigiorno impegnati è uguale a quella combattuta nel secolo scorso da Pasteur e Koch. Riacquisteremo la nostra salute solo eliminando gli ebrei» (A. Hitler, 1952, vol. 1, p. 321).
Non bisogna sfumare la differenza tra tale approccio specificamente batteriologico e quello semplicemente razziale. Tutta la sfida finale contro gli ebrei ha questa caratterizzazione biologico-immunitaria: anche il gas dei campi passava per i tubi di docce destinate alla disinfestazione. Solo che disinfestare degli ebrei risultava impossibile dal momento che erano precisamente essi i batteri di cui ci si doveva liberare. L’identificazione tra uomini e germi patogeni arrivò al punto che il ghetto di Varsavia fu intenzionalmente costruito in una zona già contaminata. In questo modo, secondo le modalità della profezia realizzata, gli ebrei caddero vittima della stessa malattia che aveva giustificato la ghettizzazione: finalmente esi erano diventati realmente infetti e dunque agenti di infezione (Ch.R. Browning, 1998,p.153). Perciò i medici avevano ben ragione di sterminarli. Naturalmente questa rappresentazione era in patente contrasto con la teoria mendeliana del carattere genetico - e dunque non contagioso - della determinazione razziale. Ma proprio per questo l'unico modo di fermare l'impossibile contagio sembrò quello di eliminare tutti i suoi possibili portatori. Non solo, ma anche tutti i tedeschì che potevano essere stati già contagiati. E anche quelli che sarebbero potuti esserlo in futuro. A guerra persa e con i russi a qualche chilometro dal bunker, semplicemente tutti. Qui il paradigma immunitario della biopolitica nazista tocca l'apice della sua furia autogenocidiaria. Come nella più devastante malattia autoimmune, il potenziale difensivo del sistema immunitario cresce al punto di ritorcersi contro sé stesso. L’unico esito possibile è la distruzione generalizzata.
6. E noi? I sessant'anni che ci separano dalla fine di quella tragica vicenda costituiscono una barriera che sembra difficile infrangere per chiunque. Ritenere che essa possa riprodursi, quantomeno nello spazio sempre più esteso di ciò che ancora chiamiamo Occidente, è davvero arduo. Non saremmo i teorici della categoria di immunizzazione se pensassimo che i dodici anni dell'esperienza nazista non abbiano prodotto anticorpi sufficienti a proteggerci dal suo ritorno. E tuttavia, queste considerazioni di senso comune sono ben lontane dal chiudere il discorso - che, da altro punto di vista, come già si diceva, resta ancora il nostro. Direi anzi qualcosa di più. Non soltanto il problema - lo squarcio orrido - aperto dal nazismo è tutt'altro che definitivamente risolto. Ma, per certi versi, sembra riapprossimarsi alla nostra condizione quanto più questa varca i confini della modernità. Il crollo definitivo del comunismo sovietico segna forse il punto a partire dal quale possiamo meglio misurare la persistenza, non certo del nazismo, ma del fondo, o dello sfondamento, da cui esso è sorto. E ciò non a caso: è la definitiva consumazione della filosofia della storia comunista - con quanto si portava ancora dentro della tradizione moderna - a favorire la riemergenza di quella questione della vita che comunque è stata al centro della semantica nazista. Mai come oggi il bíos - se non la zoé - si rivela al crocevia di tutti i percorsi, all'incrocio di tutte le pratiche: politiche, sociali, economiche, tecnologiche, culturali. E’ per questo che - esaurito il lessico concettuale (anche se non l'esigenza) del comunismo - vanno riaperti i conti con quello del nazismo, prima di ritrovarceli improvvisamente stampati sulla fronte.
Chi si fosse illuso, alla fine della guerra, o addirittura anche del dopoguerra, di poter riattivare le vecchie categorie delle democrazie uscite formalmente vincitrici dallo scontro, si è sbagliato di grosso. Ritenere che la complessità del mondo globalizzato - con i suoi lancinanti squilibri di danaro, di potenza, di densità demografica - possa essere governata con gli strumenti ineffettuali del diritto internazionale o con quelli, in rottamazione, dei tradizionali poteri sovrani, è pura utopia. Significa non cogliere che siamo prossimi ad una soglia altrettanto drammatica di quella situata sul crinale degli anni Venti-Trenta del Novecento. Come allora - anche se in modo diverso - l'incontro, la saldatura, tra politica e vita mette fuori gioco tutte le tradizionali mediazioni teoriche e istituzionali, a partire da quella della rappresentanza. Uno sguardo al panorama con cui si inaugura il XXI secolo basta a darcene un riscontro impressionante: dall'esplodere del terrorismo biologico - a bombe umane - alla guerra preventiva che intende rispondergli sullo stesso terreno; dai massacri etnici, cioè ancora di tipo biologico, alle migrazioni di massa che travolgono le barriere predisposte a contenerle; dalle tecnologie che investono non solo il corpo degli individui, ma anche i caratteri della specie, alla psicofarmacologia che modifica i nostri comportamenti vitali - dalla politica dell'ambiente all'esplodere di nuove epidemie; dalla riapertura di campi di concentramento in diverse zone del mondo all'appannamento della distinzione giuridica tra norma ed eccezione. Il tutto mentre dovunque riesplode in maniera incontenibile una nuova, e potenzialmente devastante, sindrome immunitaria. Lo si è detto: nulla di tutto ciò replica quanto è accaduto dal 1933 al 1945. Ma nulla è del tutto esterno alle questioni - di vita e di morte - che allora si posero. Dire che siamo, oggi più che mai, nel rovescio del nazismo significa che non è possibile sbarazzarsene limitandosi ad allontanare lo sguardo. Che per rovesciarlo davvero - per rigettarlo nell'inferno da cui è uscito - bisogna riattraversare consapevolmente quelle tenebre, rispondere, naturalmente in maniera opposta a quanto allora fu fatto, alle domande che da esse si levano.
