Risorgimento italiano

 


 

Risorgimento italiano

 

IL RISORGIMENTO ITALIANO

Cosa fu il Risorgimento?
Per Risorgimento si intende quel processo di trasformazione della penisola italiana in uno stato unitario e, nello stesso tempo, il periodo storico che va dal 1815, fine del Congresso di Vienna, al marzo 1861, quando l’unità d’Italia fu ufficialmente proclamata. Non tutti gli storici sono d’accordo con questa datazione, per alcuni l’inizio sarebbe da fissare al 1846 (quando la diffusione delle idee risorgimentali divenne assai vasta), per altri la fine sarebbe da individuare nel 1870, quando Roma fu annessa e assurse a capitale d’Italia.
L’idea di un’unità culturale italiana è rintracciabile sin dal ‘300, quando Dante e Petrarca vagheggiarono un ideale poetico di ciò che l’Italia unita avrebbe potuto essere. Più tardi Machiavelli si augurò che un liberatore sottraesse l’Italia al dominio straniero.
Nel periodo illuminista, lo storico Pietro Giannone vide nel papa un formidabile ostacolo sulle vie del cambiamento e denunciò quella che egli considerava un’eccessiva ingerenza della Chiesa nella politica. Antonio Genovesi, professore di economia politica a Napoli, riconobbe nel frazionamento politico un ostacolo al progresso economico italiano. In generale, tuttavia, gli uomini dell’illuminismo non credevano nell’unificazione della penisola.
Un’influenza decisiva sulla nascita del risorgimento la ebbero le occupazioni napoleoniche dopo il 1796. Il sistema feudale fu distrutto e le idee della rivoluzione francese giunsero in Italia. Napoleone creò un regno dell’Italia settentrionale che, in seguito, avrebbe funzionato da esempio.
Così nei decenni successivi al crollo del sistema napoleonico, iniziò a diffondersi tra le classi più colte, gli studenti e l’alta borghesia delle città italiane, un sentimento di nazionalità. I romanzi storici di Scott appassionavano i lettori di allora; quel modello venne adottato da Manzoni, Guerrazzi, D’Azeglio e altri che spinsero i lettori alla creazione di una coscienza storica. I vantaggi dell’Italia unita sarebbero stati molto graditi alla borghesia del tempo, giacché le differenze di pesi, di misure e di sistemi monetari rendevano il commercio estremamente difficoltoso. I contadini analfabeti (circa l’80% della popolazione del tempo) e le frange marginali della società, almeno in questa fase iniziale, rimasero tagliati fuori dal processo. In fondo i problemi dei contadini erano altri: la fame di terra e il superamento della miseria.
Il trattato del 1815 sancì il dominio austriaco sull’Italia, diretto nel caso del lombardo-veneto, indiretto nei casi della Toscana, di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza. A sud governavano i Borboni, alleati degli spagnoli. Il papa possedeva uno stato ampio (Lazio, Umbria, Marche, Romagna) ma molto arretrato. Solo il regno di Sardegna (Savoia, Piemonte, Liguria, Sardegna, Nizza) possedeva un sufficiente grado di indipendenza.
In questo periodo nacquero in Italia alcune associazioni che miravano alla riunificazione e alla liberazione della penisola. Tra le più importanti ricordiamo la Carboneria e la Giovine Italia. La prima era un’associazione segreta, diffusa nel centro-sud della penisola, ed era organizzata in senso elitario; solo i maestri costituiti erano al corrente di tutti gli obiettivi della società. La carboneria intendeva lottare contro l’occupazione straniera ma non era depositaria di un idea univoca, infatti al suo interno circolavano idee diverse (democrazia, socialismo, ecc.). Tra i moti carbonari (tutti falliti) ricordiamo quello di Napoli del 1820/21 e quello di Modena del 1831 organizzato da Ciro Menotti.
Anche Giuseppe Mazzini, il principale teorico della rivoluzione nazionale, fu inizialmente carbonaro, ma in seguito si sarebbe distaccato dalla carboneria perché contrario alla segretezza e alla elitarietà dell’organizzazione. Dopo questa separazione Mazzini, per portar avanti il suo ideale, fondò una nuova società: la Giovine Italia che, a differenza della carboneria, non era segreta ma aperta a tutti coloro che avessero voluto partecipare. Secondo Mazzini la pace mondiale dipendeva dalla riunione nelle stesse frontiere di quei popoli che Dio aveva creato. I mazziniani diffondevano i loro ideali tramite giornali e opuscoli che stampavano e distribuivano segretamente. L’Italia avrebbe dovuto essere riunita in un unico stato repubblicano grazie all’azione rivoluzionaria del popolo.
Altre due figure molto importanti per la causa italiana furono Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo. Il primo che scrisse l’opera del 1843 “Del primato morale e civile e degli italiani” sosteneva che i sovrani italiani avrebbero dovuto accordarsi e creare una federazione di stati con a capo il papa. La sua dottrina venne così classificata come “neoguelfismo”. Per Gioberti gli Italiani dovevano considerarsi un gran popolo, malgrado tutte le divisioni. Egli intendeva fornire un programma alternativo alle dottrine democratiche e rivoluzionarie di Mazzini che i moderati accolsero volentieri. Invece Balbo, che sarebbe poi divenuto il primo presidente del governo piemontese nel ‘48, nell’opera del 1844 “Delle Speranze d’Italia” era convinto che gli italiani non avrebbero mai rinunciato di sacrificare i loro capoluoghi di provincia per una capitale nazionale. Egli sperava che l’unità federativa dell’Italia si potesse ottenere estendendo il dominio dei Savoia sul nord Italia. Gli austriaci avrebbero dovuto cedere i loro domini italiani in cambio di possedimenti nell’Europa orientale strappati al claudicante Impero ottomano.
Il lombardo Carlo Cattaneo pur considerando più importante l’ottenimento delle libertà interne piuttosto che l’indipendenza da una potenza straniera, era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della Svizzera. Egli diffidava dei Savoia che governavano il Piemonte con metodi aristocratici e preteschi. Le sue idee federaliste, sostenute nella rivista mensile “Il Politecnico, erano improntate ad un forte liberalismo e laicismo.

Scoppiano le rivoluzioni: 1848-1849
I fermenti rivoluzionari di carattere nazionale, liberale e democratico esplodono nel ‘48. Precorritrice di queste rivoluzioni è la Sicilia, dove a Gennaio, i liberali siciliani, mettono in fuga le truppe borboniche e formano un governo provvisorio. Il fenomeno assunse carattere europeo quando i francesi, che, esasperati per la grave crisi economica dovuta ad un periodo di grande carestia iniziato nel ‘46 a causa della malattia della patata, costringono Filippo D’Orlèans a lasciare il trono e proclamano la Repubblica. La malattia della patata ebbe un esito drammatico in molte zone d’Europa, ma specialmente in Irlanda. La popolazione irlandese tra il 1780 e il 1841, proprio grazie alla diffusione della patata, era cresciuta da due a nove milioni di persone. L’isola era, quindi, uno dei paesi più densamente popolati al mondo. A partire dal 1845 iniziò la proliferazione di un fungo che faceva marcire una patata così come un esercito di batteri divorerebbe un uomo morto. Nel 1851 la carestia e le malattie favorite dalla malnutrizione avevano seppellito due milioni di irlandesi, spedendone altri due milioni oltremare. (A. Nikiforuk, “Il quarto cavaliere”, ed. Mondadori)
Anche a Venezia, insorta il 17 Marzo contro l'occupante austriaco, viene restaurata la Repubblica. Inoltre, tra il 18 e il 22 Marzo, alla notizia delle insurrezioni di Vienna, Praga e Bucarest, esplode la rabbia dei Milanesi, che, dopo cinque giornate di lotta, costringono le truppe austriache a ritirarsi nelle fortezze del cosiddetto quadrilatero (Peschiera, Mantova, Verona, Legnago). In seguito, si forma un governo provvisorio con a capo Gabrio Casati. A causa delle intenzioni di Casati di chiedere aiuto a Carlo Alberto, re di Sardegna, contro gli austriaci, l’allora capo del consiglio di guerra Carlo Cattaneo, contrario a questa manovra per paura di compromettere così l’autonomia della Lombardia, abbandona la sua carica.
Intanto, il re di Sardegna, aveva promulgato lo Statuto il 4 Marzo 1848, sulla scia di Ferdinando di Napoli, segnando in questo modo l’inizio di una monarchia costituzionale. Si era venuto a creare un parlamento, formato da due Camere: una eletta dai cittadini, quella dei Deputati, chiamata anche camera bassa, e una nominata dal Re, quella dei Senatori, chiamata camera alta. Il primo presidente del consiglio fu Cesare Balbo.
A fine Marzo, sotto pressione per le richieste di aiuto giunte da Milano, anche se inizialmente dubbioso per paura delle conseguenze disastrose in caso di sconfitta, Carlo Alberto dichiarò comunque guerra all'Austria e si recò in Lombardia dove stavano arrivando rinforzi da tutta Italia.
In questa occasione, il papa Pio IX, eletto nel 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, pronunciò un’ allocuzione in cui affermava di non poter dichiarare guerra a una nazione i cui membri erano suoi figli spirituali. Egli si sentiva rappresentante di un Dio di pace e non intendeva schierarsi contro gli austriaci, protettori del cattolicesimo nell’Europa centrale. Il papa non poteva davvero desiderare l’unità d’Italia, che gli avrebbe tolto il potere temporale. Inizialmente, alla data della sua elezione, Pio IX era stato acclamato come un papa liberale. Egli, infatti, aveva realizzato alcune riforme liberali che diedero l’impressione di una svolta epocale. Aveva concesso una moderata libertà di stampa, aveva perdonato e liberato i prigionieri politici, aveva istituito una guardia civica che si guadagnò l’ammirazione dei patrioti italiani e aveva creato una consulta civica (composta di soli laici) che aveva il compito di esprimere giudizi sulla politica pontificia. Nel marzo del ’48, dopo Ferdinando di Napoli e Carlo Alberto di Savoia, aveva concesso anch’egli uno statuto. Tuttavia meno di due mesi dopo, con l’allocuzione, la favola del papa liberale si infranse per sempre.
Dopo alcuni parziali successi, come quelli di Goito e Peschiera, l’entusiasmo dei patrioti ebbe la meglio sulla prudenza dei governi, ma il clima unitario fu di breve durata, infatti, come già detto, il 29 Aprile il papa dichiarò di non avere nulla contro la "cattolicissima Austria". Il suo esempio sarebbe stato seguito dagli altri Stati che non intendevano compiere sacrifici per ingrandire il Piemonte. Infatti Carlo Alberto, più che preoccuparsi di sconfiggere gli austriaci parve interessato all’annessione, mediante plebisciti, di Milano.
Nonostante questo, il 30 Maggio i Piemontesi sconfissero nuovamente gli Austriaci a Goito, ma non approfittando del successo concessero all'Austria il tempo di riorganizzarsi. Per un errore strategico di Carlo Alberto, quello di non chiudere i passi della Svizzera, gli austriaci riuscirono a passare e con la battaglia di Custoza del 25 luglio rovesciarono le sorti della prima guerra d'Indipendenza sconfiggendo pesantemente i Piemontesi e costringendoli a chiedere un armistizio. Si firmò così il 9 agosto a Vigevano “l’armistizio di Salasco”, valido per sei settimane e prorogabile.
Carlo Alberto intanto era tornato in Piemonte. Il 12 marzo 1949 il governo sabaudo, cedendo alle pressioni dei liberali piemontesi, dichiarò rotto l’armistizio e decise di riprendere le armi per tentare una rivincita e per uscire da una situazione politica diventata ormai critica. Il 20 Marzo la guerra riprese con l’ennesima sconfitta dei piemontesi a Novara il 23. La battaglia costò alcune migliaia di uomini per parte tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. L’entità e l’equivalersi delle perdite stanno ad indicare l’intensità e l’incertezza dei combattimenti. La sconfitta di Novara ebbe il merito di insegnare agli Italiani che per sconfiggere l’Impero asburgico era necessario conseguire quattro obiettivi: 1) riorganizzare su basi più solide le forze armate; 2) sviluppare e rafforzare l’economia; 3) ottenere il favore diplomatico delle grandi potenze europee; 4) assicurarsi l’appoggio di un forte alleato militare.
La sera stessa della sconfitta, Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II, e si ritirò in esilio a Oporto in Portogallo e lì morì il 18 luglio. Vittorio Emanuele firmò l’armistizio a Vignale, nacque così la leg­genda del "re galantuomo" perché avrebbe rifiu­tato un ingrandimento del suo Stato in cambio dell'abrogazione dello Statuto albertino.  In realtà furono proprio gli austriaci, timorosi di nuovi focolai rivoluzionari, a consigliargli di mantenerlo. L'armistizio impegnava il re a iniziare al più presto trattative di pace. Il giorno 30 marzo fu pubblicato il decreto di scioglimento della Camera, senza annunciare la data delle nuove elezioni. Il 7 maggio, il liberale moderato Massimo D'Azeglio fu nominato capo del governo sardo-piemontese.
Nell’ottobre 1848, a causa di un minaccioso moto di protesta, il Granduca Leopoldo II aveva abbandonato la Toscana. A Firenze si era insediato un governo rivoluzionario presieduto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni. Sarebbe durato sino al maggio ’49, quando l’intervento austriaco rimise sul trono Leopoldo.
A Roma, nel novembre era stato assassinato il capo del governo pontificio Pellegrino Rossi e Pio IX aveva preferito rifugiarsi a Gaeta e chiedere l’aiuto delle potenze europee. In una situazione di totale anarchia, nel febbraio 1949, si formò un triumvirato composto da Mazzini, Armellini e Saffi, e venne creata quindi la “Repubblica Romana”. La prima potenza europea ad intervenire fu la Francia. I francesi sferrarono un attacco contro i volontari repubblicani che difendevano Roma, ma vennero respinti dagli uomini del generale Garibaldi, che era stato chiamato a Roma da Mazzini dopo la battaglia di Custoza, dopo che Carlo Alberto lo aveva rifiutato nell’esercito piemontese. Nel luglio ’49 l’esercito di Garibaldi si arrese ai francesi. Quest’ultimo avrebbe voluto recarsi a prestare aiuto a Venezia che non si era ancora arresa, ma non riuscì ad arrivare e, con pochi uomini, si fermò a San Marino, dove sciolse il suo piccolo esercito. Garibaldi venne poi arrestato al suo arrivo a Genova. Le autorità della Repubblica Romana furono costrette a cedere ai Francesi e i triumviri si dimisero.
In Piemonte, Vittorio Emanuele II sciolse il parlamento che manifestò resistenza ad approvare la pace di Milano e invitò i sudditi ad eleggere parlamentari meno intransigenti (proclama di Moncalieri – 20 novembre). In questo modo si ebbe, finalmente, la pace, le cui clausole prevedevano che il Piemonte subisse una temporanea occupazione austriaca nelle sue province orientali (una specie di "zona cuscinetto").

