Galileo Galilei vita opere biografia
Galileo Galilei vita opere biografia
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GALILEO GALILEI
Nasce a Pisa il 15/02/1564. Il padre, Vincenzo Galilei, è una figura molto importante per la cultura italiana; musicista e letterato, fece parte de la camerata dei bardi, un'associazione di musicisti che si proponeva di difendere la tradizione della musica cantata rispetto a quella strumentale.
Galileo dimostra fin da giovane una predilezione per gli studi matematici, che approfondisce nonostante il parere negativo del padre; questi, rappresentante di una antica famiglia aristocratica decaduta, ed obbligato in seguito a ciò a dedicarsi ad una professione di commercio, avrebbe voluto indirizzare il figlio verso studi di tipo giuridico.
L'insegnate di matematica più importante per la formazione di Galilei fu Ostilio Ricci, un discepolo di Nicolò Tartaglia; il Ricci si dedicava ad una matematica di tipo ingegneristico, applicata, sperimentale. E' proprio il Ricci a trasmettere a Galilei l'ammirazione per l'opera scientifica di Archimede.
Con Ricci Galilei approfondirà anche gli studi di fisica, dedicandosi anche in questo caso ad una fisica applicata ai fenomeni concreti piuttosto che rivolta a dimensioni speculative e cosmologiche. Nel 1583 scopre l'isocronismo delle oscillazioni pendolari; questa scoperta può essere ritenuta già una testimonianza emblematica dello spirito d'osservazione particolarmente sviluppato di Galilei, che lo accompagnerà lungo tutta la sua attività di scienziato. Altre scoperte sempre di natura fisica gli procurano l'apprezzamento degli scienziati del tempo, il che gli permetterà di ottenere una cattedra di matematica allo studio di Pisa; una cattedra in verità non particolarmente qualificata né molto retribuita. Già in questo primissimo periodo dell'attività di Galilei si possono individuare i due principali campi di ricerca, l'astronomia e la dinamica.
Si è sviluppato un dibattito fra gli studiosi per stabilire se Galileo in questo periodo fosse già convertito alla teoria copernicana; il problema è senz'altro di difficile soluzione, anche se è indubbio che Galilei in questo periodo faccia notevoli progressi sul problema del moto, ricerca che gli permetterà di risolvere poi i problemi astronomici. E' importante ricordare a questo proposito gli approfonditi studi che Galilei dedicherà in questo periodo alla teoria dell'impetus; egli individuerà i limiti di questa teoria, e di conseguenza la supererà. Ma sarà proprio questo studio che lo convincerà dell'esigenza di abbandonare i presupposti della teoria aristotelica.
Già in questo periodo si può individuare in Galilei una predilezione per due fondamentali elementi, il matematico e l'empirico; tenete presente sempre l'importante influenza esercitata sullo scienziato pisano dalle opere di Archimede, ma anche la pratica dei tecnici rinascimentali, la cui conoscenza convincerà Galilei della necessità di matematizzare la fisica.
Nel 1592 Galilei si trasferisce a Padova, dove si era liberata una cattedra di matematica. Nella città veneta lo scienziato resterà 18 anni, che saranno in seguito da lui ricordati come il periodo più bello della sua vita. A Padova Galileo potrà approfittare della libertà d'espressione di cui si godeva nella Repubblica di Venezia, e intreccerà numerosi e importanti rapporti intellettuali. Si intensifica il suo interesse per i lavori tecnico-artigianale, tanto da far ammettere al suo studio un'officina dove poter meglio studiare questi fenomeni.
Nessuno scritto fondamentale di Galilei risale a questo periodo, ma senza dubbio è durante il soggiorno padovano che egli giunge a conclusioni scientifiche indispensabili per l'elaborazione di quei testi. In questi anni studia e d espone la legge del moto naturalmente accelerato. Nei suoi corsi alcune lezioni erano dedicate alla cosmologia tolemaica, come del resto prevedevano i programmi ufficiali; risalgono comunque allo stesso periodo le prime affermazioni a favore del copernicanesimo, in contemporanea alla pubblicazione di un testo di Keplero sull'argomento. Nonostante questo non è possibile stabilire quali prove lo scienziato avesse già raccolto a favore della teoria: sono indicative a questo proposito tre lezioni tenute nel 1604 in seguito all'apparizione di una nuova stella, ma Galilei non approfondì lo studio, in quanto le sue conoscenze scientifiche e tecniche (non disponeva ancora del cannocchiale) erano ancora insufficienti.
A Padova Galilei si dedica anche ad altri studi di carattere teorico e pratico: fabbrica il compasso geometrico-militare, basato sul sistema delle grandezze proporzionali, studierà le calamite, i fenomeni termici, vari strumenti di misura e fenomeni meccanici. Per quanto riguarda il compasso geometrico-militare si aprì una polemica con Baldassarre Capra che rivendicava, giustamente, la paternità dell'invenzione - anche se Galileo costruì lo strumento per via autonoma -.
Nelle ricerche fisiche Galilei ampia la concezione di Archimede, applicando i procedimenti matematici non solo ai fenomeni statici ma anche a quelli dinamici. Questo gli permise di formulare, oltre al principio del moto naturalmente accelerato, anche quello delle velocità virtuali.
Matematica pura e matematica applicata: per la prima Galilei non mostrò mai un vero interesse, e pertanto non apportò ad essa alcun contributo rilevante. Si appassionò invece tantissimo agli strumenti matematici, e diede alle sue indagini fisiche un'impronta decisamente matematica; probabilmente non si rendeva neanche conto dell'esistenza di un aspetto puramente teorico della disciplina.
E' questo un punto determinante per stabilire la presenza nel metodo investigativo galileiano di influenze neoplatoniche. Si parla infatti di platonismo in Galilei proprio per la centralità della matematica nelle sue ricerche; d'altra parte la matematica utilizzata da Galilei era molto differente da quella platonica. Su questa distinzione possiamo infatti diversamente interpretare le personalità di Keplero e di Galilei: il primo sembra ancora essere essenzialmente legato al platonismo rinascimentale, il secondo risulta invece estraneo a questa corrente filosofica. Riportiamo a questo proposito il parere di un importante studioso galileiano, Leonard Olschki: "fra Galileo e Platone vi fu soprattutto un legame di disposizione sentimentale, non un vero rapporto scientifico e dottrinale; il platonismo di Ficino sarebbe passato ai filosofi dell'Italia meridionale (Bruno, Campanella, Telesio), non all'ambiente culturale fiorentino, dove si formò Galileo, dominato dallo spirito pratico di Machiavelli". Bisogna comunque sempre ricordare che il platonismo non si identificava esclusivamente con il matematismo magico dell'Accademia fiorentina - in cui erano presenti caratteri mistici, aritmologici, magici -, ma anche con quello più rigoroso di un Tartaglia. Ciò permette fra l'altro di spiegare come in Keplero coesistano sia teorizzazioni matematiche di carattere simbolico che calcoli rigorosissimi. Fra l'altro, secondo alcuni studiosi, è discutibile porre una linea di distinzione fra platonismo e aristotelismo; nel concetto di matematicismo è possibile infatti interpretare la matematica anche come strumento della logica, intendo quest'ultima in un'accezione aristotelica.
Osservazioni astronomiche: Galileo ebbe il merito di introdurre il cannocchiale nella ricerca astronomica, anche se ebbe il torto di affermare falsamente di essere stato il primo ad inventarlo e ad usarlo. Lo scienziato pisano non riuscì mai a giustificare questo strumento da un punto di vista ottico, nonostante egli affermasse il contrario; ci riuscirà invece Keplero, nella sua celebre Dioctrica, che il Nostro colpevolmente non lesse. Galileo invece partì da un procedimento più elementare, estendendo al cannocchiale il funzionamento degli occhiali. Pur non avendo dunque una base scientifica adeguata, Galileo partiva dalla constatazione empirica che le cose viste col cannocchiale erano le stesse della realtà; non fu neanche il primo a rivolgerlo al cielo, ma fu il primo a capire il grande interesse per le cose viste. Certo è che basandosi sul cannocchiale non poteva giustificare alcun fenomeno matematicamente.
Le sue osservazioni astronomiche sono diventate celebri nella storia della scienza: la luna vista attraverso il cannocchiale assumeva caratteristiche assai simili a quelle della terra, in quanto i molti si rivelavano molto più alti di quanto non si credesse; la via lattea era una congerie di piccole stelle; scoprì inoltre i quattro satelliti di Giove.
12/03/1610 viene pubblicato il Sidereus nuncius, dove lo scienziato rende nota la sua scoperta: I satelliti vengono da lui chiamati pianeti medicei; questo nome rappresenta un particolare tutt'altro che secondario, in quanto rivela la consapevolezza di Galilei nell'attribuire grande importanza ai rapporti diplomatici, in particolare con le autorità politiche. Senza infatti l'avvallo di queste, e in particolare di quello della Chiesa, era chiaro che non ci si poteva difendere dalle inevitabili polemiche che avrebbero accompagnato le nuove scoperte.
Queste ultime furono incrementate dalle osservazioni delle macchie solari, dello strano aspetto di Saturno, dalla scoperta delle fasi di Venere; tutte scoperte che ponevano in crisi l'asserita incorruttibilità del cielo della tradizione aristotelica.
La maggior parte delle osservazioni polemiche concernevano soprattutto l'affidabilità della visione con le lenti; bisogna notare come la perfezione tecnologica fosse tutt'altro che raggiunta a quei tempi, e che gli strumenti presentavano inevitabilmente un'efficacia approssimativa. Nel 1610 Galilei fallì una prova pubblica da lui stesso voluta per convincere gli avversari, il che lo sottopose a feroci sarcasmi. D'altra parte la fiducia che Galilei possiede nei confronti del cannocchiale è indice già di un suo atteggiamento antidogmatico; egli si rende infatti conto che i nostri sensi non rappresentano i limiti di conoscibilità, e che gli strumenti tecnici possono non già sostituirsi ma potenziare le capacità percettiva umane.
Nel 1611 Galileo decide di compiere il suo primo importante viaggio a Roma, per ottenere l'assenso alle sue scoperte; il viaggio assunse un aspetto pressoché trionfale. Fu ricevuto da vari cardinali e dallo stesso pontefice Paolo V, il quale gli permise addirittura di non rimanere inginocchiato durante l'udienza.
Importante fu anche l'assenso che ricevette dai padri Gesuiti, anche se - e questo avrà molta importanza per gli eventi futuri - essi concordavano solo sulla verità delle sue osservazioni, e non sulle interpretazioni che il nostro ne ricavava. I Gesuiti rappresentavano l'ordine religioso più competente dal punto di vista scientifico, ma erano anche i più rigidi difensori dell'ortodossia: intendevano far sì che le nuove scoperte scientifiche non contraddicessero il dogma. Ai Gesuiti apparteneva il cardinale Roberto Bellarmino, uno dei più autorevoli rappresentanti dello spirito controriformistico. Questi, quando Galileo giunse a Roma, si fece subito fare un rapporto dettagliato sulle nuove scoperte; lo preoccupava in particolare l'utilizzazione troppo frequente del cannocchiale in astronomia, in quanto poteva sconvolgere alcuni saperi tradizionali della Chiesa. Si informò tra l'altro su eventuali processi - e alcuni ve ne erano stati a proposito delle polemiche precedenti - che avevano coinvolto lo scienziato.
Come dimostrano le osservazioni sull'imperfezione dei nostri organi di senso, e sulla possibilità di perfezionarli con la conoscenza tecnica, le polemiche che Galilei svolge con altri esponenti della cultura scientifica sono interessanti da analizzare in vista di importanti affermazioni metodologiche.
Secondo Galilei l'uomo dispone di due strumenti per attuare la sua ricerca conoscitiva: la sensata esperienza e la certa dimostrazione. Questi due concetti non sono però caratterizzati da un rapporto di alterità, ma costituiscono una profonda unità dinamica; entrambi possono essere continuamente perfezionati.
Galileo attribuisce inoltre un nuovo significato al concetto di perfezione: questo -secondo lo scienziato- non denoterebbe nulla se fosse considerato isolatamente; può acquistare invece un ben preciso significato in relazione ad un processo mezzo - fine. Galileo non ammette che si possa parlare di perfezione assolutamente, ma solo con qualche rispetto: la perfezione viene così fatta discendere dal piano assoluto della metafisica a quello tecnico della scienza. Un'esempio di questo lo si ha in un passo dedicato al tema della montuosità della Luna: "Il discorso è assai trito presso le scuole peripatetiche, ma dubito che la sua maggiore efficacia consista solamente nell'essere inveterato nelle menti de gli huomini, ma non già che le sue proposizioni siano nè dimostrate nè necessarie; anzi crederò io che le siano molto titubanti e incerte. Et prima, che la figura sferica sia più o meno perfetta delle altre, non veggo io che si possa assolutamente asserire, ma solo con qualche rispetto: come, p.es.,per un corpo che si habbia a poter raggirare per tutte le bande, la figura sferica è perfettissima, et però gli occhi et i capi dell'ossa delle cosce sono stati fatti dalla natura perfettamente sferici; all'incontro, per un corpo che dovesse consistere stabile et immobile, tal figura saria sopra ogni altra imperfettissima; e chi nella fabbrica delle muraglie si servisse di pietre sferiche faria pessimamente, et perfettissime sono le angolari...".
Sempre nella polemica sulla montuosità della Luna, Galileo introduce un altro importante aspetto metodologico, rispondendo all'ipotesi aristotelica di una pellicola trasparente che proteggerebbe la Luna nella sua perfezione sferica: il rifiuto di concetti inverificabili. La superiorità della perfezione relativa rispetto a quella assoluta dipende dal fatto che prima può venire verificata, controllando se il mezzo del quale si discute la perfezione risponda o no alfine relativamente a cui viene giudicato perfetto, mentre la seconda sfugge ad ogni controllo possibile.
Il programma politico-culturale - Viene concepito da Galilei intorno agli anni 1611/1615. Erano gli anni in cui Galileo si dedicava a due problemi particolari, quello del galleggiamento e quello delle macchie solari (ancora una volta i due principali campi di ricerca dello scienziato fanno riferimento alla fisica e all'astronomia!). Per quanto riguarda il primo argomento, difese la teoria di Archimede contro quella di Aristotele; è interessante notare come il futuro papa Urbano VIII -Maffeo Barberini- si schierò dalla parte di Galilei, mentre il cardinale Francesco Gonzaga prese le difese degli aristotelici.
E' un periodo comunque in cui l'interesse per la ricerca scientifica pura va scemando in Galilei; questo fatto è tanto più anomalo perché, dopo avere lasciato l'attività di insegnamento a Padova, Galileo poteva disporre di molto maggiore tempo da dedicare alle ricerche. Ma lo scienziato stava spostando i suoi interessi dalla pura ricerca scientifica ad un'azione di propaganda culturale, il cui scopo era quello di diffondere fra strati sempre più larghi di intellettuali e politici la fede nel copernicanesimo, e di far sorgere, attraverso di esso, lo spirito scientifico moderno nel maggior numero di persone.
Al di là dell'adesione incondizionata di Galilei nei confronti della teoria di Copernico, ci si può porre la domanda sul significato culturale, sul senso profondo della teoria che il nostro era in grado di scorgervi. In questo modo si introduce il problema filosofico se sia stato Galilei oppure Giordano Bruno a comprendere pienamente l'aspetto rivoluzionario del nuovo sistema cosmologico. Indubbiamente Galileo riprende il programma di Bruno, che era quello di spezzare gli schemi della vecchia fisica aristotelica; ma mentre per Bruno si trattava di dare luogo ad una nuova filosofia della natura, e non ad una nuova metodologia di ricerca, Galilei ritiene che nell'accettazione della teoria copernicana convergano tutte le ricerche scientifiche, sicché accettarla o respingerla significa accettare la metodologia che rende possibili tali scienze, o rimanere invece legati a tutti i vecchi pregiudizi.
Molti studiosi hanno rimproverato a Galilei l'indifferenza nei confronti della sorte di Bruno, che nel 1600 veniva messo al rogo anche in difesa della causa copernicana; molti di questi hanno fra l'altro posto in evidenza alcune analogie fra i due filosofi, per cui l'indifferenza galileiana si rivelerebbe ancora più colpevole - ricordate che lo stesso Keplero rimproverò Galilei per avere ignorato Bruno -. Ma non c'è dubbio che Galilei percepiva la differenza fra l'impostazione scientifica e la filosofia della natura. E' proprio questa differenza a fondare due diverse interpretazioni sull'epoca rinascimentale: la cultura del Rinascimento ha termine e trova il suo compimento nella filosofia della natura di Bruno - ovvero nel sistema più compiuto di filosofia della natura e di panpsichismo universale - oppure nella metodologia scientifica di Galilei, che trasferisce in un insieme coerente le diverse tendenze a favore dell'operatività scientifica, che tutte le correnti filosofiche rinascimentali - chi più, chi meno - avevano manifestato?
Un'altra differenza essenziale fra Bruno e Galilei è osservabile nel diverso atteggiamento tenuto dai due nei confronti della Chiesa cattolica: Galilei non si proporrà mai di riformarla teologicamente, ed era sostanzialmente indifferente alla discussione di problemi puramente teologici; era semmai ammirato dalla potenza della Chiesa cattolica, e particolarmente interessato alla sua capacità di condizionare in maniera determinante il mondo della cultura. Lo scienziato pisano si convinse dunque della necessità di convertire l'ambiente ecclesiastico alla causa della ricerca scientifica. Ecco dunque che Galilei sposta il campo dei suoi interessi da quello puramente scientifico a quello, di carattere più teorico e culturale, dei rapporti possibili fra il dogma cattolico ed il copernicanesimo. Fino al 1633, anno del secondo e definitivo processo, Galilei si concentrerà soprattutto su questo progetto di promozione culturale, e solo dopo la condanna definitiva tornerà a riprendere gli studi di meccanica.
Bisogna però ricordare come l'interesse per questo progetto non porterà mai Galilei ad assumere posizioni di compromesso - non è un caso che egli nutrirà sempre un grande disprezzo per il sistema ticonico di Ticho Brahe -. Per convincere la chiesa ad accettare la verità del sistema copernicano Galilei doveva far sì che questa ammettesse l'esistenza di due linguaggi diversi, fra loro indipendenti: il linguaggio ordinario, carico di imprecisioni ed incongruenze; e il linguaggio scientifico, rigoroso ed esattissimo. La Bibbia tende ad esprimersi nel primo linguaggio, in quanto si trova nella necessità di comunicare le sue verità al volgo, mentre la scienza mira a rendere conto di un fenomeno secondo il criterio della più estrema rigorosità. Rinunciare, nell'ambito dell'indagine scientifica, al linguaggio usato da Dio nella Bibbia, non significa voler rinunciare ad essa, o volerla correggere o porre comunque in dubbio la sua autorità. Significa semplicemente passare da un tipo di discorso ad un altro, esso pure usato da Dio quando scriveva il libro della natura: "Stante che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riservata nell'ultimo luogo; perché procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni sieno o non sieno esposte alla capacità degli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi impostili; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno essere revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante..tante questo, ed essendo al più manifesto che due verità non posson mai contrapporsi, è ofizio de' saggi espositori affaticarsi per trovare i vari sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri".
Dalla lettura di questo brano ci rendiamo compito di quanto fosse coerente ed evidente il ragionamento galileiano; si può anche dire che tale evidenza era condivisibile anche ai tempi in cui Galilei scriveva. Come mai allora le autorità ecclesiastiche non si lasciarono convincere dai discorsi dello scienziato pisano? Per capire le ragioni profonde del dissenso ecclesiastico verso Galilei dobbiamo avere presente un'altra distinzione metodologica fondamentale proposta da Galilei, diretta conseguenza della separazione fra due tipi di linguaggi.
Galileo distingue infatti due tipi di discipline: le discipline etico-naturali, dove Galilei concede il fatto che il loro oggetto superi ogni discorso umano, e quelle naturali, dove ritiene che l'uomo possegga - in quanto gli sono stati donati da Dio - mezzi naturalmente idonei a raggiungere la verità con rigore scientifico.
Di fronte a questa ulteriore distinzione proposta da Galilei la Chiesa manifestava più di una perplessità: poteva infatti lo scienziato garantire che in futuro la pretesa della ragione non si sarebbe anche allargata alle dispute di problemi morali e religiosi? D'altra parte - e questo particolare risulta a noi ovvio quanto doveva esserlo agli avversari di Galilei - lo scienziato, mentre in linea teorica sembrava riconoscere pari dignità ai due linguaggi, non nutriva però alcun dubbio sulla incontestabile superiorità del secondo rispetto al primo. Il discorso scientifico possedeva infatti secondo Galilei un valore di per sé incontestabile, che non aveva quindi bisogno di appoggiarsi su alcuna autorità ad esso estranea.
Rispetto al programma politico-culturale galileiano la maggior parte degli scienziati manifestava un atteggiamento di ostilità; secondo Keplero, p.es., l'azione di Galilei era inutile ed imprudente, in quanto rischiava di compromettere la possibilità per gli scienziati di condurre liberamente le loro ricerche.
Paradossalmente era proprio nell'ambiente ecclesiastico che Galilei trovava i maggiori sostenitori, in quanto esisteva una parte colta del clero desiderosa di trovare un modo per conciliare il cattolicesimo con la nascente cultura scientifica.. Abbiamo già accennato in precedenza all'importanza dell'ordine dei Gesuiti, e alla figura del cardinale Bellarmino; si è anche già accennato all'atteggiamento prudente mantenuto da quest'ordine nei confronti dell'ipotesi copernicana, e che lo portò per lo più ad accettare la teoria ticonica di Brahe. Una lettera proprio di Bellarmino è la testimonianza più emblematica di questo atteggiamento: "Stante che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riservata nell'ultimo luogo; perché procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni sieno o non sieno esposte alla capacità degli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi impostili; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno essere revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante..tante questo, ed essendo al più manifesto che due verità non posson mai contrapporsi, è ofizio de' saggi espositori affaticarsi per trovare i vari sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri".