Fonte:http://www.liceoumberto.eu/word/nazismo.doc
Nazismo
IL NAZISMO
I PROBLEMI POSTBELLICI
Gli esordi della Repubblica di Weimar furono travagliati. Dalla fine della prima guerra mondiale la Germania si trovava a dover affrontare una serie di problemi di ordine economico, sociale e politico quasi insormontabili. Oltre che un'inflazione e un debito nazionale senza precedenti, sui tedeschi gravavano le dure condizioni di pace dettate dal trattato di Versailles (giugno 1919): in particolare, il completo disarmo del paese e le ingenti riparazioni di guerra richieste dagli Alleati. Incapace di far fronte ai pagamenti, la Germania dovette effettuare ripetute svalutazioni del marco che polverizzarono il valore della moneta tedesca e inasprirono ulteriormente la crisi finanziaria del paese. Questo parve sul punto del collasso quando nel gennaio del 1923, truppe franco-belghe occuparono la ricca regione industriale tedesca della Ruhr, in seguito al ritardato pagamento delle riparazioni. I fragili equilibri appena raggiunti furono sconvolti dai contraccolpi della Grande Depressione economica mondiale del 1929, che produsse in Germania quasi sei milioni di disoccupati e radicalizzò la vita politica e sociale del paese. Nel 1930 Hindenburg nominò cancelliere l'esponente cattolico moderato Heinrich Brüning, che avviò una politica di drastici tagli alla spesa pubblica. Questa, mentre consentì di porre fine all'annosa questione delle riparazioni di guerra, inasprì la già grave crisi economica della Germania, creando, dopo le dimissioni di Brüning, nel 1932, una situazione politica fortemente instabile
ADOLF HITLER
Adolf Hitler, figlio di un modesto funzionario delle dogane austriaco, fu uno studente mediocre e non portò mai a termine le scuole secondarie. Dopo aver tentato invano di essere ammesso all'Accademia di belle arti di Vienna, lavorò in questa città come decoratore e pittore, leggendo con voracità opere destinate ad alimentare le sue convinzioni antisemite e antidemocratiche, così come la sua ammirazione per l'individualismo e il disprezzo per le masse. Trasferitosi a Monaco, fu qui sorpreso dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914) e si arruolò come volontario nell'esercito bavarese. Dopo la guerra tornò a Monaco e rimase nell'esercito fino al 1920; iscrittosi al Partito tedesco dei lavoratori, di impronta nazionalista, ne divenne in breve il capo e, associandovi altri gruppi nazionalisti, lo rifondò con la denominazione di Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, abbreviato in Partito nazista, del quale fu eletto presidente con poteri dittatoriali; mentre diffondeva la sua ideologia incentrata sull'odio di razza e sul disprezzo per la democrazia, si legò ai gruppi squadristi paramilitari dette SA (squadre d'assalto), avallandone le azioni di violenza contro uomini e sedi della sinistra socialdemocratica e comunista.
L’'IDEOLOGIA NAZISTA
L’Ideologia nazista la si trova nel “Mein Kampf” (la mia battaglia). Qui le istanze nazionaliste e il progetto di una grande Germania che radunasse tutte le genti di lingua tedesca trovavano una teorizzazione che ben si inseriva nel clima causato dalla disfatta della guerra: Hitler propose infatti un piano di ampliamento del territorio nazionale, giustificandolo con la necessità di allargare lo “spazio vitale" per il popolo tedesco. Le altre nazioni dovevano sottomettersi alla razza ariana, in virtù della sua conclamata superiorità, destinata com'era a regnare sul mondo intero. Nemici degli ariani erano in primo luogo gli ebrei, responsabili del disastro economico e della diffusione delle ideologie marxiste e liberali.
LA CRISI PRIMA DEL NAZISMO
Scoppiata nel 1929 la Grande Depressione, che portò al tracollo del marco e alla crescita della disoccupazione, Hitler seppe sfruttare il malcontento popolare guadagnando consensi al Partito nazista e assicurandosi l'appoggio dei settori di destra dell'alta finanza, della grande industria e dell'esercito; con la promessa di creare una Germania forte, ricca e potente attirò milioni di elettori. Nel 1929, l'anno della grande crisi seguita al crollo di Wall Street, buona parte dei grandi imprenditori tedeschi cominciarono a guardare con favore a Hitler e al suo programma e ingenti somme di denaro presero ad affluire nelle casse del partito nazista La sua capacità oratoria infiammava le masse: nelle elezioni del 1930 i seggi dei nazisti al Reichstag (Parlamento) divennero centosette; contemporaneamente rafforzò le strutture paramilitari del partito utilizzando le SA e le SS (squadre di difesa), create da Himmler. Hitler riuscì ad accreditarsi come l'uomo forte, capace di far uscire il governo dall'immobilismo… Durante i due anni seguenti il partito continuò a crescere, traendo vantaggio dalla forte disoccupazione, dalla paura del comunismo, dalla risolutezza di Hitler e dalla debolezza dei suoi rivali politici. Hitler riuscì ad accreditarsi come l'uomo forte, capace di far uscire il governo dall'immobilismo e dalle secche dei contrasti tra Parlamento e presidenza della Repubblica.
Incapace di formare governi di maggioranza, Hindenburg indisse nuove elezioni nel 1932, che decretarono la vittoria del Partito nazionalsocialista. Con il sostegno dei vertici militari ottenne dal presidente Paul von Hindenburg l'incarico di cancelliere (30 gennaio 1933). Alla morte di Hindenburg (1934) riunì nella sua persona anche la carica di presidente, facendo ratificare questo atto con un plebiscito che gli attribuì il 90% dei consensi. Hitler abolì l'ufficio del presidente e si autoproclamò Führer del Terzo Reich, calando così il sipario sulla Repubblica di Weimar.
