La Gioconda di Leonardo da Vinci
La Gioconda di Leonardo da Vinci
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Immagine della Gioconda di Leonardo da Vinci
Ci scusiamo con i lettori ma nel dubbio per evitare problemi con la SIAE non sono state incluse nel testo le immagini della Gioconda
LA PRIMA SIGNORA ELISA,
O DELLA COMMITTENZA DEL RITRATTO DI MONNA LISA GHERARDINI, DETTO «LA Gioconda»
Ringraziamenti all ' autore : FIORENZO LAURELLI
Stimolati dal rinnovarsi del dibattito sull’identificazione del personaggio che Leonardo da Vinci volle ritrarre nella cosiddetta Gioconda del Louvre, tenteremo di fornire un contributo per avallare la tesi che ella poté essere Monna Lisa Gherardini, fiorentina, proponendo la motivazione alla committenza del dipinto. Il nome di Lisa, sebbene universalmente noto, sarebbe di pacifica attribuzione se negli ultimi decenni non si fosse insistito su riconoscimenti ben differenti.
La biografia di Leonardo scritta da Carlo Vecce è sicuramente l’ultima in ordine temporale a sollevare una questione meritevole di studio. Vorremmo, pertanto, ricordare le molteplici persone delle quali si è ritenuto leggere il ritratto in quello esposto nel museo parigino: oltre alla Gherardini, si è parlato diffusamente d’Isabella Gualanda, di Costanza d’Avalos, di Ginevra Benci, e più genericamente di una napoletana anonima ovvero di un’anonima fiorentina. Altrettanto tempestivamente pare il caso di segnalare quanto sia tardiva l’indagine, e particolarmente impegnativa la soluzione del rebus, proprio a motivo dell’attenzione critica che solo da cento anni ha ripreso ad illuminare l’opera leonardesca: i troppi secoli di effettivo oblio nei quali fu disperso l’enorme patrimonio trattatistico del Vinci ha contemporaneamente determinato l’acuirsi degli enigmi e frustrato molti tentativi d’esame del metodo. Non suona affatto fuori luogo, pertanto, l’auspicio di Pietro Marani che, ancora oggi, deve augurarsi che presto si possa creare un catalogo ragionato dell’opera del Nostro; repertorio «che, incredibilmente, è stato tentato solo un paio di volte dai tempi della monografia del Bodmer [1931; …]» .
L’identificazione di Gioconda da sempre accettata è quella attribuita a Giorgio Vasari. Tutti i tentativi successivamente esperiti mostrano, pertanto, le difficoltà di ogni ricostruzione tentata a gran distanza temporale dall’oggetto di studio; così anche questo contributo dovrà necessariamente essere visto come ipotesi coerente con gli episodi storici apportati, ma ancora in attesa del definitivo imprimatur di verità provata che preferiamo ricevere da ulteriori indagini archivistiche.
- Le ipotesi
L’Itinerario del cardinale Luigi d’Aragona, composto a cura di un suo segretario, mons. Antonio De Beatis, nel corso di un viaggio in Europa negli anni 1517-18 (steso nel 1521) , è comunemente considerata la prima prova testimoniale dell’esistenza del ritratto di una «don[n]a fi[o]rentina», nel quale i più hanno visto la Monna Lisa descritta dal Vasari .
Tuttavia, le poche righe dedicate dal canonico De Beatis ai ritratti osservati nel castello di Cloux, o la pagina che Vasari scrisse su un quadro che mai vide nella realtà, hanno contribuito piuttosto a rendere evanescente un’efficace lettura della Gioconda; esse sono quasi la dimostrazione tangibile di un fato che, costantemente, operò affinché di Leonardo restassero più i misteri irrisolti, o le autentiche distruzioni, rispetto alle prove esplicite della sua opera: l’attribuzione di un quadro, le certezze sulla veridicità di date o luoghi in cui si svolse la sua esistenza, ecc. Il suo ritratto più famoso, portato spesso a simbolo dell’arte occidentale, dopo cinque secoli sembra tuttora ignoto nell’identificazione del personaggio e nella stessa data di composizione. L’utilizzo pedissequo della teoria vasariana relativa ad una «monna Lisa Gherardini», ritratta dall’Artista negli anni 1503 e seguenti, certamente non ha giovato né ad una corretta identificazione né tantomeno fu di stimolo verso la critica successiva a ripercorrere l’esegesi dell’opera.
Passando all’esame delle ipotesi, cominceremo dunque da Antonio De Beatis, che descrive la giornata del 10 ottobre 1517, nella quale l’Aragona con la sua comitiva fa visita a Leonardo nel castello di Cloux, nei pressi della residenza reale di Amboise, ed ha modo di vedervi l’Artista, vecchio e paralizzato nella mano destra (a detta del de Beatis, che probabilmente ignorava il suo mancinismo). Leonardo:
mostrò ad Sua S[ignoria] Ill[ustrissi]ma tre quatri. Uno di certa don[n]a fi[o]rentina facta di naturale ad instantia del quo[n]dam Mag[nifi]co Juliano de’ Medici.
Fa poi ammirare un San Giovanni Battista giovane e la Madonna col bambino seduta sui ginocchi di Sant’Anna. L’annotazione apposta nel diario, per il successivo giorno, durante la visita alla biblioteca di un altro castello della Loira, quello di Blois, sembra altrettanto importante :
Vi era ancho un quatro dove è pintata ad oglio una certa Signura di Lo[m]bardia di naturale assai bella: ma al mio iuditio no[n] tanto come la S[igno]ra Gualanda.
Chastel subito ne evidenzia il paragone col ritratto che il cardinale aveva osservato la vigilia presso Leonardo: parte della critica ha voluto vedere la signora Gualandi, paragonata alla signora lombarda, nel ritratto di fiorentina anonima visto il giorno precedente. «Contrariamente a quanto si crede l’identificazione del modello continua a costituire un problema, e, giustamente, in funzione della testimonianza dell’Itinerario» . Ad ogni modo, Chastel sembra propendere per una datazione “convenzionale” del quadro, identificandolo con Gioconda, allorché scrive che esso è frutto del periodo fiorentino tra 1500 e 1507 .