Un atteggiamento caratterizzato dalla più ferma intransigenza fu invece quello tenuto dall'ordine dei Domenicani, i quali guardavano con sospetto qualsiasi innovazione, sia pure solo astronomiche. La prima condanna inflitta a Galilei dalla istituzione ecclesiastica venne proprio in seguito alla denuncia portata da due esponenti di quest'ordine, Nicolò Lorini e Tommaso Caccini, che in alcuni loro scritti fecero notare le incongruenze fra le teorie di Galilei e alcune pagine della Bibbia. Ad una prima incriminazione effettuata per via epistolare - dunque ancora in una forma non ufficiale - Galilei ricevette risposte rassicuranti che, basandosi sugli importanti appoggi di cui lo scienziato godeva nell'ambiente ecclesiastico, non facevano prevedere ulteriori passi. Ma Caccini persistette nelle sua accuse, affermando di avere udito alcuni discepoli di Galilei manifestare convinzioni teologiche estranee alla fede, quali ad es. l'identificazione di Dio con l'accidente e non con la sostanza. Caccini citò dei testimoni che vennero poi interrogati; la disputa dunque si estese, fino a trasformarsi in un vero scontro tra le diverse componenti della chiesa.
A questo punto Galilei decise di recarsi a Roma, per fare opera di convincimento nei confronti della sua teoria; costretto da una malattia a rimandare il viaggio, si mosse solo nel dicembre del 1615. A Roma si impegnò con grande energia, partecipando a numerosissime discussioni e riunioni; Galilei rimase vittima del suo ottimismo, in quanto non comprese che la posizione della Chiesa non era solo la causata da uno scontro di poteri interni, ma dalla mentalità di un'istituzione che temeva moltissimo il cambiamento. Galilei indubbiamente non possedeva alcuna capacità di comprensione politica degli eventi, ed aveva una fiducia nel potere della ragione che rasentava l'ingenuità; è indicativo a questo proposito il contrasto con l'ambasciatore di Toscana in Vaticano Guicciardini, presso il quale Galilei risiedeva; egli si rese subito conto dell'errata valutazione di Galileo, ed era profondamente convinto del fatto che la causa copernicana sarebbe uscita sconfitta nel suo conflitto col potere ecclesiastico.
Bisogna anche tenere presente che la controversia ebbe un esito sfavorevole a Galilei anche per lo scarso appoggio che ricevette dai Gesuiti, i quali si ritirarono dal dibattito, spaventati dalle conseguenze radicali che l'accettazione della teoria copernicana avrebbe comportato per la fisica aristotelica.
Il 19/02/1616 il Sant'Uffizio pubblicò due proposizioni:
1) "Che il sole sii centro del mondo, et per conseguenza immobile di moto locale"
2) "Che la terra non è centro del mondo nè immobile, ma si muove secondo sè tutta, etiam di moto diurno"
Il 24 dello stesso mese i teologi, all'unanimità, proclamarono la prima proposizione stolta e assurda in filosofia e formalmente eretica in quanto espressamente contraddice in molti luoghi alle sentenze della Sacra Scrittura nel significato letterale e secondo la comune esposizione dei Santi Padri e dei dottori in teologia. Quanto alla seconda, pur senza dichiararla eretica, la proclamarono meritevole in filosofia della medesima censura della prima, e dal punto di vista della teologia almeno erronea riguardo alla fede."
Sempre nel 1616 furono messi all'indice le opere di Copernico e tutti i trattati che parlavano della teoria Copernicana.
Il 25 febbraio Paolo V ordinò al cardinale Bellarmino di convocare presso di sé Galilei e di ammonirlo ad abbandonare l'opinione censurata, di non insegnarla o farla oggetto di dimostrazione a parole o con scritti. Il verbale della seduta rappresenta uno dei punti più controversi di tutta la vicenda, in quanto il contenuto di questo verbale diventerà il perno dell'accusa contro Galilei nel processo del 1633. Due sono i punti poco chiari in merito a questo verbale:
1) Il contenuto: si passa infatti da un semplice ammonimento a non seguire la teoria copernicana ad un precetto. Questo non è facilmente spiegabile, in quanto motivato solamente da un rifiuto ad obbedire da parte di Galilei, rifiuto che non ci fu. Inoltre le parole "quovis modo", lasciando intendere un divieto a concepire la dottrina anche semplicemente ex suppositione, aggravano ulteriormente la posizione di Galileo.
2) Il verbale non presenta delle firme, e il suo aspetto è quello di una semplice minuta. Alcuni studioso hanno quindi asserito trattarsi di un falso, aggiunto arbitrariamente agli incartamenti del 1616 solo nel 1633 per aggravare la posizione personale dell'accusato. La maggior parte però degli interpreti si è dimostrata contraria a quest'ipotesi, anche sulla base di una prova effettuata con i raggi ultravioletti che ha dimostrato la contemporaneità del presento foglio agli altri che lo accompagnano. Non c'è dubbio però che l'ipotesi contraria - come si vedrà più avanti - spiega molto più chiaramente i futuri rapporti fra Galilei e il Sant'Uffizio.
Nonostante la categoricità delle affermazioni ecclesiastiche l'esito di questa decisione giuridica fu vissuto da tutte le parti in causa quasi come si trattasse di un compromesso - e questo rende ancora più incomprensibile l'estremismo del verbale sopra citato -. Entrambe le parti cercarono di non inasprire le tensioni; lo stesso Galilei si trattenne a Roma per altri tre mesi, per verificare la severità dell'applicazione dell'ordinamento. Fu ricevuto dal Papa, e ricevette attestati pubbliche di stima da parte del cardinale Bellarmino; questi scrisse pure una lettera a Cosimo II di Toscana per assicurarlo sulla stima che il papato ancora provava verso lo scienziato.
Ancora una volta Galilei dimostrerà di possedere una scarsa capacità di analisi politica, facendosi di nuovo cogliere da un ingenuo entusiasmo. Sono illuminanti a questo proposito le osservazioni dello studioso Guido Morpurgo Tagliabue: "nelle contraddizioni e distinzioni e compromessi nati durante il primo processo...è l'origine delle future sventure e complicazioni del secondo processo a Galileo".
Alla prima condanna seguirono anni in cui Galilei non interverrà più pubblicamente su problemi relativi alla conformazione dell'universo; egli continuerà però in privato le sue osservazioni scientifiche ed astronomiche, intervenendo su problemi collaterali. Sono dunque anni non particolarmente rilevanti dal punto di vista della compilazione delle opere che ci hanno trasmesso il sapere di Galileo. Ma è un periodo importante, che non va assolutamente sottovalutato, se si vogliono comprendere le future vicissitudini cui andrà incontro lo scienziato di Pisa. Sono anni infatti in cui aumenta il suo ottimismo e la sua convinzione di poter tornare ad difendere pubblicamente la teoria copernicana, in seguito ad alcune manifestazioni di stima e di tolleranza che gli provennero dall'ambiente ecclesiastico. Fra queste va ricordata un raffinato omaggio che nel 1620 il cardinale Maffeo Barberini inviò spontaneamente allo scienziato, accompagnato da una lettera molto significativa: “Molto Ill.S.re La stima che ho fatto sempre della V.S. et delle virtù che concorrono in lei, ha dato materia al componimento che viene incluso; il quale se mancherà di quelle parti che se gli convengono, avrà ella da notarvi solamente il mio affetto, mentre io intendo d’illustrarlo col puro suo nome. Onde, senza prolungarmi più in altre scuse, che rimetto alla confidenzia che io ho in V.S., la prego che gradisca la picciola dimostrazione della volontà grande che le porto; et con salutarla di tutto cuore, le desidero dal Signore Iddio qualunque contento”.
Il comportamento di Galilei rimane comunque per un certo tempo improntato alla prudenza, ed egli, pur continuando a ritenere valida la teoria copernicana, evita le polemiche dirette. Nel 1616 aveva comunque spedita al cardinale Orsini la sua opera sulle maree, la cui teoria, come vedremo più avanti, costituirà agli occhi dello scienziato la prova più convincente della validità della teoria copernicana.
La sua tattica prudente ebbe una sola eccezione, nel 1618, quando intervenendo nel dibattito sulle comete, si contrappose all'ordine dei Gesuiti, contro il quale manteneva un sentimento di risentimento a causa della condotta poco energica che l'ordine mantenne nella discussione del 1616. A confronto vi erano due opinioni, quella proprio della tradizione aristotelica, e quella elaborata da Ticho Brahe: secondo la prima le comete erano delle meteore atmosferiche sollevatesi fino alla sfera del fuoco, quivi incendiatesi e poi trascinatesi a roteare circolarmente dal superiore moto dei cieli; secondo Brahe erano invece corpi superiori al cielo della luna, siti molto al di là della sfera del fuoco. I Gesuiti, attraverso la personalità di padre Grassi, volevano proporre un compromesso fra la metafisica aristotelica e la teoria di Brahe, il quale da parte sua aveva già in parte accettato una simile ipotesi. A Galileo questa appariva la prova più odiosa del carattere compromissorio del sistema ticonico; egli proponeva invece una teoria secondo la quale le comete non sarebbero stati corpi reali ma solo apparenti, semplici effetti ottici dei riflessi della luce solare -come l'arcobaleno- su masse di vapore elevatesi dalla terra a grandissima altezza.
Le tesi di Galilei erano completamente inesatte, eppure da questa convinzione ha origine uno dei suoi scritti più significativi, il Saggiatore, un vero capolavoro di letteratura polemica. Se, come detto, dal punto di vista scientifico l'opera non possiede alcun valore, presenta invece importantissime osservazioni dal punto di vista metodologico. Scientificamente l'opera dimostra l'errore compiuto da Galilei nel sottovalutare l'astronomia di Ticho Brahe, che invece era stata compresa nel suo pieno valore da Keplero; le osservazioni metodologiche riscattano però questa lacuna. A proposito della polemica fra padre Grassi e Galileo ha scritto lo studioso Ferdinando Flora: "Dei due contendenti, di troppo impari valore, l'uno, il Grassi, difende una tesi più vicina al vero con argomenti spesso libreschi; l'altro, Galileo, suggerisce un'ipotesi erronea, e la sostiene con mente di scienziato che indaga dal vivo il 'gran libro della natura', per scoprirne le leggi: e non può appagarsi di insufficienti e confuse argomentazioni".
Una delle più famose osservazioni di Galileo contenute in questo testo riguarda la critica al concetto di perfezione, che noi abbiamo già precedentemente esaminato. Un'altra distinzione fondamentale contenuta in questo lavoro e quella fra due tipi di qualità dei corpi - in filosofia questi concetti sono noti come qualità primarie e qualità secondarie, secondo una terminologia posteriore risalente al filosofo inglese John Locke -. "Io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme che ella è terminata o figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, che ella è in questo o quel luogo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, nè per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata. anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, sieno levate ed annichilite tutte queste qualità...Ma che ne' corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si rieccheggia altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via le orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori ne i sapori ne i suoni, li quali fuor dall'animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l'ascelle e la pelle intorno al naso". Con questa pagina Galileo apre la via percorsa poi per secoli dalla scienza moderna; questa distinzione sarà poi rielaborata filosoficamente, giacché le osservazioni galileiane appaiono più di carattere scientifico che speculativo: Galilei, p. es., non sa chiedersi se l'impossibilità di concepire una materia senza partire dalle sue proprietà aritmetiche, geometriche o meccaniche sia di ordine logico o intuitivo. Sempre riferendosi al medesimo argomento Galilei introduce un passo fra i più discussi tra gli studiosi: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intendere la lingua , e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto". A partire da questo passo molti studiosi hanno voluto individuare un carattere decisamente platonico del pensiero di Galilei; uno dei più grandi storici della filosofia italiani, Antonio Banfi, ha scritto a questo proposito: "La critica delle qualità seconde e l'accentuazione del valore delle qualità prime non è in Galileo l'affermazione di un meccanicismo metafisico. Democrito, se così si può dire, ci introduce a Platone...La nuova scienza pone in luce nei grezzi rapporti casuali una costanza di relazioni proporzionali, la legge, e ciò in quanto trasporta quelli sul piano di una considerazione quantitativa e geometrica. Il mondo, questo mondo vario di infiniti accenti e parvenze, si rivela allora come un tutto armonico ove parte risponde a parte:; esposto come 'un grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi'". Coloro che non intendono avallare la tesi di un Galileo 'platonico' sottolineano in genere come il passo in esame non nasconda alcun profondo significato metafisico, dal momento che non fa parte di un più ampio contesto di riflessione filosofica, ma ha più un intento polemico: opporre il libro della natura a quello dei poeti. E' dunque l'opposizione della matematica alla fantasia, e non della matematica alla filosofia; Galileo vuole contrapporre alla falsa una vera logica, una logica fondata sulla matematica.
Nel 1621 accadde un evento che influenzerà negativamente sulle future vicende di Galilei: muore infatti il Granduca di Toscana Cosimo II, cui succede Ferdinando II, giovanissimo, sotto la tutela della madre Maria Maddalena d'Austria. La debolezza e l'inesperienza del nuovo principe avranno gravissime ripercussioni sugli sviluppi della controversia fra Galilei e il Sant'Uffizio.
A controbilanciare però questa perdita di un protettore politico tanto importante quale il Granduca di Toscana venne nel 1623 l'elezione al pontificato del cardinale Maffeo Barberini, divenuto papa con il nome di Urbano VIII, che, come già sappiamo, era un amico ed estimatore di Galileo. La nomina era fra l'altro stata appoggiata dal clero filofrancese, il che lasciava intendere come il nuovo pontefice non avrebbe seguito ciecamente la via controriformistica. Dopo la nomina di Urbano VIII, a testimoniare il cambiamento del clima culturale, venne pubblicato ufficialmente il Saggiatore, opera che fino ad allora era uscita solo in forma di lettera. Dopo l'autorizzazione del Sant'Uffizio Galilei decise di far pubblicare l'opera con una dedica al nuovo pontefice, il quale mostrò di gradire molto questo omaggio; anzi, da testimonianze si sa che il papa si faceva leggere l'opera in privato, traendone grande diletto. Probabilmente in ciò vi era un esplicitazione della sua controversia con l'ordine dei Gesuiti, fautore della cultura controriformistica; non c'è dubbio comunque che, all'inizio del suo pontificato, Urbano VIII avesse il sincero proposito di favorire le nuove ricerche.
In seguito a questa nuova situazione Galilei decide di recarsi a Roma, per andare a riverire il papa personalmente, e per cercare di guadagnarlo alla causa del copernicanesimo. A Roma lo scienziato ebbe grandi accoglienze, e fu ricevuto per ben sei volte da Urbano VIII; rispetto però alla nuova teoria astronomica il pontefice manteneva un atteggiamento reticente, argomentando una teoria poi divenuta famosa come il ragionamento di Urbano VIII: "anche se molti fatti sembrano provare che sia la Terra a girare attorno alò Sole, è teoricamente possibile che Dio, nella sua infinita potenza, abbia ottenuto i medesimi effetti facendo girare il Sole attorno alla terra, come appunto dicono le Sacre Scritture".
Galileo decide dunque di procedere per gradi alla stesura del suo progetto. Con una lettera a Francesco Ingoli ritorna sull'argomento del copernicanesimo, cercando di riaccendere il dibattito fra gli studiosi cattolici e concedendo qualcosa al modo di ragionare di Urbano VIII. In questa lettera sono presentate alcune prove di ordine meccanico che si ritroveranno nel futuro capolavoro di Galileo, ma esposte in forma ancora più elaborata e convincente.
Argomento fisico - vuole discutere sulla teoria che la terra sia davvero al centro dell'universo. Le giustificazioni degli aristotelici a sostegno di tale ipotesi possono essere così riassunte: "noi vediamo i corpi occupare luoghi inferiori e superiori; la terra è corpo più crasso del sole ed occupa il luogo più inferiore; il luogo più inferiore dell'universo è il centro". Le critiche di Galilei a queste argomentazioni possono condensarsi in tre punti:
1) inesattezza dei concetti di inferiore e superiore; questi infatti possiedono una natura relativa, ed hanno valore solo in relazione ad un determinato punto di vista. Esistono dunque molti luoghi inferiori e superiori, così come esiste una pluralità di centri.
2) non bisogna confondere il centro della terra con il centro dell'universo, ammesso che questo esista; il farlo denota un modo di ragionare dogmatico
- la convinzione che la terra sia un corpo più crasso del sole possiede anch'essa un carattere dogmatico
Giustificazione della caduta dei gravi - rappresenta una delle prove meccaniche più efficaci contro il moto della terra; Galilei riporta l'esempio della nave in movimento che era utilizzato anche dagli aristotelici per provare la tesi contraria. Mentre però questi ultimi basavano la loro teoria sull'osservazione di un corpo in caduta verticale dall'albero della nave, Galilei si sofferma sulle condizioni di vita sulla nave stessa, che rimangono simili a quelle della terra ferma. Viene formulato il principio della relatività galileiana: “è impossibile decidere, sulla base di esperienze meccaniche compiute all'interno di un sistema, se esso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme".
Dopo la stesura della lettera a Francesco Ingoli Galilei decide di dare completa attuazione al suo vecchio progetto di un'opera che fosse complessiva ed esaustiva della sua teoria, un vero e proprio systema mundi. Inizia la nuova opera nel 1624, e decide di darle la forma di dialogo, cosa che gli consente di introdurre facilmente gli argomenti più diversi e fra loro in contrapposizione, dall'altro di presentare le prove a favore del copernicanesimo senza impegnarsi personalmente in esse. La stesura del dialogo ebbe fine nel 1630.
Per quanto riguarda la pubblicazione, Galilei non sembrò all'inizio avere difficoltà: una lettera da Roma di Benedetto Castelli lo assicurava sulla benevolenza del padre domenicano Nicolò Ricciardi nei confronti dell'opera, e gli riferiva che lo stesso Urbano VIII, discorrendo col Campanella sulla condanna del copernicanesimo, aveva affermato: "non fu mai nostra intenzione e, se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto". Verso la fine di marzo Galilei si recò personalmente a Roma per consegnare il manoscritto all'autorità ecclesiastica; qui ebbe frequenti contatti che gli valsero l'autorizzazione del clero, e il libro gli fu consegnato sottoscritto e licenziato dallo stesso padre Ricciardi.
Poco dopo però le cose cominciarono a peggiorare: morì un esponente dell'Accademia dei Lincei, che non poté così occuparsi direttamente della pubblicazione dell'opera; in seguito il Castelli comunicò a Galilei il consiglio di pubblicare l'opera a Firenze, dove sarebbe stato più facile ottenere l'imprimatur della censura ecclesiastica. Di fronte però alle richieste di Roma si arrivò ad un compromesso: l'opera sarebbe stata visionata da un teologo fiorentino di fiducia - il domenicano Giacinto Stefani -, e i risultati della sua indagine sarebbero comunque stati visionati per ultimo a Roma. A Firenze il lavoro fu svolto con molta celerità mentre a Roma con molta lentezza, fino a che, grazie a pressioni svolte dall'ambasciatore, il manoscritto venne riconsegnato, con qualche consiglio e disposizione riguardo la prefazione, ma con l'autorizzazione ecclesiastica. Galilei ottemperò a tutte le raccomandazioni prescrittegli e l'opera poté così uscire il 21/01/1632: Dialogo di Galileo Galilei Linceo, dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Il titolo è già di per se interessante in quanto dimostra la ferma volontà di Galilei di non includere fra i massimi sistemi del mondo quello ticonico di Ticho Brahe.
Tre sono i personaggi del dialogo: il nobile fiorentino Filippo Salviati, il nobile veneziano Giovanfrancesco Sagredo -entrambi conosciuti da Galilei-, e l'aristotelico Simplicio, personaggio immaginario, che ricorda col suo nome un celebre commentatore di Aristotele.
Prefazione - ha un carattere molto prudente, che mette in risalto l'avanguardia dell'Italia nella ricerca scientifica ed astronomica - è un tentativo di adulazione verso le autorità politiche ed ecclesiastiche -, e nel contempo concede spazio al ragionamento di Urbano VIII. Anche in conclusione del Dialogo... questa teoria del pontefice viene richiamata da Simplicio, a coronamento di tutte le dimostrazioni che hanno visto trionfare la ragione copernicana. Galilei riteneva così di avere ottemperato agli obblighi impostigli dall'autorità ecclesiastica, ma fu facile per i suoi avversari dimostrare che il ragionamento di Urbano VIII posto in bocca a Simplicio - colui che nel dialogo fa sempre la figura dell'ignorante - risultava sostanzialmente offensivo. E' vero che il ragionamento viene pure ripreso da Salviati, ma senza essere argomentato e discusso. Gli avversari di Galilei cercheranno di fare credere che, nell'identificazione di Simplicio con Urbano VIII, ci fosse una volontà di scherno nei confronti del pontefice.
Bisogna riconoscere che, anche se l'accusa degli anti-galileiani era completamente in malafede, Galilei non dava in effetti alcun credito al ragionamento di Urbano VIII il quale, come una sorta di deus ex machina, risolveva i problemi senza convincere nessuno.
