Rinascimento
Rinascimento
Il rinascimento è recupero del mondo antico. Dal punto di vista politico il centro è Firenze. Le lotte di Firenze contro i tentativi di aggressione orditi dal duca di Milano Giangaleazzo Visconti (1402) hanno probabilmente agito da catalizzatore nello sviluppo di studi sui problemi politici, e anche nel loro orientamento ideologico, di segno repubblicano [H. Baron: “umanesimo civile”; ma per Skinner come abbiamo visto queste idee si erano già diffuse nell’Italia dei Comuni nel Trecento]. Gli autori sono Coluccio Salutati, Leonardo Bruni (1404), Poggio Bracciolini, Pier Paolo Vergerio, Leon Battista Alberti, Giannozzo Manetti, Matteo Palmieri, Lorenzo Valla.
Il tema principale è l’ideale di libertà repubblicana e il modo in cui difenderla.
Concetto di libertà: essa non è la moderna libertà individuale, ma è intesa come 1) indipendenza, cioè libertà da interferenze esterne della comunità (autogoverno) e 2) partecipazione, cioè prendere parte attiva al governo della repubblica. La forma popolare di governo è l’unica legittima, perché rende possibile la vera libertà e l’eguaglianza davanti alla legge dei cittadini, e perché rende possibile coltivare le virtù. La politica e le leggi devono condurre gli uomini ad agire bene (Salutati).
Il maggior pericolo alla libertà non deriva dalle fazioni o dalla crescita delle ricchezze private (tesi dei retori medioevali o dictatores), ma dal fatto che i cittadini ormai delegano la difesa della Repubblica fiorentina alle truppe mercenarie, ritenute inaffidabili. Bisogna invece costituire un corpo cittadino armato e autonomo.
La virtù, in linea con la nuova visione rinascimentale dell’uomo, è intesa come eccellenza universale, cioè come sviluppo delle proprie capacità, dall’onestà al sapere all’eloquenza all’uso della spada, e alla disponibilità a spendersi per la collettività; anche le virtù “cardinali”. Queste qualità danno all’uomo la possibilità di combattere i poteri della fortuna e raggiungere gli obiettivi dell’onore, della gloria e della fama. L’uomo è l’unico in tutto il creato ad avere la capacità di controllare il proprio destino; non è vero che tutte le cose terrene sono regolate dalla Provvidenza (in contrasto con la concezione agostiniana della natura umana, secondo la quale il compimento della virtus dipende dalla grazia divina e non dai poteri dell’uomo, profondamente imperfetto e corrotto). Inoltre viene rifiutata la concezione aristotelica che vedeva nella vita dedicata all’otium la condizione esistenziale più elevata; più apprezzate le attività pratiche (negotium), prima fra tutte il coinvolgimento negli affari civili.
Sul piano storico, un elemento nuovo è la preferenza per la Roma repubblicana anziché imperiale. La storia di Roma confermerebbe che un popolo resta grande fintantoché è libero di partecipare agli affari di governo, mentre è destinato a precipitare nella corruzione e nella decadenza non appena viene privato di questa libertà.
Filosofia della storia: ritorno alla visione (Aristotele, Polibio, Cicerone) secondo la quale il corso degli eventi umani procede secondo una serie di cicli ricorrenti, contro Agostino che aveva considerato il corso della storia come uno sviluppo lineare, una rivelazione graduale delle finalità divine in terra.
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Umanisti del tardo Rinascimento
Verso la fine del Quattrocento, con l’affermarsi in Italia di forme dispotiche di governo dei principi, cambia anche la tematizzazione degli scritti politici, che assume l’indirizzo dei consigli al principe e/o ai cortigiani, mentre prima ci si rivolgeva all’intero corpo cittadino. Per quanto riguarda le tesi sostenute, il cambiamento fondamentale riguarda la funzione del potere politico, che si sposta dal mantenimento della libertà al mantenimento della sicurezza e della pace. La qualità principale del governante deve essere la virtù cristiana: giusto, onesto, benevolente, degno di onore. Autori: Francesco Patrizi (1470), Bartolomeo Sacchi (1471), Giovanni Pontano (1468), Diomede Carafa (1480-’90), Baldassar Castiglione (1513-’18), Niccolò Machiavelli. Tranne Patrizi e Machiavelli, la cui preferenza andava alle istituzioni repubblicane, gli altri traggono le conseguenze dal riorientamento della funzione del potere politico e considerano la monarchia la forma migliore di governo.
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I contributi più importanti al pensiero politico repubblicano si hanno nel Cinquecento, e vengono sollecitati dall’esperienza della “Serenissima” Venezia, ammirata nel suo equilibrio costituzionale, che garantiva libertà e prosperità. Donato Giannotti (Dialogo della repubblica de Viniziani, 1526, pubbl. 1540), Gaspare Contarini (1543), Paolo Paruta (1598). A Venezia si realizza l’equilibrio fra il governo di molti, di pochi e di uno. Il Consiglio Grande nominava la maggior parte dei funzionari cittadini, il Senato controllava gli affari esteri e finanziari, il Doge con il suo consiglio era il capo elettivo del governo.
Dal punto di vista giuridico vi è il recupero del diritto romano.
L’umanesimo italiano, caratterizzato dalla devozione filologica e letteraria per i testi classici, dal pensiero politico assolutista e dal disprezzo per il pensiero sistematico e le dottrine del diritto naturale degli scolastici, nel corso del ‘400 si diffonde rapidamente nel resto dell’Europa. Questo, insieme alla riforma protestante, mette fine al pensiero scolastico.
Fonte: http://www.rothbard.it/filosofia-politica/17Umanesimo,Rinascimento.doc
Rinascimento
1) Lo spazio e il tempo del Rinascimento
Nel XVI secolo il processo di rafforzamento delle monarchie nazionali in Francia, Inghilterra, Spagna si conclude con la nascita dello Stato assoluto moderno, fondato sull’accentramento di tutti i poteri nelle mani del sovrano; anche l’Impero, con l’ascesa degli Asburgo, assume una connotazione più nazionale. Un processo analogo, anche se di proporzioni più ridotte, avviene nell’Italia rinascimentale dove si formano gli Stati regionali, spesso in lotta fra loro e responsabili della crisi politica ed economica che, nel corso del Cinquecento, determina, per buona parte della penisola, la perdita dell’indipendenza.
Un altro aspetto che incide profondamente sulla storia dell’Europa di questo secolo è l’ampliarsi degli orizzonti a seguito delle grandi scoperte geografiche, avviate già nel secolo precedente, che dilatano i confini del mondo conosciuto, allargando e modificando notevolmente le prospettive europee anche nel campo culturale. La diffusione delle teorie copernicane, che segnano la crisi del geocentrismo e della concezione antropocentrica, determinano un senso di profondo smarrimento nell’uomo del Cinquecento, trasformando la percezione dello spazio e, attraverso la conoscenza di culture diverse (in particolare di quella cinese, assai più antica della civiltà occidentale), anche quella del tempo. Queste rivoluzionarie novità generano nella seconda metà del secolo due orientamenti ideologici antitetici: da un lato un atteggiamento di tipo problematico e relativistico nei confronti della realtà (il cui maggior interprete è Montaigne), dall’altro una visione rigida e tradizionalista, fondata sull’idea dell’ordine e dell’autorità (politica e religiosa), che è propria della cultura controriformistica.
Nei primi decenni del XVI secolo, pur essendo ormai avviato il processo di decadenza politica, l’Italia vive un periodo di grande fioritura culturale ed artistica grazie al suo ceto intellettuale che, nelle ricche corti e nel mecenatismo dei signori rinascimentali, trova le condizioni idonee all’elaborazione di un progetto culturale capace di dettare legge in tutta Europa. La mobilità degli intellettuali, che viaggiano di corte in corte, confrontandosi nei cenacoli e nelle accademie, l’affermarsi del classicismo rinascimentale basato sul principio d’imitazione e la diffusione della stampa conferiscono alla cultura del Cinquecento un carattere di notevole omogeneità: la frammentazione politica dell’Italia e la presenza di tradizioni locali ben consolidate, anche sul piano linguistico, permettono comunque di individuare nella produzione letteraria centri ed aree geografiche con proprie peculiarità.
Nel disegnare la mappa della geografia culturale dell’epoca rinascimentale occorre considerare che la circolazione degli artisti e dei letterati fu intensa, con soggiorni brevi o prolungati non solo presso le corti italiane, ma anche in quelle europee. Associare, quindi, le singole personalità ad aree locali precise risulta possibile solo attraverso una drastica semplificazione: per gli autori che hanno vissuto presso più corti, si è pertanto ritenuto opportuno privilegiare l’ambiente culturale in cui essi hanno manifestato al meglio il loro ingegno, per altri al contrario il loro luogo di nascita.
Firenze e la Toscana
La città che aveva visto nel Quattrocento l’affermarsi della fertile tradizione dell’“umanesimo civile”, perde definitivamente, a seguito della caduta dei Medici e delle traversie politiche seguenti, il ruolo egemone mantenuto fino all’epoca di Lorenzo il Magnifico. La particolare situazione politica di Firenze, nella quale sopravvive tenacemente la memoria delle antiche istituzioni comunali di tipo democratico e repubblicano, favorisce nel Cinquecento una linea di riflessione politica e ricerca storiografica, ormai in declino nelle altre realtà culturali italiane: il genere della trattatistica storico-politica trova nella produzione di Niccolò Machiavelli (cfr. §…) e Francesco Guicciardini (cfr. §…) la sua manifestazione più alta, ma significative sono anche le opere del repubblicano Donato Giannotti (Della republica dei Viniziani, 1526; Della republica fiorentina, 1531; Discorso delle cose d'Italia, 1535), di Jacopo Nardi con le sue Istorie della città di Firenze (1553), del filomediceo Filippo Nerli (Commentarii dei fatti civili occorsi nella città di Firenze dal 1215 al 1537). Sotto il lungo governo di Cosimo I (1537-74) appaiono anche le opere di due intellettuali repubblicani, passati al servizio del granduca: la Storia fiorentina di Benedetto Varchi (1546-47), che in sedici libri narra gli avvenimenti fra il 1527 e il 1538, e le Istorie fiorentine di Bernardo Segni, ove vengono analizzati i fatti dal 1527 al 1555.
Riflesso delle nuove scoperte geografiche è anche il dilatarsi degli interessi storiografici al di fuori dei confini italiani. L’Istoria d’Europa di Pier Francesco Giambullari affronta il periodo del basso Medioevo (887-947), centrando il racconto sugli eventi dell’Europa germanica, mentre le Historiae sui temporis (1550-52), composte in latino dal comasco Paolo Giovio, attivo a Roma e a Firenze, trattano, nelle accattivanti forme di un reportage giornalistico, il periodo dal 1494 al 1547, spaziando dall’Europa all’Africa e alla Turchia.
Alla letteratura di viaggio appartengono le vivaci Lettere dall’India del fiorentino Filippo Sassetti (che in quelle terre muore nel 1588 al termine di un viaggio avventuroso), il Mondus novus di Amerigo Vespucci, col quale il navigatore fiorentino annuncia la scoperta di un nuovo continente, e le relazioni di viaggio di un altro toscano, Giovanni da Verazzano, che esplorò le terre dell’America settentrionale (battezzando una zona costiera col nome di Arcadia, tratto dalla celebre opera di Sannazaro).
Le letteratura toscana del Cinquecento appare contraddistinta da forti tendenze municipali che si traducono in scelte stilistiche e tematiche ben precise. Significativi sono, per esempio, gli interventi contro il fiorentino letterario proposto da Bembo da parte di autori come Machiavelli, Firenzuola e il Lasca, sostenitori del fiorentino parlato, cioè di una lingua duttile, capace di adeguarsi alle trasformazioni imposte dall’uso. Limitata è poi l’adesione al filone del “petrarchismo” (Giovanni Guidiccioni, Laura Battiferri) che tanto successo incontra nel resto d’Italia: a Firenze fiorisce, invece, la poesia didascalica d’ispirazione virgiliana, con i poemetti Le api (1524) di Giovanni Rucellai e La coltivazione (1546) di Luigi Alamanni, autore anche di due poemi epici, Girone il Cortese e Avarchide (cfr. §…).
Notevole, al contrario, la pratica di generi “minori” d’ispirazione comico-farsesca: la poesia burlesca (famosi i sonetti, per lo più caudati*, e i capitoli* di Francesco Berni), i “canti carnascialeschi” in cui si cimentano Machiavelli e il Lasca (che ne curò una raccolta nel 1559) e, soprattutto, la fertile produzione novellistica che, con vari esiti, si confronta con l’ingombrante modello decameroniano. Vanno ricordate le raccolte di Agnolo Firenzuola (Ragionamenti 1525, La prima veste dei discorsi degli animali 1540, Novelle pratesi 1540-43), le Cene (1540-50) di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, le sensuali Novelle dei novizi (1555-1561) del senese Pietro Fortini e il Belfagor arcidiavolo (1518) di Niccolò Machiavelli.
Ricca anche la produzione di commedie, genere teatrale di grande successo nella prima metà del Cinquecento (cfr. §…): la Mandragola (1518) e la Clizia (1525) di Machiavelli, il Vecchio amoroso (1533-36) di Donato Giannotti, l’Aridosia (1536) di Lorenzino de’ Medici, La sporta (1543) e L’errore (1556) di Giambattista Gelli, Il frate (1540) del Lasca.
Nel campo della trattatistica appaiono originali per il contenuto delle opere due scrittori fiorentini: Anton Francesco Doni, autore de I marmi (1555) e de I mondi (1552-53), testo che rientra nel filone utopistico rinascimentale, e Giambattista Gelli che scrive I ragionamenti di Giusto Bottaio (1548), dieci dialoghi immaginari di un vecchio bottaio con la sua anima. Così pure fiorente è il filone narrativo centrato sul culto, tutto rinascimentale, dell’individualità eccezionale: la Vita (1558-66) di Benvenuto Cellini (cfr. §…) e la raccolta di biografie di artisti, compilata da Giorgio Vasari (cfr. §…) con le sue Vite de’ più eccellenti architettori, pittori e scultori italiani (1550 e 1568).