Dalle leggi Siccardi all’alleanza di Plombieres
In Italia,il ritorno dei sovrani legittimi dopo il fallimento delle rivoluzioni del ‘48-49, bloccò ogni esperimento riformatore dei vari Stati.
Ben diversa da quella degli altri Stati Italiani fu la situazione politica nel Piemonte sabaudo, dove sopravvisse lo Statuto Albertino e con esso una forma di governo monarchico-costituzionale.
Agli inizi degli anni ‘50 il governo era presieduto da Massimo D’Azeglio che poté portare avanti, con l’appoggio della maggioranza parlamentare, l’opera di modernizzazione dello Stato. Una tappa fondamentale in questo senso fu rappresentata dall’approvazione, nel Febbraio 1850, delle cosiddette leggi Siccardi (dal nome del ministro della Giustizia che le aveva proposte) che riorganizzavano i rapporti fra Stato e Chiesa, ponendo fine ai privilegi di cui il clero godeva come i tribunali riservati, il diritto d’asilo nelle chiese e nei conventi, la manomorta e la censura dei libri.
Quando D’Azeglio dovette dimettersi per contrasti con il re, l’incarico di formare il nuovo governo fu affidato al conte Camillo Benso di Cavour che era emerso come leader della maggioranza proprio durante l’approvazione delle leggi Siccardi.        
Cavour era un aristocratico e un uomo d’affari, proprietario terriero e giornalista. Il suo ingresso nella vita politica fu segnato dalla fondazione del  giornale moderato “Il Risorgimento”. Appartenente a una famiglia di antichissima nobiltà sabauda, Camillo Benso, conte di Cavour nacque a Torino nel 1810.
Dopo avere seguito i corsi dell’Accademia militare, Cavour lasciò l’esercito per dedicarsi ai viaggi di studio in Francia, Belgio e Gran Bretagna dove acquisì esperienza diretta della vita economica di quegli stati, più progrediti e culturalmente più aperti del Piemonte.
Dal 1835 si occupò della gestione della tenuta di famiglia, di attività bancarie e, quando nel 1848 decise di darsi al giornalismo e all’attività politica, il suo pensiero politico era già coerentemente sviluppato. L’ideale politico di Cavour era quello di un liberalismo moderato. Nel 1848 diventò deputato del parlamento subalpino, nel 1850 ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio e nel 1851 ministro delle Finanze.
Prima di diventare presidente del Consiglio Cavour aveva promosso un accordo parlamentare tra il centro-sinistra di Urbano Rattazzi e il centro-destra di cui lui stesso era il leader.
Da questo accordo, che prese il nome di “connubio” formò dunque un unico raggruppamento di centro che dava l’opportunità a Cavour di preoccuparsi sia di organizzare una propaganda patriottica e antiaustriaca sia di avviare il Piemonte alla modernità.
Cavour, come presidente del Consiglio, si adoperò per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel contesto europeo. Per questo motivo la sua fu una politica di tipo liberoscambista: furono stipulati trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna, fu abolito il dazio sul grano.
Cavour era convinto che uno Stato per poter progredire economicamente e modernizzarsi, si possa inizialmente indebitare per poi sanare i debiti successivamente. Il “connubio” durò fino al 1857.
Mentre la Russia da tempo mirava all’espansione della propria influenza anche ai Balcani e al Mediterraneo a spese dell’Impero Ottomano, l’Inghilterra, come del resto anche la Francia, considerava questa espansione dannosa per i suoi interessi economici.
Quando la Russia decise di tentare la conquista degli stretti per raggiungere il Mediterraneo, Francia e Inghilterra si opposero dichiarando guerra alla Russia. L’Austria, declinò l’invito a far fronte comune per gli antichi rapporti di amicizia con i russi, e si scusò affermando di non poter disarmare il territorio per non concedere l’opportunità al Piemonte di aggredirla. Così, anche al Piemonte venne offerta l’occasione di partecipare alla guerra in Crimea. Cavour era combattuto: la vittoria avrebbe potuto produrre l’acquisizione della Lombardia, o almeno un’alleanza con Francia e Inghilterra, ma in caso di sconfitta avrebbe dovuto, probabilmente, chiudere la sua carriera politica. Il re era però favorevole e, alla fine, anche Cavour si convinse. Il Piemonte inviò 18.000 uomini in Crimea e così, vinta la guerra, ottenne di poter partecipare al Congresso di Parigi del 1856. In quell’occasione Cavour illustrò la situazione italiana e denunciò il malgoverno dei Borboni a Napoli come causa di tensioni rivoluzionarie in tutta la penisola e come minaccia alla pace e all’equilibrio europeo.
Fra i democratici italiani, si venivano delineando nuovi orientamenti che, da diversi punti di vista tendevano a mettere in discussione la figura di Mazzini e a contestare la sua strategia.
Nel giugno del 1857, Carlo Pisacane, un democratico italiano ed ex ufficiale dell’esercito borbonico guidò una spedizione con pochi compagni sbarcò a Sapri, nella Campania meridionale, per organizzare una rivoluzione contro i Borboni ma, nessuna delle condizioni che avrebbero dovuto assicurare la riuscita del piano si verificò. Isolati e catturati i rivoltosi guidati da Pisacane furono annientati dalle truppe borboniche. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero. Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la nascita ufficiale del movimento indipendentista filo piemontese. Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome dl Società nazionale. L’associazione dichiarava di appoggiare la monarchia sabauda finché questa avesse appoggiato la causa italiana.
Paradossalmente invece fu il gesto isolato di un mazziniano ad affrettare l’alleanza franco-piemontese che doveva risolvere il problema italiano.
Nel gennaio del 1858, Felice Orsini attentò alla vita dell’imperatore Napoleone III lanciando tre bombe contro la sua carrozza, ma falli l’obbiettivo provocando molti morti tra la folla che assisteva al passaggio del corteo imperiale. Orsini, che fu subito arrestato con i suoi complici e condannato a morte, aveva agito di propria iniziativa ma il suo gesto gettò ulteriore sfiducia sul movimento mazziniano.
Orsini, prima di essere ucciso, si dichiarò pentito del suo gesto e scrisse due lettere all’imperatore per pregarlo di trovare un rimedio alla situazione italiana. Napoleone III era convinto della necessità di un’iniziativa francese in Italia che soppiantasse l’egemonia austriaca, eliminando al tempo stesso un pericoloso focolaio di tensione rivoluzionaria.
Cavour così ebbe la strada spianata verso un’alleanza franco-piemontese. L’alleanza fu sancita in un incontro segreto fra l’imperatore e il capo del governo piemontese svoltosi nel luglio del ‘58 a Plombieres. Gli accordi ipotizzavano una nuova distribuzione dei territori della penisola italiana: al nord il Regno dell’Alta Italia comprendente oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l’Emilia Romagna sotto il potere dei Savoia (che in cambio avrebbero ceduto alla Francia Nizza e la Savoia); al centro il Regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dai territori pontifici che secondo Napoleone III sarebbero dovuti andare ad un suo parente Gerolamo Bonaparte; il regno meridionale liberato dai Borboni e consegnato al figlio di Murat che avrebbe regnato sotto l’influenza francese. AI papa, che avrebbe conservato la sovranità su Roma, sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana. Premessa indispensabile per la riuscita dei progetti di Cavour era comunque la guerra contro l’Austria; era necessario Inoltre che Il conflitto apparisse provocato dall’Impero asburgico perché l’alleanza con la Francia potesse diventare operante.
Per suscitare le ire degli austriaci Cavour avrebbe dovuto ordinare la creazione di un documento in cui Massa e Carrara chiedevano l’annessione al Piemonte; Vittorio Emanuele si sarebbe dovuto mostrare aperto verso l’annessione della città e a quel punto gli austriaci avrebbero dovuto dichiarare guerra al Piemonte per difendere il proprio possedimento. Le cose però non andarono così perché l’alleanza tra Francia e Piemonte fu resa pubblica e questo comprometteva il piano.
Nel 1859 il Vittorio Emanuele Il pronunciò un discorso alle camere dicendosi sensibile alle grida di dolore  provenienti da più parti d’Italia. Un intervento in questo momento avrebbe suscitato il biasimo internazionale, tenuto anche conto che l’Inghilterra  aveva proposto di discutere tutto in una conferenza internazionale.
Preso dallo sconforto vedendo sfuggire il piano di espansione del Piemonte, Cavour pensò di suicidarsi, quando inaspettatamente gli austriaci dichiararono guerra al Regno di Sardegna, convinti che i francesi non sarebbero intervenuti.

Dalla II guerra d’indipendenza all’unità d’Italia
Contrariamente alle previsioni austriache, i francesi parteciparono alla guerra al fianco dei piemontesi. Nel giugno 1859 una parte dell’esercito franco-piemontese, guidata da Garibaldi, combatté nella Lombardia del nord, nella zona dei laghi, l’altra, nelle sanguinose battaglie di Magenta (4 giugno), San Martino e Solferino (24 giugno), che si conclusero con la sconfitta dell’esercito austriaco, costretto a rifugiarsi nel quadrilatero.
A questo punto. Napoleone III chiese un incontro a Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, a Villafranca per firmare un armistizio.
I motivi di questa richiesta furono:

  1. Nel maggio, al seguito delle insurrezioni di Firenze e Bologna, erano sorti dei governi provvisori guidati rispettivamente da Ricasoli e Farini, che chiesero l’annessione al Piemonte. Tutto ciò infastidì Napoleone che avrebbe voluto per questi stati un governo filo-francese come prescritto dai patti di Plombieres;
  2. Per terminare vittoriosamente la guerra occorreva espugnare il quadrilatero e ciò sarebbe risultato troppo costoso in termini di vite umane e di denaro;
  3. La Prussia aveva minacciato di allearsi con l’Austria se la Francia avesse continuato ad estendersi territorialmente;
  4. Napoleone si preoccupò della reazione dei suoi sudditi, in netta maggioranza cattolici, poiché la guerra stava danneggiando il Papa e stava favorendo il moltiplicarsi di sentimenti anti­papali.