Al contrario, Pedretti replica che «la questione dell’identità del personaggio passa in secondo ordine. E’ certo che non è la Monna Lisa del racconto del Vasari, anche perché non si può passare sopra una testimonianza come quella di Antonio De Beatis […]» . De Beatis divulga il nome del committente del dipinto nella persona di Giuliano de’ Medici, «protettore di Leonardo in Italia, dal 1513 al 1516», ed anch’egli presente a Venezia nel 1500, allorché Leonardo era contemporaneamente in visita nella Serenisssima. Pedretti enuncia le date senza immediatamente avanzare, nell’articolo cennato, sicure cronologie per il capolavoro del Louvre, ma tutta la più recente bibliografia dello studioso pende in favore di datazioni pressoché coincidenti col soggiorno romano del Vinci; in assenza di prove indubitabili, il suo approccio all’opera appare piuttosto mirato alla “formula” del ritratto, attraverso considerazioni rivolte ai panneggi di Gioconda ed alle caratteristiche del paesaggio.
Era stato Giorgio Vasari, nel 1550, a storicizzare per la prima volta il nome di Lisa Gherardini in quel ritratto di Leonardo. Così il pittore aretino si esprimeva in una celebre pagina :
Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di mona Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo.
“Imperfetto”, dunque, per Vasari: probabilmente perché aveva udito una descrizione che lo rappresentava incompleto di qualche importante elemento, forse lo sfondo, oppure perché già aveva deciso di ritenere il Vinci artista eccessivamente meditativo, e tanto faceva al caso suo. E’ bene osservare che le affermazioni vasariane, e così quelle di mons. De Beatis, per molti secoli furono le pochissime fonti originali di “studio” sul ritratto di Gioconda. Non è difficile a spiegarsi, appena si noti quanto spoglie siano le stesse biografie cinquecentesche su Leonardo: si passa dalle poche pagine dedicategli nel 1528 dal Giovio , all’anatomista pavese Della Torre con una brevissima Leonardi Vincii vita (pubblicata nel sec.XVIII) fino all’Anonimo Gaddiano ; e queste furono fonti principali per lo stesso Vasari. Si sarebbe dovuto aspettare l’anno 1881, ad esempio, per vedere un primo tentativo organico di pubblicazione dei codici vinciani di Francia, grazie a Ravaisson-Mollien .
Poche righe prima della descrizione della Gioconda, Vasari aveva scritto che Leonardo aveva anche dipinto il ritratto di Ginevra, figlia di Amerigo Benci; ed anche questo nome successivamente costituì un’ipotesi per la donna della Gioconda, «perché la descrizione che fa il Vasari non corrisponde esattamente al dipinto» . Per la critica recente è certo, invece, che la Benci è la nobildonna dell’olio conservato a Washington, peraltro datato a molti anni prima (ca. 1474); quindi, almeno il nome di Ginevra può essere tranquillamente scartato tra le attribuzioni possibili.
Giovanni Paolo Lomazzo, già sul finire del secolo XVI, aveva affermato l’esistenza separata del «ritratto della Gioconda e di Mona Lisa» , aumentando terribilmente la confusione quando scriveva di una «Mona Lisa napoletana» conservata nella «Fontana di Belao in Francia» (le terme di Fontainebleau) ; in ogni modo, sembra essere stato il solo ad attribuirle quella nazionalità, e, del resto, contribuisce almeno a confermare il luogo di conservazione del dipinto ne Gli sogni e ragionamenti- Ragionamento quinto . Così attribuisce a Leonardo, in prima persona, questa nota:
Redussi sì a perfizione, non essendo ancora finito, il ritratto di Mona Lisa, dreto al quale stei quattro anni; ma ciò che la natura e l’arte insieme si pol fare fei; et il qual ritratto ora è in Francia in Fontanableo.
Le frasi scritte a seguire nel medesimo Ragionamento quinto, sempre attribuite a Leonardo, c’inducono a ritenere che il periodo romano dell’artista sia ben successivo all’inizio della composizione di Gioconda :
Andai dappoi a Roma col duca Giuliano de’ Medici, nella creazione di papa Leone […].
L’elevazione al pontificato di Giovanni de’ Medici avvenne il 9 marzo 1513, e la medesima mano dell’Artista ci conferma di essere partito da Milano verso Roma il giorno 24 settembre ; dunque, la cronologia disegnata da Lomazzo arretra palesemente l’incipit del ritratto di Lisa rispetto all’epoca del soggiorno romano.
Nel 1625 Cassiano del Pozzo vedeva di persona, ancora a Fontainebleau, il «ritratto di una tal Gioconda» , e Padre Dan (superiore del convento sito presso il castello), nell’inventario dei dipinti reali, sentiva di dover correggere chi, già a quel tempo, errava nell’identificazione della nobildonna, parlando di un ritratto di cortigiana; precisava, infatti, che nella pinacoteca vi si trovava anche un’immagine di
una virtuosa donna italiana chiamata Monna Lisa, comunemente conosciuta come Gioconda.
Aggiungeva, infine, che essa era stata acquistata da Francesco I per 12.000 franchi.
Dopo questi pochi scritti che ebbero ad occuparsi del Vinci, sull’Artista cadde sovrano soltanto il silenzio. Ogni bibliografia, per quanto estesa, in pratica cancella i secc. XVII e XVIII, non registrando alcunché di originale rispetto al Vasari, fino alla metà dell’Ottocento . Per quasi trecento anni, nessuno si occupò di innovare lo studio e la catalogazione dell’opera vinciana, con le conseguenze che ci sono note.
Si sarebbe dovuto attendere il 1876 affinché Volpicella abbozzasse un commento all’Itinerario ; il manoscritto era finalmente nelle mani di uno studioso, ma è oltremodo rilevante notare che il curatore descrivesse la decisiva giornata dell’11 ottobre dilungandosi sui particolari della biblioteca della tenuta reale di Blois (che egli denomina Bles), con «li Triumphi del Petrarca» e sui bei giardini, senza cenno alcuno né ai dipinti né all’Artista .