Le corti dell’Italia centrale: Roma e Urbino
Il centro più fecondo del Rinascimento italiano è senza dubbio la Roma papale, favorita dal ruolo decisivo svolto dalla curia pontificia nella situazione politica italiana ed europea dell’epoca e, soprattutto, dal raffinato mecenatismo di papi quali Giulio II, Leone X, Clemente VII, Sisto V. Gravitano attorno alla corte papale o in circoli come quello legato alla nobile famiglia dei Farnese artisti del calibro di Raffaello, Cellini e Michelangelo per citare i più famosi, ma anche importanti letterati come Annibal Caro, traduttore dell’Eneide (pubblicata postuma nel 1581) e autore della commedia Gli straccioni (1540), il latinista e pedagogista Jacopo Sadoleto, la poetessa romana Vittoria Colonna, il modenese Francesco Maria Molza e il lucchese Giovanni Guidiccioni, esponenti del petrarchismo bembiano, cui si aggiungono le esperienze più originali, per stile e temi, delle Rime (postume, 1623) di Michelangelo Buonarroti (cfr. §…) e delle Rime (postume, 1558) di Giovanni della Casa (cfr. §…), autore anche del famoso trattato il Galateo (postumo, 1558).
Presso la corte pontificia soggiornano a lungo Pietro Bembo (cfr. §…) e Baldassar Castiglione (cfr. §…), che scrive fra Roma e Mantova il suo capolavoro, Il libro del Cortegiano (pubblicato nel 1528), un trattato dialogico* che riscuote un grande successo non solo in Italia, ma in tutte le corti d’Europa. A Roma trascorre la sua giovinezza il poligrafo e temuto polemista Pietro Aretino che, oltre alle numerose Pasquinate, qui compone la prima redazione della sua commedia più famosa, La cortigiana (1525).
Importante centro culturale è anche la piccola, ma dottissima corte urbinate dei Montefeltro, passata poi ai Della Rovere fino al 1516, anno in cui papa Leone X nomina duca di Urbino il proprio nipote Lorenzo de’ Medici, spodestando Francesco Maria della Rovere. La raffinata corte di Guidobaldo da Montefeltro costituisce lo sfondo dei dialoghi del Cortegiano: ciò rappresenta un omaggio del Castiglione ai nobili signori che lo ospitarono con grande generosità dal 1504 al 1516 (in questi anni compone anche l’egloga Tirsi), la cui corte viene assunta come incarnazione concreta dell’ideale mondano e sociale teorizzato nel trattato.
Ad Urbino soggiornano anche Pietro Bembo (1506-1512) e il cardinale Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena che qui rappresenta per la prima volta, con grande successo, la sua commedia regolare in cinque atti dal titolo la Calandria (1513).
Venezia e l’area veneta
Il Cinquecento è il secolo che segna la crisi dell’egemonia veneziana nei commerci marittimi, conseguenza della scoperta del Nuovo Mondo e dell’apertura di nuove rotte per i traffici via mare; sul piano culturale, al contrario, questo secolo si rivela epoca assai fertile tanto nel campo delle arti figurative (si pensi a Giorgione, Paolo Veronese, Tintoretto, Tiziano), quanto in quello delle lettere. La presenza di istituzioni repubblicane e la mancanza di un potere accentratore favorisce un clima di maggior tolleranza e libertà che si manifesta, in particolare nel secondo Cinquecento, nella refrattarietà alle imposizioni della chiesa controriformista: il regime oligarchico e aristocratico della Repubblica veneta, governata dalle famiglie più nobili e influenti, conferisce tuttavia alla cultura veneziana un’impronta elitaria che assimila facilmente i modelli proposti dalle corti italiane.
A Venezia fiorisce una letteratura di “consumo”, sia per la presenza di un pubblico più aperto alle novità e meno legato ad una formazione umanistica, sia perché la città è il massimo centro editoriale della penisola grazie ad editori come Aldo Manuzio e Gabriel Giolito. Emblematico è l’esempio di Pietro Aretino (cfr. §…) che, fuggito da Roma in seguito a contrasti con la curia papale, si stabilisce in un lussuoso palazzo sul Canal Grande, animando la vita culturale della città e qui pubblicando opere licenziose come i Ragionamenti (o Sei giornate, 1534-36), ribaltamento parodico del neoplatonismo celebrato negli Asolani di Bembo, o il Dialogo delle corti (1538), che rovescia la visione ideale della corte fornita dal Castiglione nel suo Cortegiano: qui compone e fa rappresentare varie commedie oltre alla tragedia in versi Orazia (1546), considerata una delle migliori del secolo. Lo stesso spirito libertino anima La Venexiana (1536 ca.), commedia anonima che rifiuta le regole aristoteliche e mostra un impianto fortemente realistico. A Venezia compone la maggior parte delle sue opere il poligrafo Ortensio Lando, spirito bizzarro e polemico, originale esponente della tendenza anticlassicistica (Paradossi, 1543; Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia, 1548) e traduttore dell’Utopia di Tommaso Moro.
A Venezia è legata la figura di Pietro Bembo, del tutto antitetica a quella dell’Aretino, per il suo rigore e la sua fedeltà classicista. Attivo collaboratore dell’Accademia aldina, egli cura le edizioni di Dante e Petrarca (inaugurando il cosiddetto “petrarchismo”), nel 1505 pubblica il trattato degli Asolani (ambientato ad Asolo) e a Padova, dopo i soggiorni ad Urbino e a Roma, le Prose della volgar lingua (1525), un trattato in tre libri ambientato a Venezia che dà vita al dibattito sulla “questione della lingua”. Nel 1530 attende anche alla stesura in latino del trattato storico Rerum venetarum historiae libri XII, che narra i fatti dal 1487 al 1513, da lui stesso tradotto in volgare e in seguito aggiornato all’anno 1552 dal veneziano Paolo Paruta nella sua Historia vinetiana (postumo 1605).
Alla presenza di Bembo si possono ricondurre altre esperienze letterarie dell’area veneta: il gruppo dei lirici petrarchisti (Bernardo Cappello, Trifon Gabriele, Domenico Venier, Bernardo Tasso, Antonio Brocardo, le poetesse Gaspara Stampa e Veronica Franco), ma anche la complessa personalità del vicentino Giangiorgio Trissino, avversario di Bembo nella questione della lingua, autore dell’Italia liberata dai Goti (1527-47), sfortunato tentativo di poema epico secondo i dettami aristotelici, e della prima tragedia classica in lingua volgare, la Sofonisba (1524). Vicentino è pure Luigi da Porto, autore dell’Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti (1529), racconto rielaborato da Matteo Bandello, al cui testo si ispira la famosa tragedia shakespeariana Romeo e Giulietta.
Non mancano a Venezia, città di radicate tradizioni marinaresche, i resoconti di diplomatici e viaggiatori veneti, magazzini di preziose informazioni per gli storici. Significativo esempio di questo filone è la raccolta di relazioni di viaggio in tre volumi, Delle navigationi et viaggi, del trevigiano Giovanni Battista Ramusio (edita dal 1550). Nel 1530 viene pubblicato a Venezia il volgarizzamento delle Decades de orbe novo del geografo Pietro Martire d'Anghiera, curata da Andrea Navagero che traduce anche l’opera dello spagnolo Gonzalo de Oviedo sulla storia delle Indie occidentali, fonti usate dal Bembo per la sua storia di Venezia.
Importante centro culturale dell’area veneta è anche Padova, sede di un prestigioso Studio universitario che coltiva la tradizione dell’aristotelismo soprattutto grazie al magistero di Pietro Pomponazzi, condannato dall’autorità ecclesiastica per aver negato l’immortalità dell’anima nel trattato De immortalitate animae (1516). Professori presso l’università sono il fiammingo Andrea Vesalio, che con i suoi studi compie notevoli progressi nel campo della scienza medica (proseguiti poi dalla scuola medica patavina di Gabriele Falloppio) e lo storico ed erudito modenese Carlo Sigonio.
Presso l’Accademia degli Infiammati opera Sperone Speroni, autore della tragedia Canace (1542), che destò scandalo per la trama incestuosa, e del Dialogo delle lingue (1542), in cui riprende le teorie di Bembo sul volgare. Spetta, tuttavia, all’originale figura di Angelo Beolco, detto il Ruzzante, il ruolo di protagonista in campo letterario per la sua produzione teatrale in dialetto “pavano” (cfr. §..).
Le corti dell’area padana: Ferrara, Mantova, Milano
A partire dalla seconda metà del Quattrocento e per tutto il Cinquecento la Padania si prospetta come una delle zone culturalmente più feconde della penisola: ciò è dovuto all’affermarsi delle grandi corti signorili, nelle quali la cultura umanistica e rinascimentale produce esperienze letterarie di grande rilievo.
La letteratura padana in volgare si sviluppa lungo due grandi direttrici geografiche: la prima comprende Milano, Parma, Mantova e Ferrara, corti assai vicine alla cultura francese, la seconda Bologna, Ravenna e la Romagna, città più legate a Roma e agli studi classicisti. Comune denominatore di queste due grandi aree, che hanno nella Bologna dei Bentivoglio, nella Ferrara degli Este e nella Mantova dei Gonzaga i loro centri più rappresentativi, è il primato riconosciuto alla letteratura come statuto conoscitivo della realtà, che si esplica nell’esegesi dei testi classici, nell’attività di traduzione e volgarizzamento, nell’approccio filologico al patrimonio greco e latino. La cultura rinascimentale assume inoltre un’importante funzione di visibilità politica: principi e signori si dedicano generosamente al mecenatismo, chiamano presso di sé poeti, pittori, architetti, scultori e trasformano lo spazio urbano, abbellendolo con le opere dei principali artisti del tempo.
In questo ampio panorama si distingue, per l’originalità e la fecondità dei suoi circoli letterari, l’ambiente ferrarese: la salda e duratura politica degli Estensi, signori sempre attenti ai fermenti culturali e attivi propulsori di arte e letteratura, favorisce una fertile commistione fra tradizione classica, studi umanistici e rivisitazione della letteratura romanza, in particolare dell’epica francese e franco-veneta. A Ferrara, dove fecondo era stato nel Quattrocento il magistero umanistico di Guarino Veronese, prosegue la tradizione del poema cavalleresco inaugurata dall’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (cfr. §…), prima con l’Orlando furioso di Lodovico Ariosto (cfr. §…) poi, nella seconda metà del secolo, nelle forme del poema epico con la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (cfr. §…).
Assieme a Firenze e Roma, Ferrara è una delle capitali del teatro cinquecentesco, soprattutto per iniziativa degli Este che già alla fine del Quattrocento, sotto Ercole I, avevano incentivato la traduzione in volgare di commedie plautine e terenziane e che nei primi anni del Cinquecento spingono Ariosto alla composizione delle sue commedie (Cassaria, 1508; I suppositi, 1509). La tradizione teatrale prosegue nella seconda metà del secolo con la ripresa di un genere poco frequentato, quello della “favola boschereccia” ad opera di Giovan Battista Giraldi Cinzio, di Tasso e di Guarini. Vivace protagonista nel dibattito sulla codificazione dei generi letterari, Giraldi Cinzio compone nel 1545 l’Egle, opere mista di tragedia e commedia, che anticipa, per temi e stile, i due capolavori: l’Aminta di Tasso (1573) e il Pastor fido di Battista Guarini (1573). Alla sua penna si devono anche varie tragedie (la più famosa è l’Orbecche, 1541) e gli Ecatommiti (1561), una raccolta di cento novelle modellata sul Decameron, ma caratterizzata da un rigido moralismo di stampo controriformista. Attive a Ferrara sono anche due poetesse di rilievo come Barbara Torelli e Tullia d’Aragona, seguaci del gusto petrarchista.
I Gonzaga rappresentano, al pari degli Este, un’altra casata assai incline al mecenatismo e sotto il loro dominio Mantova diviene un fondamentale centro culturale del Rinascimento. La presenza di artisti insigni (Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna, Giulio Romano) trasforma l’aspetto architettonico della città, mentre la corte offre ospitalità a personaggi come Baldassar Castiglione, Tasso, che qui compone la sua tragedia il Re Torrismondo, e Stefano Guazzo, autore del trattato dialogico La civil conversatione (1574) che conobbe al tempo notevole successo. Nativo di Mantova, anche se trascorre la maggior parte della sua esistenza peregrinando fra Brescia, Padova e Venezia, è Teofilo Folengo (cfr. §…), inventore della poesia “maccheronica” (il poema Baldus è il suo capolavoro).
All’area padana, dove il ducato di Milano a causa della dominazione straniera perde ben presto quella centralità culturale, goduta agli inizi del Cinquecento sotto gli Sforza, si ricollega una fertile corrente novellistica grazie alle figure del bergamasco Giovan Francesco Straparola, autore dei due libri delle Piacevoli notti (1550 e 1553), ricchi di spunti fiabeschi tratti dal repertorio popolare, del piacentino Girolamo Parabosco, autore dei Diporti( 1550), ma soprattutto di Matteo Bandello (cfr. §…), cui si deve una delle migliori raccolte di novelle del secolo, i Quattro libri delle Novelle (1554 e, postumo, 1573), autore che conosce un notevole successo in Francia ed Inghilterra. Fra i lirici petrarchisti si ricordano il bergamasco Bernardo Tasso, padre di Torquato, autore anche del poema epico Amadigi (1560) e la poetessa Veronica Gambara.
Napoli e l’area meridionale
Al pari del ducato di Milano anche i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna passano a seguito della cacciata degli Aragonesi (1504) sotto le dirette dipendenza della Spagna che, con la pace di Cateau Cambrésis (1559), vi pone come suo rappresentante un viceré. Ma a differenza delle zone lombarde, caratterizzate da una maggior libertà politica (a Milano fu conservato il Senato) e da radicate tradizioni agricole ed imprenditoriali, le zone meridionali vivono anni di profonda crisi sia per il rigido centralismo che impone un pesante fiscalismo, sia per l’immobilismo economico, soprattutto nelle campagne, da parte dei baroni.
