Achille Giovanni Cagna vita e opere
Achille Giovanni Cagna vita e opere
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Achille Giovanni Cagna
VITA E OPERE di Leonardo Verzaro
Vita
Achille Giovanni Cagna nasce a Vercelli l’ 8 settembre 1847. Figlio di un falegname, non termina la sua carriera scolastica: cacciato dall’ Istituto Professionale Cavour, dove già era stato etichettato come inetto e incapace di dedicarsi agli studi, lavora nella bottega del padre e in seguito nell’ azienda cerealicola di proprietà dello zio. Il giovane Cagna si dedica in questi anni a letture disordinate e occasionali che iniziano a plasmare la sua formazione culturale, ma solo dopo l’incontro con Faldella (1876) la sua crescita letteraria raggiunge un’importante svolta. L’inizio dell’amicizia con lo scrittore scapigliato e la frequentazione di importanti letterati quali De Amicis, Rovetta e Abba gli permettono di entrare a tutti gli effetti nel novero letterario piemontese della seconda metà dell’Ottocento.
Successivamente Cagna chiede ed ottiene di ritornare come docente all’Istituto Cavour tramite una legge che prevede l’abilitazione all’insegnamento per meriti letterari. L’altisonante monografia Marcia di una gente è finalizzata non solo a dimostrare solide conoscenze storiche, ma anche al conseguimento del tanto agognato titolo di insegnante di ruolo. Ma Cagna preferisce abbandonare una tardiva carriera d'insegnante, tra l'altro non particolarmente remunerativa, per continuare la sua attività nell'azienda cerealicola di famiglia (dove rimarrà fino al 1909). Le sue principali opere narrative, Provinciali (1886), Alpinisti Ciabattoni (1888) e La rivincita dell’amore (1891), edite per la prima volta in quegli anni, gli garantiscono un discreto successo. Mentre si dedica persino all'attività politica e, ancora più alacremente, alla produzione teatrale e saggistica viene altresì apprezzato come giornalista della stampa locale e come dotto conferenziere nelle occasioni celebrative cittadine: si definirà un “autodidatta laureato” i cui complessi di inferiorità nei confronti della cultura del suo tempo e dell’istituzioni scolastiche sembrano essersi definitivamente dissolti. Nel 1924 pubblica Contrada dei gatti.
Muore a Vercelli il 23 febbraio 1931.
Opere
La fisionomia letteraria di Achille Giovanni Cagna presenta non poche anomalie: a partire dal conflitto tra la dimensione provinciale in cui ha vissuto e alla quale l’autore rimarrà per sempre legato, e il background letterario europeo delle molte letture affrontate sin da giovane (su tutti Flaubert e Balzac).
La prima fase dell’attività letteraria è caratterizzata da un lungo apprendistato (sedici anni), nel corso del quale Cagna pubblica una serie di scritti di modesto spessore: dai bozzetti sociali (Tempesta sui fiori del 1870) alle novelle dei Racconti Umoristici (1873), dai romanzi (Un bel sogno del 1871) alle opere teatrali e ai testi in versi (Povera Cetra e Serenate, rispettivamente del 1874 e del 1875).
La finalità di queste opere caratterizzate da un forte lirismo sembra essere quella di conquistare il pubblico adeguandosi ai gusti “popolari” dell’epoca.
Nella seconda metà degli anni ottanta lo scrittore ottiene un inaspettato, quasi miracoloso, successo: Provinciali, Alpinisti Ciabattoni e La Rivincita dell’Amore costituiscono le sue opere più riuscite, tanto da non passare inosservate all’occhio dei critici. Scrive Gianfranco Contini: «è caso singolare quello di un uomo totalmente al di sotto di ogni letteratura, fecondamente circolante per le bancarelle, che all’improvviso esce fuori con tre o quattro libri perfettamente leggibili senza bisogno di soverchia indulgenza, e dov’è tentata, qualunque sia la vita spirituale a cui si applica, qualche esperienza stilistica qualificata». Tuttavia né questo né altri giudizi positivi (tra i quali spiccano anche quelli di Benedetto Croce e di Gobetti) basteranno a salvare Cagna da una lenta caduta nell’oblio.