IL REGIME NAZISTA
Giunto al potere, Hitler si trasformò rapidamente in dittatore. Un Parlamento sottomesso gli concesse pieni poteri, così che egli fu in grado di asservire la burocrazia statale e il potere giudiziario alle esigenze del partito. I sindacati furono eliminati, migliaia di oppositori rinchiusi nei campi di concentramento e ogni minimo dissenso messo violentemente a tacere. Il Partito nazionalsocialista divenne l'unica organizzazione politica legale. Nel 1933, allo scopo di eliminare i dissidenti, venne istituita la Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di stato), nota come Gestapo, svincolata da ogni controllo legale e soggetta solo al proprio comandante, Himmler.L'organizzazione della polizia politica venne affidata a Himmler, il capo delle SS. Il 30 giugno 1934, nella "notte dei lunghi coltelli", Hitler si liberò degli elementi più critici e radicali presenti nel suo stesso partito e nelle SA. In breve tempo l'economia, i mezzi di comunicazione e tutte le attività culturali passarono sotto l'autorità nazista attraverso il controllo della lealtà politica di ogni cittadino esercitato dalla Gestapo, la famigerata polizia segreta. Soppressi gli avversari politici e i diritti costituzionali e civili, il regime affrontò la crisi occupazionale, pianificando una ristrutturazione industriale e agricola dell'intero paese, eludendo le restrizioni del trattato di Versailles, abolendo le cooperative e ponendo le organizzazioni sindacali sotto il controllo dello stato. Grazie al "nuovo ordine" la Germania hitleriana uscì dalla crisi: le sorti dell'alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente fu assorbita la disoccupazione; ma questo fu dovuto anche al lavoro creato per la preparazione di una possente macchina da guerra, mentre veniva inaugurata una politica estera estremamente aggressiva e brutale
Il riarmo tedesco e la politica di espansione territoriale
Hitler si riservò come settore di sua esclusiva competenza la politica estera. Nel 1935 denunciò il trattato di Versailles del 1919, proclamando la sua ferma intenzione di riportare la Germania al rango di grande potenza militare e navale, e per cominciare, attraverso un plebiscito, riprese la regione della Saar, alla frontiera occidentale. Nel 1936 ritenne che i tempi fossero maturi per dare inizio alla sua politica d'espansione: inviò truppe nella Renania smilitarizzata, firmò con l'Italia fascista di Mussolini un'alleanza che prese il nome di Asse Roma-Berlino, e sottoscrisse con il Giappone il patto Anticomintern in funzione anticomunista e antisovietica. Nel 1938 decise di invadere e di annettere l'Austria (vedi Anschluss), senza trovare alcuna resistenza militare. All'incontro di Monaco (vedi Patto di Monaco) ottenne che fosse ratificato lo smembramento di una parte della Cecoslovacchia (vedi Questione dei Sudeti), premessa della sua dissoluzione, avvenuta nel marzo 1939. Da questi eventi scaturì la seconda guerra mondiale.
La guerra e il genocidio degli ebrei
La guerra scoppiò nel settembre del 1939 con l'invasione della Polonia, che aveva stretto un'alleanza con l'Inghilterra. Nel 1940 l'esercito tedesco occupò Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Francia; nel giugno del 1941 ebbe inizio l'attacco all'Unione Sovietica. Nel luglio successivo, Hitler incaricò il capo delle SS di elaborare e pianificare la "soluzione finale della questione ebraica" che avrebbe portato al genocidio di sei milioni di ebrei. A dicembre l'andamento della guerra cambiò direzione: la controffensiva russa respinse l'esercito tedesco, infliggendo gravissime perdite alla Germania; Hitler rifiutò di autorizzare la ritirata. In quegli stessi giorni gli Stati Uniti entrarono in guerra. Davanti all'avanzata degli eserciti nemici sia sui fronti europei che su quelli africani, Hitler, sopravvissuto a vari complotti orditi da ufficiali tedeschi che volevano porre fine ai combattimenti e all'annientamento della Germania, e convinto fino all'ultimo che la disfatta fosse colpa degli ebrei e dello stato maggiore tedesco, si suicidò il 30 aprile 1945. Con lui, nel bunker di Berlino, si tolse la vita Eva Braun, che il Führer aveva sposato il giorno precedente.
IL PERIODO FASCISTA
La graduale evoluzione in senso democratico della società italiana iniziata verso la fine del’800 e continua nei primi anni del’900 venne bruscamente interrotta dalla guerra mondiale e dall’avvento del fascismo, che all’inizio del xx sec. Provocarono prima una involuzione in senso autoritario dello Stato Italiano e poi l’instaurazione di una vera e propria dittatura. Nel primo dopoguerra le rivendicazioni dei ceti popolari e il diffuso timore della classe borghese di un’estensione anche all’Italia della rivoluzione bolscebica, che in Russia aveva portato alla caduta del regime zarista all’instaurazione della dittatura del proletariato, crearono forti conflitti sociali; a questa situazione si aggiunse il malcontento e lo spirito di frustrazione di una larga parte della‘opinione pubblica per i grandi sacrifici affrontati durante la guerra e per aver firmato una trattato di pace i quali l’Italia otteneva soltanto alcune limitate concessioni territoriali. In questo clima di tensione sociale e politica, Benito Mussolini che era stato direttore del quotidiano socialista “l’avanti” e un’esponente di punta del socialismo cosiddetto rivoluzionario, fondò nel 1919 il primo fascio italiano di combattimento in Piazza San Sepolcro a Milano. Gli anni successivi furono contrassegnati da una serie d’intimidazioni e d’aggressioni delle camicie nere nei confronti d’esponenti dei partiti politici di sinistra e di sindacalisti, con l’appoggio delle forze sociali più conservatrici. Il Re Vittorio Emanuele III affidò l’incarico di formare un nuovo governo a Mussolini in seguito alla prova di forza rappresentata dalla cosiddetta “marcia su Roma” del 29 ottobre 1922. Mussolini formò un governo di coalizione (tra cui liberali, cattolici, conservatori). La nomina di Mussolini come capo di governo rifletteva l’aspirazione da parte della monarchia e d’ampi strati dell’opinione pubblica di un uomo forte che avrebbe riportato l’ordine nella società e avrebbe arginato le rivendicazioni delle masse popolari; una volta al potere però Mussolini instaurò gradualmente una vera e propria dittatura personale. Nel 1923 furono legalizzate le camicie nere fasciste con l’istituzione della milizia armata per la sicurezza nazionale e fu approvata una nuova legge elettorale per la camera dei deputati. Nelle elezioni che svolsero l’anno successivo il “listone” formato dai fascisti e da vecchi rappresentanti dl regime liberale oltre ad alcuni cattolici di destra, ottenne grazie al nuovo meccanismo elettorale, la maggioranza assoluta della camera elettiva. Il 31 gennaio 1925 Mussolini tenne un discorso davanti al parlamento assumendosi la responsabilità del grave atto politico rappresentato dal rapimento e uccisione del deputato Matteotti e annunciando, di fatto, la fine delle libertà civili e politiche. Nello stesso anno approfittando del fatto che l’opposizione democratica e antifascista aveva abbandonato per protesta il parlamento, furono approvate alcune leggi fascistissime. Le principali innovazioni riguardavano:
- L’introduzione del primo ministro e la soppressione dell’istituto della fiducia parlamentare;
- L’ampliamento del potere di decretazione e del ruolo politico del governo, con una sostanziale espropriazione del potere legislativo del parlamento al quale, di fatto, rimase la pura e semplice rettifica di provvedimenti normativi del governo;
- L’istituzione del tribunale speciale per la difesa dello stato, un organo giudiziario strettamente dipendente dal regime e incaricato di reprimere qualsiasi forma d’opposizione interna, che giudicava i reati politici contro lo Stato e nei casi più gravi poteva applicare la pena di morte;
- La creazione dell’ordinamento corporativo, basato sull’iscrizione obbligatoria dei lavoratori e dei datori di lavoro ai sindacati di diritto pubblico, inoltre fu oppressa la libertà sindacale, con lo scioglimento dei liberi sindacati, furono introdotti il divieto di sciopero e di manifestazione.