Napoli resta comunque un centro attivo dal punto di vista culturale, anche per la fertile tradizione umanistica quattrocentesca (si pensi ad Antonio Beccadelli, detto il Panormita, a Giovanni Pontano e, a cavallo dei due secoli, a Jacopo Sannazaro)). Sviluppato appare il filone della lirica che vede seguaci del petrarchismo bembesco come Berardino Rota, Angelo di Costanzo (autore anche di una storia del Regno di Napoli) e poeti dotati di maggior originalità come Luigi Tansillo, che presenta nei suoi componimenti esiti visionari e immaginosi, e Galeazzo di Tarsia, il cui scarno Canzoniere si allontana dal modello ufficiale per la gravitas e lo stile prezioso e ricercato, preludendo al gusto manieristico. Figure di spicco del Rinascimento meridionale sono anche due poetesse: Laura Bacio Terracini, autrice di una raccolta di Rime (1548) e di un interessante Discorso sopra tutti i primi canti di Orlando Furioso (1549), nel quale polemizza con il monopolio maschile della cultura, e Isabella Morra, morta in giovane età (1520-48), lasciando tredici poesie di struggente malinconia.
Nel campo della storiografia l’opera più interessante è La congiura dei baroni del napoletano Camillo Porzio, scritta su invito di Paolo Giovio e dedicata alla congiura anti-aragonese repressa nel sangue: l’opera è pubblicata nel 1565 in pieno periodo controriformistica come denunciano la concezione provvidenzialistica della storia e l’intento didattico del testo che rifiuta nettamente la machiavelliana separazione tra politica e morale.
In età manieristica spicca la curiosa figura di Giambattista Della Porta (1535-1615), scienziato, esperto di magia e commediografo che, con le sue commedie (la più famoso è l’Olimpia, 1586-89) prepara l’avvento della Commedia dell’Arte.
All’area meridionale appartengono anche i principali filosofi del Cinquecento: il cosentino Bernardino Telesio (1509-88), le cui tesi naturalistiche, ma non negatrici di Dio e dell’immortalità dell’anima, influenzano il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639), autore del celebre trattato la Città del sole (1602), riconducibile al filone “utopico” (Moro, Doni, Lando) Infine Giordano Bruno (cfr. §…), nato a Nola nel 1548 e morto sul rogo a Roma nel 1600, personalità assai complessa, della quale, oltre alla produzione di stampo filosofico, va ricordata la commedia Il candelaio (1582), una dei testi più complessi, ma anche più significativi del teatro cinquecentesco.
Le corti europee
Nella cultura europea della prima metà del XVI secolo l’Italia, nonostante la crisi politica che culmina con il sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi (1527), riveste ancora un ruolo di primaria importanza, esportando modelli culturali (si pensi alla risonanza del Libro del cortegiano di Castiglione, tradotto in tutte le lingue e vera “bibbia” della società di corte europea), artistici e letterari (su tutti il petrarchismo), che vengono recepiti dai grandi stati europei in modo diversificato, a seconda dei legami instaurati con la nostra penisola. Ciò spiega, per esempio, la maggior diffusione del rinascimento italiano in Francia e Spagna, dovuta ai continui contatti del potere spagnolo e francese con le corti italiane a seguito delle numerose campagne militari e dei frequenti soggiorni in terra straniera di artisti e letterati italiani; meno rilevante è, invece, l’influenza italiana in Germania e Inghilterra, dove l’affermarsi del movimento religioso riformistico condiziona radicalmente anche le trasformazioni in campo culturale.
Francia
L’età di Francesco I (1515-1547) e di Enrico II (1547-1559) è il periodo di massimo splendore del Rinascimento francese. L’ammirazione per l’arte italiana porta i re francesi ad offrire ospitalità a figure come Leonardo, Rosso Fiorentino, Cellini, Bandello e Alamanni e ad assumere a modello di vita il “cortigiano” di Baldassar Castiglione: Francesco I, in particolare, è molto attivo nell’incentivare gli studi umanistici, aprendo la biblioteca reale agli studiosi e fondando una tipografia regia per intensificare l’editoria.
Il sovrano si mostra, però, anche un deciso sostenitore del volgare francese, tanto che anche in Francia sorge una “questione della lingua” sull’esempio italiano: nel 1549 il poeta Joachim du Bellay scrive un trattato, Difesa e illustrazione della lingua francese, ispirandosi al Dialogo delle lingue di Sperone Speroni e negli stessi anni introduce in Francia il petrarchismo che trova la sua espressione più alta in Clément Marot, Maurice Scève, nella poetessa Louise Labé e nei poeti della Pleiade, in particolare nella produzione lirica di Pierre de Ronsard (cfr. §…).
Nel campo della narrativa fondamentale è l’esperienza di François Rabelais che col suo romanzo in prosa Gargantua et Pantagruel (1532-64) fornisce un contributo fondamentale alla nascita della moderna prosa d’arte. Significativa è anche la figura di Margherita di Navarra, sorella del sovrano Francesco I, donna di raffinata cultura umanistica (conosceva le lingue classiche, ebraico compreso, e parlava correttamente l’italiano, l’inglese e il tedesco), vicina all’evangelismo erasmiano, ma suggestionata anche da Lutero e Calvino. Margherita è autrice di una raccolta di novelle, l’Heptameron, pubblicata postuma (1558): l’opera si ispira al Decameron di Boccaccio, come testimonia la presenza di una cornice, ed è rimasta incompiuta per la morte dell’autrice alla settantaduesima novella (delle 100 previste). Fra i temi trattati vi sono l’amore, l’avventura, l’astuzia, la virtù, l’erotismo licenzioso, che offrono all’autrice spunti di riflessione morale: senza dubbio originali sono, in tal senso, le frequenti considerazioni sulla condizione femminile e la rivendicazione di maggiori spazi sociali per la figura della donna.
Figura preminente nella seconda metà del secolo è quella di Michel de Montaigne (1533-92). Nei suoi Essais [Saggi], continuamente ripresi e rielaborati fino alla morte, egli si fa portatore di una visione laica e tollerante, decisamente avversa al dogmatismo e all’autoritarismo controriformistica. Montaigne demolisce la visone “eurocentrica” della cultura occidentale alla luce di quanto emerso con le nuove scoperte geografiche e scientifiche, individuando nel dubbio, inteso come “sospensione del giudizio”, il carattere distintivo del saggio del suo tempo.
Spagna
La monarchia spagnola sotto Carlo V (1519-56) risente notevolmente, come già al tempo degli Aragonesi, dell’influenza della cultura italiana, in particolare attraverso la corte di Napoli. Il neoplatonismo ficiniano, il modello cortigiano del Castiglione e le teorie di Bembo si diffondono profondamente nel tessuto culturale iberico. Nel 1527 la presenza dell’ambasciatore e umanista veneziano Andrea Navagero a Granada spinge il poeta Juan Boscàn Almogaver all’imitazione dell’endecasillabo e del sonetto petrarcheschi, introducendo anche in Spagna il gusto del petrarchismo bembiano, poi seguito dal poeta Garcilaso da la Vega.
Notevole è l’influenza esercitata dal magistero erasmiano: interessi umanistici ed esigenze di rinnovamento religioso animano l’attività di Luis Vives e dei fratelli Alfonso e Juan de Valdes, quest’ultimo autore di un Dialogo de la lingua (1535), ispirato al trattato bembiano, che inaugura anche in Spagna la questione della lingua, proponendo come modello la lingua castigliana.
Nel campo della narrativa nel 1508 esce il romanzo cavalleresco in prosa Amadis de Gaula di Garcìa Rodrìguez de Montalvo che riscuote grande successo e, circa cinquant’anni dopo, l’anonima Vida de Lazarillo de Tormes (1554), capostipite del genere picaresco*, segna l’inizio del romanzo moderno: gli eventi e i protagonisti, infatti, sono tratti dalla vita quotidiana e l’opera, narrata in prima persona da un “io narrativo” lontano dall’autore reale, si mostra aliena da ogni moralismo e allegorismo, composta per il puro gusto di narrare.
Il cosiddetto “siglo de oro” della letteratura spagnola, però, comincia con l’ascesa al trono di Filippo II nella seconda metà del Cinquecento, in pieno clima controriformistico, e si protrae fino alla metà del secolo successivo, offrendo opere di grande rilievo nel campo della letteratura mistica con santa Teresa d’Avila, autrice di un’autobiografia (Libro della sua vita), di liriche e di trattati mistici (come Il castello interiore) e san Juan de la Cruz, che scrive alcuni capolavori del genere mistico come il Canto spirituale tra l’anima e Cristo suo sposo e l’Ascesa al Monte Carmelo. Ma è senza dubbio nel Don Chisciotte (1605 e 1615) di Miguel de Cervantes, il romanzo che segna il tramonto del mondo cavalleresco, che la letteratura spagnola manierista raggiunge la sua più alta manifestazione.
Inghilterra
Più lenta e meno profonda è la diffusione del modello umanistico-rinascimentale in Inghilterra, dove esso giunge soprattutto attraverso la mediazione del grande Erasmo da Rotterdam: questi, legato da una profonda amicizia al più grande umanista inglese, Thomas More (Tommaso Moro), proprio mentre è suo ospite a Londra, completa nel 1509 il famoso Elogio della follia. Di spirito erasmiano appare imbevuto anche l’originale trattato dello stesso Thomas More, l’Utopia (1516), opera che rappresenta un modello di stato ideale, basato sulla tolleranza, la giustizia e la libertà, e che inaugura il filone narrativo utopistico (cfr. sopra).
Molto conosciuti in terra inglese sono i trattati di Bembo, Castiglione e Della Casa: nel campo del costume, in particolare, forte è l’influenza del Cortegiano e del Galateo, che contribuiscono a fissare e diffondere l’ideale del gentleman.
Attraverso la mediazione francese il petrarchismo sbarca anche in Inghilterra, influenzando lirici come Thomas Wyatt, Philiph Sidney (soprannominato “il Petrarca inglese”), autore del pregevole canzoniere Astrofili e Stella (1591) e di un romanzo pastorale l’Arcadia (1590) ed Edmund Spenser, più noto per il poema epico-allegorico The Faerie Queen (La Regina delle fate, 1590-96), vagamente ispirato al poema ariostesco.
Notevole è anche l’influsso della novellistica e della produzione drammaturgica italiana sul grande teatro elisabettiano di Christopher Marlowe e di William Shakespeare. Quest’ultimo, in particolare, si ispira al modello del teatro ariostesco, ma soprattutto alle novelle di Bandello, tradotte in francese, per il soggetto delle sue commedie Molto rumore per nulla (Much ado about nothing, 1598-99), La dodicesima notte (Twelfth night, 1599-1600) e, come si è visto (cfr. sopra…), anche per la tragedia Romeo e Giulietta (Romeo and Juliet, 1594-95).
Nel genere della tragedia notevole successo incontrano l’Orbecche di Giraldi Cinzio e, in generale, il gusto del macabro e del truculento di derivazione senecana, presente nella produzione tragica del secondo Cinquecento italiano.
2) La cultura del Cinquecento
1. Il Cinquecento: un secolo inquieto e di lunga durata
Il Cinquecento è un secolo ricco di avvenimenti storici e culturali: è il secolo del Rinascimento nella cultura letteraria e nelle arti, della rivoluzione scientifica, della scoperta e dell’impiego della stampa, della Riforma protestante e delle grandi scoperte geografiche: grandi eventi che hanno coinvolto non solo l’Italia, ma l’Europa intera. E’ il secolo delle guerre, dei rivolgimenti politici e dell’affermazione di grandi stati nazionali come la Spagna, l’Inghilterra e la Francia (cfr quadro storico). E l’Italia mentre perde progressivamente il proprio prestigio militare e politico si colloca al centro di questo rinnovamento culturale: “dal 1450 al 1650 nel corso di due secoli particolarmente movimentati- scrive lo storico Fernand Braudel- l’Italia ha irradiato la sua luce dai mille colori tutti splendenti ben al di là dei suoi confini: questa luce, questa diffusione di un patrimonio culturale formatosi nel suo seno, si presenta come la caratteristica di un destino eccezionale, come una testimonianza che per la sua ampiezza, ha un peso reale di storia molteplice, i cui particolari, esaminati sul luogo, perfino in Italia, non si afferrano facilmente tanto sono stati diversi”(F.Braudel, Il secondo rinascimento. Due secoli e tre Italie, Einuadi, 1986, p.3). In altre parole , afferma Braudel, la “grandezza italiana è stata una dimensione del mondo”.
Il Cinquecento è un secolo che attraversa altri secoli, poiché affonda le sue radici nel passato e si proietta nel futuro, gettando le basi per la crescita e l’affermazione di altri movimenti culturali. E’, ad esempio, impossibile comprendere i concetti fondanti del Rinascimento senza prendere in considerazione il movimento culturale dell’Umanesimo quattrocentesco e, ancor prima, le riflessioni sugli studia humanitatis di Francesco Petrarca. D’altra parte tra XVI e XVII secolo Shakespeare o Cervantes possono essere spiegati solo a partire da un serio confronto con la tra dizione romanza e con la cultura italiana precedente.