Un provinciale conservatore
Nell’ambito della Scapigliatura piemontese, Achille Giovanni Cagna si contraddistingue per la ferma volontà di esplorare il terreno intellettuale e sociale del suo tempo. Si tratta però di una prospettiva che resta fortemente radicata al contesto provinciale in cui Cagna è cresciuto e vissuto, un conservatorismo del tutto dissonante dai fermenti letterari e dai nuovi gusti che attraversano l’ultimo decennio dell’Ottocento. Così ad una cultura in transizione Cagna antepone i saldi principi della vecchia generazione; alle convenzioni borghesi risorgimentali preferisce “l’allegria sincera della gente che va per la sua strada” libera dalle “preoccupazioni morbose” generate dalla vita cittadina. Alla critica sociale si aggiunge quella letteraria: il bersaglio è il romanzo del suo tempo, appesantito, secondo Cagna, dal “lenocidio della forma” e che l’autore arriva persino a definire “viscida purulenza di foruncoli indiavolati o di pustulette maligne”. Da tale presa di posizione contro ogni tipo di formalismo ed estetismo derivano i tratti caratterizzanti le pagine di Alpinisti Ciabattoni e di Provinciali: la vena comica e crepuscolare, la violenza e l’innovazione linguistica riflettono il già citato conservatorismo dell’autore, in continua polemica con scienza e letteratura, entrambe allo stesso modo colpevoli di dissolvere i costumi tradizionali. All’interno di questa polemica, che si estende anche alla mondanità intellettuale dell’epoca, si inserisce l’esperienza presso il circolo di Saluggia, fondato dall’amico Faldella con il quale Cagna instaura un vero e proprio sodalizio letterario e condivide il gusto per la vita di provincia. Proprio a Faldella sarà dedicata la prefazione a Provinciali, scritta adoperando lo stesso vocabolario e i medesimi stilemi dell’autore di Figurine.
Più in generale, la caustica requisitoria di Cagna si concentra sui vizi, sulle deformazioni, sull’artificiosità dei mezzi e delle consuetudini borghesi, nascondendo, dietro ad un sorriso di commiserazione, l’invito ad un ritorno all’autenticità.
Lo stile
Uno degli aspetti che rende Achille Giovanni Cagna un personaggio ambiguo, protagonista di una delle esperienze letterarie più irregolari dell’Ottocento, è quello stilistico: l’autore rivela nelle sue opere una spiccata capacità di tratteggiare con sarcasmo espressionista la piccola realtà di provincia. Gli strumenti adoperati sono una prosa povera a cui si unisce una ricerca espressiva che trova nel dialetto di Vercelli la fonte lessicale privilegiata.
L’opera più rappresentativa dello stile cagnano è senza dubbio Alpinisti Ciabattoni (1888), romanzo dal linguaggio vernacolare che racconta la vicenda di due bottegai in vacanza che, abbandonato il rassicurante microcosmo campestre in cui hanno sempre vissuto, vanno incontro ad esilaranti disavventure turistiche che sembrano per di più presagire i guai dei vacanzieri moderni.
La scrittura è, diversamente dalle prime opere, frizzante e resa dinamica da un bidialettismo che unisce la riproduzione della parlata della Lomellina dei protagonisti al piemontese alto e popolare che l’autore conosce bene. Quello di Cagna è un linguaggio fortemente espressionistico, dove l’italiano non rifugge la contaminazione con le realtà dialettali e che nasce da quel sistematico rifiuto del modello linguistico manzoniano che è comune a molti scrittori della corrente scapigliata.
ALPINISTI CIABATTONI (Milano, 1888) di Giuseppe Zaccaria
Una vacanza può essere un momento di assoluto relax ove le fatiche di un intero anno, o addirittura di una intera vita, si assopiscono per far posto ad altre sensazioni sicuramente più piacevoli. Può diventare un incubo come nel caso dei coniugi Gibella. Oppure può essere la scusa per tratteggiare il “mondo piccolo” della borghesia piemontese di fine Ottocento.
Gaudenzio e Martina Gibella sono i coniugi proprietari di una bella bottega tra le risaie di Sannazzaro, in Lomellina. Finalmente, dopo vent’anni che vagheggiavano di esaudire un loro sogno, partono in treno per una vacanza sul lago d’Orta.