Prima giornata - inizia con una critica al concetto aristotelico di perfezione, per giungere ad una disamina più ampia della fisica aristotelica: le due teorie maggiormente discusse sono quella relative alla distinzione fra mondo celeste e mondo sublunare e quella concernente l'identificazione fra centro della terra e centro dell'universo. Come prove sono presentate principalmente le osservazioni celesti.
A livello metodologico è da sottolineare la distinzione gnoseologica tra intendere extensive e intendere intensive: dal punto di vista dell'estensione la conoscenza umana è nettamente inferiore a quella divina, ma dal punto di vista intensivo - in particolare le matematiche pure - la conoscenza dell'uomo può uguagliare quella divina. E' questa una distinzione che presuppone, secondo alcuni studiosi, una presa di distanza dal neoplatonismo: l'uomo infatti potrebbe raggiungere Dio non nella conoscenza della totalità ma solo in alcune zone circoscritte del sapere.
Seconda e terza giornata - si cercano di risolvere i tradizionali dubbi contro il moto diurno e annuale della terra. Galilei, rispondendo all'obiezione sulla invariabilità della grandezza delle stelle fisse, giunge ad accennare all'ardita concezione dell'infinità dell'universo.
Quarta giornata - viene presentata la prova ritenuta da Galilei decisiva a favore del copernicanesimo, ossia quella sulle maree. La teoria, scientificamente inesatta, afferma che le maree sarebbero il risultato della composizione della rotazione della Terra attorno al proprio asse e della sua rivoluzione attorno al Sole. L'importanza di questa ipotesi è per Galileo duplice: I) essa riconduce le maree a leggi puramente meccaniche II) rivela un fenomeno capace di costituire una prova diretta dell'ipotesi copernicana.
Se Galilei avesse saputo applicare le leggi sulla composizione del movimento da lui stesso scoperte avrebbe capito l'errore fondamentale della sua ipotesi
Da questo punto di vista il Dialogo... si rivela un'opera ancora incapace di dimostrare una ipotesi vera a favore della teoria copernicana, ma è in grado di rimuovere gli ostacoli che potevano impedire di accettarla. E' un'opera dunque la cui grandezza consiste non tanto nell'aspetto scientifico, ma in quello divulgativo. Sono interessanti a questo proposito le affermazioni dello studioso francese Alexander Koyrè: "In realtà il Dialogo... non è un libro di astronomia e neanche di fisica. E' innanzi tutto un libro di critica; un'opera di polemica e di battaglia; è al medesimo tempo un'opera pedagogica, un'opera filosofica; ed è infine un'opera di storia: 'la storia dello spirito di Galileo'...Un'opera di polemica e di battaglia: è questo che determina (in parte) la struttura letteraria del Dialogo: è contro la scienza e la filosofia tradizionali che Galileo punta la sua macchina da guerra...Un'opera pedagogica. Non si tratta infatti soltanto di convincere, di persuadere e di dimostrare: si tratta inoltre, e forse soprattutto, di condurre poco a poco il lettore valentuomo a lasciarsi persuadere e convincere, a poter comprendere la dimostrazione ed accogliere la prova...A ciò si debbono le lungaggini insopportabili per il lettore odierno, a ciò si debbono le ripetizioni, ilo ritornare su cose già dette...Un'opera di filosofia...se Galileo combatte la filosofia di Aristotele lo fa a vantaggio di un'altra filosofia sotto i cui vessilli si schiera: a vantaggio della filosofia di Platone. Di una certa filosofia di Platone".
La pubblicazione del Dialogo consente a Galilei di realizzare una parte del programma che si era proposto, e cioè di convincere la maggioranza degli studioso della verità del sistema copernicano; l'opera suscita infatti approvazioni e lodi generali. Tommaso Campanella gli scriverà: "Tutte le cose mi son piaciute e vedo quanto è più forzoso il suo argumentare di quel di Copernico, se ben quello è fondamentale...Queste novità di verità antiche, di novi mondi, nove stelle, novi sistemi, nove nationi etc. son principio di secol novo".
A Galilei non riuscì però la seconda e più ardita parte del suo programma, quella di riuscire a convincere la chiesa della necessità di adeguarsi a questa verità.
Già pochi mesi dopo la pubblicazione cominciarono a diffondersi notizie poco incoraggianti riguardo l'accoglienza degli ambienti ecclesiastici al libro. Benedetto Castelli raccontò a Galilei che "il padre Scheiner, ritrovatosi in libreria con un tal padre Olivetano...sentendo che il padre Olivetano dava le meritate lodi ai Dialoghi...si commosse tutto con mutatione di colore in viso e con un tremore grandissimo nella vita e nelle mani, in modo che il libraio, quale mi ha raccontato l'istoria, restò meravigliato". Campanella affermerà di aver sentito "con gran disgusto...che si fa Congregatione di theologi irati a proibire i Dialoghi di V.S.".
Il fattore decisivo che compromise del tutto gli obbiettivi di Galilei fu però il passaggio di Urbano VIII dal fronte degli estimatori di Galilei a quello dei suoi nemici. Il 18 settembre 1632 l'ambasciatore Nicolini scrisse di aver trovato il Papa " in molta collera contro il dialogo, così pieno di acredine da non poter esser peggio volto verso il povero nostro Galileo".
Quali furono le motivazioni del cambio di atteggiamento da parte di Urbano VIII?
1) il Papa si lasciò convincere dalle insinuazioni degli avversari di Galilei secondo i quali lo scienziato aveva voluto farsi beffe di lui identificandolo con Simplicio.
2) il Papa non avrebbe tanto facilmente creduto a tali insinuazioni se non si fosse trovato in una congiuntura storica particolare. Infatti nell'estate del 1632 Urbano VIII stava passando un periodo di tensione tale che ogni sospetto diventava in lui indiscutibile verità. Eletto con i voti del clero francese, egli aveva cercato di rinnovare la politica del papato, contrastando il predominio della Spagna e quello imperiale degli Asburgo, e appoggiando molte rivendicazioni della corona francese. Favorì sopratutto l'accordo tra il Re di Francia, il Duca di Baviera e le milizie protestanti di Gustavo Adolfo; si rifiutò di organizzare contro questo patto una lega richiesta dalla Spagna, in quanto affermava trattarsi di problemi politici e dinastici e non religiosi. Nel marzo del 1632 le pressioni del partito asburgico divennero molto pressanti: il cardinale Borgia lo accusò di comportamento protettivo verso gli eretici, e di dimostrare poco zelo apostolico. Queste accuse si aggiungevano ad altre lamentele che volevano il Papa autore di una politica nepotistica - durante il processo si pose sotto accusa addirittura lo stemma del tipografo che pubblicò il Dialogo, che con i suoi tre pesci si diceva volesse rappresentare i tre nipoti del Papa -. Proprio in questo periodo dunque Urbano VIII verificava la fragilità del suo apparente grande potere, e cercava di correre ai ripari rispetto a queste accuse.
La condanna di Galilei avrebbe portato ad Urbano VIII due vantaggi: 1) dimostrava che il Papa era ancora così forte da avvilire, con Galileo, il suo protettore, il Granduca di Toscana alleato della Spagna 2) dimostrava inoltre la sua capacità di difendere il vero spirito della controriforma, sacrificando i ben noti vincoli personali che lo legavano alla personalità di Galileo. La condanna di Galileo divenne così una vera e propria necessità politica. Così scrive a proposito Antonio Banfi: "questo richiedeva non solo il risentimento personale del Papa, ma la difesa della sua dignità e della sua autorità ed insieme l'ossequio alla disciplina cattolica, ai decreti della Chiesa, lo zelo degli uomini e degli istituti della Controriforma, la sua incoercibile volontà di dominio sulla cultura e sul sapere".
Galileo ricevette una lettera da padre Ricciardi con la quale lo si pregava di non diffondere il volume; il Granduca di Toscana protestò a questa decisione, facendo notare come il volume fosse uscito dotato dell'autorizzazione ecclesiastica. Il Dialogo venne dunque inviato ad una commissione di esperti, che doveva decidere del suo carattere inequivocabilmente copernicano; in una seconda fase fu portato davanti alla congregazione del Sant'Uffizio, e allora ebbe inizio in forma ufficiale il processo che si concluderà nel 1633.
Il 25 settembre viene inviata all'inquisitore di Firenze un'ingiunzione del cardinale Antonio Barberini - fratello minore del Papa - volta a far trasferire Galilei a Roma entro il mese di ottobre. Galilei - è questo è un sintomo del mutato clima culturale - fece molti tentativi per ottenere di essere esentato; le motivazioni non gli mancavano: era malato, in età avanzata, tra l'altro c'era un'epidemia di peste che serpeggiava nelle campagne. Fu però tutto inutile, e la Chiesa mantenne un comportamento di assoluta intransigenza; il 1° gennaio del 1633 il cardinale Antonio Barberini scrisse una nuova lettera all'inquisitore di Firenze, il cui tono non ammetteva più repliche: "Da questa Congregatione del Santo Offi.o è stato molto male inteso che Galileo Galilei non habbi prontamente obbedito al precetto fattogli di venire a Roma; et non deve egli scusar la sua disobbedienza con la stagione, perché per colpa sua si è ridotto a questi tempi; et fa malissimo a cercar di paliarla fingendosi ammalato, poi che la Santità di N.S.re et questi Emin.mi miei S.S.ri non vogliono in modo alcuno tolerare queste fintioni, ne dissimular la sua venuta qui: che però V.R. gli dica, che se non ubbidisce subito, si manderà costì un commissario con medici a pigliarlo, et condurlo alle carceri di questo supremo Tribunale, legato anco con ferri, poiché sin qui si vede che egli ha abusato la benignità di questa Congregatione; della quale sarà parimenti condannato in tutte le spese che per tale effetto si faranno. Ella seguirà quanto se la impone; e dia qui avviso". Di fronte alla durezza di quest'ordine lo stesso Granduca di Toscana evitò di intervenire in difesa dello scienziato.
Galileo partì per Roma il 20 gennaio, nel periodo più rigido dell'inverno. Dovette passare un periodo di quarantena a Ponte di Centina, a causa dell'epidemia di peste, quindi arrivò, stanchissimo e spossato, il 13 febbraio a Roma. L'unica sua fortuna fu che nella residenza dell'ambasciatore Nicolini egli trovò un'accoglienza ancora più calorosa di quanto non prescrivessero i doveri d'ufficio.
Galilei nonostante tutto non aveva ancora del tutto perso il suo ottimismo; solo in aprile avrà ben presente la negatività della situazione. Fino ad allora Galilei alternerà momenti di autentico sconforto ad altri di energica ripresa, che testimoniano la grande forza della sua umanità. Ad un certo punto però lo scienziato si pentirà addirittura delle sue ricerche scientifiche e di averle esposte al mondo: "...Questo in modo mi affligge, che mi fa detestare tutto il tempo già da me consumato in quella sorte di studi, per i quali io ambiva e sperava di potermi alquanto separare dal trito e popolar sentiero degli studiosi; e con l'indurmi pentimento d'havere esposto al mondo parte de miei componimenti, m'invoglia a sopprimere e condannare al fuoco quelli che mi restano in mano, saziando interamente la fame de miei nemici, a i quali i miei pensier son tanto molesti".
Dopo l'esito del processo Galilei abbandonerà definitivamente il suo programma, e manterrà sino alla morte il più assoluto riserbo sulle sue ricerche.
Ottenuto con difficoltà il permesso di non doversi trasferire nelle carceri del Sant'Uffizio, egli venne a conoscenza, nei primi due mesi che rimase a Roma, che la maggior parte dell'accusa si fondava sul passato colloquio con Barberini nel 1616. Questo fatto causò in lui un ingenuo entusiasmo. Lo studioso De Santillana ricava da questo una prova del carattere apocrifo del documento, una prova irrefutabile che Galilei non avesse ricevuto alcun precetto speciale: "Non sarebbe stato quello il momento di sentirsi agghiacciare, con ridesto il ricordo inesorabile di quel maledetto intervento a cui non è più possibile sfuggire? Invece gli pare che non ci sia più nulla da temere, anzi, non vede l'ora di affrontare i giudici. E' tempo, dice, che quei signori rendano conto di tutta questa persecuzione. Ed è Niccolini che deve dirgli che così non andranno le cose, e che badi ad accontentarli come può". Si deduce dall'ultima frase di questa citazione come si sia ripetuta da parte di Galilei la stessa incapacità di interpretare politicamente gli eventi, mentre l'ambasciatore riesce a focalizzare con estrema esattezza la realtà della situazione.
Bisogna comunque dire che l'afflizione di Galilei non nasce da un timore personale; la sua persona - e così infatti accadrà - poteva rischiare tuttalpiù il confino. Lo scienziato era però totalmente consapevole che era ormai finito il tempo di discutere, cioè di analizzare scientificamente le ragioni pro o contro del copernicanesimo. E difatti l'ambasciatore Niccolini esigeva da lui proprio la rinuncia ad esprimere non già la propria fede, ma le ragioni del copernicanesimo. Il dialogo tra Galilei e gli inquisitori è troncato, al dibattito razionale si sostituisce il rapporto di forza.
Se dunque partiamo dal presupposto che si concretizza un annientamento del dibattito razionale, possiamo capire come le vicende del processo perdano ogni interesse dal punto di vista filosofico. La difficoltà dell'accusa stava nel fatto che il testo era uscito con l'autorizzazione ecclesiastica; bisognava dunque accusare Galileo di averla estorta fraudolentemente. Per far ciò si ricorse al famoso documento del 1616: assumendolo come autentico, si attribuì a Galilei la gravissima colpa di non essersi adeguato al precetto impartitogli, e di non averlo fatto notare a padre Ricciardi. Visto però il carattere non ufficiale del documento, bisognava far sì che Galileo stesso confessasse l'esistenza di qualche precetto. Con una tecnica d'interrogazione tipicamente inquisitoriale, subdola, Galileo nomina la parola fatale e viene a trovarsi in una situazione insostenibile; alla fine assumerà un atteggiamento completamente arrendevole nei confronti dei suoi giudici.
Galilei riterrà sempre i principali responsabili dell'esito di questo processo l'odio dei Gesuiti contro di lui. In effetti il gesuita padre Scheiner fu uno dei più accaniti accusatori dello scienziato. In precedenza Galileo aveva aspramente polemizzato con lui nella discussione sulle macchie solari; probabilmente era anche lui un seguace della teoria di Copernico, ma l'odio nei confronti di Galileo lo indusse a tenere questo comportamento. Oltretutto i Gesuiti avevano un rapporto di rivalità con i Domenicani, al cui ordine apparteneva padre Ricciardi; si capovolsero così le posizioni del 1616, dove erano i Domenicani ad attaccare Galilei e i Gesuiti a mostrare un atteggiamento di tolleranza nei suoi confronti.
Il 20 giugno Galilei venne interrogato sopra l'intenzione, e affermò di non avere mai optato per l'ipotesi copernicana dopo avere ricevuto il precetto dalla Chiesa. Il 22 egli fu costretto ad abiurare in ginocchio nella sala del convento dei Domenicani di Santa Maria sopra Minerva, di fronte alla Congregazione del Sant'Uffizio.
Seguì a questo processo un periodo estremamente critico della vita di Galileo. In un primo tempo egli riuscì a trasformare il suo confino quasi in un centro di ricerca scientifica; in seguito alle proteste dei suoi nemici lo si costrinse all'isolamento - esclusa la presenza di qualche allievo per le necessità fisiche -. L'epistolario dello scienziato risalente a questo periodo rappresenta un documento importantissimo per comprendere il suo stato d'animo in questo periodo. Importante è il rapporto con il padre Marino Mersenne, importantissima personalità della filosofia di questo periodo; è merito degli ammiratori stranieri di Galilei se molte delle sue opere vennero ristampate dopo il 1633.
Per quanto concerne la ricerca scientifica, Galilei in questo periodo riprende il programma sul dialogo "intorno ai moti locale, naturale e violento", con il quale si riprometteva di offrire a tutto il mondo una splendida prova dell'efficenza della meccanica. La pubblicazione dell'opera avvenne nel 1638, con estrema soddisfazione del nostro. Il titolo integrale dell'opera è Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali.
L'autorizzazione ecclesiastica venne concessa senza difficoltà, ma oggi possiamo interpretare questa decisione dell'autorità ecclesiastica con un certo filo d'ironia. I censori infatti non condannarono l'opera ritenendo che trattasse un argomento innocuo; ma in realtà non la capirono, perché proprio questo Dialogo eliminava tutte le difficoltà di ordine fisico che ancora impedivano un pieno riconoscimento della teoria copernicana.
Non si tratta - come il Dialogo precedente, del resto, - di un'opera interamente nuova, ma piuttosto di una rielaborazione e di un approfondimento di risultati che Galilei aveva in parte già raggiunti nel periodo padovano. Gli interlocutori sono i medesimi del dialogo precedente, la divisione è sempre in quattro giornate, due contenenti un dialogo effettivo, mentre nelle ultime due Salviati legge una relazione di un suo amico accademico. Sono poi state ritrovate appendici e frammenti ulteriori che prolungano il dialogo fino alla sesta giornata, e che sono di uguale rilevanza filosofica e scientifica.
I momenti teoreticamente più alti sono quelli costituiti dalla terza e dalla quarta giornata, dove Galileo dimostra l'enorme progresso proprio della scienza moderna in relazione con la scienza classica. Vengono fra l'altro dimostrate le leggi del moto uniforme, del moto uniformemente accelerato e ritardato; le dimostrazioni sono ottenute inizialmente con procedimento deduttivo, e solo in un secondo tempo vengono integrate con una verifica empirica. In queste giornate Galileo perfeziona anche l'elaborazione dei concetti di infinito ed infinitesimo.
In queste osservazioni Galilei sembra avvicinarsi maggiormente alla matematica pura, teorica, senza per altro mai abbandonarne l'aspetto applicativo; anzi, nonostante queste nuove aperture egli non arriverà mai a sviluppare compiutamente questo aspetto della disciplina. Emblematico a questo proposito e sia il disinteresse dimostrato da Galilei per i testi di Keplero, ma soprattutto il rapporto con il suo discepolo Bonaventura Cavalieri. Questi era profondamente interessato alle ricerche di matematica pura, e pregò tantissimo il maestro di pubblicare le sue riflessioni a riguardo; questo anche per poter poi egli successivamente pubblicare le proprie, evitando la spiacevole situazione di anticipare scoperte del maestro. Ma Galilei non si fece mai convincere, mostrando sempre un atteggiamento di sufficienza; d'altra parte sul problema degli infiniti e del confronto fra infiniti lo scienziato si manterrà ancorato ad una posizione neoplatonica.
Ne nuovo Dialogo Galilei rielabora fra l'altro il principio d'inerzia, in una maniera simile a quella presente nell'opera precedente. Sull'effettivo raggiungimento da parte di Galilei di questo principio si è molto discusso fra gli studiosi. Alexander Koyrè ha scritto: "Galilei non riesce a concepire la gravità come una forza che agisca sul corpo, ma come qualcosa che appartiene al corpo stesso; perciò egli non riesce mai ad astrarre completamente da essa e quindi non può spingere il suo approfondimento del principio d'inerzia fino a darne una formulazione veramente generale". Koyrè ne conclude che Galileo perviene sì alla soglia del principio d'inerzia, ma senza penetrarvi dentro con piena consapevolezza scientifica. Il grande matematico italiano Federico Enriques ha replicato: "non possiamo cercare, nelle opere galileiane, una trattazione del principio d'inerzia come legge a sé, avulsa dal discorso generale in cui Galileo inserisce la meccanica...è chiaro che il principio, così enunciato, non è già ritenuto come legge puramente astratta, ma è messo in rapporto alla composizione che ad ogni istante si fa del moto inerziale coll'accelerazione impressagli dalle forze che agiscono su di lui". Ludovico Geymonat ne conclude: "...è privo di senso storico muovere un appunto a Galilei per non aver egli sentito il bisogno di darci un enunciato generale del principio d'inerzia; l'importante è che Galileo seppe applicarlo con perfetto rigore a tutti i casi che lo interessavano, e seppe farne il punto di partenza per giungere al principio di relatività, nonché alla confutazione delle <obiezioni meccaniche> contro il copernicanesimo...Ne va dimenticato che i discepoli di Galileo non sentirono alcuna necessità di riaprire un dibattito scientifico sul principio d'inerzia ma lo considerarono concordemente come un risultato ormai acquisito definitivamente dalla nuova meccanica".