E’inoltre una forzatura cronologica cercare di far rientrare l’eterogeneità degli avvenimenti culturali di questo periodo solo nell’arco convenzionale di cento anni, poiché sia nell’arte, sia nella letteratura, sia nel pensiero scientifico e filosofico le eredità del passato e le proiezioni nel futuro fanno di questo secolo un secolo di lunga durata. Un arco di tempo più ampio del secolo preso in esame che vede svilupparsi e trasformarsi i movimenti culturali dell’Umanesimo e del Rinascimento in un crescendo di conflitti e di contraddizioni ideologiche, culturali e spirituali. Secondo Eugenio Garin di fatto “il mondo che si riflette nelle grandi opere e nelle grandi figure del primo Rinascimento italiano è un mondo più spesso tragico che lieto, più spesso duro e crudele che pacificato, più spesso enigmatico ed inquieto che limpido ed armonioso. Leonardo da Vinci è quasi ossessionato da visioni catastrofiche, e fissa nei disegni e nelle descrizioni un universo che muore. Leon Battista Alberti insiste nelle sue pagine su una fortuna cieca che insidia e spezza la virtù degli uomini e delle famiglie, e non esita a invocare la morte per i nuovi nati. Machiavelli è il teorico di una umanità radicalmente cattiva, impegnata in una lotta senza pietà,e posta sempre di fronte a scelte crudeli. Savonarola e Michelangelo sono pieni entrambi, anche se in forme tanto diverse, di un senso tragico della vita umana e della storia”. (E. Garin. La cultura del Rinascimento, Milano, 1968, p.11).
La visione del mondo
1. Il Rinascimento italiano
Il mito del Rinascimento
Il Rinascimento italiano è stato un grande movimento culturale che abbraccia un periodo lungo della nostra letteratura e delle nostre arti.
Le tappe di questa sorta di rivoluzione culturale si dispiegano nell’arco di due secoli: il programma di rinnovamento spirituale, religioso, culturale e politico del XIV secolo, con Francesco Petrarca tra i maestri e promotori di esso (cfr. Unità-profilo Trecento); la trasformazione e l’affermazione dei concetti fondanti dell’Umanesimo nel campo della letteratura, della storia, della filologia, dell’arte nei pensatori del Quattrocento (cfr. Unità-profilo Quattrocento) e l’esplosione di questa rinnovata visione della vita nelle arti, nelle lettere, nel pensiero e nell’educazione del secolo XVI, dove Raffaello, Michelangelo e Tiziano rifondano l’arte italiana, Machiavelli e Guicciardini gettano le basi del moderno pensiero politico occidentale, Ariosto e Tasso segnano i passaggi di un’epoca.
La nascita e l’evoluzione di questo complesso movimento culturale sono stati per lungo tempo associati all’idea di un momento privilegiato e positivo della cultura italiana ed europea.
E’ il mito del “Rinascimento”, inteso come una improvvisa e luminosa “Rinascita” della cultura contro le tenebre del Medioevo. Un mito che si è nutrito delle stesse consapevolezze degli uomini del tempo, i quali avevano percepito tale cambiamento come una decisa contrapposizione con il sapere medievale.
Il mito della “Rinascita” della sapienza antica e , di conseguenza, di un’”età moderna” contrapposta al Medioevo si è successivamente consolidato intorno alla metà dell’800, in particolare con gli studi di Jacob Burckardt (La civiltà del Rinascimento in Italia, 1860) e di Jules Michelet (La Renaissance, 1855). Secondo Burchardt l’uomo del Rinascimento, contrariamente all’uomo medievale, afferma con forza la propria individualità, cercando di realizzare se stesso con grande versatilità, non senza l’ambizione dichiarata di volere acquistare fama e gloria presso i contemporanei. In realtà la meravigliosa fioritura cinquecentesca nelle arti, nel pensiero e nella letteratura dei concetti fondanti dell’Umanesimo affondava le sue radici nel passato ed era profondamente legata alle epoche precedenti.
Le antiche radici della “renovatio”
L’idea di una “renovatio” capace di trasformare la cultura, la vita spirituale e politica era già presente in Francesco Petrarca e nelle vicende politiche di Cola di Rienzo. Petrarca sentiva la necessità di una rigenerazione della mentalità e della visione del mondo del suo tempo. Lo studio della classicità costituiva il punto di partenza di questo nuovo impulso al cambiamento: l’esempio dell’antico impero romano, la lettura di Livio o di Cicerone avevano suggerito a Petrarca l’idea di una nuova vita politica italiana, divisa in quel momento da fazioni, da battaglie e da guerre che ne avevano minato la libertà e la dignità. All’interno di quel contesto storico Petrarca immaginava la possibilità di restituire alla vita politica italiana i concetti di “libertà”, di “pace” e di “concordia” che ritrovava nei testi classici. L’idea del rinnovamento nasceva come esigenza viva, come urgenza dell’esistere: non era solo un sogno letterario, coltivato sui libri e separato dal resto del mondo. Lo studio del mondo classico non si concludeva nella mera erudizione: per Petrarca, Cola di Rienzo, Coluccio Salutati e per gli umanisti del Quattrocento la classicità forniva gli strumenti per un reale rinnovamento delle forme di vita. Un rinnovamento che aveva prima di tutto una ricaduta nella vita civile politica e che abbracciava lo Stato, la Chiesa e società tutta.
Il risorgere del mondo antico
Il ritorno al mondo antico e al sapere classico è un aspetto fondante anche del movimento culturale di “Rinascita” del Cinquecento. Generazioni di architetti, come Filippo Brunelleschi (1377-1446), Donato Bramante (1444-1514) e Andrea Palladio (1508-80) studiavano sul testo di Vitruvio (De architectura), da poco riscoperto e pubblicato per la prima volta solo nel 1480. Tutti, inoltre, si recavano a Roma per studiare i numerosi edifici classici ancora intatti, come il Pantheon, il Colosseo o l’Arco di Costantino. Lo studio dell’architettura classica si rifletteva nelle loro creazioni, come ad esempio il celebre tempietto di San Pietro in Montorio a Roma (1502), opera di Bramante. Nella scultura cinquecentesca il monumento equestre, il busto o il gruppo mitologico provenivano dall’imitazione di alcuni capolavori dell’arte classica ritrovati a quel tempo (l’Apollo del Belvedere o il celebre Laocoonte): a questo proposito si veda la dimensione classica del “Bacco” (1496-1501) del giovane Michelangelo.
Per gli scrittori e per gli artisti, che a partire dai primi anni del Cinquecento diedero vita al cosiddetto “Rinascimento italiano”, imitare l’antichità significava in primo luogo riconoscersi in una nuova visione del mondo, nella quale poter riscoprire se stessi. Secondo lo studioso Eugenio Garin l’imitazione dell’antichità non è stata solamente un’atteggiamento erudito. La retorica di Quintiliano, lo studio di Cicerone o il pensiero di Platone non offrivano soltanto “un contenuto da ripetere”, ma un “crogiuolo” in cui poteva formarsi l’uomo rinascimentale “pieno, libero, forte, capace di vincere con la virtù il destino”, come lo erano stati i Greci e i Romani presi a modello (E. Garin. Il Rinascimento italiano, Bologna, Cappelli 1980, p.45)
Il giudizio dei “moderni”
Tuttavia per la prima volta agli albori del Cinquecento si stabiliva la necessità di un giudizio storico del mondo classico e di una presa di distanza da esso.
Naturalmente anche i primi umanisti, a cominciare dallo stesso Petrarca, avevano sempre dimostrato la volontà di rileggere i classici in maniera totalmente diversa rispetto alla tradizione pecedente. Se i Padri della Chiesa avevano avuto il merito di conservare i testi del mondo classico, ne avevano tuttavia travisato e adulterato il contenuto. Bisognava, invece, restituire ai classici la loro autenticità, ricavandone alla fine un insegnamento reale. Come aveva insegnato Flavio Biondo con la sua Roma instaurata, occorreva rileggere i testi nella lezione autentica, ripristinando e restaurando le lacune: era nata con gli umanisti del Quattrocento la filologia critica e la ricerca di una verità storica. (cfr unità Quattrocento). Lo stesso Erasmo nel pieno del Cinquecento spiegava assai bene come il limite dell’ “erudizione teologica”consistesse nel non riuscire a leggere i classici al di fuori di un’interpretazione biblica.
Tuttavia questo duplice processo di imitazione e di rilettura critica del mondo antico risultò più accentuato negli scrittori e umanisti cinquecenteschi. In particolare Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio giunse persino a ironizzare su chi lodava senza giudizio e senza sfumature il mondo antico: costoro “laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente gli antichi tempi e gli presenti accusano…” . Machiavelli spiegava con grande lucidità che non sempre si poteva comprendere la “verità” delle “cose antiche”, poiché la tendenza generale era quella di nascondere le “infamie” e di amplificare le azioni gloriose. Anche questo, secondo Machiavelli, era un modo per alterare e per falsificare la storia. Era necessario, dunque, avere il coraggio di mettere in discussione il modello antico e, in altre parole, di sottoporlo ad un giudizio critico, storico e filologico: “Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e biasimare soprascritta; ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perché qualche volta è necessario che giudichino la verità; perché essendo le cose sempre in moto o le salgono o le scendano” (II, Proemio).
Machiavelli superava così la passata polemica umanistica tra “antichi” e “moderni”, prendendo le distanze da chi svalutava il tempo presente ed esaltava o mitizzava il tempo antico. Il valore della classicità, insomma, consisteva nel costringere gli uomini a misurarsi con essa per “giudicarne la verità”, senza cedere alla tentazione di accettare senza riserve un modello ideale.
La “modernità” non consisteva più solamente nel ritrovare e riscoprire il mondo classico nella sua autenticità, ma cominciava in questi anni a misurarsi anche sulla capacità di giudizio e sulla presa di distanza da una classicità portatrice solo di verità. Con il senso della “modernità” nasce il senso della Storia come
3) La cultura artistica del Rinascimento
1.10 Il Rinascimento “maturo”: Roma capitale artistica
Dal punto di vista artistico nel periodo compreso fra la morte di Lorenzo il Magnifico e il concilio di Trento, pur nella molteplicità delle varie manifestazioni, legate alle diverse realtà geografiche e alle individualità particolari dei singoli artisti, si possono individuare a grandi linee tre momenti ben precisi: il rinascimento “maturo”, che comprende i primi due decenni del secolo (fino alla morte di Raffaello, avvenuta nel 1520), il cosiddetto Manierismo e il periodo della Controriforma, nel quale si prospettano i caratteri dell’arte barocca seicentesca.
Con la morte di Lorenzo il Magnifico il primato artistico nella penisola passa da Firenze, nel Quattrocento culla del primo Rinascimento (vi lavorano personalità insigni, fra cui Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Donatello, Masaccio, Botticelli, Andrea del Castagno, il Pollaiolo, il Ghirlandaio, per citarne solo alcune), alla Roma papale, dove pontefici come Giulio II della Rovere e Leone X, figlio di Lorenzo, avviano l’ambizioso progetto di rinnovare gli antichi splendori della capitale della cristianità per legittimare, anche sul piano dell’immagine, l’egemonia politica che la curia romana aspirava ad assumere nell’Italia devastata da lotte intestine ed invasioni straniere.
Durante il Quattrocento la corte pontificia non ha artisti propri, anche se vi passano i più celebri ingegni dell’epoca, Masaccio, Donatello, Beato Angelico, Benozzo Bozzoli, Pinturicchio e Mantegna, ma tutti, terminati i lavori, se ne vanno senza che nella capitale si costituisse una scuola o una tendenza con propri caratteri.
La Roma dei papi si presenta all’inizio del XVI secolo come il principale centro diplomatico, frequentato da ambasciatori e funzionari provenienti da tutto il mondo, ma anche come un importante mercato finanziario, che permette alla corte papale, ai banchieri (Agostino Chigi, amico e protettore di Raffaello, ma anche del Sodoma, di Sebastiano del Piombo, di Giulio Romano) e alle famiglie dell’antica nobiltà cittadina di incamerare ingenti fortune e di poterle investire nel mecenatismo e nella realizzazione di opere artistiche. Nel 1503 sale al pontificato di papa Giulio II la cui politica mira a fondare l’universalismo religioso sull’affermazione della potenza e della gloria terrena, e questo obiettivo è perseguito soprattutto attraverso la trasformazione monumentale della città e il riconoscimento del suo prestigio culturale e d artistico.
Nei primi due decenni le arti figurative e quelle architettoniche raggiungono la loro massima espressione e grazie alla presenza di Bramante, Raffaello e Michelangelo la “maniera grande” si impone come modello insuperabile di forza ed eleganza. Trionfa il principio della kalokagatìa, ossia della corrispondenza fra la bellezza delle forme e il valore spirituale e morale, che porta a rappresentare il corpo umano, anche nella sua nudità, in chiave fortemente idealizzata: la bellezza terrena, secondo l’interpretazione del neoplatonismo rinascimentale, è la forma più alta in cui si rivela la bellezza divina e l’artista grazie alla sua fantasia travalica le bellezze terrene per attingere a quelle universali ed assolute. L’inconciliabile dualismo quattrocentesco tra realismo e idealizzazione, tra concretezze ed astrazione, ora si compone in un ideale di superiore armonia e compostezza, di ordine ed equilibrio, che reprimono ogni pulsione ed emozione umane in figure caratterizzate da una solennità nobile e maestosa. Questo ideale estetico, per esempio, porta pittori e scultori a non rappresentare più il Cristo in croce come uomo sofferente o la Madonna come madre affettuosa o addolorata, mentre i santi, i martiri, i profeti e gli apostoli stessi non sono più raffigurati come umili contadini o artigiani, bensì come eroi, figure gravi e dignitose.
L’arte cinquecentesca si rivolge ad un pubblico ristretto, aristocratico, escludendo dalla sua fruizione vaste categorie di pubblico, precedentemente coinvolte dall’arte medioevale e quattrocentesca; è un’arte che riflette la società aristocratica ed autocratica da cui ha preso vita e che, raggiunto il suo apice, mira alla propria perpetuazione ed esaltazione. Il Rinascimento dei primi decenni del secolo, soprattutto attraverso la pittura e la scultura, ritrae la civiltà di corte al suo apice, rivelando in ogni suo tratto l’esaltazione di un ideale di vita, aristocratico e conservatore: il formalismo dell’arte di questo periodo ha il suo corrispettivo nei canoni morali, comportamentali, e anche estetici, che vengono affermati dal Castiglione o dal Della Casa nei loro trattati (Il libro del Cortegiano e Il Galateo). Alla base si ritrova la repressione dell’emotività, del sentimento, della spontaneità nel segno di un controllo razionale, di un armonico equilibrio nelle forme e nei colori, di una maestosa ieraticità della figura umana, massima sublimazione di quella centralità dell’individuo celebrata pensiero umanistico. Nell’arte la classe dominante aristocratica ricerca il simbolo di quella calma e di quell’ordine che ella persegue nella vita, di quell’eleganza e di quella “sprezzatura” (per dirla col Castiglione) che devono informare di sé ogni atto del perfetto gentiluomo.