“Dopo tanti anni di assiduità bottegaia, ora che il loro primogenito Leopoldo aveva senno bastante per curare il negozio e la casa, ecco che i Gibella si erano messi in viaggio realizzando finalmente un vecchio progetto architettato ad ogni chiusura di conti, e rimandato da una stagione all’altra, per una ventina d’anni.”
Quella che doveva essere però una splendida occasione di distensione e divertimento si trasforma in una settimana dove sia Gaudenzio “uomo greggio, poco stacciato, un po’ impiattito dalle consuetudini bottegaie, ma con residui abbondanti di buon senso e di buon cuore” (che gli torneranno utili per venir fuori da situazioni d’impaccio) che Martina patiscono tutta una serie di fastidiosi inconvenienti. Il mal di piedi della signora, con il suo continuo togliere e ricalzare lo stivaletto buono della domenica, si farà sentire per molte delle pagine dell’opera di Cagna. Così come il caldo accecante, o il terrore di essersi persi durante una passeggiata in montagna sopra Omegna, o quello di essere derubati. Un improvviso maltempo che li costringerà a ripararsi nelle scomodo camere d’albergo. Poi il terribile dolore al dente di Martina e la conseguente visita dal presunto dentista che giocherà a marito e moglie un brutto scherzo.
La conseguenza è che, ben presto, i due non aspireranno ad altro che a far ritorno nella bella Sannazzaro, dove la drogheria non sarà più il posto delle fatiche quotidiane, bensì il luogo ideale di pace e tranquillità che farà apparire insensate e inutili le fatiche della vacanza. “Il mondo! Che gliene importava a loro? Fuori dal guscio, avevano provato non altro che delusioni, terrori e nausee infinite; ora ne sapevano abbastanza per capacitarsi, che anche fuori del loro paese, dal grande al piccino, le cose hanno tutte lo stesso andazzo; dappertutto cielo, terra e montagnacce; seccature, gabbamondo e ciarlatani di ogni specie.”
Le storie che vengono raccontate in Alpinisti Ciabattoni sono molteplici. Ricordando che comunque Martina e Gaudenzio sono i protagonisti della strampalata vicenda, girano attorno ad essi tutta una serie di personaggi e fatti che incorniciano la loro storia e che, in alcuni momenti, diventano i personaggi principali delle scene. Le storie nella storia. Come per esempio l’amore dei Segezzi per la loro unica e sfacciatissima figlia, che si innamora perdutamente di un uomo qualunque (quando, secondo i genitori, bella com’era, poteva puntare più in alto). La storia del matrimonio, che viene sbandierata ai quattro venti a chiunque si facesse vedere (per finta o sul serio) interessato all’argomento.
Tutta una serie di macchiette e strambi personaggi portano i Gibella, attraverso un racconto costruito ad iperbole, alla saggia decisione di un ritorno anticipato a casa, consci, forse, di aver imparato una importante lezione: “Meglio morire come lumache appiccicate in un cantone, che farsi abburattare in quel bailamme che non era affatto loro”. La tranquillità, la vita senza pretese, il rifiuto della novità sono i veri valori di un’esistenza condotta all’insegna del buon senso.
Il quadro in cui si muovono queste figurine vanamente alla ricerca delle abitudini, dei gesti e dei divertimenti in grado di assicurargli tono e rispettabilità, viene demolito – ovviamente a loro stesso danno, dato che i due coniugi avrebbe voluto dimostrare di essere iscritti – proprio dai Gibella, presto stanchi degli obblighi che il decoro sociale e la moda impongono. Al bottegaio Gaudenzio e alla loro incapacità di capire, spetta il compito di riportare coi piedi per terra tutte quelle smancerie, quelle assurdità, quegli strapazzi ingiustificati che gli sembrano essere richiesti dalle idee balzane di fine secolo. E lo fanno di tasca propria, sperimentando su se stessi l’impraticabilità di quella vita mondana e cosmopolita che i tempi vorrebbero smerciare per inevitabile.
Un’opera, questa, divertente, che sembra anticipare i guai vacanzieri di massa attuali: il bozzetto ricostruisce con amabile ironia e sorprendente inventiva stilistica un universo borghese oggi in via d’estinzione.
