La civilta' urbana tra il duecento e trecento

 


 

La civilta' urbana tra il duecento e trecento

 

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La civilta' urbana tra il duecento e trecento

LA CIVILTA’ URBANA TRA DUECENTO E TRECENTO

Premessa

I primi testi letterari in volgare (la lingua parlata dal vulgus, il popolo, distinta dal latino, che era la lingua usata dalla ristretta cerchia degli intellettuali) compaiono in Italia agli inizi del Duecento: a questa data si può far risalire l’inizio della letteratura italiana. Ma questa letteratura non si origina dal nulla, scaturisce invece da un terreno già ricchissimo di esperienze e di modelli culturali. Alle spalle della nascente produzione in lingua volgare italiana stavano tre distinte tradizioni culturali e linguistiche:

  1. innanzitutto, la tradizione della cultura classica antica, di cui il Medioevo aveva conservato, anche se parzialmente, la memoria;
  2. il patrimonio della cultura medievale elaborata nei secoli che corrono tra il VI e il XII (e che sarebbe, comunque, continuata nel Due e Trecento), cultura che si era pure espressa in latino, ma in una lingua diversa da quella classica (latino medievale o mediolatino);
  3. la recente tradizione delle letterature che, da più di un secolo, si erano sviluppate in Francia e che avevano già stabilito l’uso letterario di linguaggi volgari: il provenzale (o lingua d’oc) al Sud, il francese antico (o lingua d’oil) al Nord.

E’ dunque necessario, prima di parlare delle manifestazioni iniziali della letteratura italiana, esaminarne – pur brevemente – alcuni immediati antecedenti, la cultura latina medievale e la letteratura in lingua d’oc.

1. Il Medioevo

Nella civiltà medievale, la struttura sociale gerarchica e statica e l’economia chiusa che ignora lo scambio trovano un evidente corrispettivo in una visione eminentemente statica della realtà intera. Tale visione è profondamente permeata dalla religiosità cristiana che domina la civiltà medievale. L’ordine del creato, in quanto provvidenziale e voluto da Dio, è ritenuto perfetto e immutabile. In conseguenza di questa visione statica, si riteneva che la verità fosse data una volta per tutte, consegnata definitivamente (da Dio) alla rivelazione delle sacre scritture e all’auctoritas dei grandi pensatori, dei teologi cristiani come dei filosofi antichi (questi ultimi inconsapevolmente illuminati da Dio). Se la verità è data una volta per tutte, conoscere vuol semplicemente dire accettarla e riprodurla nella forma in cui è stata tramandata dalla tradizione. Si ritiene, anche, che le possibilità della conoscenza umana abbiano limiti precisi, determinati dalla pochezza delle nostre facoltà di esseri mortali, compromessi dal peso del peccato e della carne.
Il fondamento della visione del mondo medievale è essenzialmente religioso, incentrato appunto sull’ordine divino dell’universo. Ne conseguono il ruolo superiore assegnato nel sapere alla teologia (la scienza che studia Dio) e una visione trascendente dell’esistenza. Dio, fonte di tutto ciò che è vero perfetto e superiore, si situa al di là del mondo visibile, il quale è semplicemente un’apparenza imperfetta e passeggera. La tensione al trascendente implica perciò la svalutazione della vita terrena, mentre il fine della vita umana è il raggiungimento della salvezza eterna, il ricongiungimento con Dio in cielo: da qui nascono l’ascetismo (il distacco dalle vane apparenze e dai falsi beni terrestri) e il misticismo (attraverso la rinuncia, la contemplazione e la preghiera, l’uomo si annulla e si “annega” nell’infinità di Dio, congiungendosi con lui prima ancora della morte).
L’idea dell’unità del cosmo, racchiuso in un ordine mirabile voluto da Dio, in cui ogni elemento ha una collocazione e un senso e si collega con tutti gli altri elementi, è alla base di un altro aspetto caratterizzante la mentalità e la cultura medievali, l’uso frequente dell’allegoria. La visione medievale è eminentemente simbolica: ogni aspetto del mondo rimanda sempre ad altro, a qualche cosa che è al di là delle semplici apparenze, a qualche cosa di più alto, in cui è inserito e che gli dà significato, il disegno di Dio che ha ordinato il mondo. Visto che gli enti reali e concreti non contano in sé, ma solo in quanto segni di una realtà superiore, nella cultura medievale un posto determinante è occupato dal fantastico, dal magico, dal sacro, dal sovrannaturale: distinguere tra reale e immaginario nella mentalità medievale non aveva senso.
Con la disgregazione della struttura politica dell’Impero romano d’occidente alla fine dell’età antica, era scomparso anche il sistema scolastico pubblico. Unica istituzione scolastica era rimasta la Chiesa (che per tanti aspetti aveva sostituito le sue strutture a quelle statali ormai estinte). All’interno della Chiesa una funzione culturale di primo piano fu esercitata dai monasteri, dove non solo si lavorava e si pregava, ma anche si studiava, si insegnava e si copiavano i libri, per salvarli dalla distruzione. Essendo la Chiesa l’unica istituzione culturale operante nei primi secoli del medioevo, la figura dell’intellettuale, colui che si occupava della produzione e diffusione della cultura, si identificava con quella dell’ecclesiastico, del chierico, unico detentore della cultura, poiché il resto della società, compresi sovrani e signori feudali, non sapeva né leggere né scrivere. La lingua della cultura era esclusivamente il latino (quello medievale), lingua ufficiale della Chiesa.

2. Origine delle lingue volgari

Occorre premettere alcuni principi generali, onde evitare incomprensioni e false convinzioni: 1) in senso proprio una lingua non nasce, così come nascono animali o piante: una lingua è sempre un sistema non statico, ma dinamico, cioè in continua evoluzione e trasformazione; 2) c’è sempre grande differenza tra lingua parlata e lingua scritta: la prima è più libera, meno regolare e raffinata nell’uso, più vicina alla vita reale di cui riflette con i suoi cambiamenti continui l’evoluzione, mentre la seconda è più elegante, precisa, corretta, codificata nell’uso dai linguisti e dagli specialisti ed è sostanzialmente più statica, perché recepisce solo col passare del tempo i mutamenti già affermatisi nell’uso parlato quotidiano; 3) esistono fattori che tendono a uniformare, in un territorio, gli usi linguistici, evitando  l’eccesso di differenziazione che impedirebbe la comprensione nella comunicazione: la presenza capillare di un’amministrazione statale, che impone l’uso della stessa lingua ufficiale (ad esempio, attraverso l’insegnamento scolastico), e una fitta rete di comunicazioni e di scambi (commerciali, ma anche culturali) tra le varie regioni, contatti che permettono di conoscere e scambiarsi reciprocamente gli usi linguistici, uniformandoli nel tempo.
Quando crollò l’Impero romano d’occidente, vennero meno in quell’area dell’Europa e del Mediterraneo i fattori che, per secoli, avevano consentito l’affermazione e l’uso di un’unica lingua (pur nelle inevitabili differenze tra scritto e parlato): il latino classico. Ogni regione restò praticamente isolata: ne derivò col tempo un’estrema frammentazione linguistica, cui si aggiungeva il quasi universale analfabetismo, che impediva di accedere alle ultime fonti residue del latino classico (il quale, peraltro, era ormai una lingua statica e immobile, perché priva del costante alimento della lingua orale che aveva preso altre direzioni), i chierici con la loro attività culturale. Poiché, come si è detto, gli usi linguistici si modificano nel tempo, le comunità dell’ex Impero romano, a lungo senza contatti reciproci, svilupparono ognuna comportamenti linguistici differenti tra loro e sempre più diversi rispetto all’originaria matrice latina, senza trascurare poi gli apporti delle lingue dei popoli invasori, germani e arabi. Così, attraverso un lento processo, si andarono formando lingue nuove rispetto al latino (anche se, al di là dei mutamenti, restavano evidenti i legami con la lingua madre), parlate che presero poi il nome di lingue volgari (da vulgus, popolo in latino) o, anche, neolatine o romanze.
I linguaggi volgari – neolatini (francese, provenzale, italiano, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno), ma anche  germanici o slavi – erano agli inizi lingue d’uso esclusivamente orale, impiegate per le necessità quotidiane. La lingua scritta, usata per la cultura e per i documenti ufficiali, restava ovunque il latino. Una vera e propria rivoluzione culturale si ebbe quando si cominciò a usare queste lingue anche per comporre opere letterarie, prima destinate alla sola comunicazione orale, poi fissate anche dalla scrittura: nacquero così le letterature moderne dell’Europa.
Rarissimi sono i documenti che ci sono rimasti della formazione delle lingue volgari. Le prime opere letterarie, che compaiono dopo il Mille, rispecchiano uno stadio già molto avanzato della lingua. Delle fasi precedenti sappiamo poco, tuttavia alcuni documenti li possediamo:

  1. il 14 febbraio 842 due figli di Ludovico il Pio, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, strinsero un’alleanza contro il terzo fratello, Lotario, pronunciando una formula di giuramento (giuramento di Strasburgo) dinanzi ai loro eserciti, scambiandosi le lingue (volgare francese e tedesco), per farsi capire ognuno dai guerrieri dell’altro;
  2. per il volgare italiano il documento più antico è l’indovinello veronese, scoperto in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona; si tratta di un indovinello in cui l’atto dello scrivere è paragonato a quello dell’arare (un contadino che solca un campo bianco lasciandosi dietro una traccia nera);
  3. con il tempo documenti di questo genere si moltiplicano; tra i più famosi sono quattro placiti, cioè testimonianze giurate, registrate tra il 960 e il 963, a proposito dell’appartenenza o no di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa, Teano, documenti che già testimoniano di un uso ufficiale (in questo caso, a scopo giuridico) del volgare.

Sarebbe presto arrivato il momento in cui, oltre che per scopi pratici, il volgare sarebbe stato usato anche per opere di carattere letterario.

3. La civiltà cortese

3.1 La cavalleria e l’ideale cavalleresco
Perché si passi a usare il volgare anche per scopi culturali, in particolare letterari, occorrono due condizioni: a) che un gruppo sociale di “laici” sia sufficientemente maturo da sentire il bisogno di esprimere la sua visione della vita e i suoi valori; b) che ci sia un pubblico “laico”, di lingua esclusivamente volgare, che esprima la richiesta di opere letterarie, che senta il bisogno di acculturarsi.
Ciò, nei paesi dell’area linguistica romanza, si verifica storicamente per la prima volta in territorio francese, verso la fine dell’XI secolo. In Francia era particolarmente sviluppata e forte la società feudale, in cui il ceto dominante era costituito da un’aristocrazia di origine guerriera. Il nerbo degli eserciti del tempo era costituito dalla cavalleria: essa (ne facevano parte i figli cadetti dell’antica classe nobiliare, gli appartenenti a strati inferiori della nobiltà, ma anche funzionari del sistema feudale in ascesa sociale) divenne una protagonista della vita sociale del Basso Medioevo, nonché della civiltà letteraria.
Per opera di questo ceto di cavalieri si forma l’ideale cavalleresco. Gli elementi costitutivi di questo ideale costituiscono un sistema unitario e coerente: la prodezza nell’esercizio delle armi, il senso dell’onore, la sete di gloria, la lealtà nel combattimento, la fedeltà al signore o al sovrano. Un elemento fondamentale che va sottolineato è che la vera nobiltà è quella intima, dell’animo, non quella esteriore, della nascita o del tenore di vita: si tratta del principio tipico di chi è entrato a far parte di un ceto privilegiato provenendo dal basso, e tende a esaltare le doti della persona al di sopra di quelle ereditarie.
Questa serie di valori guerrieri costituisce un insieme decisamente laico, nel quadro della visione della vita medievale che era essenzialmente religiosa. Ma la Chiesa non rinunciò a esercitare il suo influsso anche sugli ideali guerrieri, riportando anche la concezione cavalleresca all’interno di quella cristiana: il cavaliere deve mettere la sua prodezza al servizio dei deboli e degli oppressi, in particolare in difesa delle donne; la guerra deve essere indirizzata alla difesa della fede cristiana contro le minacce portate dagli “infedeli”, a cominciare dai musulmani (è chiaro qui il legame col fenomeno storico delle Crociate, iniziate proprio alla fine dell’XI secolo).
La letteratura francese dell’inizio del basso Medioevo si espresse attraverso due lingue, quella d’oil nel nord – che si manifestò, tra l’altro, nelle chansons de geste (lunghi poemi epici, pervenutici anonimi, che trattano delle imprese di eroi del passato e che si incentrano, spesso, su Carlo Magno e i  paladini del suo seguito) e nei romanzi cortesi-cavallereschi (si incentrano sulla figura di un mitico re britannico, Arthur, che sarebbe vissuto nel VI secolo d.C., intorno al quale agivano su un piede di parità i cavalieri della Tavola rotonda) – e quella d’oc nel sud.

3.2 Letteratura in lingua d’oc
Nel corso del XII secolo, nelle corti dei grandi signori feudali francesi (al sud, ma anche al nord) si verifica un processo di ingentilimento dei costumi: alle virtù tipicamente militaresche (prodezza, onore, lealtà) celebrate nelle chansons de geste, che continuano comunque a esercitare grande fascino, si aggiungono altri valori espressione della raffinata ed elegante vita di corte (ideale cortese): in primo luogo, la liberalità, cioè il disprezzo del denaro e di ogni meschino attaccamento all’interesse materiale, la generosità disinteressata nel donare. E’ un ideale che riflette la mentalità propria di una classe di proprietari terrieri che vive di rendita (grazie al lavoro dei servi e dei coloni) e non ha legami diretti con la produzione dei beni, di una classe che consuma e sperpera, senza produrre. Altri valori, coerenti col primo, sono la magnanimità, cioè la capacità di compiere gesti sublimi di generosità, di rinuncia, di sacrificio, e la misura, cioè il sapiente dominio di sé, il tratto signorile che non scade mai in eccessi ritenuti volgari. A questo vanno ancora aggiunti il culto delle forme di vita lussuose e squisite, delle belle cose e il culto delle maniere eleganti, del bel parlare e della conversazione raffinata tra persone “cortesi”. L’ideale della cortesia è, dunque, un ideale di pochi, di un’élite gelosamente chiusa, che respinge tutti coloro che non sono spiritualmente all’altezza di quei valori e comportamenti, che ignorano i codici e i rituali che li regolano.
In questa concezione acquista un posto di primario rilievo la donna, che diviene il simbolo stesso della cortesia e della gentilezza, il soggetto intorno a cui ruota il sistema di virtù cortesi; anzi, è ritenuta la fonte da cui esse si originano, perché ingentilisce tutti coloro che vengono in contatto con lei. Ciò riflette il posto nuovo che la donna di condizione aristocratica occupa nella corte feudale: pur essendo priva di potere reale, la castellana (la moglie del vassallo) diventa il centro ideale della vita associata dei cortigiani (nobili minori e cavalieri che vivono a corte). Il culto della donna diviene il tema dominante della visione e della letteratura di questo periodo, traducendosi in una particolare concezione dell’amore. Si tratta di una concezione apparsa per la prima volta, nel corso del XII secolo, nella poesia lirica dei trovatori provenzali, ma che avrà poi larga fortuna anche in altre regioni e altre epoche. La concezione cortese dell’amore si differenzia profondamente da quella diffusa nel mondo classico, che si fondava sulla pariteticità dell’uomo e della donna nel rapporto amoroso, sulla reciprocità della passione e sulla realizzazione concreta (compiuta effettivamente o semplicemente inseguita) del desiderio.
Gli elementi caratteristici dell’amorecortese sono, invece, i seguenti:

  1. il culto della donna, vista dall’amante come un essere sublime, impareggiabile e irraggiungibile, capace di produrre effetti miracolosi, un essere da venerare, nei confronti del quale il poeta si pone in atteggiamento di inferiorità, pronto a donarle un servizio d’amore (l’equivalente dell’atto di sottomissione feudale del piccolo nobile nei confronti del grande signore);
  2. l’amore resta perpetuamente inappagato; anche quando il poeta si esprime con note accesamente sensuali, il possesso della donna è considerato assolutamente irraggiungibile (spesso, la donna amata è la castellana, proprietà legittima del signore); in cambio dei suoi servigi amorosi (in particolare, le poesie a lei dedicate) l’amante chiede al massimo un cenno di favore, un sorriso, comunque qualcosa di estremamente platonico;
  3. l’amore impossibile genera sofferenza, tormento, ma anche – in contrapposizione – gioia, una forma di ebbrezza ed esaltazione, di pienezza vitale, perché amare è un esercizio di perfezionamento interiore; amare un essere superiore come la donna mette l’animo del poeta in uno stato di tensione che ne eleva l’animo; solo chi è cortese (cioè nobile d’animo) può amare, ma a sua volta amare (di un fin’amor, in provenzale) rende cortesi (cioè sempre più nobili); questo processo di raffinamento interiore avviene proprio perché la tensione del desiderio è sempre inappagata (se il fine fosse raggiunto, la tensione che spinge l’animo a elevarsi cadrebbe);
  4. si tratta di un amore che si svolge completamente al di fuori del matrimonio; ciò si spiega anche col fatto che, allora, nelle classi alte il matrimonio era un puro e semplice contratto, stipulato per ragioni politiche o economiche, in cui il sentimento non aveva parte; questo esige il segreto, nel senso che la donna va tutelata nel suo onore, tanto che a lei si allude solo attraverso uno pseudonimo;
  5. benché questo concetto astratto dell’amore risenta profondamente dell’influenza di secoli di cultura religiosa che avevano allontanato l’uomo da una visione terrena della vita, nasce comunque un conflitto tra amore e religione, tra culto per la donna e culto per Dio; la Chiesa, infatti, condannava l’amor cortese come fonte di peccato e di perdizione; il tema del conflitto con la visione religiosa emerge già in alcuni trovatori provenzali, ma si manifesterà poi con maggiore vigore nei poeti italiani.

Come si è detto, l’amor cortese è una concezione creata in lingua d’oc, nel sud della Francia a partire dal XII secolo, ad opera di poeti (spesso piccoli nobili delle corti feudali) che venivano detti trobadors (trovatori, dal verbo trobar che significava sia creare rime e figure retoriche sia comporre musica) perché componevano sia i testi poetici sia la musica con la quale ne accompagnavano la dizione. Con loro, dopo il lontano tramonto della civiltà classica, rinasce in occidente la poesia lirica. La splendida civiltà cortese di Provenza (insieme alla letteratura in lingua d’oc) non durò, tuttavia, a lungo: all’inizio del XIII secolo, essa fu distrutta dalla crociata contro gli Albigesi (o catari) promossa dal papa Innocenzo III e attuata dai cavalieri francesi del nord sospinti dal re di Francia, che così si impossessò delle regioni meridionali del Paese. L’eredità provenzale sopravvisse altrove (ad esempio, in Italia) grazie a quei poeti che, scampati alla strage e rifugiatisi in altre regioni europee, propagarono i temi e i moduli linguistici della cortesia.
In questo modo, la poesia trobadorica acquisì un’importanza eccezionale nella storia della civiltà europea: diede inizio a tutta una tradizione di lirica di livello “alto” e fissò temi e forme destinate a durare, attraverso varie trasformazioni, nei secoli successivi, condizionando profondamente l’immaginario e la sensibilità della cultura occidentale, sino al Romanticismo e oltre.

4. L’età dei Comuni e delle Signorie in Italia

4.1 La mentalità
In Italia, la letteratura volgare nasce e si sviluppa, pur con qualche eccezione, in un contesto diverso rispetto a quello francese, un contesto in cui il sistema feudale è in parte tramontato e la vita associata ha come centro la città, sede di attività economiche, basate prevalentemente sullo scambio, l’investimento della ricchezza e la circolazione del denaro, e di attività politiche, che esigono una forte partecipazione del cittadino: un contesto sociale, dunque, molto più dinamico complesso e articolato. Ciò ha riflessi inevitabili sulla mentalità e sulla concezione del mondo.
Come la struttura sociale diventa più mobile, così si afferma una visione dinamica del mondo, l’idea che la realtà può trasformarsi. Emblematica è la figura del mercante, un uomo attivo, che si sposta continuamente, che incide sulla realtà che lo circonda con la sua capacità di prevedere e calcolare, con la sua audacia nel rischiare, con la spregiudicatezza dei mezzi impiegati. Nasce così una nuova fiducia nel valore e nelle capacità dell’individuo, che si dimostra in grado di trasformare la realtà.
Ciò rende gli uomini più liberi di fronte all’Autorità, meno soggetti a vincoli e leggi prima ritenuti ineludibili: ne scaturisce il desiderio di esplorare l’ignoto, di andare oltre i limiti fissati dalla tradizione, una volontà di conoscere attraverso l’esperienza diretta, di non fermarsi appunto di fronte all’auctoritas. Contemporaneamente, l’uomo si sente più attaccato alla vita terrena, più incline a godere dei beni materiali. Si guarda alla natura come una forza sana e benefica e si mettono in crisi i fondamenti dell’ascetismo medievale, del disprezzo del mondo. Questi fenomeni avvengono, tuttavia, in modo graduale e lento, si manifestano a poco a poco, in forme parziali, spesso non ben chiare alla mente stessa di chi li vive; gli elementi innovatori restano confusi con elementi tradizionali della visione del mondo medievale, ascetica, superstiziosa, simbolico–allegorica: la loro realizzazione piena e consapevole si verificherà solo con l’Umanesimo del Quattrocento.
A differenza del mondo feudale, la mentalità mercantile, come è ovvio, non disprezza affatto il denaro: quelle che per il signore feudale erano manifestazioni di grettezza da disprezzare, per il mercante divengono virtù. La virtù fondamentale è, anzi, la masserizia, l’oculata amministrazione dei propri beni, il calcolo avveduto e prudente che evita ogni sperpero. Tuttavia, la nuova classe mercantile non ripudia i valori dell’aristocrazia feudale; tende, anzi, a ereditarli, a fonderli con i propri. L’ideale della cortesia esercita un fascino straordinario sui borghesi, che ne assimilano i principi e cercano di applicarli nel loro stile di vita. Si tende in questo modo a creare un equilibrio tra masserizia e liberalità: l’accorta amministrazione del patrimonio non deve impedire la generosità disinteressata e la ricerca di forme di vita raffinate e splendide; contemporaneamente il vivere splendido e magnanimo non deve compromettere il patrimonio.