Tali caratteri si riflettono anche nella concezione dello spazio: alla composizione fondata sul semplice accostamento delle parti, subentra il principio dell’accentramento e della subordinazione fondato sulla gerarchia dei piani, sulla creazione di simmetrie e corrispondenze, sull’inserimento della realtà nello schema di un triangolo o di un cerchio per conferire un’idea di ordine e stabilità.
Nell’architettura il criterio dell’accentramento e della subordinazione dello spazio e la rivisitazione del mondo classico trovano la loro massima espressione nell’ideale architettonico di Donato Bramante (1444-1514). Nel tempietto di San Pietro in Montorio (1503), la scelta della pianta centrale, della cupola emisferica e del colonnato dorico si ispira al modello dei templi rotondi classici, mentre la spazialità monumentale, regolata da simmetrie e corrispondenze rigorose, mira a riprodurre nelle forme dell’architettura l’armonia del cosmo. Gli stessi principi guideranno qualche anno dopo l’ideazione della chiesa di San Pietro, a pianta centrale e non più a croce latina, sulla base di un progetto cui lavorano lo stesso Bramante, poi Raffaello ed infine Michelangelo.
1.2 Il classicismo di Raffaello
Nella produzione pittorica di Raffaello Sanzio (1483-1520) troviamo la più alta realizzazione dell’ideale di kalokagatìa e della fusione fra naturalismo e classicismo: il modello ideale di umanità, teorizzato dal Castiglione (amico intimo del pittore) nel suo Libro del Cortegiano, trova nelle figure dipinte da Raffaello una perfetta rispondenza nella “grazia” e nella proporzione delle forme corporee e delle espressioni dei volti.
L’idea della classicità del pittore urbinate è ben rappresentata nella Scuola di Atene (1509-10), l’affresco dipinto per la Stanze vaticane (nella Stanza della segnatura): la scena complessa e grandiosa è una celebrazione della sapienza antica, incarnata dai suoi due principali rappresentanti, Platone e Aristotele, il primo con il dito rivolto verso l’alto, il secondo con le palme verso terra, a simboleggiare i massimi sistemi filosofici del pensiero antico, l’idealismo e il naturalismo. I due filosofi, che costituiscono il nucleo fondamentale della rappresentazione, sono posti nel fuoco prospettico della scena, caratterizzata da uno spazio ampio e profondo determinato dalla monumentale architettura scandita dalla fuga delle tre alte arcate. La scena, animata e affollata di personaggi, offre un’immagine di grande naturalezza e libertà di movimento, ma l’ordine spaziale garantito dalla prospettiva centrale le conferisce perfetto equilibrio e solenne compostezza. Le figure umane riflettono nella loro grandezza fisica l’elevatezza morale, l’intensa concentrazione dei volti, la maestosa sacralità dei gesti si accordano alla monumentalità dell’architettura.
Allo spettatore la classicità si presenta come mondo di sublime umanità, di serena pienezza di vita, di certo non antitetico o inferiore al mondo cristiano. Non è pertanto casuale che Raffaello realizzi nella stessa stanza la Disputa del sacramento, affresco di soggetto esplicitamente religioso: nella simmetria compositiva dei due dipinti si celebra la perfetta armonia fra vero teologico e vero razionale.
Nelle sue Vite Giorgio Vasari (cfr. profilo…) colloca proprio nei primi decenni del XVI secolo il punto zenitale nella storia universale delle arti, individuando nelle figure di Raffaello, Leonardo e soprattutto Michelangelo (cfr. ant. Pag.), i fondatori e massimi esponenti della “grande Maniera” o “perfetta maniera moderna”. Leonardo da Vinci (1452-1519) realizza proprio nei primi anni del secolo il suo capolavoro, la Gioconda, nel quale porta a compimento il suo originale percorso di ricerca artistica. Egli, infatti, dopo le prime opere legate ai principi della pittura quattrocentesca, tende a staccarsi dalla tradizione classicista, concependo l’arte non come forma di rappresentazione, ma come forma di conoscenza creativa del reale. In tale ottica il disegno e la pittura, interpretati come strumenti d’indagine, contribuiscono al processo conoscitivo della natura con un linguaggio nuovo.
Nel ritratto della gentildonna, egli rinuncia all’imitazione della realtà e alla concezione spaziale tipica del classicismo rinascimentale, sostituendo alla linea-confine del disegno la tecnica dello sfumato (sottile gradazione di tinte e toni e di trapassi luce-ombra) e adottando la prospettiva aerea al posto della costruzione geometrica di quella lineare; un’atmosfera particolare regna, poi, nello sfondo paesaggistico, avvolto da un’opacità quasi surreale, ottenuta sempre grazie al chiaroscuro e alla velatura (stendere uno strato di colore molto diluito su uno più denso per avere un effetto di trasparenza). In Leonardo, quindi, si avvertono già i sintomi di quel cambiamento che di lì a poco si realizzerà con la nuova sensibilità manieristica.
1.3 Il manierismo
Il precipitare della situazione politica italiana a seguito delle invasioni di Francesi e Spagnoli, l’esplosione della Riforma luterana che scuote profondamente il ruolo egemone del papato, il traumatico sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi, l’avvento della Controriforma cattolica segnano il progressivo tramonto del sogno rinascimentale di una società umana, fondata sui valori dell’equilibrio, dell’ordine e della stabilità, così bene espressi dall’arte del primo quarto del secolo.
Le nuove generazioni di artisti vivono un senso di profondo disorientamento e di incertezza che le porta ad un rapporto conflittuale con il classicismo dei padri: i modelli classici, infatti, sono imitati, ma nello stesso tempo snaturati, non per mancanza di capacità artistiche, ma per la presenza di una sensibilità profondamente diversa. I principi estetici rinascimentali, nati dalla fiducia in un mondo ordinato e armonico, alieno da brutalità e violenza, non riflettono più la realtà storica; così artisti come Pontormo, Rosso Fiorentino, Giulio Romano, Tintoretto, il Parmigianino, Cellini, il Greco, Brüghel per ricordare solo i principali, tendono a dissolvere la regolarità, la simmetria e la solennità, codificate dall’arte rinascimentale, sostituendo alla norma universale caratteri più soggettivi e intellettualistici.
Il nuovo gusto estetico deforma le figure e le dimensioni, altera le proporzioni, accentua i toni cromatici; la concezione unitaria dello spazio rinascimentale scompare, la scena appare scomposta in più parti autonome fra loro e costruite al loro interno con regole differenti. Gli oggetti e le figure non sono più rappresentate secondo un rapporto logico fra proporzione dell’immagine e sua importanza nella raffigurazione. Elementi secondari balzano in primo piano, mentre il vero soggetto risulta rimpicciolito: l’effetto ottenuto è quello di particolari realistici inseriti in uno spazio irreale che, per certi versi, precorre il moderno surrealismo.
Gli artisti perseguono un’arte più soggettiva e libera dai codici iconografici. Tale volontà si esplicita, però, in forme assai diverse fra loro come la ricerca esasperata di un gusto raffinato ed elegante, uno spiritualismo inquieto e radicale o un intellettualismo che sconfina talvolta nella bizzarria.
Il termine “manierismo” che Vasari nelle sue Vite usa in accezione neutra per indicare lo stile proprio di un artista, assume solo nel Seicento un significato dispregiativo quando l’imitazione dei grandi maestri del Rinascimento, Raffaello e Michelangelo, viene vista come arte stereotipata, accademica, priva d’ispirazione e originalità, segno irreversibile di crisi.
Solo recentemente gli storici dell’arte hanno liberato il concetto di Manierismo da questo pregiudizio, conferendogli, al pari degli altri stili, la valenza di pura categoria storica. Lo stile manieristico rappresenta l’espressione artistica di una classe colta e cosmopolita, un gusto capace di affascinare per il suo carattere aulico e intellettualistico, le grandi corti italiane e, soprattutto, europee: quella medicea a Firenze, quella di Francesco I a Fontainebleau, quella di Filippo II a Madrid, di Rodolfo II a Praga e di Alberto V a Monaco. Come ha affermato il noto storico dell’arte A.Hauser “Il Manierismo delle corti, specie nella sua forma più tarda, è un generale movimento europeo – il primo grande stile internazionale dopo il gotico […] è la forma particolare in cui si diffondono in Europa le conquiste dell’arte italiana del Rinascimento”.
1.4 Michelangelo e l’arte manierista
Già nelle opere tarde di Raffaello, come la Trasfigurazione, si possono notare alcuni fermenti anticlassici in una certa incoerenza stilistica e nella mancanza di unità compositiva, ma è nella produzione di Michelangelo (1475-1564) che, anche per la lunga vita dell’artista, meglio si colgono i segnali dei cambiamenti intervenuti in campo artistico nel corso del Cinquecento.
Nel suo primo periodo, che termina verso il 1530, Michelangelo si rivela fedele sostenitore dei canoni artistici del pensiero rinascimentale, fornendone una splendida testimonianza negli affreschi della volta della Cappella Sistina (1508-12) e nella Pietà di San Pietro. Lo studio della natura, appreso nella bottega del Ghirlandaio, si coniuga con le teorie neoplatoniche sulla bellezza dell’universo visibile e, in particolare, del corpo umano come espressione della bellezza divina. Nelle figure della volta mondo pagano e cristiano si fondono: dal punto di vista iconografico le rappresentazioni si riconducono alle concezioni teologiche più erudite (forte era stata l’influenza sull’artista della predicazione di Savonarola), ma espresse da figure che richiamano personaggi e dei del mondo pagano. Emergono, tuttavia, caratteri nuovi, che allontanano l’arte michelangiolesca da quella coeva di Raffaello: l’impianto delle scene rivela una scelta trasgressiva nei confronti delle regole compositive rinascimentali, sia nel rifiuto della prospettiva e delle simmetrie sia nella disposizione dei corpi, che non si inseriscono armonicamente nelle strutture architettoniche e che non rispettano l’equilibrio compositivo, mostrandosi in ardite torsioni e difficili posture.
Il corpo umano appare rappresentato con un forte effetto plastico, quasi a tradire la predilezione di Michelangelo per la scultura; lo studio anatomico e il gigantismo energico delle corporature vogliono esaltare attraverso la bellezza atletica e vitale la grandezza morale dei personaggi. Essi, tuttavia, tradiscono nel loro vorticoso dinamismo un senso di inquietudine e di sofferenza: sono motivi che tradiscono i segni di una crisi, che si esprimerà in forma dirompente negli affreschi del Giudizio universale.
In questo affresco, dipinto sull’altare maggiore della Cappella Sistina per Clemente VII e Paolo III fra il 1534 e il 1541, sono evidenti i segni di un sostanziale cambiamento, specchio dei grandi rivolgimenti storici di quei tempi. La rappresentazione del corpo umano, che nella volta appare ancora ispirata ad un modello di bellezza ideale, ora esprime una sensibilità inquieta e tormentata, quella di un artista che, come testimonia anche la sua coeva produzione poetica, vive un rinnovato spirito di religiosità che ne influenza profondamente la visione del mondo.
I nudi appaiono contraddistinti da una fisicità greve, disarmonici e contorti nei loro movimenti, emblemi di un misticismo sempre più rigoroso che porta Michelangelo, negli ultimi anni, a concepire la corporeità e la materia in un’ottica quasi medioevale. Lo spazio è privo di unità, assenti qualsiasi divisione architettonica e qualsiasi simmetria, poco seguita anche la prospettiva. L’affresco viene costruito per contrapposizione di gruppi isolati, avanzati o arretrati a seconda della loro importanza: al centro campeggia la figura del Cristo giudice con la Vergine e i Santi, mentre negli spazi superiori ed inferiori sono rappresentati, rispettivamente, le schiere degli angeli e quelle dei risorti (i beati a destra, i dannati a sinistra).
1.5 Il manierismo veneto
Le manifestazioni del Manierismo tanto in Italia quanto in Europa presentano, pur nella persistenza di fattori unificanti, caratteri diversi a seconda dell’area geografica. Senza dubbio lontana dai modi della Maniera moderna tosco-romana, è la grande pittura veneta del Cinquecento che fiorisce in condizioni politiche più favorevoli, soprattutto a Venezia, divenuta nel XVI secolo fiorente centro della cultura umanistica e dell’editoria. La via veneziana all’arte, aperta da Giovanni Bellini, viene proseguita da Giorgione, Tiziano Vecellio (1488-1576), Tintoretto (1515-94), Paolo Veronese, Palma il Vecchio e si fonda su una concezione artistica e su una pratica pressoché antitetiche a quelle toscane e romane.
Già un preoccupato Vasari, nella sua raccolta delle Vite, nota come peculiarità dell’arte veneziana la scarsa rilevanza attribuita al disegno e alla forma plastica, strutture concettuali fondamentali di ogni arte e in particolare della pittura, e l’interesse esclusivo per i valori cromatici e luminosi. Ma la distanza, oltre che nelle tecniche, risiede anche nella differente concezione artistica delle due scuole: alla “maniera grande” degli eredi di Michelangelo e Raffaello, attenti a cogliere la bellezza ideale ed interiore della realtà, Tiziano e gli altri pittori veneti oppongono come fine dell’arte la bellezza direttamente colta dalla vita mondana e goduta nell’abbandono dei sensi, sui quali appunto agiscono, principalmente in pittura, il colore e la luce.
1.6 Arte e società nel secondo Cinquecento
Nella seconda metà del XVI secolo lo stile manierista diviene la lingua ufficiale del potere politico delle grandi corti e della Chiesa; si diffonde così la pratica della committenza di opere artistiche da parte di principi e famiglie nobili, desiderose di abbellire i saloni dei loro sontuosi palazzi. La produzione artistica, perciò, assume sempre più una destinazione privata, risultando fruibile da una ristretta cerchia di persone: significativo è il successo di generi come il ritratto (si pensi al Tiziano) o la statua equestre, destinati a celebrare i grandi personaggi dell’epoca.