Un altro aspetto estremamente importante di questo ultimo scritto è la rilevanza essenziale che acquista la componente platonica del pensiero di Galilei; questa sembra infatti essere pienamente confermata dall'impostazione rigorosamente deduttiva. Lo scienziato prende infatti le mosse da ben precise definizioni dei singoli moti e da assiomi generali di evidenza intuitiva, per dedurne una lunga serie di teoremi e corollari. La deduzione viene raggiunta attraverso un rigore matematico; all'osservatore è riservato il compito di controllare la corrispondenza tra i risultati dimostrati e i fatti dell'esperienza. Specialmente nel corso della terza giornata il controllo empirico assume una funzione particolarmente secondaria, e la sua difesa viene lasciata all'aristotelico Simplicio. Alexander Koyrè, lo studioso che con maggiore convinzione ha affermato il sostanziale platonismo di Galilei, ha scritto in proposito: "Ciò che l'empirismo aristotelico reclama, sono delle esperienze che possano servire di base e di fondamento alla teoria; ciò che gli offre l'epistemologia galileiana, aprioristica e sperimentalista insieme..., sono degli esperimenti costruiti a partire da una teoria, esperimenti il cui compito specifico e di confermare, o di infirmare, l'applicazione al reale di leggi dedotte da principi il cui fondamento risiede altrove". Koyrè sottolinea in seguito come l'interpretazione platonica venga ancora più favorita dall'andamento della quarta giornata: "Il fine a cui Galileo tende non è conoscere il corso dei fatti, ma le essenze che starebbero a fondamento di esse. Tali essenze devono risultare solo approssimativamente confermate dai fatti; non avrebbe quindi senso voler partire dunque dai fatti per giungere ad esse, spettando invece alla matematica, e solo alla matematica, afferrarle in modo diretto". Anche un altro importante filosofo della scienza del nostro secolo ha individuato in queste pagine una testimonianza platonica, Ernst Cassirer: "Il metodo di Galilei, pur iniziando dall'esperienza e terminando in essa, si prefigge però lo scopo precipuo di risolvere i dati dell'osservazione in relazioni generali di carattere non empirico ma concettuale". "Le leggi essenziali della natura non sono leggi del dato immediato, di ciò che si può direttamente designare, ma si riferiscono solo a dati ideali, che non possono mai realizzarsi totalmente nella natura. Questa però non reca alcun pregiudizio sulla loro oggettività".
I sostenitori di un'interpretazione del pensiero di Galilei che non contempla alcun particolare riferimento al platonismo sostengono però che non bisogna sopravvalutare il contenuto di queste pagine, suggerendo di integrarle con gli altri scritti dello scienziato. Infatti il procedimento deduttivo seguito in quest'opera non fu infatti quello adottato inizialmente da Galilei per giungere alle leggi in esame. Inoltre l'entusiasmo per il metodo ipotetico-deduttivo non lo porta mai a confondere la dimostrazione ex-suppositione delle leggi in questione con la prova della loro effettiva validità. Questa conserverebbe la sua validità anche se giungesse a risultati privi di qualsiasi riscontro in natura. Vi è in Galilei una consapevolezza della inconfondibilità fra deduzione matematica e dimostrazione fisica. Un fatto solo per combinazione può corrispondere alle leggi di carattere eidetico, essenziale: "Ma, in questo io sarò stato, dirò così, avventurato, perché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito". Secondo alcuni in questo passo, che sostiene la non coincidenza fra verità ex suppositione e verità de facto, si individua una forte istanza antiplatonica; la dimostrazione matematica anziché assorbire in sè quella sperimentale si rivela qualcosa di indipendente da essa.
Altri studiosi fanno invece notare come la difesa dell'istanza empirica condotta da Simplicio non indica necessariamente una sua svalutazione. Potrebbe invece significare un legame fra la nuova scienza e la migliore eredità del pensiero aristotelico; in altre parole, Galilei potrebbe ritenersi il vero continuatore dell'opera di Aristotele. Scrive a questo proposito Ludovico Geymonat: "Galileo è certamente d'accordo con Aristotele nell'anteporre ad ogni discorso <quello che l'esperienza e il senso ci dimostra>; egli non pensa però che l'esperienza ci offra, insieme con i dati, anche la loro retta interpretazione. Ritiene anzi che in molti casi (come ad es. per il copernicanesimo), ciò che a noi sembra costituire una contraddizione tra certi fatti e una data teoria, è unicamente una contraddizione fra la nostra prima, grossolana interpretazione di tali fatti e l'anzidetta teoria. Di qui la necessità di spogliare i fatti (in sè incontrovertibili) dalla veste in cui li avevamo inconsapevolmente avvolti; di qui ancora la necessità di provocare dei fatti nuovi, più precisi, che siano afferrabili nella loro realtà, al di fuori di ogni rivestimento tradizionale. Saper provocare dei fatti di quest'ultimo tipo significa, per Galilei, saper interrogare la natura".
In conclusione, si deve ammettere che in Galileo sia presente una obbiettiva oscillazione tra il ricorso al più puro metodo deduttivo e il ricorso non meno energico e frequente all'osservazione empirica. Galileo era comunque ben consapevole della complessività del problema del metodo, e sicuramente non voleva a questo riguardo rinchiudersi in una posizione dogmatica.
Le ultime osservazioni astronomiche cui Galilei si dedicò furono quelle sulla Luna; in seguito lo scienziato fu colto dalla cecità che gli impedì di continuare questo tipo di ricerche.
Di rilevante da notare di questi ultimissimi anni della sua vita è una lettera inviata al Principe Leopoldo di Toscana, nella quale Galilei chiarisce i suoi rapporti con l'aristotelismo. Lo scienziato vi afferma di non aver mai voluto rivolgere le sue critiche contro Aristotele, ma contro coloro che espandono oltre i limiti legittimi la sua autorità: "Mi giunge grato il sentire che V.S.Eccel.ma, insieme con molti altri, sì com'ella dice, mi tenga per avverso alla peripatetica filosofia, perché questo mi dà occasione di liberarmi da cotal nota (ché tale la stimo io) e di mostrare quale io interamente sono ammiratore di tanto huomo quale è Aristotele". "Io stimo (e credo che essa ancora stimi) che l'esser veramente peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalissimamente nel filosofare conforme agli Aristotelici insegnamenti, procedendo con quei metodi e con quelle vere suppositioni e principij sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali notizie il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che Aristotele ci insegna nella sua Dialettica, attinenti al farci cauti nello sfuggire le fallacie del discorso, indirizzandolo et addestrandolo a bene sillogizzare e dedurre dalle premesse concessioni la necessaria conclusione; e tal dottrina riguarda la forma del dirittamente argumentare. In quanto a questa parte, credo di havere appresso dalli innumerevoli progressi matematici puri, non mai fallaci, tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte io sia nel mio argomentare cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico".
Galilei è perfettamente convinto dell’efficacia della logica aristotelica, ma è nel medesimo tempo convinto che essa non costituisca un ausilio sufficiente e vada perciò integrata con la matematica. In particolare nell’individuazione di un errore nel procedimento scientifico l’aiuto della matematica potrà essere molto prezioso: dove si forma infatti l’errore? Certamente non nella teoria, bensì nel metodo con cui si vogliono spiegare e ricavare determinate conseguenze, contraddette dall’esperienza. Bisogna sì correggere un falso ragionamento, senza però abbandonare l’ipotesi; in questa correzione la matematica potrà fornirci un aiuto prezioso. “Voglio aggiungere per ora questo solo: che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle poche contraddizioni, ma ben concludenti, molto più che moltissimi altri che, per sostenere ogni suo detto vero, vanno esplicando dai suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità scoperte nuovamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché niuna alterazione vi si era fino allora veduta, indubitamente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario: che ben si raccoglie che mentre ei dice il cielo essere inalterabile, perché non vi si era veduta alterazione, direbbe ora essere alterabile perché alterazioni vi si scorgono”.
Esistono dunque nel pensiero di Galilei profonde tracce di aristotelismo: soprattutto nell'anteporre l'esperienza al discorso, pur sapendo Galilei che l'esperienza deve essere sapientemente interrogata. Il suo andare oltre Aristotele non sarà però mai un andare contro Aristotele; il richiamo a Platone può semmai dare vigore alla polemica contro gli aristotelici, per sottolineare l'importanza attribuita alla matematica come integrazione della logica; mai però come prevaricazione sull'esperienza.
Galileo Galilei mori l'8 gennaio 1642. La Chiesa mantenne nei suoi confronti un atteggiamento di durezza, controllando le orazioni tenute durante al funerale, le scritte poste sul sepolcro, e soprattutto impedendo la sepoltura nella tomba di famiglia in Santa Croce, a Firenze. Solamente nel 1734 la Chiesa concederà questa autorizzazione, e il monumento a Galilei venne eretto nel 1737. Alttrettanta durezza fu riservata ai discepoli di Galilei, con la chiusura dell'Accademia del Cimento, che essi avevano fondata. Solo nel 1757 l'Indice omise il decreto di proibizione di tutte le opere dedicate alla teoria copernicana; solo più avanti, però, tale teoria sarà accettata dalla Chiesa: nel 1820 in via personale, nel 1822 in via ufficiale. Nel 1989 Galileo Galilei verrà ufficialmente riabilitato dalla Chiesa, con una cerimonia presenziata da Giovanni Paolo II.
Fonte: http://www.liceomeda.it/new/documenti/materialedidattico/filosofia/galileo.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
CRONOLOGIA
1564 Galileo nasce a Pisa il 15 febbraio.
1574 La famiglia Galilei si trasferisce a Firenze
1581 Iscritto all'Università di Pisa, Facoltà di medicina.
1583 Studia matematica a Firenze con Ostilio Ricci.
1587 Senza laurea, dopo aver scoperto l'isocronismo delle oscillazioni del pendolo e inventato la bilancia idrostatica, concorre invano alla cattedra di matematica dell'Università di Bologna, vinta dal padovano Magini.
1589 Lettore di matematica a Pisa, studia la gravità e il moto, introduce nuove metodologie nello studio della natura.
1591 Muore il padre e Galileo si trova sulle spalle il peso della famiglia.
1592 Il Senato Veneto gli affida la cattedra a Padova; studia le meccaniche, costruisce il compasso geometrico e militare, stende dispense per gli studenti, alcuni li ospita, fa molte lezioni private, sempre carico di debiti.
1597 Scrivendo a Keplero, si professa copernicano da tempo.
1600 Nasce Virginia (suor Maria Celeste) dalla convivente veneziana Marina Gamba, poi Livia l'anno seguente e nel 1606 Vincenzio.
1604 Osserva una nuova stella e vi dedica tre lezioni pubbliche. 1607 Costruisce il termoscopio, progenitore del termometro. 1608 Sistema il fratello Michelangelo, musicista, alla corte di Monaco di Baviera.
1609 Costruisce un perfezionato cannocchiale e lo presenta ai capi della Serenissima sul campanile di San Marco.
1610 Osserva la Via Lattea e ne studia la struttura, scopre i satelliti di Giove, scrive il Sidereus nuncius. In settembre torna a Firenze come matematico e filosofo dei Medici. Scopre le macchie solari, le fasi di Venere e gli anelli di Saturno.
1611 Chiama i figli a Firenze e lascia la Gamba. A Roma illustra le sue scoperte, viene ricevuto da Paolo V ed entra nell'Accademia dei Lincei fondata dal principe Federico Cesi.
1612 Studia i galleggianti; in San Marco il domenicano padre Lorini condanna la teoria copernicana.
1613 Pubblica Istoria e dimostrazioni delle Macchie solari.
1614 In Santa Maria Novella, il domenicano Tommaso Caccini attacca Galileo per le sue «false interpretazioni della Scrittura».
1615 Viaggio a Roma per difendere la sua lettura dell'universo, diffusa da amici ed estimatori.
1616 Il Sant'Uffizio condanna la teoria copernicana e il cardinale Bellarmino ammonisce Galileo a non sostenerla.
1617 Trasferimento nella villa di Bellosguardo sopra Firenze, frequentata da dotti e discepoli; Keplero gli scrive: «Galileo, hai vinto!».
1619 Pubblica il Discorso sulle comete apparse l'anno prima; polemizza col padre Orazio Grassi S. J.
1621 Muore il granduca Cosimo II, al quale succede l'undicenne Ferdinando II, con la tutela della nonna Maria Cristina di Lorena e della madre Maddalena d'Austria.
1623 Maffeo Barberini viene eletto papa col nome di Urbano VIII; Galileo pubblica Il Saggiatore.
1624 Inventa il microscopio composto.
1628 Comincia a scrivere il trattato sull'universo.
1629 Il figlio Vincenzio sposa Sestilia Bocchineri di Prato e nasce il nipote Galileino.
1630 Muore Federico Cesi, fondatore dell'Accademia dei Lincei, muore Keplero; Galileo è a Roma per ottenere il permesso di pubblicare il suo libro; s'innamora di Alessandra Bocchineri.
1631 Trasferimento nella villa «Il gioiello» di Arcetri.
1632 Pubblica a Firenze, con 1'imprimatur ecclesiastico, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.
1633 Convocazione a Roma, processo e condanna del Sant'Uffizio; confino a Siena in casa dell'arcivescovo Piccolomini; a Natale torna ad Arcetri.
1634 Muore la figlia Maria Celeste.
1637 Galileo, colpito dalla cecità, è assistito da Vincenzio Viviani. 1638 Pubblica a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze.
1639-41 Tra dolori ricorrenti scrive le ultime lettere; lo aiuta negli ultimi tre mesi Evangelista Torricelli.
1642 Muore l'8 gennaio, a quasi settantotto anni.
1737 (quasi cent'anni dopo) Viene trasferito nel monumento funebre in Santa Croce a Firenze.
1744 Il Dialogo è pubblicato a Padova.
1757 La Congregazione dell'Indice annulla il decreto che proibiva la stampa dei libri eliocentrici, ma mantiene nell'elenco quelli di Copernico e Galileo.
1820 Il Vicegerente di Roma, su parere del Sant'Uffizio e ordine di Pio VII, mette l'imprimatur al libro del professor G. Settele, che sostiene l'eliocentrismo come tesi.
1835 I libri di Copernico e di Galileo vengono tolti dall'Indice.
1890 Comincia la pubblicazione dell'opera omnia galileiana.
1907 Antonio Favaro pubblica i documenti del processo.
- Pio Paschini scrive una vita di Galileo, che sarà pubblicata solo dopo vent'anni, manomessa dal gesuita Lamalle.
1965 Il Concilio Vaticano II «deplora» l'errore della Chiesa su Galileo.
1969 Armstrong e Aldrin mettono piede sulla Luna.
1979 Giovanni Paolo II riapre il «caso Galileo»; commissione presieduta da P. Poupard.
1989 Parte la sonda spaziale Galileo alla volta di Giove.
1992 Papa Wojitila cambia idea sulla riabilitazione di Galileo.
Fonte: http://hist.science.free.fr/storie/IERI/GalileoCronologia.doc
autore :F. Soso
Galileo Galilei vita opere biografia
Abiura di Galileo Galilei
Letta il 22 giugno 1633
Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.
Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
http://www.itisconegliano.it/Teatro/Abiura%20di%20Galileo%20Galilei.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Galileo Galilei (Pisa, 1563 – Arcetri, 1642)
Primogenito del gentiluomo fiorentino Vincenzo Galilei e della moglie Giulia Ammannati di Pescia, durante l’infanzia e l’adolescenza imparò la teoria e pratica musicale dal padre, che era anche compositore e suonatore di liuto, ed apprese il greco, il latino e la letteratura classica sotto la guida di un precettore. La sua vita, secondo il racconto che ne fa il suo allievo Vincenzio Viviani, inizia come quella del classico bambino prodigio. Pare che il piccolo Galileo possedesse un ingegno vivace e precoce, accompagnato da una non comune sensibilità. Abile nel disegno, come nella progettazione e realizzazione di piccoli strumenti meccanici, cominciò ben presto a distinguersi anche per il gusto e la competenza in materia d’arti figurative. Negli anni successivi avrebbe frequentato molti celebri pittori, tra cui il Cigoli , al quale avrebbe fornito i principi matematici per la sua Prospettiva pratica.
A sinistra: La Madonna dipinta dal Cigoli nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma: la Luna, ai piedi della Vergine, è fedele alla raffigurazione galileiana (a destra), esposta alla Biblioteca Nazionale di Firenze.
A diciassette anni Galileo fu mandato dal padre a studiare medicina a Pisa. Qui, nel 1583, avrebbe scoperto la legge del pendolo osservando le oscillazioni di un lampadario del Duomo. Egli pensò subito di applicarla per la misura del tempo, più precisamente, per la misura della frequenza del polso. Sarebbe stato Huyghens, alcuni decenni dopo, a perfezionare l’idea di Galileo e a costruire il primo orologio a pendolo.
Nonostante la contrarietà del padre, presto Galileo avrebbe abbandonato la medicina, per dedicarsi interamente alle scienze matematiche. Scoprì il proprio interesse per la geometria tramite un amico di famiglia, Messer Ostilio Ricci di Fermo, allievo del Tartaglia, che gli procurò una copia degli Elementi di Euclide: proprio in quegli anni ne era apparsa la prima versione latina, ad opera di Commandino. All’epoca non erano molte le opere matematiche classiche circolanti in Italia: una delle poche era il trattato Galleggianti di Archimede, che era stato anch’esso tradotto da Commandino . Molti anni dopo Galilei avrebbe a sua volta scritto un trattato sullo stesso argomento, Discorso sopra le cose che stanno in acqua e che in quella si muovono (1612). Narra il Viviani che dopo aver letto l’opera archimedea, Galileo approntò una bilancetta idrostatica in grado di determinare i pesi specifici dei vari materiali. Il Nostro volle approfondire lo studio dei baricentri: i risultati delle sue ricerche costituirono il suo primo scritto scientifico, intitolato Theoremata circa centrum gravitatis solidorum (1585), che attirò l’attenzione del Marchese Guidobaldo dal Monte e gli valse il favore del Granduca di Toscana. Questi lo chiamò, nel 1589, a coprire la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Per sopraggiunti attriti con i Medici, dopo tre anni si trasferì a Padova, dove, sempre per intercessione del Marchese, aveva ottenuto un posto di docente. Questo gli venne rinnovato più volte, grazie alle numerose invenzioni di utilità pratica - tra cui il noto compasso geometrico e militare - con le quali si guadagnò la stima del governo della Serenissima. Quando, nel 1609, Galileo costruì, perfezionando un progetto olandese, un cannocchiale e lo regalò al Doge, l’incarico d’insegnamento gli venne prorogato a vita. Gli venne concesso un vitalizio pari a 1200 fiorini l’anno, una cifra record per un matematico. Il nuovo strumento ottico permise a Galileo di scoprire che la Via Lattea è un ammasso stellare, di individuare macchie sulla superficie del Sole (Istoria e Demostrazioni delle Macchie Solari e loro accidenti, 1613), di vedere gli anelli di Saturno (che egli, in realtà, scambiò per due satelliti), di osservare le irregolarità della superficie lunare ed i movimenti di quattro satelliti di Giove , che egli battezzò Pianeti Medicei (Sidereus Nuncius, 1610). Il 10 luglio del 1610 Cosimo de’ Medici lo richiamò in Toscana, offrendogli un ricco vitalizio ed i titoli di “Primario e Sopraordinario Matematico dello Studio di Pisa” e “Primario Filosofo e Matematico della sua Serenissima Altezza”. Rientrato a Firenze, nel novembre dello stesso anno Galileo osservò per primo le fasi di Venere, per altro previste dalla teoria copernicana, e ne concluse che Venere è un pianeta che ruota intorno al Sole, e non una stella, come si era sempre creduto.
La fama delle straordinarie scoperte astronomiche di Galileo si era, nel frattempo, diffusa in tutta Europa. Viviani si compiace di riferirci della sua convocazione in Vaticano del 1611, dove fu accolto con grandi onori, dell’invito del re di Spagna, che nel 1615 lo avrebbe voluto a corte a risolvere l’annoso problema della longitudine, e della visita che, nel 1618, l’Arciduca d’Austria tributò al capezzale del suo maestro. Proprio in quegli anni, però, iniziarono i guai di Galileo con la Chiesa. Egli aveva spiegato la variabilità delle macchie solari supponendo che il Sole ruotasse. Ne aveva poi dedotto che i pianeti, trascinati da questo moto, dovevano a loro volta ruotare intorno al Sole. Questa sua adesione alla teoria eliocentrica di Copernico, contraria alla Bibbia, provocò la reazione del padre domenicano Niccolò Lorini, che nel 1615 denunciò Galileo al Sant’Uffizio. Poco dopo il domenicano Tommaso Caccini rafforzò l’accusa testimoniando spontaneamente contro di lui. Il 26 febbraio 1616 il cardinale Roberto Bellarmino, su ordine di papa Paolo V, diffidò ufficialmente Galilei dal sostenere oltre l’ipotesi del moto della Terra. Lo scienziato promise obbedienza. Il suo Discorso sulle Comete gli procurò, in seguito, l’ostilità dei Gesuiti: in questa lezione accademica, presentata a Firenze nel 1619, Galileo avversava le tesi sostenute da padre Grassi , matematico del Collegio Romano, l’università vaticana. La contesa proseguì nel Saggiatore (1623), trattato di fisica redatto da Galileo sotto forma di disputa tra lui stesso e il Grassi. La situazione precipitò con la pubblicazione, nel 1632, del Dialogo de’ due Massimi Sistemi Tolemaico e Copernicano. Il Sant’Uffizio volle vedere nell’opera, sicuramente non a torto, un’eccessiva propensione verso l’ipotesi del moto terrestre, che veniva giustificata con il fenomeno delle maree: in effetti il titolo, secondo gli iniziali intendimenti dell’autore, avrebbe dovuto essere Dialogo sopra il flusso e il reflusso del mare. Galilei fu processato dal Sant’Uffizio con l’accusa di eresia, e condannato al carcere a vita il 22 giugno del 1633, sotto il pontificato di Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini. Alla lettura della sentenza l’imputato rispose con la ritrattazione delle sue teorie astronomiche, compiendo un formale atto di sottomissione. La pena fu commutata in confino, e Galileo ottenne di scontare la prima parte della pena a Siena, presso l’arcivescovo Ascanio Piccolomini, nell’attesa di poter rientrare a Firenze, dove allora imperversava la peste. Il divieto di pubblicazione per le opere di stampo copernicano fu revocato in due tempi, nel 1757 dalla Santa Congregazione dell’Indice e nel 1822 dal Sant’Uffizio. Galileo fu ufficialmente riabilitato dalla Chiesa nel novembre 1979, nello spirito del Concilio Vaticano II, con un discorso pronunciato da papa Giovanni Paolo II in occasione del centenario della nascita di Einstein.