4.2 Centri di produzione e di diffusione della cultura
Nell’alto medioevo e nella società cortese centri di cultura erano il monastero e la corte feudale. Nella civiltà urbana del Duecento e del Trecento, il quadro diventa più complesso e si afferma una pluralità di “luoghi” di produzione e diffusione della cultura:

  1. La Chiesa conserva, anche nella società urbana, un ruolo di primaria importanza, poiché la base del comune modo di pensare e sentire è ancora religiosa. La funzione culturale della Chiesa si esercita innanzitutto attraverso la predicazione, che raggiunge destinatari dei più diversi livelli sociali e culturali (anche con testi scritti in volgare). Dal Duecento, tale funzione è assicurata soprattutto dai membri di due nuovi ordini mendicanti, i domenicani e i francescani, i quali sono spesso anche maestri nella nuova istituzione culturale caratteristica della città, l’università
  2. La grande novità della civiltà urbana è il sorgere di centri di cultura laici. Il ceto mercantile sente l’esigenza di una formazione scolastica, sia per esigenze pratiche legate alla vita economica e politica, sia per ambizioni culturali legate al prestigio sociale. Per quanto esistano in ambito cittadino scuole tenute da religiosi, le famiglie borghesi più facoltose cominciano ad assumere maestri privati per l’educazione dei figli. Più avanti si formano vere e proprie scuole laiche (nel senso che la finalità non è religiosa), anche a cura degli stessi comuni.
  3. Un’istituzione scolastica completamente nuova è l’università (sorge tra XI e XII secolo): si tratta di un’associazione privata e spontanea di maestri e allievi, di una corporazione le cui attività sono minuziosamente regolate da statuti, che fissano norme per i docenti come per gli studenti. L’insegnamento era impartito in latino, quindi non vi erano barriere linguistiche nazionali e gli studenti accorrevano da ogni parte d’Europa. Nelle università si consolida l’organizzazione enciclopedica della conoscenza che è peculiare della civiltà medievale, l’idea di un sapere che abbraccia organicamente tutto il reale, ordinandolo in un sistema gerarchico, che ha come centro la teologia.
  4. Un fenomeno a parte della cultura duecentesca è la corte: in particolare, quella dell’imperatore Federico II di Svevia in Sicilia. Si tratta di una corte ormai ben diversa da quelle feudali, poiché si raccoglie intorno a un grande sovrano che tenta di costruire uno Stato accentrato, fornito di un solido apparato amministrativo, e che si circonda di intellettuali, scienziati, filosofi, scrittori e poeti. Ai primi del Trecento, con l’affermarsi delle Signorie in varie città italiane nasce ancora un altro tipo di corte, con caratteristiche urbane: i signori amano circondarsi di uomini di cultura e di letterati, per ricavarne lustro e prestigio, ed affidano loro anche incarichi politici e diplomatici (in cambio garantiscono agli intellettuali protezione e mantenimento: mecenatismo).

4.3 Intellettuali e pubblico
Anche dal punto di vista della collocazione socio-culturale degli intellettuali, la società urbana due e trecentesca presenta un quadro variegato:

  1. I chierici conservano, anche in città, un ruolo importante, dato il peso che, come si è già rilevato, la religione continua ad avere nell’orientare la visione del mondo e la vita sociale: alcuni, quelli di grado elevato, usano il latino e si rivolgono a un pubblico di specialisti, altri ricorrono largamente al volgare per raggiungere le cerchie più vaste della popolazione.
  2. La figura più tipica di questa fase è, tuttavia, l’intellettuale laico: il primo gruppo omogeneo e organizzato di intellettuali laici in Italia è quello che – composto in gran parte dai funzionari del governo imperiale – si  forma, nei primi decenni del Duecento, alla corte siciliana dell’imperatore Federico II.
  3. Ancora diversa è la figura dell’intellettuale che si afferma poco più tardi nei Comuni centro-settentrionali: si tratta di intellettuali-cittadini che partecipano attivamente alla vita politica dei Comuni, che non vivono della loro attività di scrittori, ma l’affiancano all’esercizio di altre professioni (giudici, notai, insegnanti, ma anche mercanti) e che si servono della lingua volgare.
  4. Con l’affermarsi delle Signorie, nel corso del Trecento compare un tipo nuovo di intellettuale: il cortigiano, che si pone al servizio di un signore, intrattenendo con lui un rapporto personale e privilegiato, secondo un rapporto di scambio – detto appunto mecenatismo – per cui il signore fornisce all’intellettuale mantenimento e protezione, mentre l’intellettuale dà lustro alla corte con la sua presenza e i suoi scritti e svolge incarichi diplomatici per conto del signore. Viene meno la partecipazione politica alla vita cittadina, che aveva caratterizzato l’intellettuale del Comune, e con ciò viene a cadere il carattere “impegnato” e “sociale” della produzione letteraria, che ora viene vista come esercizio altamente disinteressato, esclusivamente rivolto a una cerchia ristretta di letterati o di gentiluomini di corte. Si riafferma l’uso del latino, mentre il volgare diviene una lingua sempre più raffinata, carica dell’eredità classica.
  5. Spesso all’intellettuale cortigiano non basta la protezione di un signore; perciò, per trovare maggiore sicurezza, torna ad appoggiarsi alla Chiesa, prendendo gli ordini minori per poter fruire della rendita di benefici ecclesiastici (siamo, comunque, sempre nell’ambito del mecenatismo).

Nella società urbana, il pubblico dei lettori si allarga decisamente, grazie al diffondersi delle scuole e dell’alfabetizzazione: si legge per i motivi più vari, per interessi pratici e bisogni professionali, per edificazione religiosa o morale, per acquisire conoscenze utili alla vita sociale, per diletto. Contemporaneamente il pubblico si stratifica su vari livelli: in primo luogo, i chierici e i dotti laici, i rappresentanti delle professioni e gli studenti universitari (si tratta di un pubblico bilingue, in grado di leggere sia in latino che in volgare); ma esistono anche i lettori appartenenti al ceto mercantile, che leggono solo in volgare; di quest’ultimo pubblico, non professionale, fanno parte anche le donne, almeno quelle di condizione abbastanza elevata da essere alfabetizzate e, quindi, in grado di divenire lettrici.