Nel 1919 Giovanni Poggi, direttore delle Gallerie di Firenze, sarebbe tornato ad esprimersi sul quadro, vedendovi l’immagine di Lisa Gherardini, fiorentina . Croce e Venturi, invece, sostennero che fosse Costanza d’Avalos la modella ritratta col fantasioso nome di Gioconda, osservando quanto fosse diversa quest’opera dal volto della Gherardini descritta del Vasari: la nobildonna del ritratto del Louvre sarebbe stata denominata “Gioconda”, pertanto, unicamente per via del sorriso, senza rispondenza diretta con alcun cognome. La duchessa di Francavilla vi sarebbe stata raffigurata in vesti nere perché vedova di Federico del Balzo fin dal 1483 ; i due studiosi ricordavano la d’Avalos come celebre nobildonna presso la corte aragonese di Napoli, e coraggiosa eroina in difesa dell’isola d’Ischia durante l’assedio francese del 1503. Il ritratto sarebbe stato eseguito a Roma nel 1513-16, secondo Croce, ed invece nella Firenze del 1501 per Venturi, contemporaneo della S. Anna del celebre cartone .
Nel 1926 De Rinaldis spostò nuovamente la composizione di Gioconda al periodo fiorentino di Leonardo (1503-06), perché solo in quel tempo vi fu la coincidenza col soggiorno in Firenze di Raffaello (1505-06), che appuntò il quadro e ne prese ispirazione per la Maddalena Doni del 1506 .
- Le identificazioni più recenti
Negli ultimi decenni del nostro secolo la storiografia su Leonardo ha trovato soprattutto in Carlo Pedretti uno studioso di riferimento per la levatura e la vastità della produzione relativa ai manoscritti vinciani e, conseguentemente, all’accuratezza consentita alla ricostruzione della cronologia della vita e dell’opera dell’Artista. Ai fini dell’argomento che più ci interessa, ricorderemo che Pedretti ha tanto sostenuto e motivato la propria datazione della Gioconda, insistendo per gli anni dieci del Cinquecento, che la sua posizione ha naturalmente influenzato più d’una generazione di studiosi. Se l’opera fosse riconducibile agli anni romani del Nostro, ne conseguirebbe la necessità di ricercare la modella negli ambienti che egli frequentò a quel tempo.
Pedretti è deciso nella cronologia del quadro quando afferma non esservi più necessità di ancorarlo all’anno 1505 (o precedenti) affinché possa giustificarsi l’ispirazione di opere raffaellesche manifestamente simili a quella tipologia di ritratto “di tre quarti”, con le mani tenute in grande evidenza (evidentemente si riferisce alla Maddalena Doni, del 1506, alla contemporanea Dama dell’Unicorno e così pure a La muta, del 1507) ; una «formula esterna» di ritratto che in realtà era già diffusa, grazie allo stesso Leonardo, a Lorenzo di Credi nel Ritratto di Caterina Sforza, ecc. Nel 1517 il Vinci stava lavorando alla S. Anna per il panneggio della Vergine, e quelle trasparenze dei veli sono le medesime che ebbe ad adottare per la Gioconda; le forme del corpo, poi, appaiono ugualmente sapienti ed accurate. Volendo poi considerare la Donna che indica di Windsor , Pedretti non ha dubbio alcuno nel descriverla quale
carboncino, tardissimo, rappresentante una giovane donna in piedi in un paesaggio di rocce, acque e piante. Il volto, illuminato da un ineffabile sorriso, è quello della Gioconda, i capelli sollevati al vento, le vesti leggere agitate come negli ultimi disegni del Diluvio.
Ugualmente vede la prossimità della Gioconda alla Leda del 1510 (ancora in lavorazione nel 1515), in uno schizzo dell’epoca conservato nel Cod. Atlantico ; così come riconosce, nella stessa serie di studi geometrici del codice, un disegno a penna di «un occhio accanto ad una caduta di capelli ondulati, proprio come nella Gioconda» . Pedretti chiude infine l’intervento adottando la leggibilità del personaggio in quello di una donna incinta, giungendo ad ipotizzare l’attendibilità dell’ipotesi freudiana che volle scorgervi «un ritratto ideale della madre di Leonardo» .
Carlo Vecce, in una biografia vinciana ricca degli stimoli vivissimi propri del materiale archivistico, si indirizza con sicurezza verso la persona di Isabella Gualandi . Egli aveva già affrontato il tema dell’identificazione di modella nel ritratto di Gioconda, attraverso un dotto articolo stampato sulla rivista «Achademia Leonardi Vinci» , corredato da un ricco apparato di note biografiche ed archivistiche, insieme ad un’estesa bibliografia.
Isabella era nata a Napoli nel 1491, dal pisano Ranieri Gualandi (maggiordomo di camera di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria) . La madre era Bianca Gallerani (figlia di Pietro, consigliere di Ludovico il Moro): in particolare, Bianca era cugina di Cecilia Gallerani, che, orfana dal 1480, divenne una tutelata dello Sforza e poi la sua amante (Cecilia fu ritratta da Leonardo nella Dama dell’ermellino, c.1489-90).
Isabella ugualmente fu presto orfana, e tutelata presso la corte aragonese di Napoli dal 1492; Vecce ci riferisce che, nel 1514, «vedova e madre, era probabilmente a Roma, nella cerchia di Vittoria Colonna» , e vi fu ritratta da Leonardo in quello stesso anno. Ella era così bella da essere celebrata nei versi di Paolo Giovio e Iacopo Campanile, e, secondo lo studioso, anche in quelli che il parmense Enea Irpino ebbe a dedicare a tale “Isabella”, vedova napoletana, che egli amò ad Ischia prima del 1520 e che precedentemente era stata raffigurata da Leonardo. Vecce ricorda anche l’inventario dei quadri compiuto presso l’aiutante di Leonardo, Salaì, redatto nel 1525 dopo la sua morte: già vi era cennata «la Joconda» stimata ben 100 scudi, ma lo studioso è certo che si trattasse della descrizione di un quadro contraffatto, dipinto dal discepolo e spacciato per un originale del maestro .
In buona sostanza, si vorrebbe dimostrare che il vero ritratto di Lisa Gherardini sia andato smarrito; quello che ammiriamo al Louvre col nome di Gioconda sarebbe, dunque, relativo ad un’altra persona, e ciò giustificherebbe la mancata rispondenza del dipinto alla differente descrizione resa dal Vasari. Il nodo del problema, scaturente dall’identificazione proposta da Vecce, risiede nel fatto che l’estrema abbondanza dei dati offerti alla nostra attenzione, intorno all’esistenza di Isabella Gualandi, è posta a monte dell’asserita coincidenza di Gioconda e Gualandi, in maniera che i due soggetti appaiano identificarsi solo attraverso un postulato e non mediante una qualunque dimostrazione. Esaminiamo, pertanto, gli argomenti addotti dallo studioso.