Nel 1928 fu creato il Gran Consiglio del Fascismo, che era considerato organo consultivo del governo; in particolare il GC doveva formulare pareri su questioni aventi caratteri costituzionali, ivi comprese le leggi, redigere le liste dei candidati per le elezioni politiche , presentare al sovrano le candidature per la massima del capo del governo ed esprimere pareri sulle questioni dinastiche. Nel 1928 furono anche soppresse le libertà politiche, con lo scioglimento di tutti i partiti; il partito nazionale fascista si trasformò in un partito unico e l’iscrizione al partito diventò obbligatoria per potere accedere agli impieghi pubblici e per poter esercitare una libera professione; il controllo assoluto del fascismo sui poteri dello stato si completò nel 1939 con l’abolizione della camera dei deputati che almeno formalmente era rimasto ancora un organo elettivo, e la sua sostituzione con la camera dei fasci e delle corporazioni formate dai rappresentanti delle diverse categorie produttive e professionali che era nominata dal partito fascista ed era sottoposta alle direttive governative; in questo modo il fascismo si garantì la presenza di un’assemblea legislativa fedele al regime ed eliminò qualsiasi forma d’opposizione politica all’interno delle istituzioni pubbliche. Anche i tradizionali organi elettivi degli enti locali furono soppressi e sostituiti con organi nominati dall’alto: la figura del podestà nominata dal governo prese il posto del sindaco. Durante il regime fascista anche le libertà civili e diritti fondamentali dei cittadini furono limitati per reprimere sul nascere qualsiasi espressione di dissenso politico come la censura preventiva, restrizioni di libertà d’associazione di riunione vennero a meno; furono rafforzati i poteri di controllo e di repressione della polizia, nel 1938 furono emanate le cosiddette leggi razziali con le quali il governo fascista ordinò il censimento degli ebrei italiani, facilitando in questo modo la loro persecuzione e la loro eliminazione di massa da parte dei tedeschi, e produsse una serie di misure discriminatorie: divieto di matrimoni misti, esclusione dai pubblici uffici, il divieto di svolgere alcune libere professioni.
LA CADUTA DEL FASCISMO
Nel 1939 la politica nazionalistica ed espansionistica del nazismo provocò lo scoppio della seconda guerra mondiale e il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarò che l’Italia entrava in guerra al fianco della Germania. Negli anni successivi lo scenario militare cambiò radicalmente a favore delle cosiddette potenze alleate, che si opponevano alle barbarie del nazismo. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943 al termine della lunga e drammatica seduta il Gran Consiglio del Fascismo approvò la maggioranza un ordine del giorno con il quale Mussolini fu invitato a dimettersi dal governo, e chiese al Re di riassumere il comando delle forze armate e di riprendere l’esercizio delle sue prerogative costituzionali. Il Re fece arrestare subito Mussolini (che nel frattempo fuggì a Salò) e nominò come capo del governo il maresciallo Badoglio e oltre a sciogliere le organizzazioni fasciste e promettere libere elezioni alla fine del conflitto. Nel 8 settembre 1943 fu annunciata la firma dell’armistizio separato dall’Italia con gli ex nemici e il Re Vittorio Emanuele III si rifugiò sotto la protezione dell’ esercito anglo-americano a Brindisi. In poco tempo approfittando del fatto che l’esercito italiano era stato abbandonato a se stesso le truppe tedesche, occuparono il territorio nazionale della alpi fino alla Campania. Lo Stato Italiano era diviso in due parti: da una parte l’Italia meridionale e il regno d’Italia del sud, nell’Italia centro-settentrionale di Salò. La formazione di un nuovo governo di unità nazionale, in sostituzione del governo tecnico di Badoglio; il ritiro da parte del Re dal momento della liberazione di Roma, e il rinvio alla fine della guerra della questione della scelta tra monarchia e repubblica, questi erano i punti che il patto di Salerno (concluso fra i comitati di liberazione nazionale ed il Re) il 4 giugno 1944 le truppe alleate di Vittorio Emanuele III affidò al luogo tenente del regno al figlio Umberto il 25 aprile 1945 terminò la guerra di liberazione dell'Italia settentrionale dalle truppe tedesche. Il 16 maggio 1946 un decreto del governo stabilì che la scelta tra monarchia e repubblica sarebbe stata effettuata direttamente dai cittadini attraverso un referendum costituzionale. Il 9 giugno 1946 il Re Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto. Il 2 giugno 1946 si svolsero a suffragio universale il referendum costituzionale, e l’elezione dell’assemblea a seguito del risultato il Re Umberto II fu mandato in esilio.
Fonte: http://www.parrocchiapoggiosannita.it/documenti/utili/STORIA/NAZISMO%20E%20FASCISMO%20SINTESI.doc
Auschwitz e gli intellettuali
- Gli intellettuali di fronte allo sterminio degli ebrei (1940-1950, la situazione europea nel periodo della prima guerra mondiale).
Auschwitz ha assunto nel panorama culturale Europeo, che ha vissuto il dramma della seconda guerra mondiale, un posto sicuramente secondario, se non nullo nella maggior parte dei casi. Sono quattro gli “schieramenti” che hanno caratterizzato la reazione politica, sociale e culturale dell’orrore dello sterminio:
Le “muse arruolate” (i collaborazionisti), coloro che corrispondono agli ultimi tra i quali si possa trovare una riflessione su Auschwitz; coloro che hanno permesso il dramma da un punto di vista pratico, che hanno partecipato attivamente a favore delle ideologie naziste. Ma perché? Spesso essi hanno agiti seguendo una scelta di opportunismo, ma talvolta sono stati costretti dal senso del dovere a piegarsi all’autorità e al comando. Ricordiamo che il Nazismo è stato nella storia uno dei più terribili sistemi totalitari con a capo Adolf Hitler, spesso ammirato e sostenuto nel suo progetto politico dagli intellettuali del tempo. Il Nazismo divenne negli anni della guerra l’unica soluzione per liberarsi dalla crisi del mondo caratterizzando un euforia patriottica che fece una sorta di “lavaggio del cervello” alla mentalità europea, senza rendersi conto della rottura che stava avvenendo con la civiltà.