4.4 La questione della lingua
Riassumendo sinteticamente quanto è stato precedentemente detto, si può affermare che la nascita di una letteratura in lingua volgare è, in Italia, il risultato di una grandiosa spinta sociale, l’ascesa di una classe nuova all’interno delle città, quella borghese–mercantile, che sta acquistando coscienza della propria identità, ha bisogno di strumenti di cultura per la propria attività in campo economico e politico e avverte l’esigenza di esprimere la propria visione del mondo e i propri valori. Nel Duecento, dunque, il campo della cultura era in Italia diviso abbastanza nettamente: scriveva in latino (mediolatino) chi componeva solo per la scuola e per un pubblico culturalmente elevato (teologi, filosofi, scienziati, giuristi, retori, autori di libri rivolti al clero); scriveva, invece, in volgare chi si rivolgeva a ciò che oggi diremmo il “gran pubblico”, che però allora era anch’esso parecchio ristretto. E, spesso, uno stesso autore alternava, secondo il caso e il bisogno, latino e volgare.
Va, tuttavia, sottolineato che al policentrismo politico (esistenza di una pluralità di autonomi centri di potere politico: comuni e, poi, signorie) corrisponde un analogo policentrismo linguistico: Dante, nel De vulgari eloquentia, individua ben quattordici aree linguistiche, in cui si usavano volgari distinti, anche molto diversi fra di loro. Ma la situazione reale risultava ancora più frammentaria, dal momento che, all’interno di queste aree principali, esistevano altre infinite varietà linguistiche.
In questa situazione di frammentazione linguistica, il volgare toscano va, però, assumendo col tempo una posizione di prestigio nella produzione sia poetica sia in prosa. Nel Trecento, poi, i tre grandi modelli di Dante, Petrarca e Boccaccio consacrano il fiorentino come lingua letteraria per eccellenza, la lingua di tutti gli italiani, al di là dei particolarismi locali. Da quel momento, il fiorentino letterario diviene di fatto la lingua italiana. L’unificazione linguistica sarebbe però rimasta limitata al solo campo letterario, alla ristretta cerchia dei colti: nella vita comune si sarebbe continuato a usare la miriade di parlate locali. Questa mancata unificazione degli usi linguistici comuni è da ascrivere all’assenza di una struttura politica unitaria (a differenza di ciò che accade, invece, in Francia con il formarsi di una forte monarchia nazionale).

4.5 I generi letterari
Nel quadro della letteratura di quest’età si possono distinguere diversi generi: benché non vi sia ancora una precisa e consapevole codificazione teorica, che fissi norme e modelli, ogni genere trova una sua “definizione” interna, nel senso che si evolve in determinate direzioni e assume forme specifiche. Tra i tanti generi del periodo, noi ne prenderemo in considerazione solo alcuni.
La letteratura religiosa non è propriamente un genere letterario a sé, nel senso tecnico del termine, è piuttosto un’area tematica, un nucleo di contenuti, concezioni, sentimenti, che può trovare espressione in forme letterarie anche molto diverse: inni religiosi, laude e laude drammatiche, prediche ed exempla, vite di santi, lettere, cronache. Poiché spunti religiosi, più o meno consistenti, si possono trovare in moltissime opere di questo periodo, si può stabilire – per convenzione – che si ritengono “religiose” le opere in cui il fine religioso (preghiera, edificazione, confessione, celebrazione dei valori religiosi) è preminente su altri fini, sia quello specificamente letterario, sia fini pratici.
Con il termine di poesia comico-realistica (o, anche, comico-giocosa) viene indicata l’esperienza di alcuni poeti che seguono un percorso diverso rispetto a quello della linea poetica dominante nella lirica italiana di questo periodo (legato, come vedremo tra poco, ai modelli cortesi). La poesia “comica” rifiuta, infatti, temi elevati e moduli selezionati e raffinati di tono illustre e sublime, utilizzando invece uno stile basso e occupandosi di una realtà spesso volgare e degradata. Va però precisato che si tratta, comunque, di un’operazione squisitamente letteraria e colta, che si propone di rovesciare gli schemi e le convenzioni della poesia elevata, con intento caricaturale e grottesco, riferendosi ad altri schemi letterari. In generale, i valori della cortesia e dell’amore vengono capovolti nei loro significati più seri e ufficiali, con l’intento di mostrare il loro risvolto alternativo, deformante e ridicolo: all’amore sublimante si sostituisce il desiderio sessuale, alla donna raffinata la donna plebea, all’elogio della virtù quello del vizio, e così via.
Il proposito di conseguire fini artistici di raffinata elaborazione formale contraddistingue, in modo ancora più significativo gruppi di poeti che usano il volgare per rivolgersi non a un pubblico di lettori e ascoltatori comuni, bensì a élites colte estremamente ristrette ed esclusive. A questo tipo di poeti va fatta risalire l’origine della lirica italiana (per lirica si intende quel genere in cui il soggetto esprime direttamente se stesso, tratta delle proprie esperienze di vita e dei propri sentimenti). La tradizione lirica italiana prese, tuttavia, le mosse dalla poesia cortese provenzale, in seguito agli effetti della crociata contro gli Albigesi (inizio Duecento): i trovatori che, abbandonata la Provenza, si erano stabiliti nell’Italia settentrionale diffusero il gusto cortese, con i suoi temi e le sue forme metriche, tra gli scrittori italiani.
Benché, come è naturale, i primi segni di questa tendenza si siano manifestati, ancora in lingua d’oc, nelle regioni settentrionali, la prima vera esperienza italiana in senso proprio è legata alla cosiddetta scuola siciliana, cioè al gruppo di scrittori riuniti nella corte siciliana di Federico II tra il 1230 e il 1250: questi poeti non usano più la lingua d’oc, bensì il volgare locale, per quanto depurato e nobilitato. Sono, quindi, i poeti siciliani a dare inizio alla vera e propria tradizione poetica italiana, una tradizione aulica e raffinata. La poesia siciliana riprende fedelmente temi, procedimenti stilistici, forme metriche dei modelli provenzali, rinunciando solo all’accompagnamento musicale ed introducendo una forma originale, il sonetto (destinato a una fortuna vasta nello spazio e lunga nel tempo). I poeti sono, in genere, i funzionari della corte, per i quali la poesia è evasione dalla realtà, oppure ornamento elegante e segno di appartenenza un’élite, e l’amore, unico tema dei loro versi, è un puro gioco, aristocratico e raffinato.
Il modello della poesia siciliana acquistò subito grande prestigio e trovò diffusione in altre zone della penisola, soprattutto in Toscana: ne è testimonianza il fatto che noi possediamo i testi dei poeti siciliani non nell’originale, bensì attraverso la trascrizione di copisti toscani, che ne toscanizzarono la lingua. Dopo il crollo della dinastia sveva e la conseguente dissoluzione della scuola siciliana, l’eredità di questa venne accolta proprio da poeti toscani, che ripresero, nel loro volgare, gli stessi temi d’amore con le relative convenzioni stilistiche, ma introdussero un interessante allargamento tematico: i poeti toscani erano cittadini inseriti nella vita politica dei loro comuni e ne vivevano intensamente le passioni e i conflitti morali civili e politici, riversandoli nella loro attività poetica.
Negli ultimi decenni del Duecento, sempre in alcune città del centro Italia – in primo luogo Firenze, ma anche a Bologna e a Pistoia – si forma il nucleo più importante di un’altra tendenza poetica, con cui la lirica amorosa di ispirazione cortese tocca la sua fase culminante in Italia: da un celebre passo della Divina Commedia (Purgatorio, XXIV, vv. 55-57), questa nuova scuola poetica prende il nome di Dolce stil novo (1280-1310).
L’importanza di questa scuola nella tradizione letteraria italiana richiede alcuni approfondimenti. In primo luogo, va precisato che l’amore cortese va inteso – e ciò fin dalle sue origini – sia come modello letterario sia come modello di comportamento. In secondo luogo, nell’esperienza stilnovistica permangono alcuni tratti di quella provenzale originaria, mentre altri subiscono innovazioni e adattamenti.
Un elemento di continuità è costituito dalla finzione letteraria, per cui l’amore e la donna sono astratti dalle situazioni reali: i testi ci introducono in un universo dominato dalle donne, visto attraverso gli occhi di uomini che amano e adorano, ma la finzione compensa una realtà del tutto diversa, in cui il mondo era dell’uomo, e violentemente tale. Inoltre, ancora una volta, nelle dottrine d’amore confluì la coscienza di un gruppo sociale, nel senso che, parlando del suo rapporto con la donna, l’uomo parlava, allusivamente, del suo rapporto con la totalità dell’esperienza vissuta.
Le peculiarità della cultura urbana e le vicende storiche del tardo Duecento determinarono, tuttavia, alcune modificazioni, che ci appaiono principalmente in funzione di:

  1. l’azione svolta dalla Chiesa, che con interventi a vari livelli, dotti e popolari, recuperava il controllo sull’elaborazione intellettuale, posto in crisi nel XII secolo dall’affermarsi tra i laici della scrittura in volgare;
  2. i contenuti dottrinali, la nuova sistemazione del sapere, i particolari interessi che furono proposti dai centri universitari, e che diedero ai testi poetici un carattere spesso fortemente intellettualistico e astratto;
  3. la dinamica delle forze sociali, quale si manifestò nelle città a regime comunale, con l’emergere di un ceto borghese sempre più aggressivo e consapevole.

L’appropriazionedell’amore cortese fu, quindi, un aspetto di quella crescita della cultura laica in volgare che ebbe i suoi soggetti storici nei ceti urbani di maggior prestigio. La nuova cultura cercava di scalzare, entro certi limiti, il primato della tradizione clericale in lingua latina e di differenziarsi, in modo più evidente, dall’ideologia signorile; non era tuttavia la cultura di “tutti” e doveva quindi proporre valori che fondassero una nuova “aristocrazia” (dell’intelligenza, del sapere, del merito personale). A tutte queste esigenze obbediscono le teorie d’amore.
Pur con le inevitabili differenze a livello individuale, è possibile delineare alcuni tratti comuni che identificano gli stilnovosti come un gruppo omogeneo e compatto sul piano socio-culturale: l’appartenenza a famiglie socialmente eminenti, impegnate nella lotta per il controllo delle istituzioni di governo della città; una formazione collegata con i nuovi campi conoscitivi aperti dagli studi superiori, con interessi filosofici e talora giuridici; un’intensa partecipazione alla conflittualità politica. Il dato sociologico di maggior rilievo è, dunque, l’inserimento di questi poeti nel gruppo dirigente della società urbana: nella tematica amorosa essi espressero, allusivamente, un’ideologia conforme a quel progetto di egemonia culturale e politica nella cui attuazione erano impegnati. Nella classe di governo della città si erano incontrati e scontrati gli interessi dei ceti legati alla proprietà fondiaria (nobiltà magnatizia) e quelli delle varie categorie di mercanti e di artigiani (popolo grasso e popolo minuto). Nella seconda metà del XIII secolo si era, progressivamente, formata una oligarchia composta di vecchie e nuove famiglie potenti, che escludevano dalla gestione del potere le classi medio-basse: ciò generava, da un lato, violenti sussulti antimagnatizi, dall’altro una diffusa aspirazione alla stabilità, alla realizzazione di un equilibrio all’interno dei ceti economicamente e politicamente rilevanti. Una cultura che volesse proporsi come propria dello strato superiore della società urbana, doveva essere mediatrice, tendere alla conciliazione:

  1. conciliazione tra il prestigio della nobiltà di sangue e i meriti che le famiglie emergenti, di origine non nobile, si attribuivano;
  2. conciliazione tra l’importanza assegnata all’amore dalla tradizione cortese e la rinnovata autorità spirituale del cattolicesimo.

Come si è detto, la formula “dolce stil novo” è stata coniata da Dante: con essa egli sottolineava i due grandi elementi di novità rispetto alle esperienze precedenti di lirica amorosa in Italia, la maggiore attenzione all’interiorità del poeta, che si esprimeva in una più stretta aderenza dell’espressione poetica al vissuto intimo generato dall’amore, e la scelta di uno stile linguistico più limpido chiaro e piano (più “dolce”, appunto), privo di astrusi artifici stilistici.
Alla tradizione cortese e stilnovistica si collega sostanzialmente anche la poesia amorosa di Petrarca, ma ormai ci troviamo in tutt’altro clima di cultura (età delle Signorie): la poesia diviene scavo nell’interiorità di un’anima tormentata e contraddittoria, e d’altro canto lo stile tende a comporsi in forme sempre più limpide ed equilibrate, che risentono del modello dei classici latini.
Un ultimo cenno va fatto alla narrativa in prosa che comincia a farsi strada, in Italia, negli ultimi decenni del Duecento, attraverso raccolte in volgare di aneddoti e sentenze e attraverso numerosi rifacimenti in prosa dei romanzi francesi del ciclo bretone. A questo interesse per la narrazione e il racconto possono essere ricondotti, anche, le numerose cronache cittadine e i resoconti di viaggi di mercanti e avventurieri. Va anche tenuto presente che, fino a un certo punto, la tradizione narrativa era stata alimentata soprattutto dalla produzione in versi dei poemi cavallereschi. Ma negli ultimi anni del Duecento, nasce un modo più “realistico”, costituito da racconti brevi di genere cortese e comico popolaresco, o anche religioso. E’ da quest’ultima tradizione che nascerà, tra il Duecento e il Trecento, la novella in prosa come genere letterario indipendente. In essa confluiscono le tradizioni favolistiche greche e romane, la letteratura religiosa del Medioevo e, soprattutto, la narrativa orientale, diffusa in Europa attraverso gli arabi e i viaggi dei mercanti. Con la novella del Trecento, portata a piena maturazione dall’opera di Boccaccio, si giunge a una forma narrativa nuova, che unisce insieme i contenuti eroico-leggendari, quelli realistici e satirici, quelli fantastici e religiosi. La fusione in un genere unico e coerente – la novella, specchio della civiltà comunale e mercantile – di questa grande varietà di generi narrativi dà, così, origine alla tradizione narrativa realistica e borghese, che giungerà fino all’Ottocento.