Fondamentalmente egli sceglie di muovere dall’Itinerario del De Beatis, per il quale enumera tutte le copie conosciute: il ms. X.F.28, il più noto, ma anche il ms. XIV.E.35, definito copia più tarda del ms. XIV.H.70 «notevolmente peggiorativa nel testo, che risulta abbreviato in più punti». Sono tutti codici in possesso della BNN, ma anche la BAV possiede altre due copie manoscritte dell’Itinerario, così contrassegnate: il ms. Vat. lat. 10786, caratterizzato da legatura e scrittura del sec. XVII, ed il ms. Vat. lat. 3169 (già 7123), composto nel sec. XVI. Vecce considera il X.F.28 di mano del nostro diarista, e ne evidenzia la datazione del 21 agosto 1521, nel mentre il Vat. lat. 10786 è certamente il primo prodotto: fu terminato il 29 maggio 1521, e riporta la data del 20 luglio 1521. La materia di contraddittorio con la tesi di Vecce nasce proprio quando questi decide di usare come prova le pagine del diario nelle quali De Beatis confronta la bellezza del ritratto della signora lombarda contrapposta alla signora Gualandi: secondo Vecce è di tutta evidenza che, se è quest’ultima il termine di paragone del ritratto visto il giorno 11 ottobre, allora il nome della Gualandi corrisponde anche all’identità del ritratto di anonima fiorentina vista il giorno prima nello studio del Vinci; e questo dipinto, a sua volta, è dunque il ritratto conosciuto come Gioconda.
Da quello che, per l’appunto, appare soltanto un postulato indimostrato, Vecce si volge a raccogliere, a posteriori, tutti gli elementi della biografia della Gualandi che fungono da supporto all’enunciato. Così sarebbe senz’altro accettabile, per noi tutti, concordare sulla coincidenza della nostra Isabella con la dama cantata dall’Irpino e da Campanile, ed agevole vedere la Gualandi nella Lisa napoletana di cui scriveva Lomazzo; tuttavia Vecce pone per certo un amore tra Isabella e Giuliano che è interamente da provare. Così egli scrive :
Che sia esistita una Monna Lisa «napoletana», cioè vissuta a Napoli nella cerchia di Costanza d’Avalos e Vittoria Colonna e ritratta da Leonardo verso il 1514, lo provano i versi del poeta parmense Enea Irpino, che dedica il suo canzoniere ad una Isabella (una giovane vedova nata a Napoli, conosciuta ed amata ad Ischia prima del 1520), e che ne celebra il ritratto eseguito da Leonardo.
Lo studioso fa riferimento all’articolo scritto nel 1990, ove aveva coinvolto improvvisamente il Medici :
La relazione con il magnifico Giuliano (una delle tante, per il Duca, protagonista del Cortegiano di Castiglione nel libro dedicato all’ideale femminile) sembra poi confermata da un disegno contemporaneo del dipinto [la Matelda illustrata da Chastel e Pedretti].
Isabella Gualandi, vedova in tempi anteriori al soggiorno romano in cui sarebbe avvenuto l’incontro con Giuliano de’ Medici, e in cui Leonardo l’avrebbe effigiata nel celebre ritratto, sarebbe passata da Roma a Napoli, al servizio o nel circolo di Costanza d’Avalos, conservando quasi intatta la sua bellezza, a metà fra giovinezza e maturità, soffusa dalla malinconia di una vita che ha passato ormai il suo segno migliore.
Vecce traccia numerose, documentate note biografiche su Isabella, partendo dal prestigio goduto dai genitori alla corte aragonese, fino agli ultimi anni trascorsi a Napoli, sostenendo che ella è l’Isabella ritratta dal Vinci, sulla quale scrisse Enea Irpino. In definitiva lo studioso si astiene, però, dall’apporto di qualsivoglia prova che, a monte, possa dimostrare che la Gualandi fu non soltanto ritratta da Leonardo (fatto già noto), ma, in particolare, che proprio il suo dipinto sia quello conosciuto col nome di Gioconda. Tutto, insomma, scaturisce dal postulato che si fa discendere direttamente dalle pagine di De Beatis :
Ma il confronto immediato con la signora Gualandi fa pensare ad un ritratto appena visto ‘obviously a reference to a painting seen the day before’ con ogni probabilità la donna fiorentina scorta nello studio di Cloux; De Beatis andava annotando il suo accurato diario giorno per giorno, e se di fronte ad una reticenza di Leonardo aveva trascritto l’indefinita ‘certa donna firentina’, nei giorni successivi era in grado di dare un nome al quadro che il maestro aveva mostrato per primo.
Nelle prossime pagine torneremo all’esame de visu del manoscritto del De Beatis, cercando di argomentare sull’ipotesi di Carlo Vecce che, comunque, permane l’indagine storico-archivistica più accurata tra quelle compiute sulla modella leonardesca.
Si possono quindi citare, per chiudere le attribuzioni più recenti, le opere di Marani, che si è conformato alla datazione convenzionale del dipinto di Gioconda, accettando l’identità di Lisa Gherardini come la più probabile . Stefano Zuffi, al contrario, nel catalogo dell’ultima mostra del Codice Hammer-Gates , utilizza le datazioni di Pedretti (anni 1506-10) per attuare un «collegamento diretto (sia cronologico sia ideologico) con due capolavori di Leonardo come la Gioconda e la Madonna con Sant’Anna» .
Federico Zeri data la Gioconda agli anni 1503-04 ed al 1510-11, per un’opera
ritoccata da Leonardo infinite volte, a tratti sovrapposti e trasparenti.
3. Leonardo e Cesare Borgia
Il tentativo annunciato in apertura di voler leggere la Gioconda come ritratto di Lisa Gherardini, invece di muovere da considerazioni di critica d’arte, parte invece da osservazioni storiche sul periodo vissuto dall’Artista negli anni convenzionalmente piu vicini alla cronologia dell’opera. Sembra piuttosto logico che, volendo scorrere l’ipotesi più accreditata nei secoli per datazione ed identificazione del quadro, si studino proprio gli anni 1502 e 1503, di poco antecedenti la composizione del ritratto, periodo che Leonardo trascorse al servizio di Cesare Borgia.