Il linguaggio
Cagna per questo suo Alpinisti Ciabattoni, capovolge le strade stilistiche percorse fino a quel punto. C’è un arricchimento del suo vocabolario, la scrittura non appare più scialba e piatta come nelle precedenti opere.
La lettura rende infatti immediatamente evidente la ricchezza lessicale del romanzo. E’ una lingua vistosa, che dipinge a guazzo, tutta fiorita di galanti e di parpaglioni che svolano sui giardini, come scrisse Montale in una recensione apparsa su “Il Lavoro” di Genova. Il bidialettismo ti tipo mimetico vorrebbe essere una riproduzione fedele della parlata della Lomellina dei due protagonisti, mentre quello espressionistico risale più propriamente al repertorio piemontese illustre o a quello di tipo locale (consueto quindi all’autore). Infatti alcuni termini derivano da un piemontese piuttosto regionale, e quindi di non immediata comprensione. Vediamo termini quali “strupo” (gregge), “famina” (carestia), “naso famiolesco” (come quello di una famosa maschera piemontese, Famiola), “mettersi a rabello” (mettersi in coda), “sgnuccava” (sonnecchiava), ecc.
L’autore ha fatto ricorso ad un linguaggio fortemente espressionistico, in cui decisiva è la contaminazione tra italiano e dialetto, frutto di un sistematico rifiuto del modello linguistico manzoniano.
“Il buon Gibella aveva gli occhi impeciati di sonnolenza; la parlantina senza respiro, lo sbracciamento indiavolato del suo nuovo amico (Noretti), ed il calore torbido del vino che gli bulicava nel cervello lo balestravano lontano lontano, nel mondo della luna. Un po’ per volta si appisolava, appollajandosi alla meglio sulla sedia, ma proprio nel momento che sgnuccava sotto la grandine delle chiacchiere, il signor Noretti emetteva certi grugniti selvaggi che lo svegliavano di soprassalto ghiacciandogli il sangue nelle vene”.
“Cappello a tese larghe, alto conico, e sopra fiori, grappoli, piumetti; un giardinetto irto di sporgenze che urtavano da ogni parte, tenendola in disagio.
- Leva quella lavagna che te ghet in testa – le disse il marito – ghe n’è ancora per un’ora!”
“Gaudenzio si provò a rosicchiarne una (costoletta ai ferri); ma ohimè, quando riusciva a strapparne un brandello il guaio peggiore stava nel masticarlo; e dopo molte riprove, respinse il piatto, e disse con un sorriso pungente al cameriere:
- Cisti… questa l’è la mascela de Sansone!
- E’ un po’ al dente?
- Altar che al dente! Questa l’è carne de cane!”
Sostarono all’ombra degli ippocastani della solita piazzetta, il professore sedette su una delle panche scrivendo alcuni dei suoi appunti sopra un grosso taccuino, ed i Gibella intanto disputavano sul modo più decente di ritirare il loro bagaglio dall’Albergo del Persico.
- Ti va là – diceva Martina – se paga il conto e se porta via la roba.
- E se ciaman dove vo? – obbiettò Gaudenzio.
- Oh bella! Cosa han da savè lor?… Vò dove me fa piasè!
[…] Tornò di lì a pochi minuti col suo saccone, e subito Martina lo interrogò sulla spesa.
- Otto lire la cena e quattro la camera.
- Vott lira! – sciamò madama. – Vott lira per un oss de can, e una minestra de ris e musch?….. ch’el vada a…!
PROVINCIALI (1886) di Claudio Fattibene
Provinciali è il titolo della prima opera principale di Cagna, scritta nel 1881 ed edita per la prima volta nel 1886; edizione questa a cui farà seguito una successiva, ampliata, nel 1903. L’opera non è altro che una raccolta di episodi inerenti alla vita degli abitanti della cittadina di Villalbana, “pseudonimo” con il quale l’autore indica la natia Vercelli. Nella prefazione dell’edizione del 1903 Cagna precisa che gli avvenimenti narrati si avvicendano nell’arco di circa trent’anni, esattamente dal 1847 al 1880: queste coordinate dall’autore hanno lo scopo di far immedesimare il lettore nel contesto storico di quell’Italia settentrionale che si accinge/è stata portata all’unificazione. L’opera si apre con la descrizione di Villalbana, che, come ci racconta Cagna è “città a nessuna seconda per le sue tendenze ai progressi di ogni maniera”: ciò è testimoniato dalle numerose personalità illustri legate al campo della medicina, della pedagogia, della musica e della religione originarie proprio di Villalbana e il cui elenco ci è minuziosamente fornito dall’autore. L’enfasi è posta anche sulle sue antichissime origini e sul come la sua fondazione sia contesa tanto dai Romani quanto dai Galli.