I “salvati” (gli esuli), coloro che sono riusciti a sopravvivere a quelle torture che avevano come principale obiettivo la “scomparsa” definitiva di tutti coloro che non erano degni di essere considerati razza ariana( la razza superiore). Gli esuli che sono stati i principali testimoni dell’orrore,che li ha visti partecipi nel cuore dello sterminio nazista. Tra i principale nomi ricordiamo Primo Levi, Jean Améry, Robert Antelme che non si sono mai conosciuti di persona ma hanno condiviso un dolore universale. Le loro opere,però, non sono mai divenute il prodotto di una riflessione collettiva perché ognuna di esse era legata a un percorso soggettivo della memoria (le loro opere erano troppo soggettive e non trovavano quasi mai interlocutori attenti e ricettivi). Essi rappresentavano i segnalatori inascoltati di un incendio che nessuno si preoccupava di spegnere.
I chierici, disimpegnati e quasi sempre “ciechi” nel contesto della guerra. La cultura occidentale si pose in una posizione di completa chiusura e falsa indifferenza, molto spesso danno maggiore rilevanza a eventi come la Rivoluzione Spagnola e ponendo l’accento soprattutto su quel che era il Nazismo piuttosto su quello che aveva creato il Nazismo. L’intellettuale Sartre nel suo saggio pubblicato nel dopoguerra da una posizione marginale a Auschwitz; ciò sta a testimoniare come la cultura europea diviene incapace di riconoscere una rottura con la civiltà, ma soprattutto di riconoscere la realtà, rifiutando di portare lo sguardo su quel evento mostruoso che egli stesso aveva partorito.( “Gli ebrei d’Europa sono stati assassinati per soddisfare un odio paranoico […] non per una ragione politica o per ottenere un qualsiasi vantaggio”).
Infine ci sono i “segnalatori d’incendio”( gli intellettuali in esilio), i soli, al di fuori delle vittime , a pensare e vedere Auschwitz. Essi si formarono nella Repubblica di Weimar e furono esiliati con l’ascesa al potere di Hitler, divenendo marginali nel contesto sociale fino a divenire una minoranza di apolidi sfuggiti al massacro che si stava consumando in Europa.
La Germania era a conoscenza del progetto di sterminio avanzato da Hitler, ma nonostante ciò non vi si verificò nessuna reazione forte che potesse ribaltare il destino degli Ebrei; Thomas Mann e Karl Jaspers rappresentarono un’eccezione tedesca. Essi posero l’accento sull’onore della Germania che fu macchiato da questo evento con il tentativo di diffondere sentimenti quale l’”orrore, la vergogna e il pentimento”che potessero scuotere le coscienze tedesche, ma con l’avvento della Repubblica federale regime nazista e popolo tedesco saranno dissociati. Inoltre con l’avvento del comunismo che divenne il nuovo nemico da combattere per il totalitarismo, l’elaborazione di un passato non aveva più spazio.
Ma come reagirono gli Ebrei a questo evento che li vedeva protagonisti, purtroppo senza volerlo?
Agli occhi di molti ebrei, il nazismo non rappresentò un evento nuovo ma solo una pagina in più terrificante della storia ebraica, dopo la diaspora(dal greco “dispersione” che li costrinse ad abbandonare il paese natale, la Palestina, per disperdesi nel resto del mondo). Molti ebrei si schierarono a favore del Nazismo, con l’intento si “salvarsi”, anche se questa tattica non ebbe un esito positivo, anzi quest’ultimi divennero oggetto di critiche. Altri vissero il dramma del Nazismo come una possibilità di ritornare in Palestina. Inoltre si verificò una differenza tra l’intellighenzia (la classe intellettuale dominante) ebraico- polacca (e fu completamente soffocata dallo stalinismo in Unione Sovietica e smembrata in Polonia) e quella ebraico- tedesca (che ebbe modo di avvertire il “campanello d’allarme”che poi avrebbe prodotto lo sterminio, attraverso l’azione di discriminazione e persecuzione che si attivò in Germania.)
Pensare a Auschwitz non era facile, ormai la storia, un tempo omogenea, tesa verso il progresso e la provvidenza, era stata spezzata, anche se si ritrovò una fiducia soprattutto nel diritto( con la dichiarazione dei diritti umani) nella ragione e nel progresso.
- Totalitarismo e genocidio: Hannah Arendt
Hannah Arendt , ebrea, dovette lasciare la Germania Hitleriana per “rifugiarsi” in America e vivere la condizione che unì tutti gli ebrei a partire dagli anni Trenta: quelli di essere apolidi, cioè di vivere senza stato e diritti. Ella testimonierà la condizione di chi un posto nel mondo non lo avrà più, inoltre, conierà il termine di “acosmia” legandosi al concetto del filosofo Heidegger di “demondificazione”. La condizione vissuta dagli ebrei assunse anche un aspetto privilegiato. Infatti essi fecero del proprio mondo l’intera patria , ponendosi, così, in una posizione di rilievo da cui poter osservare l’intero sistema degli stati nazionali che con la crisi che attraversò l’Europa, erano divenuti una prigione di popoli in cui gli ebrei apolidi erano “liberi”.
Fondamentale era per gli ebrei il proprio riconoscimento come “paria consapevoli”, attraverso il quale essi dovevano superare gli orientamenti di “assimilazione” e “sionismo” nati dall’emancipazione. H. Arendt esprimerà questi due concetti nelle sue opere; da un lato ella traccia un bilancio critico dell’assimilazione ebraica in Germania (intesa come quel processo per cui un individuo o un gruppo abbandona la propria cultura e cerca di assumere quella dominante) legandosi al mantenimento delle sue origini culturali. Da l’altro lato ella si pone in un atteggiamento di ostilità nei confronti del Sionismo, che consisteva nella fondazione di un nuovo stato nazionale ebraico (Arendt sosteneva che la creazione di Israele non poteva essere considerato un progresso, ma avrebbe creato soltanto una nuova massa di apolidi e profughi). Secondo l’intellettuale ebrea la forma più elevata di libertà era posta nell’azione politica; azione che non era mai stata concessa agli ebrei che nella Germania della building (800’) erano posti al centro della cultura tedesca, ma non aveva alcun riconoscimento politico.