La diffusione del mercato artistico tende ad allontanare progressivamente l’artista dall’opera d’arte, il cui destino, fin dal momento dell’ideazione, è quello di essere venduta al committente: si instaura in tal modo un rapporto ambiguo e complesso fra il potere e l’artista, il quale viene a dipendere quasi esclusivamente dal volere e dagli umori, spesso variabili, del signore committente che ne decide successo o sfortuna (come ben dimostra la vicenda di Cellini). Il rapporto fra mercato e opera d’arte diviene sempre più stretto come testimonia la nascita delle manifatture di Stato che, attraverso prodotti artistici di grande costo e raffinatezza, celebrano e divulgano la gloria del principe e i valori simbolici della dinastia e dello Stato: ne sono un esempio l’Arazzeria medicea e il fiorentino Opificio delle Pietre dure, presso cui lavorano specialisti provenienti da tutta Europa.
Nel secondo Cinquecento Firenze ritorna ad essere il centro propulsore dell’arte e lo “stile fiorentino” è conosciuto in tutta l’Europa (principale ambasciatore è lo stesso Cellini, a lungo attivo presso Francesco I). Nel capoluogo del Granducato mediceo, sotto Cosimo, Francesco e Ferdinando de’ Medici, sorgono alcuni istituzioni fondamentali per il destino dell’arte: l’Accademia, la critica d’arte e il museo. Nel 1563, per volontà di Giorgio Vasari e sotto gli auspici del vecchissimo Michelangelo, nasce L’Accademia della Arti del Disegno. Cinque anni dopo la stesso Vasari pubblica la seconda edizione delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, trattato monumentale destinato a diventare il modello della scienza storico-artistica; sempre a Firenze, nel 1581, sorge poi all’interno del complesso degli Uffizi, il primo museo moderno d’Europa.
1.7 Arte e Controriforma
La crisi dei valori della cultura artistica rinascimentale, segnata dall’affermarsi del manierismo, subisce un’ulteriore accelerazione a seguito del regime di austerità e rigorismo religioso instaurato dalla Controriforma cattolica. Con il Concilio di Trento (1545-1563) appare chiara la volontà del papato di estendere l’assolutismo ecclesiastico in Italia e di ritornare al quel controllo delle coscienze e della società che era stato tipico dell’epoca medioevale. Le conseguenze della Controriforma interessano tutti i rami della cultura e del pensiero, e quindi anche l’arte nelle sue varie manifestazioni.
Di fronte alle accuse dei protestanti che considerano l’arte sacra una forma di idolatria e la decorazione delle chiese una prova della mondanità in cui era caduta la chiesa cattolica romana, i teologi si preoccupano di limitare con rigidi principi l’ispirazione degli artisti, nella ferma convinzione che le immagini sacre, lungi dall’essere idolatre, costituiscono un incitamento alla devozione e un mezzo di salvezza.
La difesa dell’arte sacra contro l’iconoclastia riformista comporta, però, un irrigidimento delle regole che presiedono alla rappresentazione artistica al fine di garantire l’assoluta ortodossia. Le norme imposte sono numerose e capillari: devono essere eliminati dalle chiese tutti i dipinti profani, caratterizzati dalla presenza di elementi pagani, di richiami mitologici o classici, si proibisce la raffigurazione dei corpi nudi o di soggetti ritenuti moralmente sconvenienti (emblematico il caso delle figure michelangiolesche del Giudizio universale, censurate da papa Paolo IV che incarica Daniele da Volterra di ricoprirne con drappeggi le nudità).
L’artista, inoltre, deve rappresentare fedelmente il soggetto biblico senza ornare la scena con personaggi od oggetti creati dalla sua fantasia; i personaggi più ricorrenti devono essere raffigurati secondo canoni definiti, con attributi specifici ben chiari (gli angeli con le ali, i santi con l’aureola); il ricorso all’allegoria deve essere semplice e intelligibile.
Va comunque detto che sulla libertà espressiva degli artisti non gravarono tanto le norme sull’arte impartite in modo abbastanza vago e generale dal Concilio di Trento, quanto la loro interpretazione e rigida applicazione, imposta dai teorici della Controriforma in trattati come i Due dialoghi degli errori dei pittori (1564) del religioso Giovanni Andrea Gilio da Fabriano e il Discorso sulle immagini sacre e profane (1582) del cardinale bolognese Gabriele Paleotti.
Fonte: http://www.griseldaonline.it/formazione/testi_summer/rinascimento_tot.doc
Rinascimento
Rinascimento – riforma
(secoli XIV – XVI)
Il rinnovato interesse per la letteratura, l’arte e le opere dell’Antichità greco-romana che caratterizza il periodo del 14°-16° secoli con il nome di Rinascimento è nato per primo in Italia. Nella prospettiva dell’interesse letterario agli antichi, questo periodo coincide con L’ umanesimo, il cui padre è giudicato essere Petrarca.
Il Rinascimento ha visto affermarsi un vero cambiamento di mentalità, ma non è stato una rottura con il periodo precedente del Medioevo: l’amore per la letteratura greca e latina è sempre stata presente (vedi la copiatura del mss. nei monasteri, l’importanza della filosofia con Aristotele ecc.) e il periodo rinascimentale non è concepibile senza i germi presenti nel 13°s.: importanza data ad una logica razionale, il nominalismo, la ricerca del senso letterale del testo e una certa insofferenza nei confronti del dato tradizionale.
Il Rinascimento come processo di trasformazione culturale in Occidente matura poco a poco e dall’Italia si estende in tutta Europa a partire dal 15°s.
Quali sono le novità che ci interessano per l’approccio alla Bibbia ?
E’ l’emergenza di una nuova sensibilità storica. “E’ in questo periodo che sorge un chiaro senso del passato in quanto passato e dell’alterità del passato : la costatazione che il passato non soltanto è distante, ma anche differente dal presente . Ci si accorge, più che nel passato, attraverso lo studio della letteratura antica, quanto il mondo di allora era diverso culturalmente da quello di oggi. Per capire gli Antichi bisogna di conseguenza collocare i loro testi nell’ambiente storico di allora, leggerli nella loro lingua e nel modo come è stata usata da loro (e non proiettando in essa i nostri pensieri).
Questa nuova coscienza orienta i lavori degli studiosi.
- Si intensifica la ricerca dei mss., e la conoscenza delle lingue antiche (greco, ebraico), cercando di leggere i testi non più nel latino della Volgata in uso, ma nella loro lingua originale.
- La critica testuale diventa una scienza: il confronto tra i vari mss. per vedere le varianti, correggere passi spuri, per arrivare il più vicino possibile al testo originale.
- Prende importanza la filologia storica per capire il significato originale delle parole e dei testi.
- Si accentua l’attenzione al senso letterale, mantenendo l’allegoria e il simbolo soltanto se il senso letterale lo richiede.
Si inizia dunque a vedere la Scrittura non più soltanto come libri sacri perché ispirati, ma come opere letterarie al pari delle opere dell’Antichità.
Quest’approccio al testo biblico che guarda agli anacronismi e alle incoerenze interne al testo per ricostruire una possibile storia della composizione (datazione e autore) e distinguere delle stratificazioni, incomincia a portare i suoi frutti. L’attenzione si è prevalentemente concentrata sul Pentateuco : Mosè può essere soltanto parzialmente il suo autore. Nascono le prime ipotesi sulla complessa formazione del Pentateuco a partire da tradizioni preesistenti e una redazione finale postesilica.
Anche l’impatto tra la rivelazione biblica e le nuove scoperte scientifiche (in particolare il sistema copernicano) creano sconcerto, scomuniche ed esigenze di approfondimento su cos’è la verità biblica. Viene affermata l’esistenza di uomini prima dell’Adamo biblico(Isaac de la Peyrère).
Il caso di Galileo Galilei è emblematico .
Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564. Giovane si appassiona per Archimede e per le osservazioni di fisica. Insegna prima a Pisa; e dal 1592 a Padova per 18 anni dove poté godere della libertà di pensiero, sotto la protezione della Repubblica veneziana. Ma per debiti, deve cercare e trovare lavoro a Firenze (1610), dove però perde questa libertà. Si fa paladino della teoria copernicana e promotore di una politica della cultura. E’ là che, tra il 1613 e 1615 scrive le quattro “lettere copernicane” , la prima inviata all’amico Benedetto Castelli, poi , in modo più preciso, la lettera a Cristina, granduchessa di Lorena. La lettera prende spunto da una discussione che ebbe luogo a Pisa in occasione di un pranzo presso il granduca Cosimo II, a cui partecipò Castelli e Cristina di Lorena, madre di Cosimo II.
Per Galileo era evidente, fedele alla tradizione, che la Verità è una, quindi non ci può essere contraddizione tra Rivelazione biblica e scienza. Nonostante molti amici altolocati, Galileo incontra l’ostacolo dell’apparato ecclesiastico (soprattutto da parte dei Gesuiti).
Nel 1616 c’è la prima condanna del copernicanesimo, e Galileo è ufficialmente ammonito da Bellarmino. Seguono lunghe discussioni e polemiche. Galileo si indebolisce, diventa malato, subisce il processo del sant’Uffizio nel 1633 che lo obbliga ad abiurare. Viene confinato in una sua villa a Arceli vicino a Firenze. Dove continua i suoi lavori e studi scientifici, ormai conosciuti in tutta Europa, fino alla sua morte nel gennaio 1642.
Galileo è il testimone più conosciuto dell’impatto chele nuove scoperte scientifiche hanno in campo filosofico-teologico, e di conseguenza sul modo di capire la Bibbia.
Egli inoltre si dimostrò un geniale interprete della Scrittura. In conformità con l’insegnamento tradizionale , egli afferma a Castelli:
- “non poter mai la Scrittura sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed inviolabile verità”.
- altro criterio: la Scrittura e la natura non possono contraddirsi perché procedono ambedue da Dio. Ma diverso è il modo in cui si presenta la verità nella Bibbia e nella natura. La Scrittura si adatta “all’intendimento universale” e alla “capacità dei popoli rozzi e indisciplinati”; essa esprime “molte cose diverse in aspetto e quanto al significato delle parole dal vero assoluto”. La natura invece è “inesorabile e immutabile e nulla curante della capacità di intendere degli uomini”. Perciò, “nelle dispute naturali” le argomentazioni tratte dalla Scrittura devono “tenere l’ultimo luogo”. Se quindi ci sono testi contrari alla natura bisogna superare il senso letterale. La Scrittura infatti serve per ciò che è necessario alla salvezza .
Ci sono evidenti tensioni culturali in quell’epoca, ma viene fatto durante questo tempo un lavoro imano di ricerca filologica, di critica del testo d cui oggi beneficiamo. A ragione Dunn scrive che gli studiosi di oggi “devono sempre ricordare di stare sulle spalle di giganti” quando consultano dizionari biblici, lessici e concordanze.
Vediamo ora alcuni di questi giganti pionieri.
Lorenzo Valla (1405-1457) nasce e muore a Roma. Studi umanistici; professore di retorica a Pavia. Sotto il Papa Nicola V ritorna a Roma nel 1448, e là scrive le Adnotationes (1449), il testo del Nuovo Testamento a partire dai manoscritti greci e paragonati criticamente con la Volgata.
Erasmo scopre lo scritto a Bruxelles e lo pubblica nel 1505: è una pietra miliare della critica biblica. Scrive anche un’opera innovativa di filologia, Elegantiarum in 6 libri. Valla è consapevole della distanza del presente dall’antichità, e quindi capisce l’importanza della filologia per impadronirsi della letteratura antica. Per lui, il ritorno alla verità in campo religioso significa rifiutare le impalcature filosofico-teologiche della scolastica.
Valla è un precursore; le sue idee faranno strada in epoche posteriori.
Erasmo di Rotterdam (1466-1536), figlio illegittimo, riceve il nome di Gerardo di Gerardo; soltanto verso i 30 anni assume il nome di Erasmo (dal greco έρασμιος = amabile). Studia nel convento degli agostiniani a Steyn dove diventa sacerdote, e poi a Parigi, acquistando una vasta erudizione. Iniziano i suoi viaggi umanistici in Europa: Inghilterra (1499) e Italia dal 1506 al 1509. Ritorna in Inghilterra dal 1509 al 1514 e vi compone “L’Elogio della Follia” dedicato all’amico Tommaso Moro. Spinto da un amico di Basilea si dedica per 15 anni alla pubblicazione delle fonti sacre; nel 1516 pubblica l’edizione critica del Nuovo Testamento in greco con traduzione latina e apparato critico: fondamentale per le edizioni critiche successive. Scrive libri politici per guidare i re, e scritti a favore della pace. Il suo prestigio è enorme, ma egli declina tutti gli inviti di corte fattagli. Prima favorevole alla Riforma vista come avvento di pace, poi si oppone a Lutero: non accetta il pessimismo antropologico del riformatore, una offesa alla dignità dell’uomo; inoltre rimane fedele al principio della Chiesa: leggere la Scrittura all’interno della Tradizione e del Magistero.
Morirà a Basilea, deluso e vecchio.
Ugo van Groot detto Grotius (1583-1645), giurista olandese, promotore di un umanesimo razionale, precursore di Spinosa . pubblica dei commenti biblici con attenzione al senso letterale, storico-razionale. Scrive le Annotationes in novum testamentum, e poi le Annotationes in vetus testamentum a Parigi dal 1641 al 1645, commentando gli scritti biblici come si commentano i testi letterari dell’antichità. Non considera l’autore sacro come segretario dello Spirito santo, ma come un uomo personalmente dotato, che testimonia della rivelazione divina in modo storico.
Nella controversia sulla predestinazione, fa appello alla ragione per promuovere la tolleranza religiosa. Condannato al carcere a vita, riesce a fuggire in Francia.