Saltare totalmente la ricerca di una possibile compatibilità tra personaggio, datazione tradizionale dell’opera e motivo della committenza rende immeritato servizio ad un’identificazione della dama della Gioconda; con l’ingiustificabile conseguenza di scartare a priori una chiave di lettura che, forse, potrebbe essere quella corretta. Tanto più sembra irrazionale tale omissione qualora si osservi che sono anni accuratamente descritti dalla storiografia, spesso illustrati con citazione diaristiche a mano di Leonardo medesimo, proprio nei codici studiati da Pedretti (e da Vecce). Lo studio dei documenti e delle biografie reso necessario alla stesura di codesto articolo è stato ispirato dall’invito a «non cedere al mito, [ripercorrendo] la vita di Leonardo attraverso i documenti e le testimonianze dei contemporanei, senza mai sfocare o forzare il contesto storico, politico e culturale […]» .
La nascita del rapporto di servizio di Leonardo sotto il Valentino può ragionevolmente ricondursi alla celebrità di Vinci anche nel campo dell’ingegneria militare. Il Borgia ebbe modo di esserne informato negli anni che videro la disfatta di Ludovico il Moro, a lungo mecenate dell’Artista, allorché Cesare era tra i condottieri che entrarono in Milano nell’ottobre 1499, insieme col Trivulzio. Qualche studioso ha sostenuto che Leonardo sarebbe stato invitato in Romagna fin dai primi mesi del 1500 , ma è noto che, almeno dal maggio 1502, egli era impegnato a controllare le fortezze della costa toscana da Piombino a Populonia, per accrescere le difese del nuovo stato che il duca Valentino stava cominciando a costituire . Questi chiamò Leonardo ad Urbino, prossima alla conquista, il 23 giugno, ed egli vi mosse spostandosi proprio da Piombino
A noi preme descrivere l’itinerario leonardesco per raggiungere la sede ducale, perché prospettive e paesaggi raffigurati in Gioconda sono quelli che l’Artista ebbe modo di vedere in Toscana. Infatti, questi aveva proseguito il percorso indirizzandosi verso Siena (sotto il dominio di Pandolfo Petrucci), transitando quindi per Lucignano e Foiano . Nella raccolta reale di Windsor sono conservati molti disegni che Leonardo topografo ebbe a comporre nell’itinerario aretino: essi erano veri strumenti d’appoggio all’esercito di Vitellozzo, e mappali dei prossimi futuri possedimenti borgiani, corredati anche del computo delle distanze, così come si evince dalla notissima e accurata pianta prospettica, a volo d’uccello, della Val di Chiana . Altrettanto certo che Leonardo sia transitato per i castelli occupati manu militari: ne appuntò le visuali, i monti e gli altri punti di riferimento cartografici; proprio come, nel successivo ottobre, tracciò la straordinaria pianta topografica di Imola , durante l’assedio che, insieme con il Valentino e forse al Machiavelli, vi dovette subire.
Vinci giunse alfine ad Arezzo tramite la Cassia vetus, ed il 30 luglio certamente era ad Urbino . Di sicuro le numerose attività di ispezione e controllo attivo del territorio lo impegnarono, ostacolato, come intuibile, dalle truppe sparse nelle contrade. Dovette allora chiedere al suo signore che gli fosse concesso un lasciapassare che, sotto minaccia di punizioni, gli permettesse ogni possibile transito per i possedimenti del Borgia. Questi era al tempo impegnato in visita al castello di Pavia, ove era giunto Luigi XII di Francia.
La lettera-patente pervenuta a Leonardo è quella celeberrima conservata all’Archivio Melzi d’Eril di Vaprio d’Adda. E’ datata al 18 agosto 1502, redatta in Pavia, e così recita:
CAESAR Borgia [ecc.]
Ad Tutti nostri Locotenenti, Castellani, Capitanij, Conducteri, officiali, soldati et subditi, A li quali de questa perverrà notizia, Commettemo e Commandamo che al nostro Prestantissimo et Dilectissmo Familiare Architecto e Ingegnero Generale Leonardo vinci dessa ostensore, el quale de nostra Commissione ha da considerare li Lochi et Forteze de li Stati nostri, Ad ciò che secundo la loro exigentia et suo iudicio possiamo provederli, Debiano dare per tutto passo libero da qualunque publico pagamento, per sé et li soi Amichevole recepto, et lassarli vedere, mesurare et bene extimare quanto vorrà. Et ad questo effecto Comandare homini ad sua requisitione et prestarli qualunque adiuto, adsistentia et favore recercara volendo che dell’Opere da farse ne li nostri Dominij qualunque Ingegneri sia astrecto conferire con lui et con el parere suo confermarse. Né da questo presuma alcuno fare lo contrario per quanto li sia caro non incorrere in la nostra Indignazione. Datum Papie die Decimo octavo Augusti anno Domini Millesimo Qingentesimo secundo, Ducatus vero nostri Romandiole
Mandato Ill[ustrissi]mi Domini Ducis, Agapitus Geraldinus, F. Martius.
4. Agapito Geraldini ed i Gherardini di Firenze
La figura che ci appare particolarmente interessante ed inspiegabilmente ignorata in riferimento alla committenza della Gioconda, nel tempo che Leonardo trascorse al servizio del Borgia, è proprio quella di Agapito , primo segretario del Valentino e materiale estensore del salvacondotto di Leonardo; su di lui vorremmo soffermarci per un’attenta digressione, poiché il suo casato, per i motivi appresso illustrati, era da tempo legato intimamente con quello dei Gherardini fiorentini.
Nato ad Amelia nel 1450, egli proveniva da un’importante famiglia umbra, che almeno dai primi del Trecento figurava fra le nobili della città; tra i più illustri Colaolo, che nel 1326 sedeva nel governo cittadino dei Dieci, e mons. Angelo, valoroso prelato e diplomatico di grande credito nel secolo successivo .