La riflessione arendtiana sull’Olocausto ha attraversato tre fasi distinte:
La prima è caratterizzata dagli articoli scritti durante l’evolversi della guerra in cui Arendt cerca di comprendere razionalmente l’orrore del massacro; ella riconosce che le “fabbriche della morte” sono il prodotto dell’alleanza tra tecnica moderna e ideologie naziste caratterizzata da una vera e propria struttura amministrativa gestita e portata avanti nel suo obiettivo(quale quello di annientare,attraverso lo sterminio degli ebrei, la diversità degli uomini) da una massa di burocratici “normali” che non hanno fatto altro che adempiere il loro dovere, senza ribellarsi e da un’intera popolazione passiva. Macchine di assassinio di massa che non agisce per ragioni umane, ma “esclusivamente per estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo”; questa la <<soluzione finale>> definita da Arendt . Ma a chi bisogna dare la colpa per tutto ciò? Si è parlato di una “colpa collettiva” che aveva anche il rischio di determinare un’assoluzione collettiva, ma in realtà le colpe erano ampie e doveva essere riconosciute e giudicate. Jaspers ( maestro di hannah) distinguerà 4 forme di colpe: criminale(che deve essere punita dalla legge attraverso la categoria giuridica del “crimine contro l’umanità” applicata in seguito dal processo di Norimberga) politica (che doveva assumere un carattere collettivo, dato che il regime nazista è stato mantenuto nel tempo grazie ai numerosi consensi) e morale e metafisica che riguardano le coscienze. Dopo il crollo e la crisi del Nazismo la Germania cerca di ricostruirsi come nuova nazione: Arendt sosteneva che una nuova rinascita doveva essere caratterizzata dalla fine della doppia disumanizzazione creata dal Nazismo, in un atto degno in cui la Germania dichiarasse la sua possibilità ad accogliere gli ebrei in quanto “ebrei”, ma naturalmente la Repubblica federale non diede alcuna importanza al crimine nazista.
La seconda riflessione, tra la fine della guerra e gli anni 50’, si basa sulla concezione del totalitarismo(che ha dominato l’Europa del XX secolo) che Arendt descrive nella sua opera “the Originis of Totalitarism” spostando l’attenzione dal genocidio ai campi nazisti e stalinisti. Il sistema totalitario si sviluppa sul connubio ideologia- terrore e ha origini da due premesse che si sono sviluppate nella storia: la prima consiste nell’emancipazione degli ebrei che ha determinato la nascita dell’antisemitismo e la seconda è caratterizzata dall’imperialismo che ha dato origine al razzismo nato nelle colonie per giustificare la loro sottomissione. Sono tre gli elementi che caratterizzano l’azione totalitaria: L’annullamento dell’individuo in quanto “soggetto di diritto”, l’uccisione nell’uomo della persona morale (nei campi di concentramento gli uomini sono spogliati della loro umanità) e l’uccisione dell’individualità attraverso l’assorbimento dell’uomo nelle masse.
Arendt nella sua opera estende il raggio della sua indagine anche al sistema sovietico caratterizzato dal regime di Stalin( che sarà a capo dell’Unione sovietica dal 1924-1953) che riterrà affine a quello hitleriano soprattutto per il sistema concentrazionario. Ella porrà un confronto tra l’orrore delle due dittature (nei metodi, nelle ideologie e negli obiettivi) evidenziando però nelle sottili differenze la crudeltà e il massacro maggiore che caratterizza l’orrore nazista, ma in realtà la filosofa ebrea non coglierà la natura dello stalinismo legata a una contraddittorietà (quella di porsi il fine della liberazione di milioni di persone, legata a un benessere collettivo, ma realmente ciò andrà a discapito della libertà individuale). La terza riflessione arenditiana sarà sviluppata in seguito al processo di Norimberga in Gerusalemme in cui per la prima volta gli esuli dei campi possono riscattare la loro dignità. In occasione del processo Arendt accetterà il compito di inviata soprattutto con lo scopo di vedere quella gente in “carne e ossa” e svolgere una riflessione molto più approfondita. Ella porrà la sua attenzione sul colonnello Eichmann considerandolo non come simbolo, ma come uomo. La sua opera realizzata in virtù di quel occasione,
“Eichmann in Jerusalem” presenterà un sottotitolo che produrrà scalpore e dissensi: la “banalità del male”. Arendt in quella frase non vorrà banalizzare il genocidio, così come venne sostenuto, ma semplicemente evidenziare la mostruosità del massacro che è stato realizzato dall’azione di persone normali (come Eichmann di cui la filosofa non fa altro che sottolineare nella sua opera la mancanza di autonomia di pensiero del colonnello che è stato completamente trasformato e gestito dal Nazismo in cui il male diviene una legge). Rimangono, però, alcuni elementi discutibili nella sua opera, legata sia alla figura del colonnello che, come sarà sostenuto era ben consapevole del disastro a cui prendeva parte, sia alle eccezioni tedesche in cui si racconta che nazisti hanno rinunciato alla propria vita per aiutare gli ebrei a scappare (ciò darà un “raggio di sole” al processo).
3)Auschwitz e Hiroshima: Gunther Anders(il cui vero nome era Stern, Anders gli era stato dato e il suo significato era “altro” in tedesco, proprio a evidenziare il suo status di straniero).
Anders è l’ennesimo testimone degli orrori del XX secolo. Intellettuale ebreo, costretto ad abbandonare la Germania di Hitler per condurre la sua esistenza da apolide nel mondo in cui attraverserà periodi di precarietà e povertà. Sono quattro gli avvenimenti che hanno determinato il percorso intellettuale di Anders: La I guerra mondiale (in cui era adolescente), l’ascesa al potere di Hitler che ha segnato la sua esistenza e l’orrore dello sterminio e della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki che hanno determinato l “obsolescenza dell’uomo” moderno. Numerosi sono i suoi scritti (molti trai quali saranno pubblicati soltanto alla sua morte) in cui il sentimento perenne che traspare da quei testi è quello di vergogna e orrore. Egli è stato il profeta della disperazione che già avvertì nelle parole di “Mein Kamft (“La mia battaglia”) l’avvenire di quel disastro.
Anders descrive la situazione dell’uomo che nel suo contatto del mondo è ostacolato dai suoi limiti; un essere che non è posto da se stesso, e ciò provoca un sentimento di vergogna, in cui l’intellettuale va alla ricerca di uno “spirito di fuga”. In “Learsi”(Istraele al contrario) attraverso una metafora letteraria racconta la situazione di un giovane straniero che non accettato per soggiornare in un hotel, vagherà per esso con l’intenzione di superare i limiti del razzismo istaurando rapporti con gli altri pensionanti, ma in seguito sarà cacciato e considerato un intruso. Il privilegio che ne deriva è che egli non possedeva una camera, ma l’intero hotel, ma in realtà ciò sarà soltanto un’ appartenenza illusoria, perché come sostiene Anders ciò che serve per non essere straniero sono “la parte e il tutto”.