A seguito della condanna subita, le opere di Galileo non poterono più essere pubblicate nei Paesi a prevalenza cattolica. Così il suo Trattato delle Meccaniche vide la luce a Parigi, nel 1634, nella traduzione di padre Mersenne. L’edizione italiana seguì postuma.
Galileo trascorse gli ultimi anni della sua vita recluso nella sua villa di Arcetri, senza nemmeno il conforto della figlia Virginia, Suor Maria Celeste, che gli era stata vicina nel difficile periodo del processo, scrivendogli molte lettere, e che era morta pochi mesi dopo il suo ritorno a casa. Provvide alla stesura dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai movimenti locali (1638). Ormai completamente cieco e malato, Galileo raccolse le ultime forze per preparare una seconda edizione ampliata, che, però, rimase incompiuta.
L’eredità di Galileo fu raccolta da illustri allievi, fra cui Bonaventura Cavalieri ed Evangelista Torricelli, suo assistente dell’ultima ora, che gli succedette nella carica di matematico e filosofo del Granduca di Toscana.
Alla morte di Galileo il Vaticano impedì che gli venisse eretto un mausoleo. Solo in un secondo tempo le sue spoglie vennero tumulate nella Chiesa di Santa Croce, a Firenze, dove ancor oggi riposano.
Curiosità
- Nel 1588 Galilei tenne all’Accademia fiorentina del Disegno due lezioni intitolate Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, contenenti i risultati di un suo accurato studio geometrico delle forme, dimensioni e disposizioni dei gironi danteschi. Galileo era, d’altronde, un fine intenditore di letteratura, come testimoniano, fra l’altro, le sue recensioni al Tasso e all’Ariosto. Galileo criticò aspramente La Gerusalemme Liberata, mentre ebbe parole di apprezzamento per l’Orlando Furioso. Questo dichiarato amore gli si ritorse contro, quando sia Cavalieri, sia Cartesio, commentando il Dialogo, lo accusarono di aver trasceso troppo, in ossequio alla poetica ariostesca, ai voli pindarici da un argomento all’altro.
- Già nel 1610 Galilei aveva intuito il pericolo - non ultimo quello del plagio scientifico - cui si sarebbe esposto divulgando i risultati delle proprie osservazioni astronomiche. E così la notizia della scoperta delle fasi di Venere venne inizialmente diffusa all’interno della comunità scientifica sotto forma di frase latina in codice:
Haec immatura a me iam frustra leguntur o, y.
Più tardi Galileo rivelò il vero significato, ottenuto anagrammando la frase precedente:
Cynthiae figuras aemulatur mater amorum.
La traduzione in italiano è: La madre degli amori (cioè Venere) imita le figure di Cinzia (cioè la Luna: cinzia era l’attributo della dea greca Artemide, nata sull’isola di Delo, ai piedi del monte Cinto, ed associata alla Luna ). Un altro anagramma galileiano riguarda Saturno:
smaismrmilmepoetaleumibunenugttaurias
la cui soluzione è:
Altissimum planetam tergeminum observavi,
ossia: Ho osservato che il più alto (il più lontano) dei pianeti è trigemino (formato di tre parti: ha due satelliti). L’anagramma funziona solo se si conserva l’antica equivalenza tra la u e la v. All’epoca non era possibile vedere oltre Saturno: Urano fu avvistato per la prima volta nel 1690, e venne qualificato come pianeta solo nel 1785.
Il destinatario degli anagrammi era Keplero: Galileo gli aveva spedito i messaggi nel 1610, tramite Giuliano de’ Medici, che allora era ambasciatore di Toscana a Praga. Il secondo anagramma era stato così risolto dal matematico tedesco: Salve umbustineum geminatum martia proles (Salve o gemello infuocato figlio di Marte). Gli deve essere sembrata una frase davvero sibillina.
Huyghens, a sua volta, celò la scoperta degli anelli di Saturno dietro la misteriosa sequenza di lettere
Aaaaaaaccccdeeeeeiiiiiiighllllmmnnnnnnnnnooooppqrrstttttuuuu
La soluzione dell’anagramma era: Annulo cingitur tenui, plano, nusquam cohaerente, ad eclipticam inclinato (Lo cinge un anello sottile e piatto che non lo tocca mai ed è inclinato rispetto all’eclittica).
- Nel 1611 Galileo fu chiamato a far parte dell’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 dal naturalista romano Federico Cesi: negli intendimenti di quest’ultimo, l’associazione doveva riunire tutti coloro che, nella ricerca scientifica, avessero dimostrato di possedere una vista acuta, come quella di una lince. Il riferimento è agli strumenti ottici, soprattutto ai primi, rudimentali microscopi, di cui in quegli anni cominciava a diffondersi l’uso. Galileo, una volta persa la vista, prese a firmarsi come “Linceo cieco”.
- L’allievo di Galilei Vincenzio Viviani è noto per aver scritto, nel 1659, una Divinazione del quinto libro delle sezioni coniche di Apollonio, un trattato in cui egli cercava di ricostruire il contenuto dell’opera scomparsa. Quando l’originale fu ritrovato, molte delle supposizioni di Viviani si rivelarono esatte. Nel 1690 egli pubblicò una traduzione italiana degli Elementi di Euclide, che fu utilizzata per molti anni come testo scolastico. Betti e Brioschi ne curarono un’edizione nel 1867.
- Il poeta ottocentesco Vincenzo Monti, nel poema dedicato alla morte del matematico Lorenzo Mascheroni, ricorda e celebra la figura di Galilei tra i grandi del passato che accoglieranno l’anima dell’amico in cielo.
Il pensiero galileiano e la sua epoca
Nell’opposizione di Galilei alla Chiesa molti hanno voluto vedere i connotati di una ribellione politica o di una contestazione teologica. Queste interpretazioni, tuttavia, sono sicuramente corrette solo se riferite alla potenziale carica dirompente delle tesi galileiane nel contesto storico dell’epoca. Se mai Galilei volle davvero suscitare “scandalo”, questa intenzione riguardava esclusivamente la metodologia di ricerca: tant’è vero che Galilei incontrò all’interno della comunità scientifica le prime ostilità al suo pensiero. Viviani, nel suo Racconto Istorico della vita di Galileo, così descrive il rapporto tra il suo maestro ed il mondo accademico del tempo: “Ma il Galileo, che dalla natura fu eletto per disvelare al mondo parte di que’ segreti che già per tanti secoli restavano sepolti in una densissima oscurità delle menti umane, fatte schiave del parere e de gl’assertori d’un solo , non poté mai, secondo’l consueto degl’altri, darsele in preda così alla cieca, come che, essendo egli d’ingegno libero, non gli pareva di dover così facilmente assentire a’ soli detti e opinioni delli antichi o moderni scrittori, mentre potevasi col discorso e con sensate esperienze appagar sé medesimo. E perciò nelle dispute di conclusioni naturali fu sempre contrario alli più acerrimi difensori d’ogni detto Aristotelico, acquistandosi nome tra quelli di spirito della contradizione, e in premio delle scoperte verità provocandosi l’odio loro; non potendo soffrire che da un giovanetto studente, e che per ancora, secondo un lor detto volgare, non avea fatto il corso delle scienze, quelle dottrine da lor imbevute, si può dir, con il latte gl’avesser ad esser con nuovi modi e con tanta evidenza rigettate e convinte: averando in ciò quel detto di Orazio :
Stimano infamia il confessar da vecchi
Per falso quel che da giovini apprendero.”
Al corpo docente dell’ateneo pisano il Galileo aveva dedicato la poesia canzonatoria Contro il portar la toga, in cui ne sbeffeggiava i costumi e i pregiudizi.
Lo spirito battagliero e indipendente di Galileo si scontra con la tradizione, che vuole cogliere la verità nei libri antichi. Poiché all’epoca il potere temporale della Chiesa era indissolubilmente legato alla sua autorità nel campo del sapere, e d’altra parte, la separazione tra teologia e filosofia non era ancora compiuta, le affermazioni di Galileo, contrarie alla scienza tramandata, avevano pesanti implicazioni politiche: ecco il motivo del processo, e la necessità della ritrattazione. Galileo non è un eretico, né un martire: è solo un ricercatore, che non può fare a meno di credere ai propri occhi e alla propria capacità di raziocinio, ma è costretto a constatare che i tempi non sono maturi. Grazie ad un nuovo, potente strumento, il cannocchiale, egli, tutto d’un tratto, vede più in là di ogni uomo che l’abbia preceduto: non c’è da meravigliarsi se le sue scoperte appaiono sconvolgenti. Il coraggio di Galileo sta nel proseguire, coerentemente, lungo la strada apertagli dalle osservazioni astronomiche, avvalendosi del rigore matematico. A proposito dell’incontro di Galilei con la geometria euclidea, Viviani ci riferisce:
“Cominciò dunque il Ricci ad introdurre il Galileo (che già aveva compliti diciannove anni) nelle solite esplicazioni delle definizioni, assiomi e postulati del primo delli Elementi; ma questi sentendo preporsi principii tanto chiari e indubitati, e considerando le domande d’Euclide così oneste e concedibili, fece immediatamente concetto che se la fabbrica della geometria veniva alzata sopra tali fondamenti, non poteva esser che fortissima e stabilissima. Ma non sì tosto gustò la maniera del dimostrare, e vedde aperta l’unica strada di pervenire alla cognizione del vero, che si pentì di non essersi molto prima incamminato per quella”.
Alla cieca lettura dei libri Galileo contrappone l’osservazione diretta della natura, alla passiva memorizzazione l’attività dell’intelletto. Quest’ultima non si esplica soltanto nel percorso chiuso di una dimostrazione matematica, ma anche e soprattutto nel dibattito, nello scambio di argomentazioni, nello scontro di tesi ed antitesi, secondo gli schemi della dialettica platonica, su cui si basano le sue opere principali. La sua apertura al dubbio e alla discussione appare più come un’impostazione metodologica che come una naturale inclinazione del suo carattere, di per sé molto determinato, e combattivo, e non privo di un energico spirito polemico, che emerge soprattutto nel Saggiatore. A proposito degli scopi dell’indagine sulle macchie solari, lo scrittore tedesco Bertolt Brecht (1898 – 1956), in un suo famoso dramma teatrale, mette in bocca a Galileo le seguenti parole:
“ Non m’importa di mostrare di aver avuto ragione, ma di stabilire se l’ho avuta. E vi dico: lasciate ogni speranza, o voi che vi accingete a osservare! Forse sono vapori, forse sono macchie; ma prima di affermare che sono macchie, cerchiamo di accertare se per caso sono pesci fritti. Sì, rimetteremo tutto, tutto in dubbio. E non procederemo con gli stivali delle sette leghe, ma a passo di lumaca. E quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna e non lo riscriveremo più, a meno che posdomani lo ritroviamo un’altra volta. Se qualche scoperta seconderà le nostre previsioni, la considereremo con speciale diffidenza. E dunque, prepariamoci ad osservare il sole con l’inflessibile determinazione di dimostrare che la terra è immobile! E solo quando avremo fallito, quando, battuti senza speranza, saremo ridotti a leccarci le ferite, allora con la morte nell’anima cominceremo a domandarci se per caso non avevamo ragione, se davvero è la terra che gira! Ma se tutte le altre ipotesi, all’infuori di questa, ci si dovessero squagliare fra le dita, allora nessuna pietà per coloro che, senza aver cercato, vorranno parlare! Andrea, togli il panno dal cannocchiale e volgilo verso il sole!”
(cit. da B. Brecht, Vita di Galileo, in: Teatro, Vol. II, trad. di F. Federici ed E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, pagg. 1488-1489)
La prima testimonianza dell’adesione di Galilei al copernicanesimo è una lettera a Keplero del 1597, che egli scrive dopo aver letto il Mysterium Cosmographicum. La prima dichiarazione pubblica in tal senso è, invece, contenuta nelle opere sulle macchie solari del 1613.
Galilei non nutrì mai avversione nei confronti della dottrina aristotelica, né della fede cristiana. Alla prima si era dedicato con grande passione durante i suoi studi di medicina a Pisa. Del filosofo greco ammirava l’impostazione scientifica, improntata all’aderenza alla realtà, alla rielaborazione razionale del dato empirico (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu), e indirizzata alla ricerca delle cause e dei principi dei fenomeni naturali. In effetti, l’aristotelismo aveva avuto, tra i suoi esponenti, sia empiristi, sia sostenitori del metodo matematico. Come dimostra un brano del Dialogo, Galileo era sicuro che, se Aristotele fosse stato suo contemporaneo, questi avrebbe sicuramente dato ragione a lui, contro l’inflessibilità dei suoi sedicenti seguaci (“la turba peripatetica”), ottusamente ciechi di fronte all’evidenza e sordi al buon senso. In una lettera del 1640 all’astronomo Fortunio Liceti, Galilei dice che essi andavano “espiscando da i suoi testi concetti che mai non li sariano caduti in mente.” D’altronde la teoria astronomica di Galileo non è poi del tutto disgiunta dalla visione cosmologica di Aristotele: entrambe sono basate sul moto circolare dei pianeti, che sarebbe indotto da un Primo Motore (che Galileo colloca nel Sole, mentre Aristotele lo immagina nella sfera più esterna del Cielo). Secondo alcuni commentatori, Galileo avrebbe addirittura aderito, in gioventù, alla filosofia aristotelico-tolemaica sostenuta dal suo amico padovano Cesare Cremonini. Presso l’ateneo veneto Galileo aveva tenuto lezioni sul Trattato della Sfera di Sacrobosco.
Se pure Galileo respinge fermamente l’uso della logica aristotelica come fonte di conoscenza, è pur vero che egli, in quanto matematico, non può far a meno di essa nelle sue dimostrazioni: d’altra parte, all’epoca, quella era l’unica logica possibile. Il seguente brano, tratto dalla prima giornata del Dialogo, descrive i principi della dimostrazione diretta e della reductio ad absurdum:
“[…] quando la conclusione è vera, servendosi del metodo risolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già dimostrata, o si arriva a qualche principio per sé noto; ma se la conclusione è falsa, si può procedere in infinito senza incontrar mai verità alcuna, se già altri non incontrasse alcun impossibile o assurdo manifesto.”
La polemica intrapresa da Galileo nel Saggiatore e nel Dialogo è diretta contro i sofismi dialettici, fonti di equivoci e coartazioni: è nella dimostrazione matematica, che egli chiama “pura geometrica, perfetta e necessaria” che Galileo vede la più adeguata applicazione del “fior di logica naturale”. Questa, che è priva di ambiguità linguistiche ed artifici retorici, è l’unico mezzo per distinguere con chiarezza il vero dal falso.
Galileo non assunse mai atteggiamenti di sfida anticlericale; d’altronde molti dei suoi amici e discepoli erano frati, sacerdoti e prelati (anche gesuiti), ed egli non era privo di appoggi in Vaticano, dove era stato spesso accolto con grande favore. Nel 1611 una solenne conferenza del Collegio Romano aveva confermato ufficialmente le scoperte contenute nel Sidereus Nuncius. Galileo dedicò il Saggiatore a papa Urbano VIII, che ne tessé le lodi in una lettera al Granduca di Toscana; lo scienziato si impegnò in tutti modi per ottenere dalla Chiesa l’imprimatur per il suo Dialogo, accettando, tra l’altro, le censure impostegli dal pontefice.Va ricordato che Galileo era credente, e, in quanto tale, si preoccupava del fatto che i risultati delle sue ricerche potessero apparire in contrasto con la Parola di Dio. Perciò compì ogni sforzo per trovare, nelle Sacre Scritture, conferme alle sue teorie; lo dimostrano soprattutto le sue lettere copernicane, che egli volle rendere pubbliche. Le scrisse tra il 1613 e il 1615, e le indirizzò a don Benedetto Castelli, suo amico e discepolo, a Monsignor Piero Dini e a Madama Cristina di Lorena. Al fine di conciliare la sua astronomia con i passi biblici che parevano smentirla, egli propose una nuova esegesi del testo: questo non era da intendere alla lettera come una descrizione della realtà naturale, ma piuttosto come una trascrizione metaforica di verità inerenti la fede. Il verso del Salmo 18 secondo il quale “Gesù pose nel Sole il suo tabernacolo”, potrebbe avvalorare l’ipotesi del Sole come origine del moto del cosmo, le parole pronunciate da Giosué nell’omonimo libro “Sole, non ti muovere di sopra Gabaon, e tu luna dalle valle di Aialon” (X, 12) sarebbero giustificate se riferite al moto relativo del Sole rispetto ad un osservatore terrestre. In questa impresa Galilei non fu solo. Godette dell’appoggio del filosofo domenicano Tommaso Campanella - egli stesso condannato, per altri motivi, dalle autorità religiose napoletane - che nel 1616 scrisse, dal carcere, l’Apologia pro Galileo, e successivamente, dopo essere stato liberato e chiamato a Roma da Urbano VIII, seguì le trattative per il nullaosta alla pubblicazione del Dialogo. Nel 1615 era uscita a Napoli un’epistola scritta da un frate carmelitano al Generale del suo ordine, la lettera del R.P.M. Paolo Antonio Foscarini Carmelitano sopra l’opinione de’ Pitagorici e del Copernico, nella quale si accordano ed appaciono i luoghi della Sacra Scrittura e le proposizioni teologiche, che giammai potessero addursi contro tale opinione, un estremo tentativo di giustificare l’eliocentrismo ed il moto della Terra alla luce della Bibbia, alla vigilia della messa all’indice delle opere copernicane.
Negli sforzi compiuti da Galileo il Geymonat vuole vedere, oltre che il tentativo di dirimere un personale dilemma di coscienza, il desiderio di preservarsi il favore della Chiesa, affinché questa non ostacolasse l’evoluzione della scienza. Secondo Michael Segre, dopo gli onori tributati al suo Sidereus Nuncius, Galilei avrebbe smesso i panni dell’accademico per indossare quelli dell’uomo di corte. Avrebbe abbandonato la ricerca per difendere le sue scoperte con la tattica politica. La condanna del 1633 segnerebbe il fallimento del suo ambizioso programma. D’altronde molte sue iniziative fanno ritenere che gli premesse molto l’appoggio dei potenti, tra cui i Medici.
Secondo alcune testimonianze storiche, la condanna del 1633 sarebbe stata frutto di una trama ordita da alcune componenti della Chiesa per rappresaglia contro la polemica scatenata da Galilei nei confronti dei gesuiti. Pare che all’epoca circolassero insistenti voci in tal senso. In una lettera, scritta dal Campanella a Galilei il 21 agosto 1632, leggiamo: “Con gran disgusto mio ho sentito che si fa Congregazione di teologi irati a proibire i Dialoghi di Vossignoria; e non ci entra persona che sappia matematica né cose recondite.[…] Dubito di violenza di gente che non sa.[…] sì come mettono Domenicani, Gesuini e Theatini e preti secolari in questa Congregazione contra i vostri libri, ammettano anche il padre Castelli e me: e si vinceranno.”
(cit. da F. Flora, Il processo di Galileo, Rizzoli, Milano 1954, pag. 119)
Pare che comunque Galileo abbia avuto nei domenicani i suoi peggiori nemici, estremamente conservatori, inflessibilmente fedeli all’aristotelismo di Tommaso d’Aquino. I gesuiti avevano complessivamente dimostrato di essere aperti al progresso della scienza, molti di loro avevano inizialmente appoggiato le teorie galileiane, ed avevano poi finito per aderire all’astronomia proposta da Tycho Brahe, vedendo in essa un valido compromesso tra sapere antico e nuove scoperte.
In effetti l’impressione che si ricava leggendo la storia del processo è quella di un percorso tortuoso, non privo di ripensamenti ed ambiguità. Non troviamo il racconto di un’istituzione compatta che fronteggia e con determinazione schiaccia l’individuo che ha osato sfidarla, ma piuttosto una vicenda che ruota intorno a singole persone. Poche sono le figure chiave, tra cui, certamente, il cardinale Bellarmino, che pur era morto molti anni prima del secondo processo a Galileo, ma era stato il principale promotore della censura del 1616. Secondo il Geymonat, il corso degli eventi sarebbe stato determinato dal gioco di due opposti schieramenti all’interno della Chiesa, l’uno progressista e disposto al dialogo, l’altro arroccato sulla tradizione in posizione difensiva.
In una lettera del 1634, indirizzata a Elia Diodati, Galileo attribuisce al gesuita Cristoforo Grienberger, appartenente al collegio Romano, ed amico di Galilei, la seguente pesante affermazione: “Se il Galileo si avesse saputo mantenere l’affetto dei Padri di questo Collegio, vivrebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e avrebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d’ogni materia, dico anco moti di Terra.” (ibidem, pag. 100)
È comunque difficile stabilire in quale misura l’epilogo della storia sia veramente riconducibile alla mancanza di tatto con cui Galilei si era mosso nei riguardi di padre Grassi. Vero è che nel 1616 le opere copernicane erano state proibite, e pochi anni prima il filosofo Giordano Bruno era finito sul rogo. Ed ancora più difficile è dire se le ripercussioni storiche delle opere galileiane sarebbero state minori senza la condanna da parte della Chiesa. Sicuramente questa ebbe evidenti effetti immediati: Cartesio, ricevuta la notizia, si allarmò al punto da rinunciare a pubblicare la sua opera Il Mondo, già pronta per la stampa. Keplero accusò Galileo di aver compromesso la libertà della scienza, facendola uscire dalla stretta cerchia degli esperti, ed esponendola alla censura della Chiesa: egli sarebbe stato corresponsabile della messa all’indice delle opere di Copernico. In effetti, secondo M. Segre, la scienza italiana subì, nella seconda metà del Seicento, un declino forse in parte imputabile alla vicenda galileiana.