L’11 luglio si firmò, dunque, l’armistizio di Villafranca con il quale l’Austria rinunciò alla Lombardia, che divenne dapprima francese poi piemontese. Con questi stessi termini si siglò la pace di Zurigo:
Vittorio Emanuele Il fu soddisfatto dell’estensione del Piemonte, mentre Cavour non potendo continuare la guerra fino alla conquista di Vienna, come avrebbe voluto, diede le dimissioni. Il sovrano sostituì a Cavour il generale La Marmora.
Secondo l’armistizio di Villafranca, a Bologna ed a Firenze sarebbero dovuti tornare i legittimi sovrani, ma poiché le due città continuarono ad opporsi e La Marmora non riuscì a risolvere la situazione, il re piemontese fu costretto a richiamare Cavour. Egli propose di cedere alla Francia la Savoia e Nizza così da poter annettere al Piemonte la Toscana e l’Emilia, più vaste e più ricche). Con quest’azione commise un abuso di potere in quanto la cessione di Nizza era anti-costituzionale e raccolse dissensi tra i patrioti italiani tra cui spiccava Garibaldi.
Alla fine di Marzo nella Savoia e a Nizza si tennero dei plebisciti con i quali si chiedeva l’annessione alla Francia. Nel mese successivo, con gli stessi metodi, si procedette all’annessione di Toscana ed Emilia.
Dunque, nell’aprile 1860, il regno di Sardegna comprendeva i territori di Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, Toscana e Sardegna mentre il Veneto era ancora austriaco.
Nello stesso periodo, in Sicilia si erano verificati dei focolai rivoluzionari. Garibaldi fu informato di ciò da alcuni emissari siciliani, tra cui Francesco Crispi, che lo convinse ad intraprendere un’impresa mirata a allontanare i Borboni dal sud; perciò arruolò, in segreto, circa un migliaio di uomini. Cavour non poté arrestarlo perché sarebbe stato un gesto assai impopolare, ma fece si che non fosse adeguatamente attrezzato. Il 6 maggio Garibaldi partì da Quarto (vicino a Genova), giunse nella caserma di Talamone (in Toscana) per fare rifornimento di armi e uomini. Mandò uomini verso l’Umbria per far credere di voler marciare verso Roma, invece si diresse in Sicilia. Sbarcò a Marsala, vicino a Trapani, dove fu accolto dal popolo come un invincibile eroe, successivamente si recò a Salemi dove si proclamò dittatore della Sicilia.
Il 14 maggio, si combatté la battaglia di Calatafimi, vicino al famoso tempio di Segeste: i garibaldini si scagliarono con impeto sul più numeroso esercito borbonico che fu costretto alla fuga. Fu una vittoria del coraggio nudo, in quanto la tattica ebbe poco a che fare nella battaglia e Garibaldi scarso controllo sugli eventi. (D. Mack Smith, “Garibaldi”, Mondadori) Garibaldi confermò così ai siciliani la sua invincibilità.
A questo punto molti siciliani, persuasi dalla promessa del dittatore di dividere i latifondi e distribuire le terre, sì arruolarono nell’ esercito dei garibaldini. Per impressionare ulteriormente i siciliani attese alla messa e ricevette le insegne di crociato sull’altare.
Alla fine di maggio i garibaldini attaccarono Palermo. La città era allora ancora cinta dalle mura medioevali e veniva difesa da circa 15 mila uomini. Con alcuni stratagemmi Garibaldi riuscì ad attirare gran parte dei soldati nemici fuori dalle mura e ad entrare nella città dove si scatenò una rivolta dei cittadini contro il regime borbonico. Dopo tre giorni di combattimento i borbonici furono costretti a lasciare la città. Cavour allora capì che la spedizione poteva avere successo e non impedì più la partenza di rinforzi.
Il 20 luglio si combattè la battaglia di Milazzo. La battaglia ebbe sorte alterna per otto ore e i garibaldini sofferesero le peggiori perdite sino ad allora – ottocento tra morti e feriti, quattro volte di più degli avversari. Fu un duro prezzo da pagare per la loro leggenda di invincibilità (D. Mack Smith, “Garibaldi”, Mondadori), ma ora erano padroni dell’intera isola e, con un esercito molto più potente, si avviarono verso Napoli. Napoli era allora la città più popolata d’Italia (terza in Europa) ed era guidata, dal 1859, dal giovane re Francesco Il. Egli concesse la costituzione, ma era troppo tardi; decise allora di ritirare le forze a Gaeta per concentrarle e tentare il tutto per tutto. Garibaldi entrò nel capoluogo campano il 7 di settembre. La campagna militare sembrò essersi conclusa ma, quando Cavour seppe che Garibaldi avrebbe voluto marciare verso Roma, strappò a Napoleone III l’assenso per un intervento piemontese teso a bloccare la strada a Garibaldi. Ottenuto il via libera da Napoleone, Cavour inviò l’esercito che invase lo stato pontificio e si scontrò con l’esercito del papa, sconfiggendolo, nella battaglia-scaramuccia di Castelfidardo (18 settembre).
Il primo ottobre i garibaldini combatterono la battaglia del Volturno, la più grande dell’intera campagna. Garibaldi comandava allora più di trentamila uomini. Si trattava di una battaglia difensiva, non delle semplici e rapide schermaglie da lui preferite. Doveva tenere, con forze inferiori, una linea di circa venti chilometri contro un nemico deciso a riprendere Napoli. La lotta durò due giorni. Ci furono trecento morti da entrambe le parti, ma i garibaldini tennero duro e presero più di duemila prigionieri. (D. Mack Smith, “Garibaldi”, Mondadori)
Nei pressi di Teano (26 ottobre) Garibaldi incontrò Vittorio Emanuele Il; gli cedette le terre conquistate ed il re gli offri come ricompensa un castello ed una cospicua somma di denaro, ma il generale rifiutò per non tradire i suoi ideali.
La conclusione dell’unità d’Italia avvenne con l’aiuto degli inglesi. che impedirono alla Francia di reagire all’annessione dei territori pontifici da parte del re di Sardegna. L’Inghilterra accettava con favore la nascita di un nuovo grande stato che contrastasse le mire egemoniche dei francesi sull’Europa continentale. Le Marche e l’Umbria, così come Napoli e la Sicilia, divennero italiane attraverso plebisciti. Il 17 marzo 1861 l’unità dell’Italia venne ufficialmente proclamata dal nuovo parlamento.
Cavour avrebbe voluto muovere un’ulteriore guerra contro l’Austria per ottenere il Veneto ma l’Inghilterra era ostile a questo progetto che fu così abbandonato. Gli inglesi temevano una pericolosa destabilizzazione politica nell’area balcanica. Solo successivamente il Veneto (1866) e il Lazio (1870) sarebbero divenute italiane.

I problemi dell’Italia post-unitaria
Il 17 marzo 1861 a Torino fu solennemente proclamato il Regno d’Italia. Il nuovo parlamento italiano uscito dalle elezioni del febbraio del 1861, che aveva la sua sede nella capitale Torino, era articolato in due grandi correnti d’opinione (più che partiti in senso moderno): la Destra formata da uomini come Alfonso Lamarmora, Urbano Rattazzi, Marco Minghetti e Bettino Ricasoli, liberali moderati che raccolsero l’eredità di Cavour; morto improvvisamente il 6 giugno del 1861; e la Sinistra formata da liberali democratici come Agostino Depretis e Francesco Crispi.
Dopo aver eliminato le barriere doganali, al decentramento si preferì, per timore delle spinte eversive, l’accentramento amministrativo. Lo statuto albertino e la legislazione piemontese furono estesi a tutto il regno. L’Italia fu ripartita in 59 province, a capo delle quali fu posto un prefetto nominato dal re quale rappresentante del governo. L’esercito fu riorganizzato sulla base della coscrizione obbligatoria: gli ex ufficiali borbonici e una parte di quelli garibaldini (appena un sesto) furono immessi nelle sue file.
All’indomani dell’unità il governo dovette affrontare il minaccioso fenomeno del brigantaggio. Infatti, l’impietosa fiscalità e la leva obbligatoria accrebbero l’impopolarità del governo e del re. Molti contadini incominciarono a brandire le armi e a darsi alla macchia, ad assalire fattorie e posti di polizia, a razziare bestiame, a rapire i possidenti borghesi per farsi pagare ingenti riscatti, fino a sviluppare ad una sanguinosa guerriglia contro reparti dell’esercito. A rimpolpare le fila dei briganti si erano, inoltre, aggiunti molti ex garibaldini che erano stati congedati dall’esercito.
Il Brigantaggio al sud non era una cosa nuova, ma diventò un fenomeno talmente grave e diffuso da spingere il governo ad impiegare l’esercito per debellarlo. Lo stesso governò accusò l’ex re di Napoli e il papa di aver creato ad hoc il fenomeno per riconquistare i poteri perduti. Tuttavia il deputato napoletano Massari, dopo aver studiato a fondo il fenomeno, aveva fornito al parlamento una relazione che dimostrava chiaramente quali fossero le cause profonde di questa ribellione violenta, cioè la povertà e l’arretratezza. Tra gli anni 1861-65 il governo scatenò una vera e propria campagna militare nella quale furono impiegati 120.000 uomini. Con le leggi Pica (1863) si affidarono i processi dei briganti alla corte marziale. Purtroppo il bilancio dei morti fu pesantissimo giacché morirono più uomini in questa campagna che nelle tre guerre d’indipendenza sommate assieme. Dopo il 1865 il brigantaggio andò lentamente spegnendosi e l’esercito fu ritirato.
Poco prima dell’unificazione il bilancio di tutti gli stati italiani era in rosso, e quindi in seguito all’unificazione il debito fu anch’esso unificato, per garantire la fedeltà dei creditori al nuovo regno. Per poter colmare il disavanzo furono istituite nuove tasse come quella sul macinato (istituita nel 1868 da Quintino Sella), che colpiva le classi più povere perché veniva pagata direttamente al mugnaio che acquistava il grano; questo fece aumentare il prezzo del pane e provocò in tutto il paese, una catena di sommosse.
In effetti, Anche se era stata proclamata l’Unità d’Italia mancavano ancora Roma e Venezia. Cavour, prima di morire aveva progettato di annettere Venezia ma gli inglesi dimostrarono il loro dissenso e fu costretto a desistere.
La liberazione di Roma, che era stata gia designata da Cavour come capitale del regno, comportava la soluzione di delicati problemi internazionali. Essa significava innanzi tutto il definitivo abbattimento del potere temporale del Papa e ciò incontrava la netta opposizione di tutti gli stati cattolici. In uno dei suoi discorsi Cavour aveva pronunciato il famoso slogan “libera chiesa in libero stato”, intendendo che il Papa avrebbe dovuto rinunciare spontaneamente al potere temporale per occuparsi soltanto delle questioni spirituali. Il Papa, tuttavia, quando era stato eletto, aveva giurato di mantenere anche il potere temporale quindi non poteva rinunciarvi; allora Cavour cercò di corrompere gli alti prelati affinché convincessero il Papa, ma la morte lo colse di sorpresa e, il suo sostituto, Bettino Ricasoli non riuscì a compiere alcun progresso verso l’ambita meta. Nel 1862 fu nominato capo del governo Rattazzi, che fu protagonista di un maldestro tentativo di utilizzare Garibaldi per la conquista di Roma. Di fronte alle minacciose rimostranze di Napoleone III, però, fu costretto ad inviare l’esercito contro i garibaldini. Regolari e garibaldini si scambiarono qualche fucilata sulle montagne dell’Aspromonte, lo stesso Garibaldi fu ferito ad un piede.
Il successore di Rattazzi, Minghetti, nel 1864 si accordò con la Francia con la cosiddetta Convenzione di settembre: la Francia s’impegnava a ritirare le sue truppe da Roma entro due anni e il governo italiano assicurava la protezione dello Stato Pontificio da qualsiasi attacco esterno. A garanzia della sua rinuncia a Roma, la capitale fu portata da Torino a Firenze (1865), questa decisione non fece molto piacere ai torinesi che espressero il loro dissenso con violente manifestazioni a cui la polizia rispose con altrettanta violenza. Pio IX non fece attendere a lungo la sua risposta, infatti, scrisse un enciclica intitolata “Quanta cura” a cui era allegato Il Sillabo, un durissimo documento nel quale erano elencati e condannati gli “errori” del liberalismo, fra i quali comparivano il nazionalismo, il socialismo, il comunismo, l’intervento dello Stato nelle questioni morali e religiose.
Nel 1867 Garibaldi tentò nuovamente la presa di Roma, organizzando con alcuni patrioti romani un piano che prevedeva prima un’insurrezione nella città, poi l’intervento di volontari dall’esterno. Scoperto il complotto e messo sull’avviso, Napoleone III rispedì in Italia le sue truppe che, dopo aver loro inferto gravi perdite, mise in fuga i garibaldini.
Intanto nel 1866 la Prussia procuratasi la neutralità della Francia e l’alleanza militare dell’Italia, alla quale fu promesso il Veneto, dichiarò guerra all’Austria, sua rivale per il predominio sugli stati tedeschi.
L’esercito prussiano sconfisse rapidamente quello austriaco nella battaglia di Sadowa, ma gli alleati italiani furono ripetutamente sconfitti nella battaglia terrestre di Custoza (24 giugno) e in quella navale di Lissa (20 luglio), a causa della rivalità fra i vari generali italiani. La Prussia in ogni modo non poté riunire tutti gli stati tedeschi perché Napoleone III, per il momento, glielo avrebbe impedito. La Prussia mantenne la sua promessa e costrinse l’Austria a cedere il Veneto all’Italia che il 21 ottobre, a seguito di un plebiscito, entrava ufficialmente a far parte dell’Italia. Quattro anni dopo scoppiò la guerra franco-prussiana: fu la Francia, cadendo in un tranello del cancelliere Bismarck, che dichiarò aperte le ostilità. La guerra fu breve e, per la Francia, si rivelò un disastro. Napoleone, sconfitto a Sedan, fu catturato e in Francia fu proclamata la terza repubblica. Il governo italiano si ritenne sciolto dagli impegni assunti con la Convenzione di settembre e decise di risolvere la questione romana una volta per tutte. Dopo il rifiuto del Papa di accettare la via diplomatica, il 20 settembre 1870, un corpo di bersaglieri, aprendo una breccia nelle mura presso Porta Pia, occupò la città senza quasi incontrare resistenza. Nessuno era in grado o desiderava proteggere ulteriormente lo stato pontificio. Il Papa si arrese e si rifugiò in Vaticano. Nel 1871, proclamata Roma capitale, lo stato italiano volle regolare, con la cosiddetta legge delle guarentigie (garanzie), i rapporti con la Santa Sede. Si impegnava, pertanto, a garantire l’inviolabilità e la libertà del Papa e gli assegnava un’indennità annua di tre milioni annui per la perdita del suo stato. Il Papa non accettò questa legge e proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica in una comunicazione chiamata Non Expedit nel 1874.
L’Italia, però, pagò l’annessione di Roma con l’isolamento diplomatico, che durò sino al 1882, quando entrò a far parte della triplice alleanza con Prussia e Austria.