 

UMANESIMO E RINASCIMENTO

 

1. La formazione dell’uomo nuovo

Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, nel fiorente sviluppo di un’economia (che si avvia a superare la crisi dei decenni precedenti) basata sulle attività finanziarie, mercantili e artigianali, si afferma in Italia una concezione laica e mondana del vivere. Il pensiero del Quattrocento colloca l’uomo al centro dell’universo, rifiutando l’idea medievale di una creatura imperfetta e passivamente sottomessa a Dio. Non sono più ammessi limiti all’agire dell’uomo e viene esaltata la libertà che egli ha di esprimersi attraverso la propria attività creatrice, di plasmare il mondo intorno a sé costruendo la sua civiltà e la sua storia. Tutto ciò è sintetizzato nella formula della cosiddetta scoperta dell’uomo, che caratterizza la cultura del Quattrocento.
L’interesse per le manifestazioni più alte dell’attività e del pensiero umani spinse gli intellettuali di questo periodo a ricercare con entusiasmo le opere della cultura e della civiltà del passato, testimonianza di ciò che l’uomo aveva concretamente creato nella storia. Ci si dedicò a riscoprire l’antichità che, se anche nel corso del Medioevo non aveva mai cessato di essere studiata, era stata però considerata in funzione della storia cristiana del mondo, come anticipazione o prefigurazione dell’avvento del cristianesimo. A partire dalla fine del Trecento, anzi a partire dall’opera di Francesco Petrarca, non solo gli intellettuali portarono alla luce testi dell’antichità greca e latina dimenticati e sepolti sotto la polvere delle biblioteche, ma soprattutto si accostarono ad essi con metodo e spirito radicalmente nuovi: cercarono ciò che gli autori classici avevano voluto realmente dire, inserendoli nella cultura del loro tempo e leggendoli come testimonianze di un momento dello sviluppo storico della civiltà. Riscoprire l’antichità significò collocare l’uomo nella sua realtà storica e considerare la sua evoluzione nel tempo. Per far ciò, bisognava innanzitutto interpretare correttamente quegli scritti, studiandone la lingua. Ci si dedicò perciò a un intenso lavoro di trascrizioni, correzioni, confronti, traduzioni di testi e nacque una nuova scienza, la filologia, che si proponeva appunto di ricostruire le opere antiche nella loro veste linguistica originale, correggendo i numerosi errori ed eliminando le arbitrarie aggiunte che amanuensi e interpreti medievali avevano accumulato nei secoli. La filologia diventò studio della comunicazione umana, analisi, attraverso le forme del linguaggio, della realtà storica che esso rappresentava, e fu perciò considerata il fondamento di ogni sapere.
L’interesse per gli antichi non significò rifugio nel passato e rifiuto del presente, ma, al contrario, stimolo alla piena valutazione dell’operato dell’uomo, delle sue capacità di agire nella realtà del suo tempo. Stabilendo un ideale colloquio con i grandi scrittori greci e latini che avevano scavato a fondo nella propria interiorità, gli intellettuali del Quattrocento cercarono appassionatamente di cogliere l’umanità nella sua intima essenza. Fu data priorità, nell’attività culturale, a quelle discipline che facevano conoscere il linguaggio e l’animo dell’uomo, cioè gli studia humanitatis (letteralmente: studi dell’umanità), come furono chiamate la grammatica, la retorica, la filosofia, la storia, la poesia. E’ da esse che deriva il termine umanesimo che, in seguito, gli studiosi attribuirono al periodo della storia della cultura di cui ci stiamo occupando.
L’entusiasmo per gli antichi portò al recupero del latino come lingua per eccellenza della cultura, contrapposto alle espressioni linguistiche della letteratura medievale, cioè sia il volgare sia il latino della tradizione ecclesiastica, che si era molto allontanato dal latino degli autori classici ed era considerato rozzo e inelegante. Per tutta la prima metà del Quattrocento, gli scrittori umanisti si espressero unicamente in latino, ricercando la purezza della forma classica e componendo soprattutto opere in prosa (benché non manchi un’importante produzione poetica). Autori come Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Lorenzo Valla, Giovanni Pontano composero opere di carattere prevalentemente morale o filosofico, spesso in forma di dialogo, opere storiche, studi letterari o filologici. Prevalse l’interesse per ciò che poteva fornire all’uomo modelli per il proprio inserimento attivo e armonico nella vita civile e per il pieno sviluppo della propria personalità. Alla base, vi era un ideale di uomo completo, che si conformasse a un’idea di equilibrio, moderazione e razionalità e in cui doti spirituali e fisiche fossero tra loro in armonia.
Fu nella seconda metà del Quattrocento che la cultura umanistica si volse all’uso del volgare, per raggiungere un pubblico più vasto e perché apparve chiaro che solo una lingua viva e naturale poteva dare spazio all’originalità della creazione artistica e all’armonia dello stile. Il latino non fu abbandonato, ma nacquero molte opere in volgare nelle quali si lavorò alla ricerca di un linguaggio elegante e raffinato, plasmato sull’esempio del latino classico. I modelli non furono più solo gli scrittori dell’antichità, ma anche quelli della grande tradizione in volgare del Duecento e Trecento italiano: gli stilnovisti, Dante, Petrarca, Boccaccio. Il volgare andò via via distinguendosi dai linguaggi usati nella pratica quotidiana: divenne lingua letteraria colta e raffinata, nella quale si esprimevano aristocratici ideali di equilibrio e armonia. Contemporaneamente, la letteratura si allontanò dall’impegno civile proprio del primo Umanesimo e, di fronte alla crisi politica in cui l’Italia stava cadendo, tese a evadere dalla realtà concreta per creare i miti di una bellezza ideale, astratta ed eterna. Il linguaggio letterario adottò le immagini della letteratura greco-latina, espressione di un mondo di ideale perfezione che si cercava di imitare e di far rivivere. Il gusto classico ispirò gran parte della produzione artistica e la scelta del classicismo conferì l’impronta fondamentale alla letteratura del Quattrocento e, poi, del Cinquecento. Questi caratteri si presentano, tra gli altri, in autori come Lorenzo il Magnifico e Angelo Poliziano.
I valori espressi dall’Umanesimo, l’immagine dell’uomo come artefice della propria vita, l’ideale dell’equilibrio fra istinto e ragione, l’esaltazione dell’armonia e della bellezza, il culto del mondo classico, sono le componenti fondamentali anche di quel momento della storia culturale e artistica che viene chiamato Rinascimento e che può essere considerato la continuazione e lo sviluppo dell’Umanesimo. Esso si colloca tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento ed è uno dei momenti più fecondi della produzione artistica e letteraria italiana, in quel periodo modello per tutta l’Europa, anche se questo era drammaticamente in contrasto con la situazione politica della penisola, che stava per divenire il teatro delle lotte tra Francia e Spagna e per perdere la propria libertà. Grandi scrittori rinascimentali furono Niccolò Machiavelli, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Giovanni Della Casa. Gli ultimi due scrissero trattati volti alla formazione di un ideale di tipo umano che, anche nei comportamenti quotidiani, si attenesse a un principio di eleganza ed equilibrio, secondo i canoni del Rinascimento classicista.