Indubbiamente il processo a Galileo è emblematico di un’epoca in cui l’Inquisizione era ancora potente. Tuttavia, è meglio non cedere alla tentazione di strumentalizzare eventi che, almeno per quanto riguarda strettamente la persona di Galileo, si svolsero più sul piano del dramma di coscienza, anche religiosa, che su quello della battaglia ideologica. Nonostante le numerose e varie classificazioni proposte in passato, riteniamo che Galileo non possa essere ascritto a nessuna corrente di pensiero, filosofica o politica che sia. È peraltro difficile tentare di inquadrare una figura culturalmente eclettica che, già presso i suoi contemporanei, appariva molto controversa, piena di luci ed ombre. Fu al centro di varie questioni di plagio, di cui una riguardante la paternità del cannocchiale, che lo oppose a Keplero. Tradì la sua scelta di rigore scientifico diffondendo, con intenti meramente polemici, tesi superficiali ed affrettate sulla natura delle comete. Nel corso dei secoli fu demonizzato e mitizzato, alla sua biografia si sovrapposero molti giudizi personali ed aneddoti inventati. Per questa mancanza di chiarezza, la sua figura è ancor oggi un interessante oggetto di studio.
Altre opere di Galileo:
Considerazione sopra il giuoco de’ dadi
(calcolo delle probabilità)
Problemi vari (fisica)
Ludovico Cardi, detto il Cigoli, dal suo luogo d’origine (1559-1613). Pittore ed architetto toscano, progettò, tra l’altro, palazzo Madama a Roma, la sede del Senato.
Secondo questa legge, la durata delle piccole oscillazioni del pendolo (periodo) è indipendente dall’ampiezza dell’oscillazione.
Alla meritoria opera del Commandino si aggiunse quella di Francesco Maurolico. All’epoca la matematica era identificata con Euclide ed Archimede. Lo testimoniano anche alcuni brani letterari. Tommaso Campanella, nel descrivere la sua ideale Città del Sole, colloca, all’interno delle mura del tempio “tutte le figure matematiche, più che non scrisse Euclide ed Archimede, con la lor proposizione significante”. Il poeta satirico rinascimentale Francesco Berni, in un suo sonetto contro la città di Verona, così dice: “Appresso ha anche drento/ come hanno l’altre terre, piazze e vie/stalle, stufe, spedali et osterie/ fatte in geometrie/ da fare ad Euclide ed Archimede/ passar gli architettori con un spiede.”
Essi portano oggi i nomi di Io, Europa, Ganimede e Callisto. Giove ha in realtà altri otto satelliti, che possono essere visti solo con potenti telescopi.
Fonte: http://www.dm.uniba.it/ipertesto/galileo/galileo.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
L’infinito nei Discorsi di Galileo
La teoria degli indivisibili sviluppata da Torricelli e Cavalieri, allievi di Galilei, ripropone, verso la metà del Seicento, con particolare vigore, la questione dell’infinito. Galileo affronta l’argomento nella prima giornata dei suoi Discorsi, sulla scia del problema della struttura fine della materia: suddividendo questa in parti sempre più piccole, si può procedere in eterno, oppure si finisce, prima o poi, per incontrare le sue componenti ultime (atomi)? La materia è un tutto continuo, oppure è formata da particelle separate da piccoli spazi vuoti? Secondo Galileo, i frammenti ottenuti sminuzzando la materia solida sarebbero sempre, per quanto piccoli, sempre divisibili per via meccanica. Solo il calore sarebbe in grado di decomporre i corpi nei “lor primi altissimi componenti infiniti, indivisibili”, che contrariamente ai granelli di un cumulo di sabbia, sarebbero in continuo movimento e riempirebbero lo spazio senza interstizi.
Per Galileo non v’è dubbio che gli enti geometrici estesi (linee, superficie, ecc.) siano indefinitamente suddivisibili. Ma egli incontra qualche difficoltà nell’immaginarli composti da un’infinità di parti infinitesime, dai cosiddetti indivisibili. Un’infinità è una quantità che non può essere contata. Come confrontare due infinità, ad esempio le infinità dei punti che formano due segmenti di lunghezze diverse, oppure l’infinità degli interi positivi e l’infinità dei numeri interi che sono quadrati perfetti?
“Salviati: Avrò qualche mio pensiero particolare, replicando prima quel che poco fa dissi, cioè che l’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile. Le cose che in più volte mi son passate per la mente in tal proposito, son molte, parte delle quali, e forse le più considerabili, potrebb’esser che, così improvvisamente, non mi sovvenissero; ma nel progresso del ragionamento potrà accadere che, destando io a voi, ed in particolare al Sig. Simplicio, obiezzioni e difficoltà, essi all’incontro mi facessero ricordar di quello che senza tale eccitamento restasse dormendo nella fantasia: e però con la solita libertà sia lecito produrre in mezzo i nostri humani capricci, ché tali meritamente possiamo nominargli in comparazione delle dottrine sopranaturali, sole vere e sicure determinatrici delle nostre controversie, e scorte inerranti ne i nostri oscuri e dubbii sentieri o più tosto labirinti. Tra le prime instanze che si sogliono produrre contro a quelli che compongono il continuo d’indivisibili, suol essere quella che uno indivisibile aggiunto a un altro indivisibile non produce cosa divisibile, perché, se ciò fusse, ne seguirebbe che anco l’indivisibile fusse divisibile; perché quando due indivisibili, come, per esempio, due punti, congionti facessero una quantità, qual sarebbe una linea divisibile, molto più sarebbe tale una composta di tre, di cinque, di sette e di altre moltitudini dispari; le quali linee essendo poi segabili in due parti uguali, rendon segabile quell’indivisibile che nel mezzo era collocato. In questa ed altre obbiezzioni di questo genere si dà soddisfazione alla parte con dirgli, che non solamente due indivisibili, ma né dieci, né cento, né mille non compongono una grandezza divisibile e quanta, ma sì bene infiniti.
Simplicio: Qui nasce il dubbio, che mi pare insolubile: ed è, che sendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che amendue contenghino punti infiniti bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggiore dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccederà l’infinità de i punti della minore.
Ora questo darsi un infinito maggior dell’infinito mi par concetto da non poter essere capito in verun modo.
Salviati: Queste son quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro. Per prova di che già mi sovvenne un sì fatto discorso, il quale per più chiara esplicazione proporrò per interrogazioni al Sig. Simplicio, che ha mossa la difficoltà.
Io suppongo che voi benissimo sappiate quali sono i numeri quadrati, e quali i non quadrati.
Simplicio: So benissimo che il numero quadrato è quello che nasce dalla moltiplicazione d’un altro numero in sé medesimo: e così il quattro, il nove, etc., son numeri quadrati, nascendo quello dal due, e questo dal tre, in sé medesimi moltiplicati.
Salviati: Benissimo: e sapete ancora, che sì come i prodotti si dimandano quadrati, i producenti, cioè quelli che si multiplicano, si chiamano lati o radici; gli altri poi, che non nascono da numeri multiplicati in sé stessi, non sono altrimenti quadrati. Onde se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser più che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è così?
Simplicio: Non si può dir altrimenti.
Salviati: Interrogando io di poi, quanti siano i numeri quadrati, si può con verità rispondere, lor esser tanti quante son le proprie radici, avvenga che ogni quadrato ha la sua radice, ogni radice il suo quadrato, né quadrato alcuno ha più d’una sola radice, né radice più d’un quadrato solo.
1 2 3 4 5 6 7 8 9
1 4 9 16 25 36 49 64 81
Simplicio: Così sia.
Salviati: Ma se io domanderò, quante siano le radici, non si può negare che elle non siano quante tutti i numeri, poiché non vi è numero alcuno che non sia radice di qualche quadrato; e stante questo, converrà dire che i numeri quadrati siano quanti tutti i numeri, poiché tanti sono quante le loro radici, e radici son tutti i numeri: e pur da principio dicemmo, tutti i numeri esser assai più che tutti i quadrati, essendo la maggior parte non quadrati.
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
E pur tuttavia si va la moltitudine de i quadrati sempre con maggiore proporzione diminuendo, quanto a maggiori numeri si trapassa; perché sino a cento vi sono dieci quadrati, che è quanto a dire la decima parte essere quadrati; in dieci mila solo la centesima parte sono quadrati, in un milione solo la millesima, e pur nel numero infinito, se concepir lo potessimo, bisognerebbe dire, tanti essere i quadrati quanti tutti i numeri insieme.
Sagredo: Che dunque si ha da determinare in questa occasione?
Salviati: Io non veggo che ad altra decisione si possa venire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudine de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella, ed in ultima conclusione, gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità terminate.”
La possibilità di estendere la nozione di disuguaglianza alle quantità infinite sarà il caposaldo della teoria dei numeri transfiniti introdotta, nell’Ottocento, da Georg Cantor.
Certe considerazioni geometriche pongono sotto gli occhi di Galileo la sorprendente equivalenza tra oggetti di diversa estensione.
Il cerchio rosso, sul quale è fissato il cerchio verde, concentrico, rotola senza strisciare lungo il segmento BD, compiendo un giro completo. Alla fine il punto B si trova in D, ed il punto A in C. Il punto A ha quindi percorso una distanza pari al perimetro del cerchio rosso. D’altra parte, però, il cerchio verde ha compiuto esattamente un giro completo. Dunque, nel corso del moto, il perimetro del cerchio verde si è steso lungo il segmento AC, che ha lunghezza maggiore.
Galileo spiega questo apparente paradosso nel modo seguente: se al posto dei due cerchi avessimo due poligoni regolari simili, diciamo due pentagoni,
il perimetro del pentagono verde si stenderebbe lungo AC “per salti”: durante il moto non vi aderirebbe, infatti, con continuità, ed i lati andrebbero a coprire, uno alla volta, cinque segmentini di AC separati da spazi vuoti. Questi spazi vuoti costituiscono la differenza tra il perimetro del pentagono rosso e quello del pentagono verde. Aumentando il numero dei lati dei due poligoni, gli spazi vuoti divengono sempre più numerosi e, al contempo, sempre più piccoli: al limite, i due poligoni diventano due cerchi, gli spazi divengono infinitesimi, ed in numero infinito. La somma delle lunghezze di questi spazi è una quantità finita, precisamente uguale alla differenza tra i perimetri dei due cerchi. In altri termini: il perimetro del cerchio verde copre quello del cerchio rosso purché si inserisca un’infinità di spazi vuoti infinitamente piccoli.
Ritroviamo questo concetto nelle parole del Salviati, che denota con l’aggettivo “quanti” gli enti geometrici di estensione finita: “E qui voglio che notiate, come, risolvendo e dividendo una linea in parti quante, e per conseguenza numerate, non è possibile disporle in una estensione maggiore di quella che occupavan mentre stavano continuate e congiunte senza l’interposizione d’altrettanti spazii vacui; ma imaginandola risoluta in parti non quante, cioè ne’ suoi infiniti indivisibili, la possiamo concepire distratta in immenso senza l’interposizione di spazii quanti vacui, ma sì bene d’infiniti indivisibili vacui. E questo, che si dice delle semplici linee, s’intenderà detto delle superficie e de’ corpi solidi, considerandogli composti di infiniti atomi non quanti […] ed in questa guisa non ripugna distrarsi, v.g., un piccolo globetto d’oro in uno spazio grandissimo senza ammettere spazii quanti vacui; tutta volta però che ammettiamo, l’oro esser composto di infiniti indivisibili.”
L’indivisibile di un segmento può essere ottenuto, ad esempio, immaginando di ridurre la lunghezza del segmento a metà, poi ad un quarto, poi ad un ottavo, ed immaginando di protrarre indefinitamente questo processo di successivi dimezzamenti. Al passo n-esimo la lunghezza del segmento ottenuto sarà pari a 1/2n della lunghezza iniziale. Al passo “infinito” sarà infinitamente piccola. Esprimendoci in questi termini realizziamo l’idea moderna di infinito attuale, di cui parla Cantor: si tratta dell’infinito che viene effettivamente raggiunto, e dà luogo ad un “caso limite”. Al passo “infinito” di un processo come quello dei dimezzamenti successivi spetterebbe il numero ordinale che Cantor chiama ω, il primo ordinale infinito. C’è da dire che l’infinito può anche essere immaginato come l’approdo ideale di un processo continuo, che non sia possibile suddividere in singoli passi. Ad esempio, possiamo pensare di ottenere l’indivisibile di un segmento contraendo quest’ultimo come una fisarmonica, immaginando di spingere uno degli estremi verso l’altro con un movimento continuo.
Galileo dimostra di provare disagio di fronte a questa idea d’infinito attuale, e presenta, nei Discorsi, due esempi di applicazione che sembrano portare a conclusioni contraddittorie.
Cavalieri) Scodella si dice la figura solida ottenuta da un cilindro circolare pieno estraendone la semisfera costruita sulla sua base superiore. In sezione la figura è:
Aggiungiamo ora un cono circolare retto avente la stessa altezza e la stessa base del cilindro.
Immaginiamo di tagliare la figura con un piano parallelo alla base del cilindro:
Il piano interseca il cono in un cerchio e la scodella in una corona circolare:
Il teorema di Valerio ci dice che il cerchio e la corona circolare hanno la stessa area, indipendentemente dall’altezza alla quale collochiamo il piano d’intersezione. Un analogo discorso vale per la parte del cono e la parte della scodella che si trovano al disopra del piano: esse hanno lo stesso volume.
Immaginiamo di traslare il piano verso l’alto, lungo l’asse del cono.
Il caso limite - sia per le aree sia per i volumi - è quello in cui il piano attraversa il vertice del cono. Allora la figura d’intersezione è formata da un punto e da una circonferenza:
Estendendo il teorema al caso limite, dovremmo concludere che un punto è equivalente ad una circonferenza. Salviati così commenta:
“par dunque che la circonferenza di un cerchio immenso possa chiamarsi eguale ad un sol punto. E questo che accade nei solidi, accade parimenti nelle superficie, basi loro, che esse ancora, conservando nella comune diminuzione sempre la egualità, vanno infine ad incontrare, nel momento della loro ultima diminuzione, quella per suo termine la circonferenza di un cerchio, e questa un sol punto; li quali perché non si devon chiamare eguali, se sono le ultime reliquie e vestigie lasciate da grandezze uguali?”
Qui Galileo esprime l’idea intuitiva che le proprietà possedute da un oggetto in ogni istante di un processo dovrebbero essere conservate fino all’infinito. Ma l’evidenza della scodella di Valerio smentisce questa convinzione, come anche il secondo esempio: aumentando progressivamente il raggio di un cerchio, si ottengono cerchi che al limite diventano una retta.
In effetti la teoria del calcolo infinitesimale, che dalla teoria degli indivisibili ha tratto origine, mostra che l’infinito è una nozione molto delicata, per cui è imprudente cercare di accostarvisi troppo disinvoltamente, armati della sola intuizione. Oggi noi sappiamo che la pretesa di trasportare all’infinito ciò che è vero al finito è del tutto vana: basti pensare, ad esempio, al numero Ö2, che è irrazionale, ma può essere ottenuto, per approssimazioni successive, mediante una successione di numeri tutti razionali, ad esempio utilizzando le frazioni continue.
Quanto quella pretesa, con cui Galileo si scontra, sia radicata nella mente umana è dimostrato da un antico tentativo di quadrare il cerchio. Partendo da un quadrato inscritto in una circonferenza, ed raddoppiando successivamente il numero di lati si ottengono un ottagono regolare, un esadecagono regolare, e così via. Si costruiscono, passo dopo passo, poligoni regolari la cui area è sempre più vicina a quella del cerchio. Da ciò un filosofo greco di molti secoli fa, il sofista Antifonte, trasse la conclusione che al limite si dovesse ottenere un poligono che avesse la stessa area del cerchio: ed ogni poligono, come insegna Euclide negli Elementi, può essere quadrato con riga e compasso. Purtroppo, come sappiamo, la successione dei poligoni inscritti non produce, al limite, un poligono, ma il cerchio stesso, il che fa cadere il ragionamento.
L’impossibilità per l’uomo di conoscere sia l’infinitamente grande che l’infinitamente piccolo sarà al centro del pensiero di Pascal, che la giustificherà in chiave religiosa: nei suoi Pensieri egli parlerà dei due infiniti come di due estremi che “si toccano e si congiungono a forza di allontanarsi, e si ritrovano in Dio, e in Dio soltanto.”
Pascal accosta il processo di suddivisione indefinita, che porta agli indivisibili, al processo di regressione logica tipico di certa filosofia, che pretende di arrivare ai principi ultimi. Ma questi sono irraggiungibili per la nostra mente, possiamo solo illuderci di trovarli, esattamente come i nostri sensi non possono vedere gli indivisibili, che noi crediamo di poter identificare con punti molto piccoli, che, però, sono comunque figure estese.
Fonte: http://www.dm.uniba.it/ipertesto/galileo/infinito_galilei.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Comunicato stampa n. 4
Abiuro, maledico e detesto
Vita, scoperte e condanne di Galileo Galilei. La figura dello scienziato toscano
emblema della battaglia per la libertà di pensiero
Nascita, infanzia e primi studi (1564-1580)
Nel 1564 Galileo nasce a Pisa. Da Vincenzo Galilei (1520 – 1591) e Giulia Ammannati (1538 -1620). Nobile decaduto di origine fiorentina, il padre è un noto musicologo, teorico della musica, liutista e matematico. A Pisa Galileo frequenta la scuola elementare. Quando con la famiglia torna a Firenze nel 1574, compie i primi studi dai monaci vallombrosani, ma il padre lo porta via prima della fine del corso.
Studi universitari (1580-1589)
Nel 1580 si iscrive alla Facoltà di medicina e filosofia dell’Università di Pisa, ma abbandona in parte perché deluso dall’amiente accademico, in parte perché si è appassionato alla geometria. Comincia dunque ad approfondire lo studio di Archimede, che gli offre una base metodologica antagonista alle filosofie aristoteliche allora dominanti. Scrive, ma non pubblica, La bilancetta e i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum.
Primo insegnamento (1589-1592)
Nel 1589 ottiene la cattedra di matematica allo Studio di Pisa, dove comincia a interessarsi ai fenomeni del moto dei gravi. Mal pagato e in disaccordo con i colleghi, opta però per il trasferimento all’Università di Padova.
Fra Padova e Firenze (1592-1608)
A Padova dal 1592, Galileo si dedica all’insegnamento pubblico e privato tenendo lezioni di meccanica, arte della guerra e cosmologia. Continua le ricerche sul moto dei gravi e comincia a nutrire seri dubbi sulla verità del sistema aristotelico-tolemaico, che gli appare meno probabile di quello copernicano. Si trova coinvolto nelle prime dispute scientifiche circa la comparsa nel 1604 di una stella nova e il compasso geometrico e militare.
Le scoperte celesti e il ritorno a Firenze (1609-1610)
Nel 1609 Galileo costruisce il suo primo cannocchiale e osserva i corpi celesti. L’anno successivo pubblica il Sidereus nuncius, dove annuncia le proprie scoperte, che gli sembrano confermare la visione di Copernico. Quello stesso anno lascia Padova per Firenze chiamato come Primario Matematico e Filosofo dal Granduca di Toscana.
Primario matematico e filosofo del Granduca di Toscana (1610-1611)
A Firenze Galileo continua gli studi cosmologici e nel 1611 va per la prima volta a Roma, dove le sue scoperte riscuotono in un primo momento un’accoglienza favorevole.
Acqua e Sole (1611-1613)
In polemica con gli aristotelici fiorentini, stampa una serie di scritti sul comportamento dei corpi galleggianti. Nel 1613 con la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti contrasta le tesi del gesuita Christoph Scheiner e per la prima volta affronta problemi di metodo scientifico schierandosi esplicitamente in favore della verità del sistema copernicano.
Contro il moto della Terra (1612-1615)
Trascinato da alcuni domenicani fiorentini, ferventemente anticopernicani, Galileo prende posizione sul rapporto fra teorie scientifiche e testi sacri, rivendicando l’autonomia della scienza rispetto all’interpretazione teologica della Scrittura. Scrive, ma non pubblica, la Lettera a Benedetto Castelli e la Lettera a Cristina di Lorena.
Convien al secol nostro abito negro... (1615-1616)
Galileo è denunciato all’Inquisizione e nel 1616, a Roma, il cardinale Bellarmino lo ammonisce a non sostenere le tesi copernicane, dichiarate false e non conformi alle Sacre Scritture. Il libro De revolutionibus di Copernico è sospeso in attesa di correzione.
Comete (1617-1619)
Galileo è coinvolto in una controversia sulla natura delle comete. Nel 1619 pubblica, senza firmarlo, un Discorso delle comete, dove combatte l’adesione al sistema ideato da Tycho Brahe sul quale i Gesuiti avevano ripiegato dopo la dimostrata insostenibilità di Tolomeo.
Bilance (1619-1623)
La polemica sulle comete prosegue e nel 1623 culmina nella pubblicazione del Saggiatore dove Galileo contrasta pesantemente i Gesuiti anche sul piano del metodo scientifico. La risposta che riceve è un attacco sul piano teologico.
Speranze (1624-1631)
Nel 1623 il cardinale Maffeo Barberini è eletto papa col nome di Urbano VIII nel 1623. Galileo conta sul suo sostegno per poter riabilitare Copernico e provare la verità del proprio sistema del mondo. Ma le idee del pontefice non sono così aperte come sembrano in apparenza.