 

Fonte: http://www.liceicarbonia.it/public/pagine/allegati/Il%20Risorgimento.doc

 

 

Risorgimento italiano

Di seguito alcuni articoli tratti dall'Enciclopedia Encarta Microsoft 2002:
1 "Risorgimento"
2 La sezione dedicata al risorgimento nell'articolo "Italia"
3 "Cavour"
4 "Garibaldi"
ARTICOLO: RISORGIMENTO
1 Introduzione
Risorgimento Concetto storiografico che indica la genesi, lo sviluppo e il compimento del processo di unificazione politica dell'Italia, che convenzionalmente si reputa avviato all'indomani del congresso di Vienna (1815) e compiutamente realizzato con la nascita dello stato nazionale, dopo la conquista di Roma capitale (1870).
2 Gli studi storiografici
Il termine cominciò ad affermarsi alla fine del XIX secolo, quando gli storici si interrogarono sulle radici dello stato unitario e sulle modalità della sua costruzione. Si enuclearono allora alcune tendenze interpretative che si sarebbero confrontate nei decenni successivi. Una corrente legata ai principi del nazionalismo insisteva sulla matrice autoctona del Risorgimento italiano, considerato un autonomo sviluppo di idee e di precondizioni che risalivano al XVIII secolo. Una versione filosabauda scorgeva infatti nell'espansione territoriale del Regno di Sardegna, avviata nella prima metà del XVIII secolo, le origini del Risorgimento, che veniva così accreditato a un fattore dinastico e tutt'al più statalistico.
Al contrario, la tradizione democratica e repubblicana metteva l'accento sull'importanza della Rivoluzione francese e dell'età napoleonica, scorgendo in esse il laboratorio politico di quelle idee di libertà, di indipendenza, di organizzazione liberale del potere che avrebbero animato gli uomini e i movimenti più impegnati a favore dell'Italia unita.
Nel secondo dopoguerra la lettura marxista del Risorgimento, sulla base del pensiero di Antonio Gramsci (Quaderni del carcere), si orientò a cogliere i limiti sociali della costruzione unitaria, identificandoli nella mancata rivoluzione agraria, nella passività delle masse contadine e nella scarsa diffusione dell'ideale unitario, limitato a ristretti nuclei di notabilato locale. A questa visione si contrappose la storiografia di matrice liberale, rappresentata soprattutto dallo storico Rosario Romeo, che nel libro Risorgimento e capitalismo (1959) confutò la tesi gramsciana. Romeo sostenne che lo stato unitario fu condizione indispensabile per l'avvio dell'industrializzazione, perché favorì l'accumulazione del capitale e liberò le campagne dalla condizione di arretratezza in cui versavano.
In tempi recenti è tornata sotto nuova veste la questione inerente al rapporto tra l'idea di nazione e lo stato, come nodo fondamentale per comprendere potenzialità e limiti della storia d'Italia. Nella critica storiografica è riaffiorata la dicotomia tra un'identità culturale dell'Italia, che ha origini antiche, e la realtà istituzionale dello stato italiano, che vide la luce in ritardo rispetto ad altri grandi stati nazionali europei e per di più solo grazie a iniziative elitarie e legate al quadro internazionale, nascendo così privo di un forte radicamento nella coscienza degli italiani. Ossia, la nazione venne prima dello stato e lo stato si resse su fragili basi nazionali.
3 Cenni storici
3.1 I primi moti insurrezionali
È possibileripercorrere le vicende del Risorgimento, muovendo dai moti napoletani e piemontesi del 1820-21 (vedi Moti del 1820-1821) e da quelli scoppiati a Modena e nelle Legazioni pontificie nel 1831 (vedi Moti del 1831): furono esperienze politiche di raccordo tra il passato napoleonico e massonico, a cui i rivoluzionari di quel decennio attinsero progetti d'azione e forme organizzative, e il futuro, al quale consegnavano l'esigenza di istituzioni liberali, svincolate dall'assolutismo e fondate sulle costituzioni.
3.2 Il movimento mazziniano
Negli anni Trenta Giuseppe Mazzini fu il più tenace e convinto assertore della necessità dell'unificazione politica, da lui concepita come atto volontario di uomini che sceglievano liberamente un destino comune nell'orizzonte della democrazia e della repubblica. Chi aderiva alla mazziniana Giovine Italia, un'organizzazione sorta nel 1831, sapeva di dover lottare per l'indipendenza nazionale: fu questo il primo passo verso l'unità. Tale obiettivo non era condiviso dalla corrente moderata e monarchica, che si batteva per l'indipendenza dell'Italia, ma non per la sua unione politica, considerata un progetto irrealizzabile. Eppure tutti i rappresentanti del moderatismo ebbero una parte di rilievo nel formare la classe politica risorgimentale, che dopo il 1861 avrebbe governato l'Italia almeno fino alla fine del secolo.
3.3 I moti del 1848 e la prima guerra d'indipendenza
Le rivoluzioni del 1848-49 introdussero un fattore nuovo, che venne sperimentato nel vivo delle insurrezioni antiaustriache e nel fuoco della prima guerra d'indipendenza (1848-49), consistente in un legame, esile e carico di equivoci, ma pur sempre operante, tra l'iniziativa dinastica dell'esercito sardo e l'azione volontaria dei patrioti, la maggior parte di formazione mazziniana. La Repubblica Romana (1849), che Mazzini e Garibaldi difesero come una libera istituzione italiana, rimase il punto politicamente più alto raggiunto dai democratici nel corso di tutto il Risorgimento.
4 Il decennio decisivo
4.1 L'avvio del processo di unificazione
Dopo la sconfitta dei democratici, fu il regno sabaudo a proporsi come centro di aggregazione delle istanze nazionali, qui vissute come aspetti di diplomazia internazionale. L'unificazione apparve allora un traguardo difficile a causa degli ostacoli interni (le peculiarità regionali, i campanilismi, le pesanti sconfitte del 1848-49) e internazionali (l'opposizione della Chiesa, dell'Austria e delle altre potenze europee). La strategia di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, trovò la sua forza nel fatto che associava le aspirazioni nazionali all'indipendenza con le tradizioni espansionistiche di uno stato. Il regno sardo aveva queste peculiarità e per di più poteva mettere in campo strutture e tradizioni diplomatiche e militari adeguate al compito.
4.2 La seconda guerra d'indipendenza
Il passaggio decisivo nel processo di unificazione avvenne con gli accordi di Plombières tra il Regno di Sardegna e la Francia di Napoleone III, frutto di una convergenza tra obiettivi ben distanti tra loro: il primo puntava a un ampliamento dei confini settentrionali e alla contemporanea estinzione dell'egemonia austriaca in Italia; il secondo coltivava il proposito di esercitare un rilevante peso internazionale e di accrescere il consenso all'interno portando nuove terre alla nazione francese (Savoia e Nizza). La guerra dei franco-piemontesi contro gli austriaci (seconda guerra d'indipendenza, 1859) svelò le ambiguità dell'accordo: dopo i successi delle prime settimane, i francesi si ritirarono e firmarono l'armistizio di Villafranca, lasciando l'alleato in una posizione delicata, in quanto alcune regioni della penisola avevano visto le popolazioni insorgere per chiedere l'annessione al Piemonte. Nel frattempo il quadro internazionale, in grado di condizionare fortemente il processo unitario, si stava modificando: in Inghilterra il governo liberale di Palmerston esprimeva la preoccupazione che in Italia all'egemonia austriaca subentrasse quella francese e, per questo, si adoperava affinché le potenze europee non interferissero negli avvenimenti italiani.
4.3 I plebisciti per l'annessione al Piemonte
Tutto il quadro degli accordi tra Cavour e Napoleone III si era alterato di fronte a un'imprevista accelerazione degli eventi determinata dalle sollevazioni a Parma, a Modena, nelle Legazioni (Bologna, Romagne) e in Toscana che rivendicavano l'annessione al Piemonte. I plebisciti in Emilia e in Toscana del marzo del 1860 decisero l'annessione alla monarchia sarda. Analoghi plebisciti a Nizza e in Savoia sancirono la cessione di quelle terre alla Francia.
4.4 La spedizione dei Mille
Fu a quel punto che i democratici ripresero l'iniziativa, imprimendo una netta svolta agli avvenimenti a partire dal maggio del 1860. L'impresa dei Mille fu promossa da Garibaldi e preparata con il tacito consenso di Cavour. I garibaldini mossero da Quarto nella notte fra il 5 e il 6 maggio, sbarcarono a Marsala l'11, liberarono Palermo il 6 giugno, varcarono lo stretto il 20 agosto e tre settimane dopo entrarono trionfalmente a Napoli. Il crollo dello stato borbonico fu definitivo solo dopo la battaglia sul Volturno del 1° ottobre.
Sul piano politico la spedizione dei Mille cadde sotto il controllo di Cavour e del re di Sardegna Vittorio Emanuele II: le forze sabaude invasero le Marche e l'Umbria nello Stato Pontificio, prima di congiungersi con quelle di Garibaldi. L'obiettivo era duplice: favorire l'annessione plebiscitaria, che a Napoli era contrastata da Mazzini e aveva nello stesso Garibaldi un tiepido sostenitore, e vanificare il progetto di un attacco di Garibaldi a Roma, temuto perché avrebbe scatenato la reazione internazionale.
4.5 La costituzione del Regno d'Italia
Il 17 marzo 1861, con la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia, si compiva la prima fase del Risorgimento. Nasceva cioè il Regno d'Italia, che unificava sette stati preesistenti: i Regni di Sardegna, del Lombardo-Veneto (senza l'area veneta), delle Due Sicilie, lo Stato Pontificio (senza Roma e senza una piccola zona circostante con sbocco sul mare a Civitavecchia), i Ducati di Parma e Modena e il Granducato di Toscana.
4.6 Il completamento dello stato unitario
Con le successive tappe (terza guerra d'indipendenza, 1866, e presa di Roma, 1870) si sarebbe realizzata l'annessione del Veneto e di Roma con il suo territorio; per le altre aree di cultura italiana, anche se non completamente, ossia il Trentino-Alto Adige e il Friuli, sarà la prima guerra mondiale a concludere il processo di unificazione.


ARTICOLO: ITALIA - Sezione Storia - Il Risorgimento
Giuseppe Garibaldi Nato nel 1807, Giuseppe Garibaldi divenne una delle figure più rilevanti del Risorgimento italiano. Il successo delle sue imprese militari contro le forze di occupazione europee fu determinante nel processo che avrebbe condotto alla conquista dell'indipendenza e all'unificazione dell'Italia nel 1861.ARCHIV/Photo Researchers, Inc. 

L'equilibrio, stabilito al congresso di Vienna, fu all'insegna del ripristino degli stati assoluti; su questo versante politico esso mostrò le sue debolezze, nel momento in cui le opposizioni liberali e democratiche, eredi dei valori della Rivoluzione francese e attive in Italia come in tutta Europa, riuscirono a organizzarsi nelle società segrete, la principale delle quali fu la carboneria. All'azione delle società segrete devono essere ricondotti i moti che nel 1820-21 scoppiarono a Napoli e a Torino, coinvolgendo principalmente i quadri intermedi dell'esercito: la richiesta di una monarchia costituzionale, che garantisse i diritti politici ai notabili borghesi e ai funzionari di alto grado dello stato e che tutelasse la proprietà e la libertà di stampa, tornò quindi al centro della lotta politica.

Approfondimento (vedi Encarta)
Gramsci: Il rapporto città-campagna nel Risorgimento
Complesso e apparentemente contraddittorio, il rapporto tra città e campagna costituisce uno dei nodi centrali del Risorgimento, e più in generale dell’arretratezza italiana nei confronti dei maggiori paesi europei, dove rivoluzioni e riforme, tra Seicento e Settecento, seppero coinvolgere le masse popolari. Secondo Antonio Gramsci, che affida ai Quaderni del carcere le sue riflessioni sulla storia d’Italia, la relazione tra blocco urbano e blocco rurale, improntando i modi di pensare e di agire della società civile nel suo complesso, costituisce una preziosa chiave di lettura per individuare l’origine di problemi quali il brigantaggio, la questione meridionale e la questione agraria, l’assenza di un’unità culturale della nazione.

Nello stesso tempo presero corpo le aspirazioni all'unificazione politica dell'Italia, ora assurta nella coscienza patriottica a nazione, degna perciò di essere governata da una sola autorità statale non straniera. L'idea di nazione, uno dei più potenti fattori propulsivi della storia italiana almeno fino al 1861, ancora debole nelle associazioni segrete sorte negli anni della restaurazione, durante il Risorgimento fu raccolta e propugnata sia dai patrioti repubblicani, che avevano il loro leader in Giuseppe Mazzini, sia dai liberali moderati, che guardavano con interesse al ruolo del Regno di Sardegna e del suo re Carlo Alberto.
roi e battaglie del Risorgimento Il processo di formazione dello Stato italiano prese avvio da quel fenomeno di rinnovamento politico, sociale e culturale noto come Risorgimento, il cui nucleo originario si fa risalire all'influenza delle idee illuministiche o a quella dei principi democratici della Rivoluzione francese. Il movimento risorgimentale assunse una configurazione politica durante la Restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1815): le aspirazioni di carattere liberal-costituzionale e nazionale trovarono sbocco in una serie di rivolgimenti, a partire dai moti del 1820-21 di matrice carbonara, che videro il sacrificio di molti patrioti (tra cui Silvio Pellico e Piero Maroncelli), seguiti da quelli del 1831, tutti duramente repressi. L'istanza nazionale fu poi fatta propria, anche con connotazioni più schiettamente democratiche, dal movimento mazziniano, che a sua volta ispirò alcune insurrezioni, di volta in volta represse o abortite sul nascere; subentrò allora, a farsi interprete del sentimento nazionale, il Piemonte di Carlo Alberto e di Cavour, la cui abile politica diplomatica sarebbe stata provvidenziale per la futura unificazione dell'Italia. I moti indipendentistici che percorsero l'Europa fra il 1848 e il 1849 ebbero un'eco anche negli stati italiani, dove si formarono governi rivoluzionari provvisori, e nel caso di Venezia e di Roma portarono alla proclamazione della repubblica: la controreazione delle monarchie europee avrebbe comunque stroncato anche queste rivendicazioni. Dopo l'esito vittorioso delle insurrezioni di Milano (le cosiddette Cinque giornate) e di Venezia, il Piemonte, ormai messosi alla testa del movimento per l'unificazione italiana, combatté, e perse, la prima guerra d'indipendenza contro l'impero asburgico (1848-49); la seconda guerra d'indipendenza (1858-59), preceduta dagli importanti accordi di Plombières con l'imperatore francese Napoleone III, iniziò con alcuni successi militari dell'esercito franco-piemontese (battaglie di Magenta, di Solferino e San Martino) e dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, attivi in territorio lombardo, ma l'armistizio di Villafranca (1859), tra Francia e Austria, guadagnò al regno sabaudo solo la Lombardia. Seguì un'ondata di insurrezioni in vari territori italiani in favore dell'annessione al Piemonte: l'impresa dei Mille di Garibaldi (1860), dopo aver favorito la liberazione del Sud, permise la riunificazione sotto la corona dei Savoia anche del Centro. Rimanevano esclusi dal nuovo organismo unitario il Veneto e Roma: il primo fu attribuito all'Italia dopo la terza guerra d'indipendenza (1866), in seguito al conflitto austro-prussiano conclusosi con la vittoria della Prussia; la seconda, dopo la proclamazione del Regno d'Italia (1861), sarebbe stata conquistata nel 1870.