2. L’intellettuale alla corte del principe

Nei profondi mutamenti culturali che avvengono tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, si compie contemporaneamente una graduale trasformazione della condizione dell’intellettuale e del suo ruolo nella società.
Nel tardo Medioevo, durante la civiltà comunale, l’intellettuale partecipava attivamente alla vita politica della sua città ed era impegnato nella gestione del potere. Durante il Trecento, in molte città italiane alle istituzioni comunali si sostituì il dominio di un principe, che pose sotto il suo controllo ogni aspetto della vita cittadina e causò il progressivo spegnersi della dinamica politica comunale. Il centro di questo nuovo potere venne a essere la corte signorile, intorno alla quale gravitò ora non solo la vita politica, ma anche quella culturale. Gli intellettuali, persa la possibilità di partecipare come liberi cittadini alla vita pubblica, si legarono alla corte e ne divennero dipendenti e funzionari: l’affermazione della cultura umanistica fu dunque strettamente connessa con lo sviluppo della signoria.
Le esigenze del principe di rafforzare e ampliare il proprio potere politico e il proprio prestigio si accordarono con la concezione laica e mondana dell’uomo maturata dagli umanisti e con l’idea che l’intellettuale dovesse assolvere compiti pratici e civili. I principi avevano bisogno, da una parte, di personale qualificato da impiegare nell’amministrazione dello stato e a cui affidare incarichi politici e diplomatici, dall’altra, di sostegno ideologico alla loro politica e di un’opera di propaganda che contribuisse al prestigio loro e della corte. Essi diedero perciò ampio impulso allo sviluppo della cultura, all’interno di quel fenomeno chiamato mecenatismo, che consisteva appunto nella propensione del signore a finanziare opere artistiche e letterarie e a mantenere attorno a sé artisti, letterati, architetti, scienziati. Inoltre, i principi favorirono la nascita di nuovi centri di diffusione della cultura, al di fuori delle tradizionali università, ancora controllate dalla Chiesa. Sorsero nuove scuole a carattere laico, accademie e circoli privati, centri di studio, biblioteche pubbliche e private aperte al maggior numero possibile di studiosi.
La cultura fu dunque posta al servizio del potere e ne fu l’ornamento. L’intellettuale, oltre che funzionario del principe, divenne per lui consigliere di saggezza, di moderazione e di costumi elevati, collaborò alla raffinata vita di corte, lodò e celebrò le imprese del principe, paragonandole a quelle dei grandi uomini del passato. Ciò andò senza dubbio a scapito della libertà degli scrittori e degli artisti, che furono condizionati dal volere del principe e dalla necessità di compiacerlo. La nuova posizione nella quale l’intellettuale si venne a trovare era, almeno in parte, in contraddizione con l’affermazione della dignità dell’uomo e della sua capacità di essere libero artefice del proprio destino. Ma, contemporaneamente al maturare di un ideale umano ispirato a saggezza ed equilibrio, si elaborò in questo periodo anche una diversa concezione della libertà: essa non fu più intesa come libertà politica, partecipazione autonoma alla vita pubblica, bensì come fatto privato, come possibilità per il letterato di dedicarsi interamente ai suoi studi, isolandosi dal resto della società. Si accentuarono, così, sempre più l’aristocratico isolamento e la separazione tra il mondo intellettuale e il resto della società: una cultura che si poneva all’avanguardia a livello europeo rinunciava, contemporaneamente, a svolgere un ruolo progressista all’interno della propria società.
In questa contraddizione si può vedere il riflesso di un’altra e più profonda contraddizione, quella fra gli ideali e i valori splendenti della civiltà rinascimentale e la realtà di crisi della penisola che stava per perdere la libertà politica e la floridezza economica.

3. La questione della lingua

All’inizio del Cinquecento apparve ormai evidente che il progetto umanistico di far rivivere il latino come lingua della letteratura era un’illusione: solo una lingua viva e vicina a chi scriveva poteva essere lo strumento adatto per raggiungere l’autenticità e l’originalità proprie della creazione artistica. Tutti i letterati furono, dunque, d’accordo nell’elevare il volgare al rango di lingua letteraria e si impegnarono a perfezionarlo e renderlo più elegante sull’esempio del latino. Si scatenò, tuttavia, la discussione su quale volgare fosse, tra i vari linguaggi diffusi nelle diverse regioni, il più adatto a divenire la lingua della letteratura. I letterati, animati dalla concezione classicistica di un ideale di perfezione e bellezza cui tendere, sentirono l’esigenza di fissare le norme formali e compositive di un linguaggio letterario perfetto e comune a tutti gli scrittori.
Si presentarono, in proposito tre diverse posizioni:

  1. vi era chi sosteneva che, come lingua unitaria della letteratura, avrebbe dovuto essere scelto il fiorentino (o toscano) parlato (quello parlato dalle persone colte); si affermava la necessità di un rapporto costante fra la lingua letteraria e quella viva della comunicazione quotidiana;
  2. la seconda posizione sosteneva la superiorità della lingua italiana (o cortigiana), cioè della lingua usata nelle corti, parlata dalla classe dirigente e formata da termini ed espressioni presi da vari dialetti italiani;
  3. la terza posizione, che alla fine prevalse, fu quella teorizzata da Pietro Bembo, autore nel 1525 del trattato Prose della volgar lingua.

Nella sua opera, Bembo sostiene una concezione della lingua e della cultura altamente aristocratica e vincolata alla tradizione letteraria dei grandi scrittori italiani del passato. Innanzitutto, liquida la posizione dei sostenitori della lingua cortigiana o italiana, affermando che questa lingua non esiste, perché non esiste alcuna opera letteraria che ne faccia uso. Non resta allora che la scelta del fiorentino; ma non del fiorentino parlato, bensì di quello elaborato dai grandi scrittori del Trecento, Dante, Petrarca, Boccaccio. Secondo Bembo, la letteratura deve porsi come obiettivo non tanto quello di rivolgersi e piacere ai contemporanei, usando la loro lingua, quanto quello di trasmettere un messaggio universale che duri nel tempo e parli soprattutto agli uomini del futuro. Uno scrittore deve badare a rivolgersi ai dotti che, in ogni tempo, possono apprezzare il suo messaggio e non al popolo, dal quale non può aspettarsi la gloria e la fama. Egli può raggiungere questo fine soprattutto attraverso l’eleganza, la perfezione e la bellezza stilistica, quindi dovrà attingere non alla lingua parlata, più immediata e trascurata, ma alle opere di coloro che prima di lui sono stati grandi scrittori.
La posizione di Bembo, così intransigente e così aristocratica, ebbe tuttavia il pregio di proporre per la prima volta una lingua italiana unificata, nazionale. La tradizione linguistico-letteraria ebbe dunque il compito e il merito di salvaguardare la fisionomia nazionale di un paese in cui, dal punto di vista politico, non vi era (e per altri tre secoli non vi sarebbe stata) la nazione. D’altra parte, qui sta anche il limite delle teorie di Bembo e dei suoi seguaci. Affermando il netto distacco fra lingua letteraria e lingua parlata e, perciò, fra cultura e popolo, gli intellettuali italiani si chiusero in una posizione di aristocratico isolamento, rinunciando a esercitare la loro influenza per la soluzione dei problemi della società e, di fatto, accettando la conservazione delle gerarchie sociali esistenti e l’asservimento alle potenze straniere.

 

 

Fonte: http://www.matteotti.it/NS/docs/dispense/Appunti%20letteratura%20da%20pag%201%20a%2010.doc

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