Durante gli anni della guerra Anders visiterà una mostra tecnica di Los Angeles in cui verrà colto da un nuovo sentimento: “vergogna prometeica”(Prometeo non è stato liberato dalle catene dalla tecnica moderna che ha reso ancora più duro il suo supplizio). Gli uomini del XX secolo sono “utopisti invertiti” non capaci più di prevedere una realtà che sono perfettamente in grado di produrre. La tecnica ha illuso l’uomo di divenire potente e di raggiungere la felicità, ma la realtà si è capovolta; egli è obsoleto dinanzi alla tecnica che è divenuto il nuovo soggetto della storia e minaccia di distruggere l’umanità. Il Novecento è posto sotto il segno delle catastrofi. Egli spesso nelle sue riflessioni pone in rapporto i due disastri che hanno caratterizzato la II guerra: Auschwitz e Hiroshima sottolineando che lo sterminio determina soltanto il primo passo della distruzione che si presenta in altre forme come la bomba atomica che fu un crimine contro i principi dei suoi ideatori, divenendo un processo continuo il cui vero colpevole è la tecnica. Guerre senza scontri e lotte ma solo azioni fredde e meccaniche in cui le vittime non hanno possibilità di resistenza e di lottare (come chi usa l’insetticida per uccidere le mosche) e in cui i carnefici compiono solo il loro dovere, dovere che scaturisce da un gesto “ben fatto” che manda avanti un macchina della morte perfetta.
Le vere vittime della guerra sono gli uomini, anche se Auschwitz e Hiroshima sono il prodotto delle scelte umane.
Alla fine della guerra Anders iniziò una corrispondenza con Cluade Eatherly (uno dei piloti che aveva partecipato all’operazione della bomba atomica) incuriosito dalla notizia che egli aveva più volte tentato il suicido. L’intellettuale ebreo capi da quelle lettere che i suoi tentativi di morte erano il prodotto della sua presa di coscienza dinanzi a ciò che aveva fatto; egli era ridiventato uomo. Anders capì come questi carnefici (egli analizzò anche il caso di Eichmann dalle riflessioni della moglie Arendt) personificavano “l’innocenza” del male.
4) L’imperativo categorico di Adorno.
Di origine ebrea e italiana porrà numerose riflessioni incentrate principalmente sull’antisemitismo e sul fascismo. Il suo aforisma “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barberie” rappresenterà il suo pensiero principale in cui sostiene che non può esistere cultura dopo la Shoah, dove la rottura della civiltà non può trasformare l’orrore in creazione poetica. Questa aforisma rappresenterà una sorta di “provocazione” per gli autori del dopoguerra, in particolare degli esuli che elaboreranno il loro ricordo attraverso i versi. Adorno ritornerà in una Germania in rovine, dopo la caduta del nazismo e li vivrà la sua condizione di outsider.
La riflessione di Adorno legata a Auschwitz vedrà una sua prima spiegazione razionale nell’involuzione del progresso: la Shoah non è come i crimini che hanno caratterizzato il passato; essa è il prodotto della società industrializzata che ne suoi risvolti inumani e regressivi ha realizzato una ricaduta nella barbarie la cui testimonianza è l’eliminazione tecnica, metodica e amministrativa di una popolazione. Nel corso della storia il razionalismo (la conquista della ragione) aveva determinato con l’Illuminismo il declino dell’Ancien Regime, un passo importante per raggiungere il progresso e il miglioramento dell’uomo. Ma con il Nazismo il razionalismo si è piegato al dominio per condurre la storia a un involuzione verso il passato. Adorno e Horkhiemer svolsero un importante riflessione riguardo l’antisemitismo basato sulle ricerche della scuola di Francoforte e di tre filosofi (Marx, Freud e Weber). Essi sostenevano che l’antisemitismo era il prodotto di un sistema capitalistico(che soprattutto gli ebrei avevano sostenuto durante la loro emancipazione) che aveva portato alla negazione e alienazione dei rapporti sociali, quindi andava ben oltre un antico pregiudizio religioso. Sulla scia dei lavori di Freud essi notarono come da un punto di vista psicologico l’antisemitismo deriva da un’energia libidinale repressa che assale la massa moderna e che si esprime attraverso un azione distruttiva, di cui gli ebrei rappresentano il “capo espiatorio”, di cui storicamente hanno sempre svolto questo ruolo. Adorno e Horkheimer affermano una rivolta della natura contro una civiltà che l’aveva sottomessa per far trionfare la tecnica. Un ticket mentality, ciò che aveva realizzato l’ideologia nazista sulla massa, conformandola e dominandola, in cui l’alterità non era più tollerata.
5) Scrivere poesie dopo Auschwitz: Paul Celan.