Immagini e commento (vedi Encarta)
Pellico e Maroncelli Scrittore e patriota piemontese, Silvio Pellico fece parte dei circoli liberali e romantici milanesi e collaborò con il "Conciliatore". Condannato a morte nel 1820 come carbonaro, insieme all’amico Piero Maroncelli, vide poi la pena mutata in venti anni di carcere allo Spielberg. Il dipinto di Giovan Battista Biscarra (1790-1851) ritrae il momento in cui i due patrioti partono per la fortezza morava.Agenzia LUISA RICCIARINI—MILANO
Verazzi: Cinque giornate di Milano I moti delle Cinque giornate lasciarono una traccia profonda nella storia di Milano. Protetti da barricate innalzate in diversi punti della città, i patrioti ingaggiarono scontri cruenti con le truppe dell’esercito austriaco. In questo dipinto, conservato al Museo del Risorgimento di Milano, viene raffigurata una scena del combattimento a Palazzo Litta.Agenzia LUISA RICCIARINI—MILANO
Battaglia di Solferino e San Martino Combattuta durante la seconda guerra d’indipendenza (1859), questa battaglia si concluse vittoriosamente per le truppe italiane e francesi. Mentre i francesi, guidati da Napoleone III, battevano le forze austriache a Solferino, i piemontesi, comandati da Vittorio Emanuele II, avevano la meglio sugli austriaci a San Martino, non lontano da Brescia. In questo quadro (Museo nazionale del Risorgimento, Torino) di Felice Cerruti Bauduc (1818-1896), dipinto nel 1859, ci viene offerta una rappresentazione fantasiosa ma efficace di un momento della battaglia.Agenzia LUISA RICCIARINI—MILANO
G. Induno: Imbarco dei Mille a Quarto Nella notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860 Garibaldi salpò dallo scoglio di Quarto, presso Genova, con un migliaio di volontari, le famose "camicie rosse", sulle navi Lombardo e Piemonte. L’obiettivo della spedizione era raggiungere la Sicilia e, da lì, conquistare il Regno di Napoli, per completare il progetto di riunificazione dell'Italia. Questo quadro, che documenta la partenza dei Mille, è opera di Girolamo Induno; il pittore italiano partecipò alle campagne garibaldine ed è celebre per i suoi ritratti delle maggiori personalità risorgimentali.Scala/Art Resource, NY
Presa di Ancona Massimo D’Azeglio alternò l’attività politica a quella artistica, dedicandosi alla pittura e alla scrittura letteraria. I suoi dipinti si caratterizzano per descrizioni atmosferiche di impronta romantica e un accorto uso della luce, che ricorda nella sua trasparenza la maniera dei vedutisti veneziani del Settecento. Quanto ai soggetti, l’ispirazione venne il più delle volte dagli avvenimenti politici contemporanei, come nel caso della tela La presa di Ancona (1860, Museo nazionale del Risorgimento).Agenzia LUISA RICCIARINI—MILANO
Eroli: I fratelli Cairoli lungo il fiume Tevere verso Villa Glori Nel dipinto di Erulo Eroli (I fratelli Cairoli lungo il fiume Tevere verso Villa Glori, 1911, Museo nazionale del Risorgimento, Torino), Enrico e Giovanni Cairoli sono ritratti mentre con altri volontari garibaldini (circa settanta uomini) si avvicinano alla collina di Villa Glori (il 20 ottobre 1867), dove avrebbero dovuto incontrare un gruppo di patrioti romani con i quali penetrare poi a Roma. Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre, mancato l’appuntamento con i ribelli romani, i garibaldini subirono l’attacco delle truppe pontificie e furono decimati e messi in fuga. Enrico, comandante del drappello, cadde durante il combattimento; il fratello Giovanni fu catturato dal nemico e morì due anni dopo per i postumi delle ferite riportate.Agenzia LUISA RICCIARINI—MILANO

Nelle rivoluzioni del 1848-49 la questione nazionale venne allo scoperto con le insurrezioni di Milano (Cinque giornate, marzo 1848) e di Venezia, conclusesi con la cacciata delle truppe austriache. La prima guerra d'indipendenza vide scendere in campo Carlo Alberto, il quale, però, si ritirò non appena fu sconfitto dagli austriaci nella battaglia di Custoza (1848), abbandonando al loro destino i patrioti italiani insorti un po' ovunque e privandoli di una guida nazionale. A Venezia gli insorti proclamarono la repubblica cominciando a organizzare la difesa militare contro il temuto intervento degli austriaci, mentre a Roma, fuggito Pio IX a Gaeta, la repubblica veniva proclamata il 9 febbraio 1849 da un'assemblea costituente.

Approfondimento (vedi Encarta)
Gramsci: Il Risorgimento italiano
Il Risorgimento, inteso sia come processo di formazione di una nuova borghesia nazionale, sia come volano di profonde trasformazioni della cultura italiana, in sintonia con le più generali tendenze della cultura europea, costituisce uno degli oggetti dominanti delle ricerche storiche di Antonio Gramsci. È a partire dalla Rivoluzione francese, secondo l’autore, che il Risorgimento diviene azione consapevole di “gruppi di cittadini disposti alla lotta e al sacrificio”, ma è soltanto nel 1848 che tali forze trovano unità e un efficace centro di coordinamento nel Regno di Sardegna.
Incoraggiato dalle rivoluzioni di Venezia e di Roma, Carlo Alberto ritornò sul campo di battaglia muovendo nuovamente il suo esercito contro l'Austria; ma per la seconda volta venne sconfitto nella battaglia di Novara. L'esito negativo dello scontro militare aprì la strada alla repressione nel Nord e nel Centro d'Italia, condotta dagli eserciti austriaci.

Approfondimento (vedi Encarta)
Le tappe dell'unificazione italiana Dopo il fallimento della prima guerra d'indipendenza contro l'Austria (1848-1849), il processo di unificazione dell'Italia proseguì a partire dal 1859, anno in cui scoppiò la seconda guerra d'indipendenza, e si concluse nel 1870 con la conquista di Roma. Il 17 marzo 1861 il Parlamento, riunito a Torino, sanciva la nascita del Regno d'Italia. Il termine "risorgimento", utilizzato dalla fine del XIX secolo, indica l'affermarsi del sentimento nazionale e la conseguente formazione dello stato unitario.© Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.

Al termine del biennio rivoluzionario le truppe austriache garantirono il ripristino delle dinastie regnanti prima del 1848. Solo nel Regno di Sardegna non fu restaurato il regime assolutistico, perché il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II mantenne lo Statuto concesso da Carlo Alberto. Su questa piattaforma liberale e costituzionalista fu possibile adottare una linea politica che rilanciava la questione nazionale, cui il primo ministro, Cavour, diede una dimensione praticabile imperniata sul consenso internazionale, assicurando il favore della Francia e della Gran Bretagna a un progetto di unificazione italiana controllato dal re di Sardegna. Decisivo fu l'intervento francese, che portò alla seconda guerra d'indipendenza, nel corso della quale le truppe franco-piemontesi sconfissero ripetutamente gli austriaci in Piemonte e in Lombardia e le popolazioni dell'Emilia, della Romagna e della Toscana insorsero chiedendo con i plebisciti l'adesione al nuovo stato che si stava formando. Alla guerra condotta dalla dinastia piemontese e interrotta bruscamente per il ritiro dei francesi (armistizio di Villafranca, 1859), diede un'accelerazione l'iniziativa patriottica dei democratici guidati da Giuseppe Garibaldi, culminata nella spedizione dei Mille, che liberò il Sud dal governo borbonico. Con i plebisciti le popolazioni meridionali chiesero, insieme con quelle dei territori pontifici delle Marche e dell'Umbria, di essere annesse al Regno di Sardegna: il 17 marzo del 1861 il Parlamento subalpino, nel quale ormai erano entrati deputati di tutta la penisola, proclamò Vittorio Emanuele II re d'Italia.


ARTICOLO: CAVOUR, Camillo Benso conte di
1 Introduzione
Cavour, Camillo Benso conte di (Torino 1810-1861), statista piemontese e primo ministro del Regno d'Italia; fu uno dei principali protagonisti del Risorgimento italiano.
2 L'approccio alla cultura liberale
Figlio del marchese Michele e della ginevrina Adele di Sellon, fu avviato alla carriera militare, ma prese la decisione di abbandonare l'esercito, nel quale peraltro era guardato con sospetto a causa delle sue idee liberali, maturate nel corso dei soggiorni all'estero e degli studi di economia e di politica. Una serie di viaggi nei principali paesi dell'Europa occidentale lo mise in diretto contatto con alcune personalità del mondo della cultura e con le trasformazioni economiche provocate dalla rivoluzione industriale. Cavour collaborò con alcune riviste italiane, svizzere e francesi con una serie di articoli nei quali analizzò temi quali il pauperismo, il liberismo doganale, le ferrovie, la modernizzazione dell'agricoltura, maturando il convincimento che l'indipendenza nazionale fosse per l'Italia un obiettivo storicamente fondato.
3 L'apprendistato politico
In Piemonte iniziò la sua attività politica negli ultimi anni del regno di Carlo Alberto, contrassegnati dall'esperienza dello Statuto e dalle riforme liberali, a cui aveva fatto seguito la partecipazione del Regno di Sardegna alla prima guerra d'indipendenza. Cavour fondò con alcuni moderati piemontesi il giornale "Il Risorgimento", che diresse per un anno (1847-48), continuando poi a collaborarvi fino al 1850, quando venne nominato ministro dell'Agricoltura nel governo di Massimo d'Azeglio. Dopo essere stato ministro delle Finanze, il re Vittorio Emanuele II lo nominò capo del governo (1852), carica che gli permise di adottare misure per lo sviluppo economico del Piemonte e per la costruzione di una rete ferroviaria.
4 L'abilità diplomatica
In politica estera si associò al re, deliberando nel 1854 la partecipazione dell'esercito sardo alla guerra di Crimea: il congresso di pace di Parigi del 1856 consentì a Cavour di attaccare lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie e di ottenere l'attenzione della Francia e della Gran Bretagna alla questione nazionale italiana. I rapporti da lui intrecciati con l'imperatore Napoleone III sfociarono negli accordi di Plombières (1858), che prevedevano l'intervento militare francese in appoggio al Piemonte, nel caso l'Austria avesse dichiarato guerra al regno sabaudo, e reciproche acquisizioni territoriali nella penisola. Nel frattempo Cavour intensificò i rapporti politici con gruppi di patrioti democratici, ex mazziniani, raccolti intorno alla Società nazionale.
5 L'intervento nel processo di unificazione italiana
Nel 1859 riuscì a rendere operative le clausole degli accordi di Plombières, costringendo l'Austria a dichiarare guerra al Piemonte: iniziate nell'aprile del 1859, le operazioni militari franco-piemontesi della seconda guerra d'indipendenza portarono alla liberazione della Lombardia dal dominio austriaco, mentre contemporaneamente sorgevano, ispirati da Cavour, movimenti annessionistici in Toscana, a Modena, a Parma e nelle Legazioni pontificie. L'improvvisa decisione presa da Napoleone III di ritirarsi dal conflitto, che condusse all'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) tra Austria e Francia, provocò la reazione di Cavour, che si dimise da presidente del Consiglio.
Ritornato a occupare la carica nel gennaio del 1860, Cavour persuase l'imperatore francese a riconoscere i risultati dei plebisciti che si erano tenuti in Emilia e in Toscana, con esiti ampiamente favorevoli all'unificazione al Piemonte, concedendogli in cambio Nizza e la Savoia. Nell'estate dello stesso anno sostenne l'intervento dell'esercito sardo al comando del re, che fu inviato a occupare le Marche e l'Umbria e a raccogliere il frutto dell'impresa che Garibaldi e i suoi volontari stavano portando a termine con la liberazione del Sud dal dominio borbonico (Spedizione dei Mille). Cavour fu il primo presidente del Consiglio del nuovo Regno d'Italia, proclamato il 14 marzo 1861; morì nel giugno di quello stesso anno.