Isaaco de la Peyrère (1594-1676), di origine francese, vive in Olanda. Egli sostiene l’idea dell’esistenza di uomini prima dell’Adamo biblico. Fa critica letteraria del Pentateuco. Sarà arrestato e deve ritrattare le sue idee. Siamo nel clima della Contro-Riforma .
Baruch Spinoza (1632-1677), di famiglia ebraica portoghese rifugiatasi in Olanda. Nasce ad Amsterdam; frequenta la scuola ebraica e poi studia scienze; finirà per farsi espellere dalla comunità ebraica. Studia il latino per poter leggere Descartes. A Leida, dove si trasferisce nel 1660, si specializza nella molatura delle lenti per strumenti ottici. Nel 1663 abita vicino all’Aia e ha per vicino di casa il grande fisico Huygens. Nel 1669 si trasferisce all’Aia e pubblica il Tractatus teologico-politicus (1670) , base della moderna esegesi biblica, e si attira l’ira e della Chiesa cattolica e dei protestanti. Muore di tubercolosi.
Per la prima volta viene presupposta la separazione tra fede e ragione. Quest’ultima esige la necessità di “liberare la mente da preconcetti teologici; e per non accettare alla leggera invenzioni umane come insegnamento divino dobbiamo parlare del vero metodo dell’interpretazione della Scrittura…In breve, dico, che il metodo dell’interpretazione della Scrittura non si distingue per nulla dai metodi dell’interpretazione della natura…così è necessario per l’interpretazione della Scrittura elaborare una fedele storia della Scrittura per,da questa, far derivare dai dati e principi sicuri, il significato degli autori della Scrittura come giusta conseguenza” .
Occorre cercare “ciò che i Profeti videro e udirono effettivamente , e non che cosa abbiamo voluto significare o rappresentare con i loro simboli” ; quindi rifiuto di una interpretazione simbolica. La chiarezza è raggiunta quando non ci si interessa a ciò che esula dall’evidenza del lume naturale “a meno che non si voglia parlare a caso o fare l’indovino”.
Spinosa afferma che l’ermeneutica biblica deve cercare il senso del testo e non la sua verità, perché la ragione non deve muoversi in un campo che non è il suo . L’ermeneutica biblica sarebbe dunque un’interpretazione non “ideologica” che si fonda e presuppone l’indipendenza di ragione e fede, in modo che nessuna delle due debba essere considerata ancella dell’altra. Insomma, lo Spirito santo non centra con la retta comprensione del testo biblico ! Non ci può essere per Spinosa che un solo senso in una frase, anche se queste senso può essere incerto.
Spinoza è il rappresentante estremo di un cammino di cui le pietre miliari sono:
- il nominalismo come epistemologia maturata nella universitas medievale a partire dall’Aristotele di Averroès.
- il pragmatismo che oppone il concetto al simbolo.
Il metodo storico-critico, dopo Spinosa, attenuerà gli estremismi del filosofo ebreo, ma rimarrà segnato dai dualismi originari: dualismo tra filologia (ciò che si può raggiungere col solo lume della ragione) e teologia; dualismo tra senso storico e senso spirituale; dualismo tra fede e ragione (segna profondamente l’epistemologia moderna in quanto esclude previamente la fede dall’orizzonte critico); dualismo del cogito che, ancorato sull’illusoria evidenza del soggetto pensante, ha ridotto a techne l’unica possibilità di rapportarsi all’essere . Ora ciò che sta all’origine e quindi è primo nel testo biblico è l’esperienza divina: l’ispirazione; in essa si inserisce – a livello secondo – il lavoro critico dell’interprete. E dunque ciò che è all’origine non è il momento critico dell’interprete, bensì il darsi fondativi dell’autocomunicazione di Dio, testimoniata da soggetti umani e attestata in Scrittura che racconta in linguaggio umano l’indicibile di Dio. L’evento originario non può essere raggiunto direttamente per via critica, la quale deve limitarsi a verificare ciò che il testimone afferma della sua esperienza attestata dagli scritti, scrive ancora Borgonovo . La grande svolta rispetto al Medioevo è quindi che la Bibbia non viene più avvicinata con l’occhio della fede, ma a partire da conoscenze acquisite al di fuori delle realtà della fede.
Nella sua esegesi concreta, Spinoza tocca la questione dell’origine del Pentateuco, e conclude che soltanto Dt 11-17 può essere attribuito a Mosè. Esdra è l’autore di tutti i libri da Gn a 2 Re: risale al periodo maccabeano, così come i libri di Daniele, Neemia, Ester e Cronache.
Richard Simon (1638-1712) è il vero pioniere dell’esegesi biblica moderna. Nasce a Dieppe. A Parigi entra nella comunità sacerdotale dell’Oratorio dove fa la conoscenza di Isaac de la Peyrère. Diventa sacerdote nel 1670 e lo stesso anno difende gli Ebrei di Metz dall’accusa di omicidio rituale. La sua grande opera è l’ Histoire critique du Vieux Testament (1678) che scatena una forte polemica: il Pentateuco sarebbe stato redatto dopo l’Esilio sulla base di tradizioni raccolte e messe per iscritte da scribi ufficiali. In corso di stampa, viene a saperlo il grande predicatore e vescovo di Meaux, Bossuet, che mette in moto la censura e fa distruggere i volumi usciti finora. Simon deve lasciare l’Oratorio. Nel 1680 l’opera sarà pubblicata ad Amsterdam. Nel 1689 esce Histoire critique du texte du Nouveau Testament, e l’anno successivo Histoire critique des versions du Nouveau Testament. Nel 1693, Histoire critique des principeaux commentateurs du Nouveau Testament. Egli critica fortemente Agostino, padre ispiratore del giansenismo. Ma Bossuet vigila, e tutti questi lavori sono messi all’Indice.
Nella critica del Nuovo Testamento, Simon mette in dubbio la finale lunga di Mc , l’origine paolina della lettera agli Ebrei. Egli ha coscienza delle varianti che il testo subisce lungo i secoli, che non permettono più di avere l’autentico testo originale.
Simon passerà il resto della sua esistenza in mezzo a polemiche. Le sue risposte sono mordenti. Si riconosce in lui una grande erudizione e capacità di valutazione critica. Altri avevano contestata l’origine mosaica del Pentateuco, ma ciò che suscitava paura era “l’impostazione globale e sistematica del problema che sembra far traballare la Bibbia come fonte e fondamento delle verità religiose tradizionali” . Eppure Simon si è opposto a Spinoza sulla questione dell’autorità della Scrittura: i libri sacri sono scritti da veri profeti guidati dallo Spirito santo; essi non dipendono dalla individualizzazione o meno dell’autore storico.
Simon è restato un solitario, senza discepoli. Muore a Dieppe dove si è ritirato. Sarà rivalutato nel 19°s in Germania.
LA RIFORMA (16°S.)
La Riforma è da situare all’interno del contesto storico dell’Umanesimo e corrisponde ad una forte crisi religiosa che travagliò l’Europa del 16°s. La Riforma è da capire come reazione agli abusi presenti nelle istituzioni della Chiesa (la teocrazia papale), acutizzata dalla coscienza che la Chiesa attuale non è più fedele alla Chiesa degli apostoli e dei Padri. Si sente ovunque l’esigenza di una “riforma” e un ritorno alla purezza originaria.
La Riforma è ancora un movimento concettualmente legato al Medioevo, ma dentro la nuova mentalità che si sta formando. Il movimento della riforma non era inizialmente voluto come rottura con la Chiesa gerarchica; la rottura avvenne per circostanze storiche di incomprensione.
Martin Lutero (1483-1546). Nasce a Eisleben (Türingen). A Erfurt dove studiava diritto, dopo una esperienza traumatica (un fulmine gli cade vicino) entra in convento di Agostiniani e diventa sacerdote nel 1507. L’anno successivo è inviato nel convento di Wittenberg dove insegna filosofia e dal 1513 teologia per oltre 30 anni. Nel 1515/16: lezioni sulla lettera ai Romani. Nel 1517 scoppia la questione delle indulgenze che sarà all’origine della Riforma (le 95 tesi affissi a Wittenberg). In agosto 1518 è dichiarato eretico da Roma. Nel ottobre della stesso anno arriva ad Augsburg: colloqui tra sordi con Caetano. Il commento alla lettera ai galati risale al 1519,anno in cui c’è la disputa sul primato del Papa. Libri bruciati, scomunica nel 1520; alla dieta di Worms (1521) dichiarato eretico. Trova rifugio nel castello di Wartberg dove inizia la traduzione del Nuovo Testamento in tedesco; lo pubblica a Wittenberg nel settembre 1522: un capolavoro (si servì della Volgata e dell’edizione greca di Erasmo). Nel 1530, in risposta alla polemica suscitata dalla sua traduzione, scrive una lettera nella quale dice che non si deve tradurre alla lettera, ma scrivere a tradurre come “parlano i bambini nei vicoli, le donne in casa, gli uomini al mercato”. Nel 1534 esce la traduzione in tedesco dell’intera Bibbia.
Muore il 18 febbraio a Eisleben dove si trova di passaggio. E’ sepolto nella chiesa di Wittenberg.
L’ermeneutica di Lutero: rifiuto del Magistero nell’interpretazione della Scrittura, visto che la Chiesa sbaglia. “Non do fede né al Papa né ai concili soli, poiché è chiaro che si sono spesso sbagliati…la mia coscienza è prigioniera delle parole di Dio” . Lutero tuttavia non rifiuta la Tradizione(fede apostolica del Credo, la dottrina trinitaria), ma la fonda sulla Bibbia, “perché non è scritto in modo più chiaro su la creazione, su Cristo nato da Maria, che ha sofferto, è morto e risorto, e tutto quello che crediamo, non è scritto così bene altrove come nella Bibbia”.
Rifiuta l’allegorismo dei Padri,e vede nel senso letterale il criterio di ogni tradizione. Nello spiegare il significato originale si trova e la finalità e il compimento di ogni esegesi. Il senso spirituale è da scoprire nel senso letterale della Scrittura.
La comprensione del testo, poi, è opera dello Spirito santo: “L’unico Maestro capace di insegnare la Parola di Dio, è l’autore stesso di questa Parola”. Egli si comunica nella Parola e suscita la fede. “Lo Spirito santo adopera la parola esterna (lettera, legge) per operare sotto forma di luce interiore come vangelo nei cuori dell’uomo” . Di conseguenza lo Spirito santo non opera in modo diretto accanto alla Parola, ma sempre in essa (nella Scrittura e nella predicazione): quindi lo Spirito santo non c’è nel Magistero. La Chiesa guidata dallo Spirito santo è l’assemblea sotto la Parola. Inoltre, l’affermazione tradizionale di leggere la Scrittura nel medesimo Spirito nel quale fu scritta, per Lutero viene trasformata: lo Spirito è presente nella Parola stessa della Scrittura e non altrove.
Quindi il grande principio della sola Scriptura: la Scrittura interpreta se stessa, essa può essere compresa da se stessa (senza ricorrere a fattori esteriori), e può correggere da sola la sua falsa comprensione. Lutero rovescia il baricentro dell’interpretazione biblica: non è più la Chiesa insegnante interpreta, ma la Scrittura stessa e la predicazione ad essa legata: la Scrittura interpreta se stessa.
Non riconoscendo nessuna autorità accanto e a servizio della Scrittura, se non la Scrittura stessa, cioè ciò che lo Spirito santo suggerisce mediante la Parola al singolo, diventa necessario trovare un valido criterio di interpretazione all’interno stesso della Scrittura: un centro della Scrittura dal quale interpretare il tutto . Il “centro” della Scrittura diventa dunque la norma interpretativa di essa. Ma qual è il centro ? Lutero lo capì quasi come esperienza mistica, quando si illuminò il senso di Rm 1,16-17: la giustizia di Dio non significa una giustizia remunerativa o retributiva, ma l’essere reso giusto gratuitamente mediante la fede. Quindi il centro della Scrittura è il Vangelo di Cristo come giustificazione del peccatore mediante la fede . Ecco allora la domanda-guida da rivolgere ad ogni testo della Bibbia: quanto orienta a Cristo ? Quando orienta a Cristo è Vangelo; quando non orienta a Cristo è legge: Vangelo-legge è il criterio da utilizzare nell’interpretare la Scrittura. Dove un libro biblico non orienta a Cristo, regna la legge, e questa deve portare a disperare di sé e a rifugiarsi in Cristo.
Un tale criterio tende ad appiattire le differenze tra le varie teologie del Nuovo Testamento, e a creare una gerarchia tra i libri a secondo della loro esplicita o meno relazione a Cristo: i migliori in ordine di importanza sono: il vangelo di Gv , Paolo, la 1 Pt.
E’ chiaro che il ricorso di Lutero alla sola Scrittura difficilmente riesce a superare il relativismo e soggettivismo dell’interpretazione di essa. Ma è anche vero che, rifiutando il Magistero, ha aperto allo studio esegetico uno spazio di libertà che mancherà per lungo tempo alla Chiesa cattolica.
Jean Calvin (1509 – 1564) nasce a Noyon (Oise), fa studi di giurisdizione a Parigi dove si inserisce nel mondo della cultura umanistica. Ma il clima di repressione lo spinge fuori dalla Francia, a Strasburgo poi a Basilea dove, nel 1536, scrive la sua Christianae religionis Institutio.
Passando per Ginevra viene fermato da Farel che gli chiede di spiegare il Vangelo al popolo. Si impegna a formare una comunità nella linea dei suoi nuovi principi. Dopo due anni, assieme a Farel, viene cacciato da Ginevra. Si trasferisce a Strasburgo per alcuni anni che saranno determinanti per la sua evoluzione culturale e spirituale: trova una città dove la Riforma è riuscita senza rompere l’equilibrio tra potere politico e organizzazione ecclesiastica; incontra Bucer, riformatore moderato di Strasburgo (nato a Séléstat) che allarga il suo orizzonte con lo studio della patristica e con esperienze nel campo ecclesiastico che gli permisero di attuare la riforma a Ginevra; e infine egli incontra a Strasburgo i maggiori esponenti del pensiero della Riforma, in particolare Melantone. Torna a Ginevra nel 1541, attua la sua riforma, e muore nel 1564.