Principio di secol novo (1632)
Nel 1632 esce il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, dove Galileo, non potendo apertamente sostenere la verità del sistema copernicano, lo fa comunque apparire come l’ipotesi più plausibile, evidenziando l’insostenibilità delle posizioni aristotelico-tolemaiche.
Teologi irati (1632-1633)
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo non è accolto favorevolmente a Roma. Il papa, che attraversa anche una difficile crisi politica, si infuria perché le sue personali opinioni non sono state trattate da Galileo con adeguato rispetto. Una commissione di teologi esamina l’opera e vi ritrova numerosi capi d’accusa. La questione passa al Sant’Uffizio che istruisce un processo.
Il processo (1633)
Galileo deve raggiungere Roma, dove è recluso e processato. È il 1633. condannato per “veemente sospetto di eresia” e il Dialogo proibito.
L'abiura (1633)
Con la celebre formula ‘Abiuro, maledico e detesto’ Galileo è costretto a rinnegare le proprie convinzioni di scienziato dichiarando che mai più si occuperà del moto della Terra, considerato ormai eresia. E’ proibita la pubblicazione dei suoi scritti, ma fuori d’Italia l’imposizione non è osservata.
Ultime luci (1634-1642)
Galileo è confinato nella sua villa di Arcetri. Non potendo più occuparsi di questioni cosmologiche, riprende i suoi studi sul moto dei gravi e nel 1638 pubblica a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Colpito da un’irrimediabile malattia agli occhi, continua a studiare fino all’ultimo. Muore cieco nel 1642.
Dopo Galileo
Anche dopo la morte di Galileo, la sentenza proietta i suoi effetti per molti anni e peserà profondamente sull’orientamento degli studi ovunque la Chiesa di Roma esercita un’influenza.
Per saperne di più: http://brunelleschi.imss.fi.it/portalegalileo/indice.html
http://www.catola.com/public/allegati_eventi/Com4VitadiGalileo.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
GALILEO GALILEI
Dalla lettera a Padre Benedetto Castelli
………
Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d'assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell'ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch'avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d'accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati, non s'è astenuta la Scrittura d'adombrare de' suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all'istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? E massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l'intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute
…………….
Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de' corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell'infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono.
………………
(Firenze, 21 dicembre 1613)
Dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”
………..
SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch'io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare.
SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d'avervi esso mosse le risa.
SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».
SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell'origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa come forse alcuno si persuade.
SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit.
………
SIMP. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore
SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica piú a cercar d'intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è piú vergognosa che 'l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di filosofo.
Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.
Fonte: http://www.liceocavalieri.it/public/classi/archiviorisorse%5CGALILEO%20GALILEI.doc
autore: Galileo Galilei
Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642) è stato fisico, filosofo, astronomo e matematico italiano, padre della scienza moderna.
Egli è associato ad importanti contributi in dinamica e in astronomia e all'introduzione del metodo scientifico (detto infatti anche metodo galileiano).
Di principale importanza furono il suo ruolo nella rivoluzione astronomica e il suo sostegno al sistema eliocentrico e alle teorie copernicane. Accusato di voler rovinare la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galileo fu condannato come eretico dalla chiesa cattolica e costretto all'abiura delle sue concezioni astronomiche, e a trascorrere il resto della sua vita in isolamento.
Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo era consapevole che questa non si collegava con le diverse affermazioni della Bibbia e di Padri della Chiesa, che attestavano una concezione geocentrica dell'Universo. Poiché la Chiesa considerava le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata soltanto come un semplice modello matematico senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Galileo, scienziato cattolico, credette di poter risolvere il problema rovesciando la soluzione: la teoria copernicana è vera, sono le Scritture a essere state scritte, senza corrispondenza con la realtà, utilizzando un linguaggio che esprime un modello utile e comprensibile all'uomo. Proprio sotto questa condizione, il libro del Copernico - il De revolutionibus orbium coelestium - non era stato ancora condannato dalle autorità ecclesiastiche.
LE SCOPERTE ASTRONOMICHE
Il libro Sidereus Nuncius fu scritto in latino e pubblicato nel 1610 e dedicato a Cosimo II de' Medici.
Nelle prime pagine Galileo spiega come ha costruito il cannocchiale, quali sono le sue caratteristiche ed elenca le osservazioni più importanti effettuate osservando il cielo di Padova, con il cannocchiale.
- Con il telescopio dimostrò che vi erano nuove stelle
● La cintura di Orione non era costituita da sole tre stelle: al telescopio se ne vedevano molte di più.
● Nelle Pleiadi a occhio nudo si vedevono sei o sette stelle mentre con il telescopio circa quaranta
- I pianeti appaiono come dischetti.
- Anche le nebulose di Orione e del Presepe sono costituite da un gran numero di stelle.
- Scoprì che la Luna ha una superficie ruvida (non perfetta come prima si credeva) e presenta valli e rilievi come la Terra. Galileo capì questo osservando che sull' unico satellite della Terra vi erano delle macchie che erano le ombre dei crateri che si trovavano sulla Luna.
La Luna disegnata da Galileo nel Sidereus Nuncius, accostata a una moderna fotografia dello stesso punto
|
- Studiò le fasi lunari, osservando con attenzione la Luna nei vari periodi dell’ anno e segnando (nella carta rappresentata a sinistra), tutti i suoi mutamenti.
Individuò i quattro satelliti (satelliti medicei) di Giove che compivano attorno ad esso movimenti simili a quelli della Luna attorno alla Terra. La prima osservazione di questi satelliti da Galileo risale al 7 gennaio 1610. Dopo numerosi giorni di osservazioni, egli concluse che i quattro corpi erano in orbita attorno al pianeta; la scoperta fu un grande punto a favore della teoria eliocentrica di Niccolò Copernico, perché mostrava che non tutti gli oggetti del sistema solare orbitavano attorno alla Terra. L'11 gennaio 1610 Galileo osservò quelle che credette essere tre stelle vicino a Giove, la notte seguente ne individuò una quarta e notò che
avevano mutato posizione. Continuò quindi le osservazioni e nelle notti seguenti notò che la loro posizione relativa rispetto a Giove mutava coerentemente con oggetti che fossero in orbita attorno al pianeta: a volte precedevano, a volte seguivano Giove, ma sempre ad uguali intervalli.
Nome |
Diametro |
Massa |
Distanza media da Giove |
Periodo orbitale |
Io |
3643 km |
8,93×1022 kg |
421 800 km |
1,77 giorni |
Europa |
3122 km |
4,8×1022 kg |
671 100 km |
3,55 giorni |
Ganimede |
5262 km |
1,48×1023 kg |
1 070 400 km |
7,16 giorni |
Callisto |
4821 km |
1,08×1023 kg |
1 882 700 km |
16,69 giorni |
|
|
|
|
|
Esse non si allontanavano mai oltre un certo limite dal pianeta, e questo limite era caratteristico del singolo oggetto. Dopo aver raccolto 65 osservazioni, riportò la notizia della scoperta degli "Astri Medicei" (in onore di Cosimo II de' Medici) nel Sidereus Nuncius. I nomi dei satelliti furono suggeriti da Simon Marius, anche se caddero per un lungo tempo in disuso. Fino alla metà del XX secolo, nella letteratura astronomica ci si riferiva ai satelliti galileani servendosi della designazione numerica romana introdotta da Galileo, composta dal nome del pianeta seguito da un numero romano che indicasse l'ordine di distanza crescente da Giove. Ad esempio, Ganimede veniva indicato come Giove III o come "terzo satellite di Giove". In seguito alla scoperta dei satelliti di Saturno fu adottata la nomenclatura attuale. L'annuncio della scoperta dei satelliti galileiani destò l'attenzione degli astronomi dell'epoca che si unirono a Galileo ed a Simon Marius nella loro osservazione. Alcuni sostennero che l'osservazione dei presunti satelliti galileiani fosse derivata dalla presenza di difetti nel telescopio, Keplero eseguì delle osservazioni in proprio e confermò la scoperta nel Narratio de observatis a se quatuor Iovis satellitibus erronibus, pubblicato nel 1611. Anche gli astronomi Thomas Harriot e Nicolas-Claude Fabri de Peiresc pubblicarono le proprie osservazioni dei satelliti galileiani, rispettivamente in Inghilterra e Francia. Giove con le sue lune costituiva un sistema solare in miniatura.
Galileo riporta i risultati di due mesi di accurate osservazioni di Giove e dei pianeti medicei. Nel Sidereus Nuncius Galileo stima solamente il periodo del satellite più esterno. Nella seconda giornata delDialogo dei massimi sistemi Galileo fornisce una stima dei periodi dei satelliti di Giove.
I quattro satelliti maggiori di Giove, scoperti da Galileo Galilei e Simon Marius sono chiaramente visibili da Terra tramite piccoli telescopi. Si tratta di Io, Europa, Ganimede e Callisto; Ganimede, in particolare, è così luminoso che se non si trovasse vicino a Giove sarebbe visibile anche ad occhio nudo, di notte, nel cielo terrestre.
I satelliti galileiani nei loro colori reali, alla stessa scala, nell'ordine sopra esposto. Le distanze fra i satelliti non sono in scala. |
I quattro satelliti medicei di Giove, in un fotomontaggio che ne mette a confronto le dimensioni; dall'alto, Io, Europa, Ganimede e Callisto. |
- Scoprì che sul Sole vi erano delle macchie scure che apparivano e scomparivano dimostrando che vi dovevano essere dei continui movimenti. Una macchia solare è una regione della superficie del Sole (fotosfera) contraddistinta da una temperatura minore dell'ambiente circostante e da forte attività magnetica. Anche se le macchie solari sono estremamente luminose, perché hanno una temperatura di circa 5000 kelvin, il contrasto con le regioni circostanti, ancora più luminose grazie ad una temperatura di 6000 kelvin le rende visibili come macchie più scure. Numerose macchie simili sono state osservate anche in stelle diverse dal Sole, e prendono il nome di macchie stellari.
Il numero di macchie che appaiono sulla superficie del Sole è stato misurato a partire dal 1700, e stimato all'indietro fino al 1500. La tendenza è quella di un numero in aumento, e i valori più grandi sono stati registrati negli ultimi 50 anni.
Il numero di macchie solari è correlato con l'intensità della radiazione solare. Durante il Minimo di Maunder esse quasi scomparirono, e la Terra nello stesso periodo si raffreddò in modo consistente. La correlazione tra i due eventi è oggetto di discussioni nella comunità scientifica (vedi riscaldamento globale).
- Studiò le fasi di Venere.
- Capì chela Via Lattea non è una parte più densa del cielo, ma un impressionante ammasso di stelle.
- Individuò le strane apparenze di Saturno.
Con queste scoperte Galileo distruggeva i fondamenti stessi della cosmologia aristotelico-tolemaica e confermava la propria fede copernicana. Nel corso della sua vita, Galileo propose originalmente alcune invenzioni, utili non solo nello studio delle stelle, ma anche dei corpi in movimento:
- Galileo utilizzò per primo il cannocchiale per osservare il cielo (in precedenza il cannocchiale aveva avuto uno scopo militare ed era usato per vedere orizzontalmente, cioè per spiare da lontano); è errato, dichiarare che questo strumento fosse stato costruito da Galileo. Purtroppo l'utilizzo astronomico del cannocchiale, mise in cattiva luce lo scienziato dinanzi alla Chiesa; gli ecclesiastici consideravano lo strumento come un occhio maligno che permetteva all'uomo di vedere cose che ad occhio nudo erano inaccessibili.
- il celatone, uno strumento per misurare la longitudine in mare dal ponte di una nave usando come riferimenti i satelliti di Giove. Per convincere gli interlocutori spagnoli che era possibile osservare il sistema di Giove in situazione di instabilità, come sul ponte delle navi, Galileo concepì questo particolare strumento, che per la sua forma simile a una celata, fu definito celatone. Esso è costituito da un elmetto metallico dotato di una visiera sulla quale è installato un piccolo cannocchiale. È possibile regolare la visiera, incernierata ai lati dell'elmetto, in modo che l'occhio e l'asse del cannocchiale siano allineati. L'idea di Galilei è che l'osservatore, mediante i movimenti della testa, è in grado di compensare i bruschi movimenti della nave e mantenere sempre inquadrato Giove. Galilei successivamente pensò di ottenere lo stesso effetto di compensazione dei movimenti della nave ponendo l'osservatore in un recipiente emisferico contenuto a sua volta in un recipiente della stessa forma ma un poco più grande contenente dell'olio.
- il giovilabio, uno strumento per calcolare la posizione relativa di Terra e Giove; è simile all'astrolabio, e consente di determinare le orbite e i periodi dei satelliti medicei di Giove. Galileo lo usò per determinare i periodi dei satelliti di Giove e per stabilire i tempi delle loro eclissi. Galileo capì anche che le eclissi di Giove potevano consentire un metodo per determinare la longitudine. La sua struttura deriva da un metodo grafico ideato da Galilei intorno all'epoca della pubblicazione del Sidereus Nuncius (1610). Lo strumento è costituito da due dischi girevoli con diametro differente e collegati fra di loro da un'asta mobile; attraverso di essi si riesce a ricondurre al Sole le apparenze dei satelliti osservate dalla Terra: queste sono però apparenze irregolari, a causa dei movimenti eliocentrici della Terra e di Giove. Sulla faccia del giovilabio sono incise le cosiddette tavole di Bellosguardo, che hanno la funzione di determinare il moto medio di ognuno dei satelliti di Giove. Questo era un tema all'epoca di grande interesse. Attraverso il giovilabio e un telescopio si poteva utilizzare Giove come "orologio naturale" e determinare l'ora riferita a un meridiano di riferimento.
- il micrometro; attraverso questo strumento Galileo avviòlo studio sistematico dei periodi dei satelliti di Giove e produsse tavole dei periodi dei satelliti di Giove.
- l'elioscopio, uno strumento che permette di osservare il Sole e fu grazie ad esso che egli scoprì l'esistenza delle macchie solari. Il metodo usato da Galileo consisteva nell'oscurare la stanza da cui effettuava le osservazioni e, invece di osservare direttamente il sole, guardare l'immagine proiettata su un foglio bianco di carta posto ad un metro circa dall'oculare. L'elioscopio è in pratica un prisma diagonale con oculare che permette l’osservazione del sole indebolendone l'intensità.
LIMITI
Galileo infatti sosteneva che se si faceva un esperimento in luoghi diversi, anche su una nave in movimento, il risultato di tali esperimenti sarebbe stato lo stesso. Einstein invece scoprì che il risultato poteva variare in base alla velocità, soprattutto se questa era prossima a quella della luce.
La teoria galileiana era ancora valida, ma solo se la velocità in gioco era infinitamente più bassa di quella della luce
Fonte: http://testscuola.metid.polimi.it/@api/deki/files/598/=Galileo_da_modificare.doc
autore del testo non indicato nel documento di origine del testo
Galileo Galilei vita opere biografia
IL PENSIERO DI GALILEO
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1.
La vicenda storica di Galileo è il punto di partenza della più grande rivoluzione culturale degli ultimi secoli. Per valutarne esattamente la portata, bisogna pensare al panorama contemporaneo, al particolare significato che la scienza oggi assume come visione e organizzazione tecnologica del mondo (sia per quanto riguarda lo spirito di salvezza che essa esibisce sia per la distruttività che possiede). Galileo fu l'artefice intenzionale di una tale rivoluzione.
2.
La rivoluzione scientifica di Galileo riassume l'affermazione della cosmologia eliocentrica, la fisica meccanicistica, la matematizzazione della natura. Galileo fece discendere dalla distruzione della cosmologia tolemaica (geocentrica) non soltanto un'altra interpretazione della realtà, ma anche una nuova concezione della scienza. Perché da Galileo in poi la scienza modifica il quadro offerto dal senso comune della realtà: interviene nella realtà per ricostruirla secondo un progetto meccanico globale, che è la tecnica.
3.
La cosmologia, e quindi la fisica, aristotelico-tolemaica si basava su alcune istanze fondamentali che sono:
- Divisione dell'universo in due sfere, celeste e terrestre, l'una perfetta l'altra soggetta al divenire (mutamento), dando luogo perciò a una fisica dei cieli e una fisica della terra.
- Esistenza di una causalità di ordine finalistico, che spiega l'intero movimento universale facendolo derivare in ultima istanza dall'attrazione divina.
- Concezione di un continuum universale, che attraverso le sfere celesti (cioè le Intelligenze) opera da Dio alla terra, la quale è posta al centro dell'universo ed è immobile.
- Conciliazione tra fisica e senso comune (esperienza sensibile). La fisica aristotelica giustifica il nostro senso comune: per es. il moto del sole e delle stelle nel nostro cielo, o la direzione naturale del movimento dei quattro elementi.
- Previlegio accordato dalla fisica (dipendente dalla metafisica aristotelica) alla stabilità, rispetto al movimento. Ogni corpo tende naturalmente allo stato di quiete, e ogni movimento è prodotto o da una forza applicata al corpo che si muove (violento) o dalla natura del corpo che lo dirige al suo luogo naturale. Anche il moto circolare dei cieli persegue l'ideale della stabilità, e il Dio è immutabile.
- Esclusione di ogni azione a distanza e del vuoto.
- Finitezza dell'universo.
- Significato puramente "matematico" della cosmologia tolemaica. Il sistema tolemaico rende possibile "un calcolo" del movimenti celesti, attraverso la loro rappresentazione geometrica, ma non si presenta con la pretesa della "verità scientifica" (come si direbbe oggi). Per questo Tolomeo inserisce nel movimento principale dei pianeti dei movimenti circolari sussidiari (eccentrici, epicicli) che non avevano alcuna realtà. Si trattava di "salvare i fenomeni" (cioè quello che si vede).
4.
Nel De revolutionibus orbium celestium, pubblicato a Norimberga nel 1543, Niccolò Copernico rappresenta il sistema dell'universo con il sole al centro, perché crede alle antiche tesi "metafisiche" di Pitagora e Platone, e inoltre perché risulta assai più semplice di quello tolemaico. Copernico elimina i movimenti accessori, ma conserva le sfere celesti cristalline, il moto circolare e il limite complessivo dell'universo, perché non si basa su dati, ma esclusivamente sul ragionamento. Tuttavia fa muovere la terra che diventa solo uno dei mondi ruotanti intorno al sole. Ma mentre l'Europa protestante reagisce subito contro questa "degradazione" della terra, il papato e la cultura cattolica accolgono il sistema copernicano con larghezza di vedute.
5.
Galileo Galilei, nato a Pisa (nel 1564, proprio alla fine del Concilio di Trento), si dedicò alla matematica sotto la guida di un allievo del grande Niccolò Tartaglia. A poco più di vent'anni pubblicò La bilancetta, progetto di una bilancia idrostatica e incominciò a insegnare matematica (a Pisa). Nel 1592 passò a Padova, nella Repubblica di Venezia, dove aveva ottenuto una cattedra di insegnamento della matematica (che comprendeva sempre anche l'astronomia). La sua passione per le tecnologie meccaniche lo porta a una ricca serie di invenzioni, tra cui quella del cannocchiale, strumento militare che egli adoperò per scrutare il cielo. In questi anni Galileo elabora una stretta unificazione tra la matematica, la fisica concreta di Archimede e l'antico atomismo di Democrito. Peraltro si dedicò anche alla poesia studiando Dante e il Tasso. Siamo alla presenza di una personalità integrale, appassionata e coraggiosa.
6.
In una lettera scritta all'astronomo Keplero nel 1597, Galileo risulta ormai persuaso della verità (e non solo della maggior utilità) della concezione copernicana. Tuttavia è ancora cauto, e solo dopo le grandi scoperte astronomiche abbandonerà del tutto questa cautela. Nel 1600 avviene a Roma la condanna a morte di Giordano Bruno, dopo una lunga detenzione. Ma nel 1609 Galileo ha ormai maturato una tale serie di scoperte attraverso il suo cannocchiale da decidere di pubblicare il Sidereus Nuncius a Venezia, che contiene tutto ciò che egli ha visto per la prima volta nella storia dell'umanità. Ha visto l'irregolare superficie della Luna, fatta come la terra; ha visto milioni di stelle sperdute nello spazio; ha visto i quattro lucenti satelliti di Giove, che chiamò "medicei" in onore del Granduca Cosimo II. Ma se la Luna è fatta come la Terra eppur si muove, non sarà questo un argomento anche a favore del moto della Terra?
7.
Nel 1611 compie un viaggio a Roma dove lo aspettano accoglienze trionfali dagli ambienti scientifici e religiosi, nonché dal papa Paolo V e dal Cardinale Barberini (il futuro Papa Urbano VIII). Sempre nel 1611 Galileo viene chiamato dal Granduca di Toscana Cosimo II (già suo discepolo) a insegnare e fare attività di ricerca a Firenze, e nel frattempo accumula altre scoperte: la complessità di Saturno, l'aspetto "terrestre" di Venere e le sue fasi inspiegabili dal punto di vista tolemaico. E poi, nel 1612, le macchie del Sole. Queste lo convincono che i processi di alterazione esistono anche nel mondo celeste, come sulla terra. Avvia così una visione cosmologica unitaria della fisica, decidendo di svolgere una battaglia decisiva contro l'establishment culturale delle università che era in maggioranza di osservanza aristotelica, perché l'aristotelismo rappresentava la conciliazione tra scienza, dottrina etico-religiosa e senso comune. Oggi si dovrebbe dire che Galileo non era politically correct! Il dubbio non è mai troppo amato da chi è forte della sua condizione, a meno che non sia un dubbio scettico (Bobbio, per intenderci): invece è il dubbio critico che non piace!