ARTICOLO: GARIBALDI, Giuseppe
1 Introduzione
Garibaldi, Giuseppe (Nizza 1807 - Caprera 1882), patriota italiano; con le sue imprese e il suo esempio fu uno dei principali artefici dell'unità e dell'indipendenza nazionale e una delle figure più popolari dell'Ottocento romantico in tutto il mondo.
2 L'eroe dei due mondi
Figlio di un capitano della marina mercantile sarda, trascorse la giovinezza navigando sulle rotte dell'Oriente e del Mediterraneo. Nel 1833 entrò a far parte della società segreta Giovine Italia, fondata da Giuseppe Mazzini con l'obiettivo di conseguire l'unità politica della penisola italiana e l'indipendenza dal dominio straniero, e di costituire un governo democratico e repubblicano. Falliti i moti rivoluzionari mazziniani nel 1834, Garibaldi venne condannato a morte in contumacia dalle autorità sabaude.
Si rifugiò allora in Francia, a Marsiglia, e qui nel 1835 ottenne il comando di un brigantino diretto in Brasile. Lì giunto, non esitò a sostenere, praticando la tattica corsara, l'insurrezione repubblicana scoppiata nella provincia di Rio Grande do Sul contro il governo imperiale brasiliano. La sconfitta di quell'impresa lo costrinse, nel 1842, a riparare a Montevideo, in Uruguay, dove sposò Ana Maria Ribeiro da Silva, detta Anita, che si era unita a lui dal 1839. Poco dopo prese parte, facendo le sue prime prove di comando alla testa di una legione italiana, alla guerra civile in Uruguay, a fianco dei ribelli che combattevano contro le truppe governative sostenute dal dittatore argentino Juan Manuel de Rosas, distinguendosi per il valore mostrato in battaglia e per le sue doti di trascinatore di uomini.
3 Il rivoluzionario
Quando l'ondata rivoluzionaria che travolse l'Europa nel 1848 raggiunse l'Italia, Garibaldi fece ritorno in patria con altri 84 volontari della Legione italiana in Uruguay e si precipitò in Lombardia per partecipare alla prima guerra d'indipendenza, che già volgeva al peggio per le truppe piemontesi. La giunta del governo provvisorio di Milano lo inviò a organizzare la difesa di Bergamo, ma in seguito all'armistizio Salasco, firmato il 9 agosto 1848, egli fu costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore; poco dopo, approfittando della propria crescente popolarità, lanciò un proclama per la prosecuzione della guerra e infranse la tregua marciando su Varese.
3.1 La difesa di Roma
La controffensiva austriaca lo costrinse tuttavia a riparare in Svizzera, da dove ripartì subito dopo, per fermarsi prima nella Toscana in rivolta contro i Lorena e passare poi a Roma per partecipare alla fondazione della Repubblica Romana, di cui fu eletto deputato alla costituente. Egli fu il principale organizzatore e il capo militare della difesa contro i francesi, alleati di Pio IX, riuscendo a resistere agli assedianti per un mese (giugno 1849): quando i francesi entrarono in città, Garibaldi, con 4000 uomini, si diresse a Venezia, ancora libera ma posta a sua volta sotto assedio dagli austriaci.
Durante la fuga Anita, stremata, morì nelle Valli di Comacchio. Pochi giorni dopo anche Venezia cadeva, rendendo inutile la lunga e angosciosa traversata dell'Appennino e del delta del Po per raggiungerla, durante la quale molti volontari si erano dispersi. Garibaldi si rifugiò quindi a Genova, dove accettò senza protestare la condanna all'espulsione. Dopo varie peregrinazioni raggiunse l'anno seguente gli Stati Uniti, dove lavorò per qualche tempo a New York, come operaio nella fabbrica di candele di Antonio Meucci, del quale fu ospite.
Nel 1854, dopo aver incontrato il maestro d'un tempo, Mazzini, si allontanò definitivamente dal suo programma insurrezionale antisabaudo pur senza rinnegarne gli ideali repubblicani. Tornò in patria, dove la sua fama era ormai divenuta tale che il primo ministro del Regno di Sardegna, Cavour, accettò di avere un colloquio segreto con lui (1856): dopo il loro incontro Garibaldi dichiarò pubblicamente che riteneva indispensabile, per il raggiungimento dell'indipendenza e dell'unità nazionale, sostenere il re Vittorio Emanuele II. L'anno dopo aderiva, come molti altri ex mazziniani, alla Società nazionale, filosabauda, assumendone la vicepresidenza.
4 Il fautore dell'unità d'Italia
Nel 1858 Cavour affidò a Garibaldi la formazione di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, a cui il comando supremo piemontese affidò, durante la seconda guerra d'indipendenza (1859), il compito di sostenere l'estrema ala sinistra dello schieramento, lungo l'arco prealpino. Riportate le vittorie di Varese e di San Fermo e liberate Como, Bergamo e Brescia, Garibaldi fu bloccato dalla firma dell'armistizio di Villafranca (8 luglio 1859), che provocò un raffreddamento dei suoi rapporti con il governo sardo, dove Cavour era stato sostituito dal generale Alfonso La Marmora.
Passato al comando dell'esercito formato dalle truppe regolari congiunte di Romagna, Parma, Modena, Bologna e Toscana, ribelli ai rispettivi governi, Garibaldi entrò nelle Marche per cercare di estendere i territori liberati, ma Vittorio Emanuele, timoroso delle reazioni internazionali, lo fermò. Garibaldi allora si ritirò nella modesta tenuta acquistata nell'isoletta sarda di Caprera; ciò non gli impedì di venire eletto deputato in rappresentanza della città natale, Nizza, proprio poco prima che essa, non senza sua grande amarezza, venisse ceduta a Napoleone III, insieme con la Savoia, a compenso dell'alleanza vittoriosa contro l'Austria.
4.1 La spedizione dei Mille
Nell'aprile del 1860, quando a Palermo scoppiò la rivolta antiborbonica, con il tacito consenso e sostegno di Cavour, tornato a capo del governo piemontese, e di Francia e Gran Bretagna, Garibaldi organizzò la spedizione dei Mille. Salpò da Quarto, presso Genova, il 6 maggio con due brigantini sottratti alla compagnia Rubattino e, dopo una sosta al forte toscano di Talamone per rifornirsi di armi e imbastire un diversivo contro lo Stato Pontificio, raggiunse la Sicilia, protetto da navi inglesi, e sbarcò a Marsala. Il primo scontro con le truppe borboniche sulla via di Palermo fu a Calatafimi: tra il maggio e l'agosto del 1860 i garibaldini – detti, dal loro abbigliamento, "Camicie rosse" – riuscirono a occupare tutta l'isola, raccogliendo lungo la strada migliaia di volontari, e vi instaurarono un governo provvisorio, con Garibaldi dittatore, in nome di Vittorio Emanuele II.
L'esercito borbonico fu incapace di organizzare la resistenza e di impedire che Garibaldi passasse nel continente e occupasse anche Napoli il 7 settembre. Al Volturno, il 2 ottobre, egli sbaragliò definitivamente le truppe borboniche e il 26 a Teano consegnò a Vittorio Emanuele, giuntovi con l'esercito del generale Cialdini, che era sceso a occupare Romagna e Marche, l'intero Regno delle Due Sicilie. Quindi, colui che ormai tutti chiamavano l'"eroe dei due mondi", rinunciando a ogni onorificenza, si ritirò nuovamente a Caprera.
5 Le ultime imprese
Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale, al quale Garibaldi fu eletto deputato, proclamò Vittorio Emanuele re d'Italia. Il nuovo regno però non comprendeva ancora il Veneto, il Trentino, Roma e il Lazio. Inoltre, i governi succeduti a Cavour avevano Garibaldi e i suoi volontari in gran sospetto e respingevano la proposta di farne il nerbo di un esercito di popolo per completare l'unità d'Italia, di cui l'eroe presentò il progetto; egli divenne quindi ancor meno di prima rispettoso dei calcoli diplomatici sabaudi.
Nell'estate del 1862, dopo un vano tentativo di annettere il Trentino con un'operazione militare, Garibaldi, al motto di "Roma o morte", organizzò una nuova spedizione diretta contro lo Stato Pontificio. Quando però Napoleone III rese pubblica la sua decisione di impedire un attacco contro Roma, Vittorio Emanuele si vide costretto a sconfessare l'impresa e inviò contro i volontari garibaldini un reparto dell'esercito regolare. Nella battaglia dell'Aspromonte (29 agosto 1862) Garibaldi, ferito, venne arrestato e imprigionato per alcuni giorni. L'episodio costrinse l'Italia a garantire, con la Convenzione di settembre stipulata nel 1864 con la Francia, il rispetto di Roma papale.
5.1 La terza guerra d'indipendenza
Nel 1866, nella terza guerra d'indipendenza, Garibaldi tornò alla testa dei volontari e il 21 luglio ottenne contro gli austriaci l'unica vittoria italiana, a Bezzecca, nel Trentino. Ricevuto l'ordine di fermarsi in seguito all'armistizio, telegrafò la famosa risposta: "Obbedisco". Poco tempo dopo, però, nonostante l'aperta disapprovazione del governo italiano, tornò a progettare una spedizione per liberare Roma, ma per la seconda volta venne intercettato dalle truppe italiane e costretto a fermarsi. Sfuggito al loro controllo, il 3 novembre 1867 si scontrò con le truppe francesi e pontificie a Mentana e, dopo un breve combattimento, fu sconfitto e costretto a rifugiarsi a Caprera.
Nel 1870, dopo la caduta di Napoleone III, Garibaldi lasciò il confino forzato nell'isola per offrire i suoi servigi alla Repubblica francese impegnata nella guerra franco-prussiana e sconfisse i tedeschi a Digione, unica vittoria francese di quella guerra. Nei suoi ultimi anni si avvicinò alle teorie socialiste, che andavano affermandosi in Italia e all'estero, e accettò la presidenza onoraria di molte Società di mutuo soccorso in tutta Italia. Pur sobbarcandosi numerosi viaggi, accolto ovunque, anche a Londra, con straordinarie manifestazioni di ammirazione, non abbandonò mai la semplicità della sua vita di contadino e pescatore a Caprera.

Tra i suoi scritti, di notevole interesse, più che gli ingenui e grossolani romanzi (Clelia o il governo del mondo, Cantoni il volontario e I Mille), sono le vivide e per nulla letterarie Memorie.

 

Fonte:http://web.ticino.com/storiaspse/doc/01/21-23naz-demo-ita-ger-usa-b15/06non-dist/risorgimento.doc

 

Risorgimento italiano

 

Discorsi costituzionali nel Risorgimento italiano

Gli avvenimenti che hanno interessato principalmente la Francia tra il 1789 e il 1815 hanno avuto un’ineliminabile ripercussione nell’intera Europa. I francesi hanno fatto conoscere al continente nuovi modelli politici, istituzionali e ideologici: la monarchia costituzionale, la repubblica democratica radicale, la repubblica moderata borghese, l’esercito di popolo, la leva militare di massa, la certezza del diritto, l’uguaglianza formale tra i cittadini. Con il rinnovamento giuridico e burocratico impresso da Napoleone, la Francia ha concretamente, tramite l’esportazione dei propri ordinamenti, trasmesso all’Europa il Codice civile, il centralismo amministrativo, un’efficiente burocrazia e un organizzato apparato poliziesco. L’eredità napoleonica, sia dal punto di vista istituzionale che da quello ideologico, diviene quindi uno dei problemi più complessi con i quali si devono confrontare i sovrani e i diplomatici che convengono nel 1815 a Vienna per dare corso a quell’opera che va sotto il nome di Restaurazione.
I fondamenti della Restaurazione sono i principi di equilibrio e di legittimità. In base al primo, è possibile alle diverse potenze europee blocchino sul nascere l’espansionismo territoriale di un singolo stato: deve prender evita un ordine internazionale basato sul compromesso, sul bilanciamento delle forze, sulla tranquillità, in modo che si possa assicurare una pace duratura. Secondo il principio di legittimità, è necessario riconoscere i naturali diritti dei sovrani che hanno governato prima dell’avvento di Napoleone. La carta geopolitica italiana è caratterizzata dal regno del Lombardo-Veneto, direttamente dominato dall’Austria; dal regno di Sardegna, sotto la dinastia dei Savoia; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, nel quale governa Maria Luisa d’Austria; dal ducato di Modena e Reggio, sotto Francesco IV d’Asburgo; dal ducato di Lucca, governato da Maria Luisa di Borbone-Parma; dal Granducato di Toscana con Ferdinando III d’Asburgo-Lorena; dallo Stato pontificio e dal Regno delle Due Sicilie, formalmente di nuova formazione con l’unione dei Regni di Napoli e Sicilia, sotto la dinastia dei Borbone.
Il rispetto dell’ordine costituito, in Italia come nell’intera Europa, è garantito da un’organica intesa fra lo zar Alessandro I, il re di Prussia, Federico Guglielmo III, e l’imperatore d’Austria, Francesco II, che stilano un testo, dove si fondono principi religiosi, paternalismo politico, diritto divino dei sovrani e solidarietà per la difesa dello status restaurato, che è la base della cosiddetta Santa Alleanza.