Calvino può essere considerato come il migliore esegeta della Riforma; è discepolo di Lutero, come di Zwingli e di Bucer (da quest’ultimo eredita la viva coscienza ecclesiastica e la sensibilità liturgica, con la musica e il canto dei salmi nel culto); da Zwingli la sua visione della res publica come una armonia di funzioni orientate al bene comune; da Lutero la teologia della giustificazione, della Scriptura sola.
Ginevra diventa una sorta di teocrazia: il magistrato civile così come il predicatore sono ambedue sottomessi alla volontà di Dio come istanza suprema, anche se la disciplina ecclesiastica è di competenza della chiesa: ciò creò lo scontro con il potere politico. Per la disciplina, istituì il “Concistorio”, comitato incaricato di controllare la vita cittadina sotto il profilo etico e del comportamento morale.
L’originalità teologica di Calvino è di porre l’accento non sulla questione della salvezza personale (come Lutero e il Medioevo), ma sull’amore per Dio. Egli afferma che l’uomo vive non per salvarsi (in primo luogo) ma per servire Dio: soli Deo gloria. Ma vivere per Dio richiede anzitutto la Sua conoscenza e la conoscenza di sé, e si traduce in pratica nella vita etica. Ora la retta conoscenza di Dio è possibile solo mediante una Rivelazione consegnata nella Scrittura. Interpretare la Scrittura diventa il compito primario della teologia. L’interpretazione deve essere essenziale e utilizzare tutti i mezzi a disposizione per arrivare al senso letterale. Quindi rifiuto dell’allegorismo e simbolismo, ma riconosce la tipologia, perché il criterio di interpretazione, per Calvino, è la relazione promessa-compimento (non Vangelo – legge come per Lutero).
Più che mai con Calvino nasce una esegesi che fa vivere la Chiesa come Chiesa della Parola. Infatti dallo studio di essa non deriva una conoscenza intellettualistica, ma un coinvolgimento esistenziale. E’ importante per Calvino avvicinarsi alla Scrittura con umiltà ma anche in comunione fraterna, di modo che i fratelli attorno al testo possano reciprocamente consigliarsi, correggersi, esigere. L’esegesi deve tendere all’edificazione della Chiesa, e alla santificazione della vita di ognuno, nel quotidiano e nel secolare.
Il movimento della Riforma non ha creato nuovi metodi di esegesi, ma ha rafforzato la concentrazione sul senso letterale del testo dal quale deve uscire la sua intenzione teologica. L’esegeta prende importanza e diventa anche filologo, storico e teologo.
la contro – riforma.
Il concilio di Trento dà l’avvio alla contro-Riforma, nel nostro caso, in particolare con i due decreti del 8 aprile 1548:
- De libris sacri et de traditionibus recipiendis;
- De Vulgata editione Bibliorum et de modo interpretandi S. Scripturam.
Per assicurare una traduzione unica e sicura, viene promossa una nuova edizione critica della Volgata e che sarà chiamata “Clementina” (esce fine 16°s.). Già poco prima ci fu l’edizione critica della LXX basata sul Codice Vaticanus (B): sarà la traduzione ufficiale.
Così viene congelata la critica testuale e il ricorso al testo originale.
Il concilio è anche stato preoccupato di disciplinare l’interpretazione della Bibbia nella fedeltà all’insegnamento scolastico tradizionale, ciò portò al controllo dello studio biblico nei nuovi seminari e ad una acutizzarsi della censura con la conseguenza di ostacolare un confronto utile con la nuova cultura europea.
Insomma questi decreti hanno paralizzato per secoli la ricerca biblica nella Chiesa cattolica.
bibliografia.
Berger Klaus, Ermeneutica del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001.
Borgonovo Gianantonio¸ Una proposta di rilettura dell’ispirazione biblica, in L’Interpretazione delle Bibbia nella Chiesa, “Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della fede”, Roma sett. 1999, Libreria ed. Vaticana 2001.
Dunn James D.G., Gli albori del Cristianesimo 1, “Introduzione allo studio della Bibbia. Supplementi 29”,Paideia , Brescia 2006.
Fusco Vittorio, La ricerca del Gesù storico, in La Parola di Dio cresceva (At 12,24), in onore di C.M. Martini, EDB 1998, pp.487ss.
Grelot Pierre, La Bible. Parole de Dieu, Desclée, Paris 1965.
Guillemette/Brisebois, Introduction aux méthodes historico-critiques, Fides, Quebec 1987.
Mannucci Valerio, Bibbia come Parola di Dio, Queriniana, Brescia 19855.
Mura Gaspare, Ermeneutica e verità, Città Nuova, Roma 1990.
Toinet Paul, Pour une théologie de l’exégèse, FAC-ed., 1983
AA.VV. La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, EDB 1992.
Lutero dimentica che la Scrittura è nata in seno alla Chiesa, ne è la sua identità, e quindi non può essere interpretata al di fuori di essa come comunione vissuta, in modo individuale e fluttuante.
Ma con quale criterio è riconosciuto come centro ? E’ un principio relativo: si discute tra teologi protestanti anche oggi. La dottrina della giustificazione non appare ovunque: né la morte espiatrice né la giustificazione del peccatore sono ovunque dimostrabili. Sulla base della stessa Scrittura è difficile riconoscere ciò che è importante e ciò che lo è meno. Bisogna prestare la stessa obbedienza al portare il velo in chiesa (1 Cor 11) e all’amore reciproco ?
fonte: http://images.gazedeguzman.multiply.multiplycontent.com/attachment/0/Ss8VQwoKCEUAAAH@VQ81/Rinascimento.doc?nmid=288880837
Rinascimento
L’umanesimo e il rinascimento (§8)
Sono due movimenti italiani incominciati alla fine del XIV secolo con la scoperta dell’America.
Premessa
Con il tema delle esplorazioni geografiche, possiamo notare l’ampliamento dell’orizzonte europeo, che si sta fortemente ingrandendo. Quest’espansione segna un fortissimo cambiamento rispetto al Medioevo. Infatti si conoscevano mondi lontani, ma solo indirettamente tramite gli indiani e il Mediterraneo. Dalla fine del 1400 l’orizzonte si allarga e apre le porte dell’età moderna (pag. 190), e cioè a partire dalla scoperta dell’America.
L’età moderna
- ampliamento degli spazi geografici
- umanesimo e rinascimento, che sono movimenti culturali che segnano il superamento del Medioevo
L’umanesimo
Le prime tracce di questo movimento si riscontrano in letterati medievali (pag. 158). Il primo umanista potrebbe essere Franco Petrarca (1304-1374). Dunque è possibile stabilire la nascita dell’umanesimo tra il ‘330 e il ‘500.
Umanesimo = usato già nella fine del 1300 (umani littaere), deriva dagli studi della lingua e cultura greca e latina (civiltà classiche). Quindi si può definire come lo studio delle culture classiche
Il Medioevo ha ignorato le culture classiche?
Assolutamente no! Il Medioevo è stato fondamentale per le culture classiche, perché è stato in questo periodo che hanno avuto luogo le trascrizioni su carta di esse, e portando dunque alla loro conservazione e alla possibilità di trasmetterle.
I medievali hanno ricorso in particolare al diritto romano e dunque classico, ma non hanno mai indagato sulle loro origini. Infatti l’interesse verso il classico era prettamente teologico e quindi l’attenzione era rivolta alla religione, allo studio del divino.
Era dunque chiaro che la cultura classica non è cristiana, essendo nata prima della nascita di Cristo, e ha una visione lontanissima da quella cristiana, e dunque non poteva dare molto al Medioevo.
Gli umanisti, che sono i cultori del classicismo, hanno dunque a disposizione le opere classiche grazie alla conservazione del Medioevo.
Perché nasce l’interesse per la cultura classica?
L’interesse viene dalla curiosità. Gli umanisti si chiedono cosa ci ha dato la cultura classica e cos’ha ancora da offrire e soprattutto se ha ancora importanza. Così facendo si accorgono però che i testi che hanno sotto mano sono pieni di errori, che dipendono dagli errori umani, ma non solo. Il Medioevo conosceva bene il latino, ma quello dai primi secoli intorno all’anno 0 (nascita di Cristo), che è diverso da quello del 1200 (una lingua muta, in disuso).
I problemi sono dunque linguistici, di sintassi e dunque anche il significato poteva cambiare.
La filologia
Filologia = scienza che consente di ricostruire testi il più possibile vicini agli originali, sanando (nei limiti del possibile) gli errori, le aggiunte, le modifiche, le omissioni che si erano accumulate nei secoli attraverso le successive trascrizioni
Gli umanisti risolvono il problema degli errori umani grazie alla filologia, risanando i testi e riuscendo a studiarli.
Il fondatore dell’umanesimo è Lorenzo Valla (1405-1457), che era legato alla Donazione di Costantino, documento risalente al V secolo con il quale il papa voleva affermare il suo potere politico.
La dignità dell’uomo
La cultura classica valorizza molto la dignità dell’uomo, rendendola un valore universale e cioè senza tempo e senza spazio. Si scopre la diversità tra l’uomo e il resto del mondo (animale e fisico): l’uomo è l’unico ad essere razionale: non agisce solo d’istinto, ma ha una capacità supplementare che lo aiuta a controllare le altre (la ragione), ed è l’unico che ne è in grado. La dignità infatti sta nella sua razionalità.
La cultura classica dunque risulta essere di grande interesse e porta a porsi numerose domande e ad agire in un nuovo modo.
Al giorno d’oggi la dignità vale come concetto di diritti.
Il rinascimento (8.4)
E’ il movimento culturale in cui si ha il trionfo dell’ingegno e le sue origini sono collocabili, con poca precisione, tra il 1450 e il 1550.
Il Rinascimento è simbolo di nascita di molte scienze, della loro moltiplicazione. L’uomo è un elemento di grande complessità, perché vive in un ambiente che conosce poco. Nel 1400 comincia a scoprire la necessità di sapere meglio ciò che lo circonda: scoperte geografiche, astrologia (concetto di cielo come universo fisico da conoscere). E’ necessario avere un metodo: quello sperimentale.
La scienza
Grazie al metodo sperimentale, Copernico (1473-1543) da origine alla teoria eliocentrica, screditando quella geocentrica.
L’anatomia
Sotto al punto di vista biologico, si sono fatti grandi passi avanti. Un grande medico fu Andrea Vesalio (1514-1564) con cui nasce ciò che oggi chiamiamo anatomia.
Il rapporto tra uomo e natura
Questo rapporto è il punto focale del periodo in cui ci troviamo, il motivo per cui si è curiosi.
La natura è bellezza (aspetto estetico) e quindi è ispirazione per la creatività umana, elemento di elevazione. Ma è anche una legge matematica, scientifica, da studiare, su cui indagare e anche avere la possibilità di servirsene.
L’architettura
La bellezza si nota soprattutto nelle città rinascimentali e l’architettura estremamente particolare è in ottimo rapporto con la natura, perché l’uomo si è posto dei limiti nel costruire: l’architettura non deve mai assolutamente deturpare la natura, il loro equilibrio non va mai rotto.
Il brevetto
L’ufficio del brevetto è stato introdotto alla metà del 1500 a Venezia. Ci fa capire quanta importanza viene data alla scienza pratica, tutelando l’inventore e l’invenzione.
La stampa a caratteri mobili (8.9)
Nei corso di questi anni rinascimentali è stata perfezionata. E’ una rivoluzione della comunicazione, perché permette la riproduzione di un testo quasi all’infinito. Il primo libro stampato è ovviamente la Bibbia.
La stampa facilita moltissimo la propaganda, lo studio e molte altre attività. Un esempio è la grande propaganda che è stata fatta per la riforma di Martin Lutero.
Nascono quindi nuovi mestieri e una nuova produzione artigianale, una nuova attività economica. La riproducibilità permette anche di mantenere la cultura classica.
Umanesimo, Rinascimento e religione (8.8)
Come già sappiamo, la cultura medievale è fortemente religiosa, e quindi è un popolo molto legato a queste tradizioni. Come età d’oro viene considerata quella pre-cristiana, e quindi pagana. La cultura pagana non nega il ruolo fondamentale della religione, che diventa un tema centrale.
L’Umanesimo cristiano
E’ una corrente che fa del problema religioso un punto centrale. Ha due esponenti intellettuali: Erasmo da Rotterdam, fiammingo, e Tommaso Moro, inglese.
Erasmo da Rotterdam
Era un cristiano critico. Rivolge alla chiesa una critica, mettendo in evidenza i suoi aspetti negativi, che porteranno alla riforma protestante. E’ sì un critico, ma le sue osservazioni sono rivolte con molta ironia.
L’Elogio alla Follia
Opera più famosa di Erasmo da Rotterdam, in cui l’io narratore è la follia, che traduce il pensiero d’Erasmo.
Il Lamento della Pace (1515-1516)
E’ un libricino, sempre di Erasmo da Rotterdam, in cui l’autore si nasconde dietro alle parole della pace, che si lamenta di non essere presa in considerazione. E’ una critica rivolta ai potenti, come il re di Francia, l’imperatore,…
Secondo Erasmo, gli uomini hanno un motivo in più per stare in pace: Dio. Si scaglia contro coloro che fanno la guerra in nome di Dio o in nome della legge.
Erasmo infatti è uno dei fautori della riforma della chiesa, di cui ha denunciato la corruzione, la mondanizzazione e auspica una nuova religiosità, più privata. Vuole un contatto più diretto tra il fedele e Dio, più semplice, più vicina allo spirito iniziale della prima Chiesa cristiana. Apprezza dunque i primi mistici: i monaci.
Quando Lutero si scontrerà con la chiesa con violenza, inizialmente verrà sostenuto da Erasmo, ma poi si separerà. Critica la Chiesa ma non ne esce.
Fonte: http://www.myskarlet.altervista.org/Scuola/Umanesimo%20e%20rinascimento%20(storia).doc
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