Tra i tanti autori che contraddiranno l’aforisma di Adorno, Paul Celan rappresenta di sicuro il poeta per eccellenza di Auschwitz. Di origine rumeno Celan era l’anagramma del suo vero nome, Ancel. Egli sopravissuto all’orrore dello sterminio sente il bisogno di esprimere il suo dolore attraverso l’uso del verso, componendo nella lingua della “morte”(il tedesco) realizzando una lingua universale e personale allo stesso tempo, con l’intento di farne un’altra lingua,capace di testimoniare un’assenza. La lingua, che rimane l’unico valore al quale aggrapparsi in un mondo di macerie. Il poeta triste della lingua teutonica (così si definiva) non si definì mai tedesco, e rivendicò le sue origini europee - orientali come il segno di non appartenenza alla Germania. La ricerca della verità del reale, il lutto e la memoria sono le parole chiavi che caratterizzano la poesia di Celan, di cui la più significativa e distinta per una intensa bellezza è “todesfuge”( fuga della morte che in origine era intitolata “tango della morte”che indicava l’orchestra di musicisti ebrei, costretta a suonare dei tanghi nei momenti che segnavano il destino di quel popolo ) in cui l’uso di metafore e simboli (quali il “latte negro”,le “tombe nell’aria”) rappresentavano e descrivevano l’atroce significato della morte da un lato e la macchia nera che aveva “inquinato” la bellezza(riferendosi soprattutto a Goethe) della storia della Germania dall’altro. La poesia di Celan porta con se le ferite del tempo e diviene testimonianza di un orrore che per essere compresa (paragonandola a un messaggio nella bottiglia che non si sa se troverà un destinatario) deve lasciare spazio alla “preghiera spontanea dell’anima”. Adorno avrà molta stima del poeta rumeno, ma tra i due non ci sarà mai un incontro diretto, ma solo una breve corrispondenza. Il motivo principale del loro mancato incontro sarà descritto da Celan nella “Conversazione della montagna”,in cui egli rifiuta la “sfida”(vista dal poeta) di Adorno che vuole rivendicare la superiorità della filosofia nei confronti della poesia. Grande influenza riceverà la poesia di Celan da Heidegger, in cui il poeta accetterà un colloquio che avrà un peso nella storia, dato che sarà tra un tedesco e un ebreo. Celan non si considerava ebreo, la sua ebraicità si legava all’esperienza vissuta, ma in realtà egli era ateo( dopo Autchwitz non si può più credere in Dio) anche se il suo ateismo si caricava di una forte dimensione spirituale, in cui vedeva una visione di Dio annientato insieme al popolo ebraico. Egli credeva in una trasformazione della società legata soprattutto a una rivoluzione che doveva partire dall’individuo, chiudendo nella poesia un filo di speranza, che però nonostante tutto, lo portò ad uccidersi nel fiume della Senna nel 1970.
Intellettuali ad Auschwitz: Jean Améry (il suo vero nome era Hans Mayer) e Primo Levi.
Non si sa se Amèry e Levi si siano mai incontrati a Auschwitz, ma non solo la loro esperienza, ma anche le loro biografie e la loro morte li accomuna: entrambi affermati scrittori nel dopoguerra, appartenenti alla stessa generazione e arrestati e deportati per il loro impegno nella Resistenza, ed entrambi morti suicidi (Amery si ucciderà in una camera d’albergo, Levi si toglierà la vita nel suo appartamento a Torino dinanzi lo stupore di quel gesto che nessuno si aspettava. Un gesto che sicuramente deriva dalla ferita di quel campo,insanabile).
Le loro opere non si ponevano il solo obiettivo di raccontare l’orrore della Shoah ma soprattutto, il loro intento era quello di produrre una riflessione sulla condizione dell’essere umano e su quello che era stato capace di fare(i campi di sterminio non mettevano in discussione l’idea di progresso, ma conducevano a ripensare l’immagine dell’uomo). Levi userà la scrittura come terapia(diverrà un suo bisogno scrivere) mentre Amery inizierà a scrivere solo dopo 20 anni dall’avvenimento in occasione del processo di Francoforte.
La domanda principale a cui cercheranno di dare una risposta sarà: “perché i campi di sterminio?” Essi sono stati creati dagli uomini ma sarà impossibile dare una spiegazione razionale a ciò. Nonostante Amery e Levi rappresentassero gli intellettuali “scettico-umanistici” (coloro che non si affidano né alla provvidenza, né alle ragioni politiche per dare una motivazione illusoria, quindi essi riescono a penetrare nella vera essenza dello sterminio) non riusciranno a spiegare e comprendere l’orrore della Shoah, anche perché comprendere significa giustificare e ciò non è possibile. Auschwitz non deve però essere dimenticato, lo sterminio non può ridursi a riempire una pagina dei libri di storia ma il vero scopo dei sopravvissuti attraverso il loro ricordo è la memoria collettiva. La testimonianza non deve morire con i sopravvissuti(anche se Levi nella sua ultima opera “I sommersi e i salvati” ritiene che i veri testimoni solo coloro che sono morti in quei campi) ma rimanere in vita attraverso ogni generazione. Levi ammette di essere sopravvissuto grazie alla sua passione per la chimica che nel campo lo sottrarrà al lavoro forzato e alle zuppe dategli da un operaio italiano, anche per questo egli non si sentirà vero testimone. La riflessione più profonda delle sue opere è legata alla presenza dei Sonderkommando : gli esecutori, coloro che facevano funzionare le macchine della morte. La maggior parte di essi erano ebrei che conducevano alla morte i deportati ebrei. Levi definirà questa realtà la zona grigia, uno spazio dai contorni mal definiti che offuscava la frontiera tra i due campi, quello delle vittime e quello dei persecutori.
Il tema della colpa assumerà due posizioni diverse nelle opere dei due scrittori: Amery definisce l’orrore di Auschwitz una colpa collettiva,perché tutto il popolo tedesco aveva partecipato, anche se indirettamente, alla tragedia.Dopo i campi di concentramento non poteva più esistere una comunicazione tra gli uomini. Mentre Levi sarà definito dallo stesso Amery il “perdonatore”. Egli considerava i nazisti come”debitori insolventi”, a cui non sarà mai possibile perdonare le loro azioni( a testimoniare ciò sarà il suo rifiuto di incontrare ma soprattutto perdonare Dr. Meyer, un chimico tedesco che incontrò sul campo) anche se dopo Auschiwitz crederà ancora in una possibilità di bene. Un ulteriore divergenza si presenterà nel loro modo di rivivere la patria e sentirsi partecipe di essi dopo lo sterminio: Levi rimarrà sempre legato alla sua Torino, ritenendola la sua “piccola patria”, mentre Amery vivrà la sua vita dopo Auschwitz come un esiliato, perchè sarà impossibile per lui ritrovare una patria.
Contrappunto: Jean- Paul Sartre e la “questione ebraica”.
Sartre rappresenta i “chierici” di Auschiwitz: egli infatti con la sua opera “Riflessioni sulla questione ebraica” mostra il silenzio che ha attraversato la cultura dell’immediato dopoguerra dinanzi a Auschwitz. L’ebreo di Sartre “è un uomo che altri uomini considerano ebreo”; è una categoria negativa e priva di esistenza propria. L’ebreo di Sartre è il creatore dell’antisemitismo. Egli alla luce dei nostri giorni viene considerato come un essere privo di coscienza e sensibilità, ma in realtà la sua miopia è “giustificata” in quanto appartiene a una cultura antifascista, quella francese, che assisteva al ritorno di milioni di feriti di guerra, in un clima di macerie e disordini in cui la sopravvivenza di circa 2.500 ebrei deportati non ebbe una visione fondamentale.
Fonte: http://clip2net.com/clip/m10836/1223055753-auschwitz-e-gli-intellettuali-enzo-traverso-52kb.doc?nocache=1
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