Nella descrizione della cittadina vengono introdotti due dei principali punti chiave che verranno mantenuti anche nel susseguirsi della narrazione: il giornale locale, l’Aurora, e il teatro. L’Aurora, che dopo alcuni anni, causa cambio direttore di testata, muterà il nome in Aurora Nova, è un vero e proprio punto di riferimento per Villalbana. E’ il giornale locale infatti che sceglie e cura le notizie degne di nota, quelle intorno alle quali poi verranno costruiti discorsi e sviscerati commenti dai cittadini. E, particolare importante, le notizie riportate dall’Aurora hanno significatamene un carattere locale: le notizie provenienti dal restante Regno non hanno importanza, ai villalbanesi interessa quello che accade a Villalbana.
Ogni qualvolta Paolino prendeva nelle mani “L’Aurora”, giornale di Villalbana, sentivasi nel sangue una gagliarda reazione, ed una irresistibile vocazione rivoluzionaria. Egli odiava quell’innocente foglietto che con lezia manierosa, propria del De Ramboldi, ingiulebbava i villalbanesi in un dolciume di adulazioni, e di retoriche ricercatezze. Il De Ramboldi infatti scriveva proprio coi guanti il suo giornale, e come egli era reputato in Villalbana per un grande pubblicista, i collaboratori volontari arruolati sotto la sua bandiera, cercavano di imitarne lo stile e la maniera, toscaneggiando anch’essi del loro meglio, per avvicinarsi quanto più potevano alle finezze, alle delicature del loro direttore.
Il teatro comunale è un luogo fondamentale per la vita pubblica di Villalbana. E qui infatti che i villalbanesi hanno la possibilità di divertirsi assistendo alle rappresentazioni comiche, di commuoversi davanti alle scene melodrammatiche e di ammirare ottimi attori e orchestre. In questa prima parte descrittiva si nota come il teatro assolva una funzione “personale”: i villalbanesi che vi si recano pare lo facciano per il puro piacere di assistere alle rappresentazioni; in realtà solo in un secondo momento l’autore plasmerà il teatro come un luogo dove prevalgono altri interessi: un luogo dove ogni singola dama fa sfoggio della sua moda cercando di far morire d’invidia le amiche, un luogo dove le figlie di queste dame, le tote, cercano di mettersi in mostra sperando che qualche giovanotto le noti, infine un luogo dove gli stessi giovani, ma anche uomini, che giovani proprio non sono, hanno l’opportunità di far cadere i propri occhi su qualche tota degna di nota.
Dopo aver introdotto l’ambiente, dunque, Cagna descrive una lunga serie di distinti episodi che hanno come protagonisti i Villalbanesi, personaggi appartenenti a qualsiasi ceto e classe.Un elemento fondamentale è che ciascun racconto non è scandito da un inizio e da una conclusione ben definiti: una vicenda spesso inizia in un episodio e termina in un altro. Inoltre la narrazione non segue l’ordine logico/cronologico della fabula, ma è il frutto di una ricostruzione in cui Cagna fa un largo uso di analessi. Un altro importante dato è che i personaggi che hanno un ruolo di contorno in un episodio si ritrovano ad essere i protagonisti di un altro. E’ il caso quest’ultimo di Rinaldo e Paolino: protagonisti impegnati nell’arte del corteggiamento rispettivamente nel Le vertigini del caldo e Primavera, essi si ritrovano a figurare come comparse nell’episodio Le impromesse di casa Gherulfi . Questa sorta di “concatenazione” tanto degli avvenimenti quanto dei personaggi conferisce una singolare e riuscita linearità al procedimento narrativo. E’ inevitabile dunque che siano gli stessi personaggi a portare avanti la narrazione, che proprio grazie ai dialoghi e quindi alla coincidenza del tempo della storia con quello del racconto, assume connotati dinamici. Anche il punto di vista della voce narrante è influenzato da questo avvicendarsi continuo di personaggi: nonostante sia fissa la presenza del narratore onnisciente che sa tutto di tutti, il punto di vista interno muta continuamente consentendo al lettore di inforcare più lenti per la lettura degli episodi. Non vanno inoltre dimenticati i temi cardine che caratterizzano le vicende narrate. E’ possibile infatti individuare alcune tematiche fisse che puntualmente e inevitabilmente si rivelano. Esse sono: la ricerca dell’amore “difficile” o “impossibile” (Le vertigini del caldo, L’ultima domenica di Paolino); l’obiettivo di affermarsi nella società accedendo ad incarichi che diano lustro e una seria ragione di vita alla propria persona (Il vice segretario); il perseguimento continuo del confronto di un personaggio con gli altri, soprattutto sul piano del ceto (Il settimino di Beethoven, Casa Soretti); infine un particolare ruolo ambiguo viene spesso attribuito all’arte, che prima è intesa come una via di salvezza per fuggire dalla monotonia e dalle malignità, ma che poi si rivela una strada senza concrete speranze di affermazione e, in alcuni casi, di sopravvivenza (A teatro, Il male dell’arte, lo scultore Giani).