La Santa Alleanza
Le Loro Maestà hanno convenuto gli articoli seguenti:
Art. 1. Conformemente alle parole delle Sante Scritture, le quali comandano a tutti gli uomini di riguardarsi come fratelli, i tre monarchi contraenti rimarranno uniti con legami di vera e indissolubile fratellanza, e considerandosi come patrioti, in qualunque occasione ed in qualunque luogo si presteranno assistenza, aiuto e soccorso; e considerandosi verso i loro sudditi ed eserciti come padri di famiglia, li guideranno nello stesso spirito di fratellanza da cui sono animati per proteggere la religione, la pace e la giustizia.
Art. 2. DI conseguenza, il solo principio in vigore, sia fra i detti governi, sia fra i loro sudditi, sarà quello di rendersi reciprocamente servizio, di manifestarsi con una benevolenza inalterabile le scambievoli affezioni da cui devono essere animati, di considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana, riguardandosi i tre Principi alleati, essi stessi, come delegati della Provvidenza a governare tre rami della stessa famiglia, cioè: l’Austria, la Prussia, e la Russia, dichiarando così che la nazione cristiana di cui Essi e i loro popoli fanno parte, non ha realmente altro sovrano se non quello a cui solo appartiene in proprietà il potere, perché in lui solo si trovano tutti i tesori dell’amore, della scienza e della saggezza infinita, cioè a dire Dio, il nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, il Verbo dell’Altissimo, la parola di vita.
Le loro Maestà raccomandano in conseguenza con la più tenera sollecitudine ai loro popoli, come unico mezzo per godere di quella pace che nasce dalla buona coscienza, e che sola è durevole, di fortificarsi ogni giorno di più nei principi e nell’esercizio dei doveri che il Divin Salvatore ha insegnato agli uomini.
Fatto in triplo e sottoscritto a Parigi, l’anno di grazia 1815, il 24-26 settembre.
Francesco
Federico Guglielmo
Alessandro
(Critica e documenti storici, a cura di G. Galasso, Napoli, Il tripode, 1972)

            La Santa Alleanza, ben presto, assume le caratteristiche di un’organizzazione politica e militare tesa alla repressione di ogni istanza liberale. L’opposizione politica si esprime quindi attraverso organizzazioni clandestine le società segrete, dove si discutono programmi politici che vanno dalla proclamazione di una costituzione all’instaurazione del regime repubblicano, alla piena sovranità popolare, alla collettivizzazione dei beni. Sono le società segrete a promuovere in Spagna e in Italia tra il 1820 e il 1821 i moti contro i regimi «restaurati». In Italia i moti hanno inizio nel Regno delle due Sicilia, su iniziativa di ufficiali appartenenti a una importante società segreta, la Carboneria. Obiettivo degli insorti è un documento costituzionale che riprenda le linee della Costituzione di Cadice, concessa nel 1812 da Ferdinando VII di Borbone agli spagnoli in guerra contro Napoleone. Tale costituzione ha carattere democratico, contempla il suffragio universale e dispone un sistema monocamerale (eliminando così la «camera alta» dove tradizionalmente vengono espressi pareri favorevoli ai valori conservatori o reazionari). Sua caratteristica, introvabile nelle precedenti costituzioni francesi, è il preciso riferimento alla religione cattolica.

La costituzione di Cadice del 1812
Art. 1. La Nazione spagnola è la riunione di tutti gli Spagnoli di ambedue gli emisferi.
Art. 2. La Nazione spagnola è libera e indipendente; e non è né può essere patrimonio di veruna famiglia o persona.
Art. 3. La sovranità risiede essenzialmente nella Nazione ed in conseguenza ad essa sola appartiene il diritto di stabilire le proprie sue leggi fondamentali […].
Art. 12. La Religione della Nazione spagnola è presentemente, e perpetuamente sarà, la Cattolica, Apostolica, Romana, unica vera. La Nazione la protegge con leggi sapienti e giuste, e vieta l’esercizio di qualunque altra Religione […].
Art. 172. Le restrizioni dell’autorità del Re sono le seguenti:
1. Non può il Re impedire sotto verun pretesto la riunione delle Corti nei tempi assegnati dalla Costituzione; né scioglierle, né sospenderle, né in maniera alcuna disturbarne le sessioni o deliberazioni. Chiunque gli desse aiuto o consiglio per qualsiasi di coteste operazioni, sarà dichiarato traditore e perseguitato come tale.
2. Non può il Re uscire dal Regno senza il consenso delle Corti, ed in caso di farlo, s’intenderà che abbia rinunziata la Corona.
3. Non può il Re alienare, né cedere, né rinunziare, né trasferire per verun conto ad altra persona la sua autorità reale, né veruna delle sue prerogative. Se volesse per qualunque motivo rinunziare il Trono al suo immediato Successore, non potrà farlo senza cognizione delle Corti […].
8. Non può il Re né direttamente, né indirettamente imporre contribuzioni, né chieder doni o pagamenti per verun oggetto né titolo: il decretare tali cose è proprio delle Corti […].
12. Il Re, prima di contrarre matrimonio, ne darà parte alle Corti per ottenerne il consenso; e nel caso che sposi senza consenso, s’intenderà che abbia rinunziato alla Corona.
13. Il Re, nella sua esaltazione al trono, o nell’assumere, dopo la minore età, il governo del Regno, presterà giuramento innanzi alle Corti sotto la formula seguente:
N. (Qui va il nome del Re) per la grazia di Dio e per la Costituzione della Monarchia spagnola, Re della Spagna, giuro nel nome di Dio, e sopra i Santi Vangeli: che difenderò e conserverò la Religione Cattolica, Apostolica, Romana senza permetterne verun’altra nel Regno; che osserverò e farò osservare la Costituzione politica, e le leggi della Monarchia spagnola, avendo sempre la mira in tutte le mie operazioni al bene e vantaggio di essa; che non alienerò, né cederò, né smembrerò veruna parte del Regno; che non esigerò mai frutti, né denaro, né verun’altra cosa, se non ciò che le Corti avessero decretato; che non toglierò mai a nessuno la proprietà, e rispetterò sopra ogni altra cosa la libertà politica della nazione, e la personale di ogni individuo. Se io operassi contro il mio giuramento o contro qualunque articolo di esso, non dovrò essere ubbidito; ed ogni operazione, con cui vi contravvenissi, sarà nulla e di nessun valore. Così facendo, Iddio mi aiuti e mi protegga, ed altrimenti, me ne domandi conto.
(da E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, Varese, ispi, 1941).

            L’insurrezione napoletana viene repressa nel sangue, nella primavera del 1821. In seguito vengono adottate misure liberticide, finalizzate a prevenire ulteriori rigurgiti rivoluzionari. Particolare attenzione viene riservata agli studenti, sottoposti a un severissimo controllo e lusingati, nel caso non si facciano influenzare da propositi sovversivi, da allettanti promesse circa il loro futuro.

Un decreto di re Ferdinando I agli studenti di Napoli (4 aprile 1821).
L’animo nostro paterno, inteso più a prevenire che a punire le colpe, sente compassione di molti giovani sedotti o dal qualche loro maestro speculatore di rivoluzioni, o da certi moderni libri faziosi, o dal contagio morale di pericolosi compagni. Sicuri che l’età, l’esperienza e le non chimeriche cognizioni apriranno col tempo i loro lumi alla luce della verità; per agevolare un siffatto disinganno, sulla proposizione del nostro direttore della real segreteria di Stato degli affari interni, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Tutt’i giovani studenti che appartengono ai comuni delle diverse province del Regno, i quali dopo le cominciate ferie estive rimangono in Napoli senza veruna occupazione, si restituiranno fra ‘l termine di otto giorni nel seno delle proprie famiglie. Quivi continueranno gli studi camerali fino alla riapertura della regia Università, in seguito de’ nuovi regolamenti che ci riserbiamo di emanare a fin di renderla più operativa e più utile.
Art. 2. Coloro che ricuseranno di uniformarsi a questa disposizione saranno sottoposti alla sorveglianza della polizia, e considerati come vagabondi.
Art. 3. Gl’intendenti delle provincie insinueranno ai padri, od a chiunque ne faccia le veci, che, riprendendo l’autorità loro conceduto dalla natura e dalla legge, procurino di estirpare dall’animo de’ loro figliuoli qualunque germe maligno, onde renderli atti a ricercare nel pubblico bene la propria felicità.
Art. 4. Quegli studenti che appartengono a famiglie dimoranti nella capitale, dovranno al termine di ogni mese provvedersi di attestato del proprio privato maestro, non meno sull’applicazione, che su’ costumi. Senza di siffatto documento resteranno esclusi da’ gradi accademici di qualunque facoltà.
Art. 5. I maestri privati, e quei che hanno particolari giovani a pensione, dovranno presentare fra otto giorni un distinto elenco de’ loro alunni, accompagnato da una memoria riservata circa la condotta religiosa, politica, e morale di ciascuno di essi.
Art. 6. Quei giovani studiosi, che serberanno illibata condotta per l’avvenire, acquisteranno un titolo non solo a promozioni, ma eziandio a qualche sussidio nel loro tirocinio.
(da D. Mack Smith, Risorgimento italiano, Bari, Laterza, 1968)

 

Proprio mentre a Napoli le forze borboniche, con l’intervento austriaco, restaurano l’assolutismo monarchico, nel Piemonte sabaudo scoppiano moti rivoluzionari. Anche in questo caso le truppe austriache riescono ad avere ragione dei rivoltosi. La dura politica repressiva seguita in tutta Italia non fa che spegnere le speranze dei costituzionalisti, che auspicano un rinnovamento dei regimi vigenti grazie alla concessione di una carta che mitighi il reazionario assolutismo dei monarchi italiani.
Fra il 1830 e il 1831 una nuova ondata rivoluzionaria scuote l’Europa. Moti scoppiano in Francia, nei Paesi Bassi e in Polonia. In Francia le agitazioni hanno un carattere liberale e sono funzionali all’instaurazione della monarchia parlamentare di Luigi Filippo d’Orléans. Nei Paesi Bassi e in Polonia i moti sono di carattere nazionalista: nel primo caso portano alla nascita del Belgio, nel secondo vengono repressi con violenza dalle truppe russe. Anche in Italia, nei ducati di Modena e Parma e nello Stato pontificio viene organizzata un’insurrezione, nota oggi come «congiura estense», per aver goduto in principio dell’appoggio del duca di Modena Francesco IV, che nei moti di carattere liberale ravvisa un modo per ampliare i confini del proprio Stato. È lo stesso Francesco IV, timoroso di un intervento massiccio dell’Austria, a ritirare il suo appoggio ai rivoltosi, che dopo l’insurrezione riescono a formare un governo provvisorio nel febbraio del 1831. Tuttavia, non giunge ai rivoluzionari l’atteso aiuto dalla Francia liberale mentre l’intervento militare dell’Austria riporta nel marzo seguente lo status quo ante nell’Italia centrale. L’avvenimento, malgrado il sostanziale fallimento, riaccende le speranze di tutti coloro che auspicano un rinnovamento politico nella Penisola. Particolarmente forte è il tema dell’unità e dell’indipendenza d’Italia, un tema che comincia a imporsi con forza a fronte delle rivendicazioni costituzionali che avevano caratterizzato le insurrezioni del 1820 e del 1821, come dimostra la seguente pagina che contiene un appello scritto da esuli italiani a Parigi nel 1830:

Al popolo italiano, dalle Alpi alla Sicilia
Amici e Fratelli.
La Fracnia, il Belgio, gli Svizzeri e la Polonia gridano libertà e questa beata voce fu valorosamente ripetuta dai nostri concittadini di Modena e di Bologna; noi accorriamo per unire le nostre voci e le nostre braccia a pro della libertà italiana.
Libertà; sì libertà universale dalle Alpi alla Sicilia, e, per ricuperare un tanto bene si trascuri ora ogni interesse, ogni comodo, e s’impugnino da tutti le armi a sterminio dei tiranni, e di chiunque dentro, o fuori tentasse di sostenerli.
Non può esistere libertà senza indipendenza, né indipendenza senza forza, né forza senza unità. Adopriamoci dunque acciò l’Italia sia in breve Indipendente, Una e Libera.
Tocca agli Italiani comandare in Italia che fu purtroppo preda degli esteri dominatori. Qui sia il Popolo solo padrone: qui regni l’eguaglianza e l’amore, qui abbia ferma sede la felicità di tutti.
Popolo misero, Popolo che vivi nello stento e nella fatica! La libertà ti chiama ad una nuova vita, e coloro che oggidì la desiderano, e la invocano, non avran pace finché le cose politiche non siano sistemate in modo che non siavi più un uomo solo, che lavorando moderatamente non viva libero, ed agiato.
Nobili e Plebei, Ricchi e Poveri, ora gli stessi lacci v’avvincono, e tutti a servire siete costretti pochi tiranni, che per serbare il potere, si fanno essi pure servi del truce Alemanno, il quale spietato tracanna il vostro sangue, e si pasce delle vostre lagrime. Muoia l’Austriaco, periscano i Re, s’infrangano le corone, e non sianvi in Italia che leggi di fratellanza e di libertà.
Amici! Guardatevi dalle insidie; quei re che tante volte mentirono, quei re che in mille modi v’opprimono, quei re che straziarono i vostri fratelli, vestendo pelle d’agnello, vedendosi ora alle strette, v’offriranno una costituzione, così introducendo con questa tra voi la divisione, si lusingheranno di serbarsi potere bastante, onde opprimervi anche di più sotto pretesto di legalità. Respingete i doni avvelenati dei tiranni, e non lasciate in mani altrui quella autorità che a voi soli si compete.
All’armi, all’armi; l’Italia lo vuole, la virtù il comanda, e la felicità vostra e dei vostri figli, v’impone altamente il dovere di cogliere una sì fausta occasione per recuperare i vostri diritti.
Libertà intera ed eterna alla cara Italia.
(da G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna,
II, Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale 1815-1846, Milano, Feltrinelli, 1958)

Le insurrezioni del 1831 chiudono un’epoca. Il loro fallimento dimostra l’impossibilità di un’azione politica in grado di coinvolgere un gruppo ristretto di cospiratori e incapace di stilare un programma tale da riscuotere l’interesse popolare. Nel nuovo clima patriottico coltivato dagli appartenenti ai ceti medi dei diversi Stati italiani e caratterizzato dalla passione nazionalistica mescolata ad istanze liberali, si sviluppano nuove idee sul futuro della Penisola e sulle forme istituzionali che l’Italia, una volta unita, deve assumere.
Un ruolo di primo piano assume la figura di Giuseppe Mazzini (1805-1872), che giovanissimo aderisce alla Carboneria. Arrestato e poi costretto all’esilio, Mazzini nel 1831, stende il programma di una nuova organizzazione, la Giovane Italia, destinata, secondo le intenzioni del suo fondatore, a promuovere un’azione politica incisiva che, dopo il raggiungimento dell’unità, porti all’instaurazione della repubblica in Italia. I mezzi da utilizzare per perseguire questo obiettivo sono la propaganda educativa e l’insurrezione popolare. Con il simbolo del tricolore, secondo Mazzini, la Giovine Italia può ambire ad articolarsi a livello nazionale e a organizzare, non un’insurrezione locale facilmente reprimibile, ma un’autentica rivoluzione, come si legge nella istruzione generale per gli affratellati:

Giuseppe Mazzini, L’istruzione generale per gli affratellati della «Giovine Italia».
Libertà Eguaglianza Umanità Indipendenza Unità
1. La Giovine Italia è la fratellanza degli Italiani credenti in una legge di Progresso e di Dovere; i quali convinti che l’Italia è chiamata ad essere Nazione – che può con proprie forze crearsi tale – che il mal esito dei tentativi passati non spetta alla debolezza, ma alla pessima direzione degli elementi rivoluzionari – che il segreto della potenza è nella costanza e nell’unità degli sforzi – consacrano, uniti in associazione, il pensiero e l’azione al grande intento di restituire l’Italia in Nazione di liberi ed eguali, Una, Indipendente, Sovrana.
2. […] La Nazione è l’universalità degli Italiani, affratellati in un patto e viventi sotto una legge comune.
3. Basi dell’associazione.
Quanto più l’intento di un’associazione è determinato, chiaro, preciso, tanto più i suoi lavori procederanno spediti, sicuri, efficaci.
La forza d’una associazione è riposta non nella cifra numerica degli elementi che la compongono, ma nella omogeneità di questi elementi, nella perfetta concordia dei membri circa la via da seguirsi, nella certezza che il dì dell’azione li troverà compatti e serrati in falange, forti di fiducia reciproca, stretti in unità di volere intorno alla bandiera comune. Le associazioni che accolgono elementi eterogenei e mancano di programma, possono durare apparentemente concordi per l’opera di distruzione, ma devono infallibilmente trovarsi il dì dopo impotenti a dirigere il movimento, e minate dalla discordia tanto più pericolosa, quanto più i tempi richiedono allora unità di scopo e d’azione [...].
Qualunque, individuo o associazione, si colloca iniziatore d’un mutamento nella Nazione, deve sapere a che tende il mutamento ch’ei provoca. Qualunque presume chiamare il popolo all’armi, deve potergli dire il perché. Qualunque imprende un’opera rigeneratrice, deve avere una credenza; s’ei non l’ha è fautore di torbidi e nulla più, promotore d’un’anarchia alla quale ei non ha modo d’imporre rimedii e termine. Né il popolo si leva mai per combattere quand’egli ignora il premio della vittoria.
Per queste ragioni, la Giovine Italia dichiara senza reticenza a’ suoi fratelli di patria il programma in nome del quale essa intende combattere. Associazione tendente anzi tutto a uno scopo d’insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno, essa espone i principii pe’ quali l’educazione nazionale deve avverarsi, e dai quali soltanto l’Italia può sperare salute e rigenerazione […].
La Giovine Italia è repubblicana e unitaria.
Repubblicana: perché, teoricamente, tutti gli uomini d’una Nazione sono chiamati, per legge di Dio e dell’Umanità, ad esser liberi, eguali e fratelli; e l’istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire – perché la sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, sola interprete progressiva e continua della legge morale suprema – perché dovunque il privilegio è costituito a sommo dell’edificio sociale, vizia l’eguaglianza dei cittadini, tende a diradarsi per le membra, e minaccia la libertà del paese […].
Repubblicana: perché praticamente l’Italia non ha elementi di monarchia; non aristocrazia venerata e potente che possa piantarsi fra il trono e la Nazione; non dinastia italiana, che comandi, per lunghe glorie e importanti servizi resi allo sviluppo della Nazione, gli affetti o le simpatie di tutti gli Stati che la compongono – perché la tradizione italiana è tutta repubblicana: repubblicane le grandi memorie; repubblicano il progresso della Nazione e la monarchia s’introdusse quando cominciava la nostra rovina e la consumò; fu serva continuamente dello straniero, nemica al popolo e all’unità nazionale – perché le popolazioni dei diversi Stati italiani, che s’unirebbero, senza offesa alle ambizioni locali, in un principio, non si sottometterebbero facilmente ad un Uomo, uscito dall’un degli Stati, e le molte pretese trascinerebbero il Federalismo […].
La Giovine Italia è unitaria: perché senza unità non v’è veramente Nazione – perché senza unità non v’è forza, e l’Italia, circondata da nazioni unitarie, potenti e gelose, ha bisogno anzitutto d’esser forte – perché il Federalismo, condannandola all’impotenza della Svizzera, la porrebbe sotto l’influenza necessaria d’una o d’altra delle nazioni vicine – perché il Federalismo, ridando vita alle rivalità locali, oggimai spente, sospingerebbe l’Italia a retrocedere verso il medio evo – perché il Federalismo smembrando in molte piccole sfere la grande sfera nazionale, cederebbe il campo alle piccole ambizioni e diverrebbe sorgente di aristocrazia – perché, distruggendo l’unità della grande famiglia italiana, il Federalismo distruggerebbe dalle radici la missione che l’Italia è destinata a compiere nell’Umanità […] – perché tutte le obiezioni fatte al sistema unitario si riducono ad obbiezioni contro un sistema di concentrazione e di dispotismo amministrativo che nulla ha di comune coll’unità. La Giovine Italia non intende che l’unità nazionale implichi dispotismo, ma concordia e associazione di tutti. La vita inerente alle località dev’essere libera e sacra. L’organizzazione amministrativa dev’esser fatta su larghe basi e rispettate religiosamente le libertà di comune; ma l’organizzazione politica destinata a rappresentare la nazione in Europa deve essere una e centrale. Senza unità di credenza e di patto sociale, senza unità di legislazione politica, civile e penale, senza unità di educazione e di rappresentanza non v’è nazione.
(da G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, II, Imola, 1907)

            La Giovine Italia raccoglie sin dalla sua fondazione entusiastiche adesioni che sfociano, fra il 1833 e il 1834, in una serie di tentativi insurrezionali, spesso conclusi da arresti, carcere e condanne a morte. Lo stesso Mazzini, colpito dai tragici fallimenti e dallo smantellamento della rete cospirativa, è investito da una profonda crisi interiore (la «tempesta del dubbio», come egli stesso la definirà), dalla quale esce fermamente convinto delle sue opinioni. Il fallimento nel 1844 della spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera segna però una nuova disfatta politica. Agli occhi dell’opinione pubblica italiana, Mazzini, incapace di valutare correttamente le possibilità di insurrezione esistenti nel Mezzogiorno, viene accusato di irresponsabilità e di cinismo, mentre acquistano rilievo le opinione dei liberali moderati.
Questi ultimi cercano di sollecitare l’aristocrazia liberale e la borghesia a spingere i governi in senso riformistico, in modo da scongiurare una rivoluzione di tipo democratico. Un primo, importante mezzo è costituito da una vivace pubblicistica; in seconda battuta si promuovono congressi di natura scientifica (il primo a Pisa nel 1839, l’ultimo a Venezia nel 1847), mentre sempre  più frequenti si fanno le discussioni intorno alla liberalizzazione dei commerci fra Stato e Stato, a una lega doganale, alla costruzione delle ferrovie. Ben presto, all’interno del dibattito pubblico si delineano alcune posizioni forti e ideologicamente caratterizzate. Il movimento neoguelfo, dato che individua nel Papato la grande forza di unificazione spirituale dell’Italia, ha in Vincenzo Gioberti (1801-1852) il suo massimo rappresentante. Nella famosa opera Del primato morale e civile degli italiani, pubblicata nel 1843, Gioberti teorizza che solo sulla base della tradizione sia possibile conseguire un risorgimento nazionale. Pertanto, spetta al Papato, con il prestigio del suo ministero universale, guidare quella Confederazione degli Stati italiani in grado di ridare all’Italia il «primato» avuto per secoli. Il programma giobertiano si pone in alternativa con le dottrine democratiche e rivoluzionarie di stampo mazziniano, offrendo garanzie contro ogni tipo di sommovimento politico, contro il disordine e i tentativi rivoluzionari. Nelle intenzioni di Gioberti, le linee direttrici indicate sono realistiche; tuttavia, anch’esse, al momento della loro affermazione, risultano altrettanto utopistiche di quelle mazziniane. Sulla cattedra di Pietro siede, infatti, Gregorio XVI, il pontefice che con l’enciclica Mirari vos ha condannato ogni tipo di dottrina liberale. Ciò nonostante sin dal momento della sua pubblicazione, l’opera Del primato morale e civile degli italiani riscuote un grande successo, inserendo il tema dell’unità d’Italia al centro degli interessi dell’opinione pubblica.

Vincenzo Gioberti, Il risorgimento dell’Italia
L’Italia ha in sé tutte le condizioni del suo nazionale e politico risorgimento, senza ricorrere alle sommosse intestine, alle imitazioni e invasioni forestiere. [...] Io mi propongo di provare che l’Italia contiene in sé medesima, sovrattutto per via della religione, tutte le condizioni richieste al suo nazionale e politico risorgimento, e che per darvi opera in effetto non ha d’uopo di rivoluzioni interne, né tampoco d’invasioni o d’imitazioni forestiere. E in prima dico che l’Italia dee ricuperare innanzi ad ogni altra cosa la sua vita come nazione; e che la vita nazionale non può aver luogo, senza unione politica fra le varie membra di essa. [...] Molti collocano siffatta unità nel popolo italiano; il quale, a parer mio, è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta e illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’instituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini. la congiunzione fa di questa schiatta un popolo in potenza. la divisione impedisce che lo sia in atto. [...]
L’unione italica non può ottenersi colle rivoluzioni. Quando per via di rivoluzioni si riuscisse a cessare la presente divisione d’Italia, non perciò si acquisterebbe l’unione desiderata, ma si aprirebbe invece la porta a nuovi disordini. [...] Or tal sarebbe la rivoluzione o piuttosto le rivoluzioni italiane, se si adempisse il voto di certuni; perché al vivere consueto e anticato succederebbe uno stato in aria, un governo debole, nullo, senza radice nel passato, senza forza nel presente, né fiducia nell’avvenire, e incapace di comprimere le fazioni politiche, le gare provinciali e gli odii municipali, che metterebbero bentosto il paese sossopra e aprirebbero la strada al ritorno peggiorato degli ordini antichi. [...]
Il principio della unità italiana è il Papa; il quale può unificare la penisola, mediante una confederazione dei suoi principi. I sistemi degli unitari sin qui accennati sono intrinsecamente viziosi, perché non muovono da un’idea patria, non corrispondono alle specialità italiane, non hanno una base nazionale, e sono castelli in aria o frutti di dottrine e imitazioni di esempi forestieri. Se v’ha qualcosa di certo in politica, si è che le mutazioni civili di un popolo non hanno durata, né vita, quando non sono un portato spontaneo di quello, e quasi il risultamento necessario di quelle condizioni effettive. Le rivoluzioni tentate o malamente effettuate da cinquant’anni in qua nell’Italia, nella Spagna e nella Germania ed altrove, non furono che imitazioni mal condotte della rivoluzione in Francia, partorite e governate dalle opinioni e dai successi gallici. Questa è la ragione per cui tali conati o riuscirono vani, o stentatamente attecchirono, come piante già floride e rigogliose, ma intisichite, perché trasposte sopra un terreno peregrino e posticcio, perché educate sotto un cielo diverso e alieno dal loro genio natio [...]. Eco io dico qual è il vero principio dell’unità italiana [...]. Questo principio è sommamente nostro e nazionale, poiché creò la nazione ed è radicato in essa da diciotto secoli: è concreto, vivo, reale, e non astratto e chimerico, poiché è un instituto, un oracolo, una persona: è ideale, poiché esprime la più grande idea che si trova al mondo: è sommamente efficace, poiché è effigiato dal culto, corroborato dalla coscienza, santificato dalla religione, venerato dai principi, adorato dai popoli, [...] è in fine perfettamente ordinato in sé stesso e nel modo del suo procedere, perché è un potere organato da Dio stesso e costituisce il centro della società più mirabile, che si possa trovare o immaginare tra gli uomini [...]. Non è adunque col suscitare i sudditi contro i sovrani che il Pontefice può salvare l’Italia; ma sì bene, recando a pace e a concordia durevole i principi ed i popoli della penisola, e rendendo indissolubili i loro nodi, mediante una lega dei vari stati italici, della quale egli è destinato dalla Provvidenza ad esser duce e moderatore. Che il Papa sia naturalmente e debba essere effettivamente il capo civile d’Italia, è una verità provata dalla natura delle cose, confermata dalla storia di molti secoli, riconosciuta altre volte dai popoli e dai principi nostrali, e solo messa in dubbio da che gli uni e gli altri bevvero da estere fonti e ne derivarono il veleno nella loro patria.
(da V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, I, Torino, Utet, 1932)

In polemica con lo scritto di Gioberti, nel 1844 viene pubblicata un’altra opera fondamentale per la diffusione del pensiero moderato: Delle speranze d’Italia di Cesare Balbo (1789-1853), che attira l’attenzione sul problema, sorvolato da Gioberti, della presenza austriaca in Italia. Secondo Balbo, l’indipendenza dell’Italia può essere raggiunta solo dopo che l’Austria, attraverso un’espansione compensatrice ai danni dell’impero ottomano, rinunci alle province italiane. A questo punto, il ruolo di coordinamento deve essere assunto dal Piemonte sabaudo, uno stato che agli inizi degli anni quaranta del secolo mostra un certo rinnovamento, con un particolare riguardo per lo sviluppo economico, e comincia ada allentare i rapporti di cordialità con l’Austria fino a metterli in crisi.

 

Fonte: http://bazzano.comunite.it/contenuti/dispense/istituzioni/6.doc

 

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