Angelo Geraldini, zio di Agapito, fu alla base delle grandi fortune del casato e di una dinastia di governatori e prelati spintasi dal Quattrocento all’Ottocento: era figlio di Matteo (giurista, pretore a Macerata, Jesi e Nocera Umbra, e podestà d’Ancona), fratello di Bernardino (potente funzionario degli Aragona) e di Battista (governatore della Corsica e di Milano per gli Sforza), ed anch’egli si distinse nell’occupare incarichi rilevantissimi. Fu ambasciatore di Eugenio IV presso Francesco Sforza, al servizio di Nicolò V per la catalogazione dell’erigenda Biblioteca Vaticana e per Federico III d’Asburgo fu ambasciatore presso la S. Sede. Divenne poi segretario di Callisto III Borgia, datario di Pio II, ambasciatore per Ferdinando d’Aragona, oltre a svolgere numerose altre missioni diplomatiche (Firenze, Milano, Venezia, Belgio e Francia). Fu legato pontificio a Basilea tra 1482 e 1483 . Morì nel 1486 prossimo alla porpora. Suo nipote, mons. Antonio, figlio di Graziosa (la sorella di Angelo Geraldini da cui prese il cognome), fu al seguito dello zio e divenne presto nunzio apostolico in Spagna, ove fu amico e protettore di Cristoforo Colombo. Un altro nipote, mons. Alessandro (fratello di Antonio), cappellano maggiore presso la medesima corte e nuovo, efficace sostenitore di Colombo alla morte di suo fratello, fu educatore delle principesse reali e vescovo di Santo Domingo, ove fu sepolto nel 1524 accanto al sepolcro del Navigatore .
Agapito, figlio di Bernardino, ottenuto in patria prima un canonicato (ventinovenne), poi l’arcidiaconato ed il vicariato vescovile (grazie all’amicizia della quale Sisto IV beneficava Angelo ), aveva poi seguito il padre a Napoli, ove questi serviva gli Aragona in incarichi prestigiosi: il notevole cursus honorum ne offre sicura testimonianza , e così pure le pressioni che avrebbe esercitato Ferdinando per ottenere che la S. Sede conferisse ad Agapito il vescovado di Manfredonia (Sipontinus). Nella capitale meridionale il Geraldini frequentò studi filosofici e giuridici, avvicinando i maggiori pensatori del tempo. Nel 1482 fece ritorno a Roma quale abbreviatore sotto Sisto IV; fu poi chiamato alla propria segreteria da Alessandro VI Borgia nel 1496 e dal medesimo destinato, l’anno successivo, a quella del figlio Giovanni, cardinal legato dell’Umbria.
Agapito passò, infine, al servizio di Cesare Borgia verso il luglio del 1498 e gli restò accanto negli anni che videro l’apice della sua potenza. Così Cansacchi :
Il Geraldini, scelto fra tanti, aveva data certezza delle sue spiccate qualità di uomo di genio, di astuto diplomatico, di letterato e di scrittore, di organizzatore perfetto, di abile segretario nei gabinetti del re d’Aragona, del papa, recentemente, del cardinale Borgia. La prima incombenza della nuova carica fu quella di organizzare, insieme a don Remiro de Lorqua, lo splendido corteo che doveva accompagnare Cesare Borgia in Francia per celebrare il matrimonio con la principessa d’Albret e per prendere possesso dei feudi elargitigli da Luigi XII.
Infatti, la firma di Agapitus è già nel contratto matrimoniale firmato a Blois il 10 maggio 1499. L’infaticabile segretario era divenuto in breve tempo il motore primo dell’intera corte del Valentino, sempre posto al suo fianco alla testa dei cortei, per raccogliere ordini ed indicazioni di governo dal duca (o piuttosto per suggerirli); spesso lasciato da solo al posto di comando, allorquando esigenze militari costringevano Cesare ad allontanarsi dalle città che ne subivano il dominio.
Per misurare il grande potere esercitato alla corte del Borgia, è da evidenziare ciò che Machiavelli ebbe a scrivere nelle Legazioni, ove lascia intendere che, proprio frequentando il Geraldini, aveva modo di riferire alla Repubblica fiorentina le vere manovre del Valentino, ben oltre la nuda crudità degli eventi .
Né bastandomi questo, io presi occasione di essere oggi a lungo con messer Agapito suo primo segretario, e parlando di queste cose l’uno e l’altro di noi, come da noi segretari, dicendo voler dire che ognuno giudicasse a benefizio comune, e ragionando a lungo […]
In una particolare occasione, sotto la pressione delle incalzanti domande formulate dall’astuto cancelliere fiorentino, fu inevitabile che Agapito si accalorasse nel difendere le ragioni del duca e si lasciasse poi sfuggire una celebre frase, quasi preannunciante la terribile, prossima strage di Senigallia; infatti, riferendosi all’accordo-farsa da poco stipulato tra Cesare ed i capitani ribelli, così Machiavelli riportava le parole del segretario nel dispaccio inviato «ai Dieci» :
Dipoi, subiunse detto messere Agabito: o questo capitulo sarà accettato o no; se sarà accettato, si aprirà al Duca una finestra da uscirsi di questi capituli ad sua posta, e se non fia accettato, se li aprirà uno uscio: ma di tali capituli insino a li putti se ne debbono ridere, sendo fatti con tanta ingiuria del Duca, e con tanto suo pericolo. E così s’infocò [il Geraldini] in questo suo parlare assai. E questo ragionamento io ho scritto così alle Signorie vostre, perché mi fu posto in secreto: e raccolto questo con quello scrissi ieri, vostre Signorie prudentissime ne faranno conveniente iudizio; fo solum intendere questo, come messer Agabito è Colonnese e affezionato a quella parte.
Agapito Geraldini era in tale confidenza col Machiavelli che poté adoperarsi per il proprio amico e conterraneo Ludovico Archilegi affinché, in qualunque modo, questi fosse il prescelto dalla Signoria per un importante incarico; niente più del dispaccio del Fiorentino potrebbe meglio descrivere le energiche pressioni ricevute :
Magnifici, etc. Parlando ieri coll’Eccellenza del duca, messer Agapito suo primo segretario mi si accostò, e pregommi scrivessi a vostre Signorie, e le pregassi fussino contente operare che messer Lodovico Archilegio da Amelia fussi condotto per giudice dell’Arte della Lana; a che questo Signore aggiunse che se gli farebbe singolar piacere, e che non ne voleva scrivere altrimenti, ma rimettersene a me: e se di già ne fussi fatta elezione, che la si facessi per detto messer Lodovico, susseguente a quella che fussi fatta: né potrei dire con quanta caldezza io ne fui pregato dall’uno e dall’altro. Attendone risposta.