8.
A Firenze nel 1612 un domenicano sostiene che il sistema copernicano, come verità, è eresia (cioè, per capirci, non ha diritto di cittadinanza), perché contraddice a certi passi della Bibbia. Bisogna dire, a questo punto, che mai nella Chiesa era stata sostenuta un’interpretazione semplicemente letterale dell’Antico Testamento. Dagli inizi e fino al Concilio di Trento, la Chiesa aveva interpretato l’Antico testamento in chiave soprattutto allegorica. La storia degli antichi Ebrei non aveva altro significato che quello “figurale”, era cioè solo una “figura” profetica del Vangelo di Cristo. L’uso “letterale” della Bibbia, coincidente col suo valore puramente “storico”, era stato invece sostenuto dalla Riforma protestante, e proprio in opposizione alla Chiesa cattolica.
9.
Galileo ne discute con un suo allievo benedettino, il Castelli, al quale indirizza nel 1613 una famosa lettera (evidentemente con l'intento che venisse divulgata). In essa spiega che Dio è autore sia della Bibbia (verità ispirata dallo Spirito) sia della natura. La differenza sta nel fatto, che mentre la Bibbia è intenzionalmente rivolta al popolo degli antichi Ebrei, descritti come "rozzi e indisciplinati" (cioè ignoranti), e perciò si serve di un linguaggio adatto alle loro capacità di comprensione, la natura è "inesorabile e immutabile", perché non ha alcuno scopo di farsi capire dagli uomini. Dal punto di vista della scienza, se c'è contraddizione tra la Scrittura e la verità della natura, quest'ultima deve avere la parola definitiva. Ma nel 1615 Galileo è denunciato al Sant'Uffizio proprio per le tesi contenute nella lettera. A questo punto prende posizione l'autorevole Cardinale Bellarmino, segretario del Sant'Uffizio: il Copernicanesimo può essere insegnato ma solo ex suppositione, cioè come ipotesi matematica e non come verità assoluta e definitiva, per non irritare i professori scolastici e non nuocere alla stessa fede cristiana. Nella lettera a Monsignor Dini, del 1615, Galileo però contesta la riduzione del Copernicanesimo a semplice calcolo.
10.
Recatosi a Roma dalla fine del 1615, Galileo riceve nel febbraio del 1616 una semplice ammonizione ad abbandonare la dottrina di Copernico. Poi nel 1623 pubblica un'opera piena di sferzante ironia polemica, Il Saggiatore, il cui tema è la natura delle comete. Galileo compie in quest'opera un passo decisivo sulla via della reinterpretazione matematica della natura. Egli giunge a escludere l'uomo dal mondo della fisica, sostenendo che il mondo reale, cioè vero, consiste solo di dati quantitativi, e perciò misurabili: le nozioni sensibili dei colori, dei suoni, degli odori, del senso tattile sono dei puri nomi, attinenti al soggetto vivente, rimosso il quale non esistono più. Perciò esistono realmente solo lo spazio e il movimento, e la materia secondo figure geometriche, relazioni, contatto, stato di moto o di quiete, esistenza in un tempo e in un luogo. Il mondo è scritto nella lingua matematica, che perciò non serve semplicemente a calcolare, ma a esprimere la realtà. La matematica è la stessa lingua di Dio, che egli intuisce intensive e noi per dimostrazione, extensive.
11.
Nel 1623 il Cardinale Barberini, entusiasta sostenitore di Galileo, diventa Papa urbano VIII. Questo spinge Galileo (che gli dedica il Saggiatore) a riprendere la sua battaglia, o crociata, contro l'establishment culturale della scolastica. Nel 1632 esce il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, che provocò questa volta la reazione degli ambienti gesuitici (nel Saggiatore aveva polemizzato duramente con il gesuita Padre Grassi) e la denuncia da parte del Sant'uffizio di Firenze. Il Dialogo, non a caso scritto in italiano e non in latino, perché concepito come opera di "propaganda" culturale, è diviso in quattro "giornate" e ha tre personaggi, Salviati, Sagredo (tutt'e due copernicani) e Simplicio (aristotelico). Vi si distrugge la cosmologia tolemaica: c'è una sola fisica e una sola scienza del moto universale. Ne consegue perciò la distruzione della fisica aristotelica e di tutti gli argomenti addotti per negare il moto della terra. Contro la famosa "prova" di Simplicio, Galileo afferma il principio della relatività del moto; all'interno di un sistema non si può stabilire se il sistema stesso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme; se il moto è relativo non è possibile attribuire il movimento a un corpo considerato in se stesso. L'indifferenza allo stato di quiete o di moto di un corpo portano all'affermazione del principio d'inerzia.
12.
Solo Simplicio, nel Dialogo, asserisce che ogni teoria deve restare sul piano delle ipotesi. Ciò portò, in seguito alla denuncia, all'intimazione a Galileo di recarsi a Roma per esservi interrogato. Davanti al Sant'Uffizio romano, Galileo (che non venne incarcerato né subì violenze fisiche ma certo morali e psicologiche) nel 1633 dovette difendersi dall'accusa di aver estorto con l'inganno l'imprimatur della sua pubblicazione, non avendo tenuta presente la precedente ammonizione del 1616. Dopo varie fasi del processo egli finì con l'abiurare le tesi copernicane, come voleva il Sant'Uffizio, e venne condannato al domicilio coatto, prima a Siena presso l'amorevole Arcivescono Piccolomini, poi nella sua villa di Arcetri sopra Firenze.
13.
Tuttavia nel 1638 a Leida in Olanda uscivano i suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due scienze. Ivi Galileo respinge definitivamente la concezione di una realtà materiale eliminando ogni riferimento al senso comune, per aprire così lo spazio all'applicazione esclusiva della matematica. La fisica contraddice l'esperienza quotidiana. Ogni elemento sensibile e qualitativo è eliminato: il movimento avviene nel vuoto, il piano è incorporeo, il mobile perfettamente sferico, ogni forza piccola a piacere muove una sfera grande a piacere. Solo questa eliminazione mentale permette di applicare ai fenomeni empirici la matematica. Non ci sono cause del movimento, di nessun tipo. Il moto viene espresso come velocità, proporzionale con il tempo. Il carattere uniforme del moto viene stabilito sulla base dell'eguaglianza dei tempi e degli spazi e risponde al fatto che la natura opera per mezzo delle vie più semplici e facili. In quanto all'esperienza, di cui si servì Galileo costruendo degli strumenti appositi, come il canaletto inclinato e levigato, opportunamente graduato, in cui far scendere una palla di bronzo perfettamente liscia, in realtà essa valse solo a dare conferma della legge, non a produrla.
14.
Il metodo di Galileo si riassume nell’espressione “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”. Cosa vuol dire? Le “sensate esperienze” riguardano l’osservazione diretta della natura, effettuata attraverso la selezione artificiale dell’esperimento, e derivata dalla formulazione di un’ipotesi generale, per esempio il calcolo dell’accelerazione di gravità nel vuoto. Le “necessarie dimostrazioni” derivano a loro volta dalla conferma di un’ipotesi generale, descritta matematicamente, che perciò diventa legge scientifica. E’ dunque un metodo induttivo (esperimento), che però interviene solo a conferma dell’ipotesi generale atta a spiegare un determinato fenomeno naturale (deduzione).
Galileo morì cieco per cinque anni nel 1642.
15.
Sir Francis Bacon, nato a Londra nel 1562 e ivi morto nel 1626, fu Lord Cancelliere sotto la sovranità di Giacomo I Stuart. Una condanna per corruzione lo obbligò a lasciare ogni impegno politico. La sua figura di filosofo è legata alla realizzazione di un metodo di conoscenza scientifica, parallelamente a Galileo. Era convinto di poter raggiungere, nei fenomeni della natura, l’essenza indipendente da tutti i fattori umani e individuali. Per Bacon si trattava di trovare la causa fondamentale di un fenomeno naturale, facendo il confronto tra una serie di dati relativi allo stesso fenomeno, che identifichino la presenza e l’assenza di ciò che potrebbe costituirne la causa. Si aveva così una tabula praesentiae (raccolta di dati in cui appaia, poniamo, il calore relativo al fenomeno della luce), una tabula absentiae (raccolta di dati in cui non appaia il calore nel fenomeno della luce, per es. la luce lunare), e una tabula graduum (raccolta di dati in cui nei fenomeni di luce il calore si ritrovi in differente intensità). Si trattava quindi di trovare il fattore che è condizione essenziale per il verificarsi di un fenomeno naturale.
16.
Bacone però è convinto che occorra liberare la conoscenza dei fenomeni naturali da ogni interferenza umana. Siccome a causa del peccato originale la natura appare all’uomo come in uno specchio deformante, è necessario prescindere da tutti i possibili condizionamenti a cui è sottoposta la mente umana, per poter raggiungere la realtà naturale in se stessa.
17.
Di qui la celebre dottrina degli idola. Leggiamola nelle parole stesse di Bacon, esposta nella sua opera fondamentale, il Novum Organon (Nuovo metodo):
a. Gli idoli e le false nozioni che penetrarono nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti umane in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una volta che quest’accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto è possibile contro di essi.
b. Quattro sono le specie degli idoli che assediano le menti umane. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo la prima specie idoli della tribú; la seconda idoli della spelonca; la terza idoli del mercato; la quarta idoli del teatro.
c. Gli idoli della tribú sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribú o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso umano è la misura delle cose, mentre è vero al contrario che tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. Rispetto ai raggi delle cose l’intelletto umano è simile a uno specchio disuguale che mescola la sua propria natura a quella delle cose e la deforma e la travisa.
d. Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conservazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di coloro che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo preoccupato e prevenuto o calmo ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro mondi particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune.
e. Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra in molti modi l’intelletto. D’altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si provvidero e con le quali si protessero in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e vane.
f. Vi sono infine gli idoli che penetrano negli animi degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state ricevute o create come tante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi filosofici che già abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte perché è sempre possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello stesso tipo: le cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma anche intorno a molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione, credulità e trascuratezza.
APPENDICE
IL MOTO DEGLI ASTRI VISTO DALLA TERRA (cioè come lo vedevano Aristotele e Tolomeo, e come lo vediamo anche noi)
Fig.1. Costruzione del moto apparente di Marte (dischetto pieno) rispetto al cielo delle stelle fisse (b) dovuto al moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole (a), nell’assunzione di un’orbita di Marte intorno al Sole con un periodo doppio di quello della Terra (2 anni terrestri). |
A causa del moto di rotazione della Terra intorno al proprio asse, il Sole e tutti gli astri (stelle e pianeti) ci appaiono compiere un moto diurno descrivendo orbite quasi circolari.
A causa invece del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, il Sole ci appare descrivere, rispetto al cielo delle stelle fisse, un moto annuo quasi circolare (eclittica). Non potendo vedere il Sole sullo sfondo delle cielo delle stelle fisse, noi possiamo renderci conto di tale moto dal variare sull’orizzonte del punto in cui esso sorge e tramonta e dalla sua diversa altezza allo Zenit.
Il moto apparente dei pianeti rispetto al cielo delle stelle fisse risultainvece molto più complesso (vedi fig.1 per il caso di Marte)
Il moto non è più né circolare, né uniforme e mostra un loop, che visto dalla terra, corrisponde ad una fase di moto retrogrado (vedi fig. 2).
Fig. 2. Il moto retrogrado di Marte, quale appare ad un osservatore solidale con la Terra |
Più o meno identico è il moto dei pianeti interni, ad esempio Venere. In questo caso però il pianeta non si discosta mai dal Sole più di 45° e per metà periodo segue il Sole, tramontando dopo di esso (Vespero) e per metà lo precede sorgendo prima del Sole (Lucifero).
Questi moto del tutto irregolare dei pianeti (= corpi erranti nel cielo) crearono nel mondo antico la maggior difficoltà per una descrizione del cielo inteso come una realtà perfetta ed incorruttibile.
Il sistema tolemaico
Fig. 6. Descrizione del moto dei pianeti in termini di (a) deferente e epiciclo, (b) eccentrico mobile. |
Le cosmologie greche introdussero un sistema di sfere omocentriche, in grado di
salvare i fenomeni e non solo quelli rilevati in seguito, ma neppure quelli noti in precedenza .... Mi riferisco al fatto che i pianeti appaiono talvolta vicini a noi, talvolta essersi allontanati, come è evidentissimo alla vista [diversa luminosità].
Per spiegare questi fenomeni, mantenendo l'assunzione platonica che i moti celesti devono essere circolari ed uniformi o risultare da una composizione di tali moti, (assunzione che fu abbandonata solo dopo Keplero), furono introdotte due ipotesi cinematicamente equivalenti (vedi fig. 6).
- I pianeti descrivono in modo uniforme un'orbita circolare (epiciclo) il cui centro descrive a sua volta in modo uniforme un'orbita circolare (deferente) intorno alla Terra.
- I pianeti descrivono in modo uniforme un'orbita circolare intorno ad un centro che è spostato rispetto alla Terra e che descrive a sua volta un moto circolare uniforme rispetto alla Terra stessa (eccentrico mobile).
Come si vede dalla figura 7 il moto composto deferente-epiciclo è in
Fig. 7. Costruzione del moto di un pianeta esterno nell’approssimazione di figura 2, mediante il moto composto deferente-epiciclo. |
grado di descrivere in prima approssimazione il moto dei pianeti.
La sintesi delle ricerche astronomiche condotte dalla scuola Alessandrina per più di quattro secoli per opera di eminenti scienziati [tra cui vanno ricordati Eratostene (276 - 195 a.C.), che per primo misurò il raggio della Terra, Apollonio (
Nel sistema tolemaico il moto proprio dei pianeti risulta dalla composizione di epicicli e deferenti: il deferente è però eccentrico rispetto alla Terra e il moto del centro dell'epiciclo lungo il deferente è uniforme rispetto ad un punto (equante) simmetrico della Terra rispetto al centro del deferente stesso (vedi fig. 8).
La Terra comincia a perdere il proprio ruolo centrale nell'Universo mentre il Sole acquista un proprio ruolo nel moto di tutti i pianeti: infatti il periodo del moto lungo l'epiciclo per i pianeti esterni (Marte, Giove e Saturno) e quello dell'epiciclo lungo il deferente per i pianeti 'interni' (Mercurio e Venere) coincide con quello del moto apparente del Sole (un anno ).
Solo una radicata convinzione dell’ impossibilità del moto della Terra può aver impedito agli scienziati alessandrini di accorgersi che tutto questo poteva essere semplicemente spiegato attribuendo tale periodo ad un moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole.
Bisognerà aspettare più di dodici secoli perché Copernico si renda conto di questa coincidenza e, nel tentativo di ricostruire la semplicità e la perfezione del modello cosmologico platonico, proponga di porre il Sole al centro dell'Universo.
L'innovazione di Copernico
Anche se l'idea del Sole immobile al centro dell'Universo cominciava ad essere avanzata da vari pensatori, Copernico fu il primo a costruire su questa ipotesi un sistema planetario completo ed autonomo in grado di poter prevedere tutti i fenomeni celesti.
Copernico (1473 - 1543) fu molto influenzato dal pensiero pitagorico e platonico. Scrive Retico, suo allievo e portavoce, nella Narratio prima, che precedette di parecchi anni la pubblicazione dell'opera del maestro, il De revolutionibus orbium coelestium
... seguendo Platone e i pitagorici, i massimi matematici di quell'epoca divina, egli [Copernico] pensò si dovessero attribuire alla Terra sferica dei movimenti circolari, per determinare la causa dei fenomeni.
Fig. 10. Schema del sistema Copernicano tratto dal De rivolutionibus orbium coelestium , 1543. |
Uno dei motivi che portarono Copernico ad abbandonare il sistema Tolemaico fu proprio il desiderio di eliminare l'equante, cioè la presenza di un moto circolare la cui velocità è uniforme non rispetto al centro della circonferenza, ma ad un altro punto, in evidente contrasto con il dettato platonico.
Egli propose quindi un modello di tipo eliocentrico (vedi fig. 10): intornoal Sole, immobile, ruotano nell'ordine Mercurio, Venere, la Terra con la Luna, Marte, Giove ed infine Saturno. Tutto intorno si trovano le stelle, immobili, il cui moto diurno rispetto alla Terra è apparente in quanto dovuto alla rotazione della Terra intorno a se stessa. Allo stesso modo è apparente il moto diurno del Sole e così pure quello annuo, dovuto quest'ultimo al moto della Terra intorno al Sole. E così per i cinque pianeti.
Sebbene l'idea mi sembrasse assurda, poiché sapevo che ad altri prima di me era stata data la libertà di immaginare una cosa del genere ..., pensai che anche a me sarebbe concesso di ricercare se, assunto per ipotesi un certo moto della Terra, fosse possibile trovare dimostrazioni della rivoluzione delle sfere celesti più sicure delle loro [cioè di quelle tolemaiche]. Assunti quindi i moti che nell'opera io attribuisco alla Terra, ..., non solo tutti i fenomeni trovano conferma, ma anche l'ordine e la magnificenza di tutte le stelle (compreso i pianeti) e le sfere e il cielo stesso risulta così collegato che in nessuna sua parte non si può spostare nulla senza generare confusione delle parti e del tutto.
E' questa la differenza più notevole fra i due sistemi. Nel sistema copernicano non è più possibile modificare a piacere le orbite dei pianeti, come invece si poteva fare per le dimensioni del deferente e del relativo epiciclo il cui solo rapporto era determinato dai dati dell'osservazione. Per la prima volta quindi le osservazioni determinano in modo rigoroso le dimensioni dell'intero sistema solare, senza dover ricorrere ad ulteriori ipotesi. Infatti il rapporto tra il deferente e il relativo epiciclo corrisponde, nel sistema eliocentrico, al rapporto tra il raggio dell'orbita del pianeta e quello della Terra intorno al Sole, per quanto riguarda i pianeti esterni, e al rapporto inverso per quelli interni.
Copernico tuttavia rimase vincolato all'idea platonica dell'esistenza di sfere in moto circolare ed uniforme (le orbium coelestium di cui si parla nel titolo stesso dell'opera) in cui sono rigidamente incastonati i pianeti, Terra compresa. Per evitare allora che l'asse terrestre modificasse la sua orientazione rispetto alle stelle, a causa della rotazione della sfera che trasporta la Terra intorno al Sole, fu necessario introdurre un terzo moto, quello di precessione dell'asse terrestre con periodo annuo (vedi fig. 11).
Per poter inoltre spiegare tutti i fenomeni, senza ricorrere ad equanti, si dovettero introdurre sfere eccentriche ed epicicli. Ne risultò alla fine un sistema la cui complessità era paragonabile, se non addirittura maggiore, di quella del sistema tolemaico.
Fig. 11. (a) Moto di traslazione della Terra trasportata dalla sua sfera celeste e (b) moto di precessione dell'asse terrestre, introdotto per mantenere costante l'orientazione dell'asse stesso rispetto alle stelle fisse. |
E' da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema non ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.
Anche le controdeduzioni che Copernico riporta in risposta alle obiezioni di Tolomeo contro il moto della Terra sono molto deboli, in quanto si basano ancora sulla fisica aristotelica.
Se il sistema copernicano è visto come un puro artificio matematico alternativo per descrivere il moto dell'Universo (come del resto viene presentato nella premessa all'opera, introdotta, contro il volere o almeno all'insaputa di Copernico, ormai in fin di vita, dal teologo luterano Osiander, che ne curò la stampa) esso ha poco di innovativo. L'aspetto rivoluzionario dell'opera di Copernico risiede nel fatto che, dopo di lui, molti scienziati cominciarono a credere nella realtà fisica del modello.
Quando queste idee varcarono i limiti della cerchia ristretta degli specialisti, astronomi e matematici, esse suscitarono polemiche asprissime. Già nella seconda metà del XVI secolo diversi letterati e filosofi si scagliarono contro l'assurdità della nuova teoria, per il suo palese contrasto con la cultura tradizionale. Questa posizione fu subito appoggiata e condivisa dalla nascente chiesa protestante (Lutero e Calvino)
La reazione della chiesa cattolica, in conseguenza delle sue tradizioni abbastanza liberali nei confronti delle idee scientifiche (si ricordi che Copernico era un ecclesiastico e che dedicò la sua opera al papa Paolo III) si fece sentire molti anni più tardi, ma fu più violenta. Nel 1616 fu proibito l'insegnamento di ogni teoria eliocentrica e le opere di Copernico vennero messe all'indice. Nel 1632 l’Inquisizione costrinse Galileo alla famosa abiura.
E' doveroso però tener presente la particolare situazione in cui si trovava la Chiesa di Roma, tutta rivolta ad arginare gli effetti disgregatori e scissionistici della riforma protestante, che l'accusava tra l'altro di non attenersi più alla rigida interpretazione delle Scritture.
Per accettare le nuove idee era necessario un radicale cambiamento nel modo di educare il cristiano a considerare il proprio rapporto con Dio, a saper leggere nei racconti biblici (storia, a volte epica, a volte poetica, del popolo di Dio) il vero messaggio del Creatore e a saper distinguere i diversi ambiti di competenza della Fede e della Scienza.
Una trasformazione di questo genere non si può realizzare da un giorno all'altro, tenendo soprattutto conto che il magistero della Chiesa si rivolge a moltitudini di fedeli di ogni livello culturale e sociale.
Fonte: http://www.istituto-santanna.it/Pages/LiceoScientifico/GALILEO%20classe%20quarta.doc
autore del testo non indicato nel documento di origine del testo
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