Gli eventi narrati in Provinciali dunque sono caratterizzati da un travaglio interiore che ne colpisce i protagonisti, portandoli all’invidia, al senso di inferiorità, alla sofferenza determinata da un amore che non può/non vuole essere ricambiato. Si tratta di stati d’animo che Cagna è in grado di imprimere grazie ad uno stile privo di formalismi estetici dai forti tratti impressionistici: il tono ora ironico ora polemico che l’autore utilizza nel descrivere personaggi ed eventi si alterna squisitamente con una vena tragicomica; questa particolare combinazione riesce perfettamente laddove l’accento viene posto sulle cose meno sublimi della vita degli abitanti di Villalbana. E’ più che palese il riferimento allo stile di Faldella: uno degli episodi è intitolato proprio come uno dei racconti dello scrittore concittadino di Cagna, Il male dell’arte e la dedica nell’edizione del 1903 di Provinciali è ripartita in egual misura proprio tra Faldella e il padre dell’autore.
Alla luce degli avvenimenti narrati da Cagna c’è da chiedersi in definitiva se davvero tutti (o comunque buona parte) degli abitanti di Villalbana siano così provinciali: poco artefici del proprio destino e molto vittime degli eventi; continuamente soggetti ai commenti dell’opinione pubblica e poco propensi a tutto quello che di concreto può esserci in una condotta di vita. E’ questo infatti il quadro che ci offre l’autore, schietta testimonianza di come in provincia nessuno è completamente immune e indipendente dal giudizio altrui; e a nulla serve la mancanza di quegli affanni e di quel ritmo meccanico che scandiscono la vita nelle grandi città: “in provincia, come ha detto Balzac, le case sono di vetro e niente viene fatto senza il vigile controllo dell’opinione pubblica”.
BIBLIOGRAFIA
Botta, N., Il Viaggiatore senza bagaglio, Torino, Loescher, 1998
A.G. Cagna, Alpinisti Ciabattoni, Milano, Baldini e Castoldi, 2000
A.G. Cagna, Alpinisti Ciabattoni, Torino, Einaudi, 1972 (con introduzione di Lorenzo Mondo e approfondimento linguistico di Corrado Grossi).
A.G. Cagna, Provinciali, Vercelli, Gallardi e Ugo edizioni, 1903
Camillo Boito, A. G. Cagna, Remigio Zeno, Opere scelte, Milano, Mondadori, 1967 (con prefazione di Giacinto Spagnoletti).
Carnazzi Giulio, Da Rovani ai Perduti giornalismo e critica della scapigliatura, Milano, LED EdizioniUniversitarie, 1992
Guerriero A., Palmieri N., Lugarini E., Prisma letterario, Firenze, La Nuova Italia, 2000
SITOGRAFIA
www.letteratura.it
www.wikipedia.org
Tesina svolta da
LEONARDO VERZARO
CLAUDIO FATTIBENE
GIUSEPPE ZACCARIA
fonte: http://www-3.unipv.it/cim/specialistica/corsi-specia/seminario%20leip/Relazione%20Cagna.doc
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