E’ ancora Cansacchi, nella biografia di Agapito, a far emergere la figura dell’amerino nelle relazioni di Cappello e Giustinian , e, soprattutto, attraverso la lettura di bandi, editti ed istruzioni redatti dal Geraldini :
egli trattava gli affari più importanti, concordava con il principe le direttive e le tattiche, curava le relazioni con i principi, dava ordini ai capitani della guerra, predisponeva l’organizzazione delle terre e delle città che venivano ad allargare lo stato del duca. Il Valentino ne riconosceva talmente i meriti e ne apprezzava a tal segno le qualità che nel 1501 fece coniare un timbro accomunante la sua firma con quella di monsignor Agapito, in modo che questi, in qualunque momento potesse spedire il corriere in partenza senza sottoporlo preventivamente al suo signore.
Agapito aveva cominciato a servire Cesare nel 1498, quando il primo era 48enne ed il secondo solo 23enne; già 51enne il Geraldini, preconizzato dell’arcivescovato sipontino, mentre il duca di Romagna, alla presa di Senigallia, aveva 26 anni: inevitabile anche l’esercizio di grande ascendente sul Borgia che simile differenza di età dovette determinare.
Potere straordinario, dunque, senza dubbio alcuno; ma anche fiducia ben riposta, se consideriamo che il segretario sarebbe rimasto unica guida del Valentino, fino all’inevitabile caduta: ben oltre la morte di Alessandro VI, egli fu vicino Cesare sino alla fine della libertà personale del duca. Nell’agosto del 1503, sottoscrisse davanti al Sacro Collegio (in rappresentanza di Cesare) con il notaio Pandolfo Sanseverino (nelle vesti di cancelliere della Reverenda Camera Apostolica) la convenzione che conservava al Valentino le sue elevate dignità insieme con l’incarico di massimo responsabile della pubblica incolumità sino al termine del conclave .
Eviteremo di indugiare oltre, a questo punto, nell’illustrare quanto interessi alla nostra ricerca il fatto che il casato di Agapito, i Geraldini d’Amelia, fosse uno dei rami dei Gherardini trasmigrato da Firenze nel sec. XII, così come espresso dai genealogisti del passato: per tutti, vedasi il trattato di Eugenio Gamurrini . Non esiste possibilità alcuna che le parentele illustrate possano essere gratuita invenzione celebrativa, perché nessuno storico del sec. XVII faceva cenno alcuno al ritratto di Lisa nella trattazione di quei legami di sangue; né i Gherardini costituivano un casato particolarmente famoso tra quelli del tempo. Diremo di più: è riconducibile almeno all’anno 1467 la prova storica di cui necessitiamo, in coincidenza con uno dei maggiori incarichi dei quali Angelo Geraldini (allora vescovo di Sessa Aurunca) fu investito. Così scriveva mons. Belisario Geraldini, curatore della ristampa ottocentesca del cod. Vat. Lat. 6940 (ove la Vita Angeli,composta nelQuattrocento da Antonio, è conservata manoscritta), nel sommario biografico dedicato alle gesta dell’antenato :
[Angelo] riceve in Sessa il re Ferdinando [d’Aragona], il quale tutto deferisce a lui ne’ suoi più scabrosi affari. […] E’ per parte dello stesso Pontefice, che dal detto re gli viene affidato il rilevantissimo incarico di recarsi alla repubblica di Firenze, al duca di Milano ed alla repubblica di Venezia per gettare le basi di una confederazione italiana. Egli è a capo dell’ambasceria […].
[Angelo] passa in Firenze, dove riscuote grandi onori dagli altri Geraldini domiciliati in quella città. Ottiene che la pretura di Firenze pel suo fratello sia rimessa ad altro tempo, non potendola accettare in quei giorni il suo germano Battista mandato in Corsica dallo Sforza.
Se, dunque, le note biografiche su Angelo sono direttamente tratte dalle parole del nipote Antonio, suo contemporaneo, non è più dubitale la qualità dei rapporti, parentali e politici, intrattenuti tra i due casati. Anche i «contatti che Alessandro, insieme con il fratello Antonio, ebbe a Firenze con la corte medicea negli anni Ottanta» , segnatamente l’amicizia della quale Giovanni de’ Medici (futuro Leone X) favoriva Alessandro, contribuirono a legare ulteriormente Geraldini e Gherardini, i quali ultimi erano particolarmente vicini alla corte fiorentina.
Del resto, oltre ad essere impegnati attivamente nelle vicende politiche delle rispettive patrie, in quegli stessi anni essi curavano i medesimi traffici di lane e sete fra Toscana ed Umbria col Regno di Napoli, ove i Geraldini erano benvoluti dagli Aragona .
5. Monna Lisa Gherardini è la Gioconda?
Sappiamo con certezza storica che la Monna Lisa ritratta da Leonardo era nata nell’agosto 1479 da Antonio Maria di Noldo Gherardini, ricco mercante, e da Caterina Rucellai, sempre di illustre famiglia fiorentina; secondo gli studi di Poggi, ella era originaria del quartiere di Santo Spirito, popolo di S. Felicita, ed il catasto del 1480 permette una prima rilevazione :
Lisa mia figliuola d’età anni uno senza principio di dote ignuna.
Lisa fu compagna di giochi di Contessina de’ Medici (figlia di Lorenzo il Magnifico) e di suo fratello Giuliano (il futuro duca di Nemours), maggiore d’età di un solo anno rispetto alla Gherardini. Dopo l’improvvisa morte del padre, Lisa andò a vivere dal nonno Mariotto (o Mariano) Rucellai, gonfaloniere della Signoria, di un casato intimo dei Medici . Mariotto in quel tempo aveva dato in sposa la figlia Camilla ad un altro mercante di tessuti, Francesco di Bartolommeo di Zanobi del Giocondo.
L’esilio dei Medici del 1494 allontanò da Firenze anche Giuliano, che nel frattempo aveva avuto Lisa come amante e, pare, l’avesse resa incinta . L’anno successivo Lisa dovette accettare di sposare Francesco del Giocondo (impostole da Mariotto), una volta vedovo sia di Camilla Rucellai (sposata nel 1491) che della seconda moglie, Tommasa di Mariotto Villani (sposata nel 1493).
Leonardo, su commissione di Giuliano de’ Medici, aveva chiesto al Giocondo il permesso di ritrarre la sposa. Francesco era anche uno dei dodici “Buonomini”della Repubblica prima che, nel 1512, ne divenisse priore ; sulla persona di questi, Marcolongo ha da suggerire qualcosa nei cenni biografici :
Nel 1499 mentre questi era uno dei dodici “bonommi” perdette una figlia che fu «riposta in S.ta Maria Novella»; particolare da porre in relazione col lungo velo nero che adorna Monna Lisa.
Vecce – ricordiamo che egli separa il personaggio ritratto della Gioconda del Louvre dal ritratto di Monna Lisa descritta dal Vasari, che sarebbe invece smarrito – afferma che il cartone preparatorio del ritratto sarebbe stato studiato da Raffaello nella bottega di Leonardo nel 1505; su quel modello avrebbe basato «la composizione della Madonna Cowper e del ritratto di Maddalena Doni» . Forse era ancora privo dello sfondo, secondo lo studioso, a somiglianza del cartone per il ritratto d’Isabella d’Este.
A questo punto preme sottolineare che potremmo ipotizzare, accettate le considerazioni precedenti, di concordare su tutte le fasi relative al ritratto di Lisa Gherardini, opera certa di Leonardo; dovrebbe quindi apparire plausibile l’intermediazione per l’opera esercitata da Agapito Geraldini, per i motivi già richiamati.
Da questo nostro postulato, però, scaturisce anche la convinzione di accogliere l’ipotesi che proprio Monna Lisa sia la dama ritratta nella Gioconda del Louvre. Infatti, anche il paesaggio del capolavoro pare giustificarne la datazione “convenzionale” agli anni 1503 e successivi, per i motivi cennati nel primo paragrafo; ovvero, vogliamo riferirci all’accuratezza della descrizione pittorica della Valdarno aretina, così come illustrato da Starnazzi, che arriva a leggere la prospettiva del dipinto come fosse vista dal castello di Quarata (pochi chilometri a N.O. di Arezzo) . L’intero territorio era presidiato da Vitellozzo Vitelli sin dal 7 giugno 1502: se tutto il viaggio del Vinci, dalla Toscana ad Urbino, fu svolto anche con la funzione di tracciare carte topografiche militari per gli eserciti del Valentino, non ci meraviglia affatto che tutto dovette essere composto con assoluto rigore; per questo motivo fu agevole a Leonardo utilizzare alcuni di quegli appunti nel ritratto che gli fu commissionato dopo pochi mesi.
Scrive Vecce sul paesaggio della Gioconda :
Non è certo un paesaggio reale, come non lo sono mai stati i paesaggi dei dipinti di Leonardo, ma la memoria combinatoria di luoghi veramente visti e di luoghi soltanto sognati, dalle montagne lombarde della Grigna alle visioni di cime primordiali scavate dalle acque alla creazione del mondo. Lo sfumato della prospettiva aerea raggiunge un vertice espressivo che appare il vertice dell’arte di Leonardo.
La tesi secondo la quale ci troveremmo dinanzi ad un paesaggio irreale è opinione che trova sostenitori già da molti decenni: certamente tale era per Adolfo Venturi, con il suo «scenario fantastico di dolomiti e di acque» . Venne diffusa anche da Batkin , divulgando quanto già scritto da McMullen nel 1975 :
Non è la raffigurazione ritrattistica di un modello reale, ma un frutto della sua fantasia, che fa nascere contemporaneamente un contrasto, un’analogia ed un’ambiguità. La donna che sorride dietro uno scranno, in una loggia sospesa su un abisso: immediatamente dietro le sue spalle, senza alcun tramite spaziale, comincia un lontano e strano paesaggio. Il primo piano viene recepito come presente; lo sfondo come il passato, come un ricordo.
Per McMullen il contrasto tra i due piani rimanda al conflitto tra vita e morte, tra l’uomo e l’intero cosmo: se Lisa è donna anonima, frutto di totale invenzione, anche il suo carattere è puro artificio; è «una donna pirandelliana in cerca di una commedia».
Tuttavia Batkin sa di dover citare un altro studioso che ugualmente aveva parlato del fantastico paesaggio universale di Gioconda, Berkovskij ; e quest’ultimo è forse il più vicino alla realtà allorché al suo occhio lo sfondo appare quello di un «paesaggio senza limiti», nel quale però intuisce la rispondenza al vero del personaggio: «il paesaggio senza limiti, nebulosamente magnifico nella Gioconda non favorisce, ma svaluta tutti i suoi tratti quotidiani, personali e sociali, ma al tempo stesso questi sono dipinti in maniera molto accurata» . Se, insomma, Leonardo aveva superato la composizione prettamente ritrattistica, arrivando ad «un quadro liberamente pensato», comunque non prescindeva dalla fedele descrizione di tutto quanto «è segnato dalla vita quotidiana» .
Proprio il nostro tempo ha assistito alla dimostrazione che in Gioconda siamo dinanzi ad un paesaggio reale: quel luogo esiste, nello spazio (la Valdarno) e nel tempo (l’anno 1502); l’utilizzo fattone in ambito pittorico, poi, è tutt’altro discorso . Le montagne dello sfondo, necessarie alla datazione del dipinto, ma non sufficienti, ricompongono un ambiente ripetutamente visto in tante opere vinciane precedenti ; sono piuttosto i calanchi erosi della Valdarno aretina ad emergere dalla celebre tavola del Louvre molto distintamente, in un apparato che accosta il Ponte a Buriano con la Chiana ed il Canale Maestro della Chiana: perché confondere tutto ciò col paesaggio delle prealpi lombarde (oppure delle Dolomiti), che ancora oggi si vorrebbe riproporre ?
Il velo vedovile, tanto richiamato nei commenti su Gioconda, non può, invece, dimostrare alcunché: è forse la vedova d’Avalos, è piuttosto la vedova Gualandi, oppure è Monna Lisa, in lutto per la morte della figlia «riposta in S.ta Maria Novella»?
Quanto a puntualizzare il momento della commissione dell’opera, esso è forse racchiudibile nell’anno 1502: a giugno Piero de’ Medici ed il cardinale Giovanni si precipitarono ad Arezzo appena conquistata da Vitellozzo Vitelli e Giampaolo Baglioni, per continuare a cospirare contro la repubblica fiorentina; Giuliano, poi raggiunto da Giovanni, si era spinto fino a Pavia per chiedere a Luigi XII di assecondare le mire dinastiche di ritorno al potere. Gli scarsi risultati ottenuti li costrinsero in agosto ad attraversare i territori del Valentino al fine di intavolare iniziative politico-diplomatiche, volte a sollevare definitivamente le città conquistate da Vitellozzo contro Firenze. La contemporanea presenza presso la medesima corte di committente (Giuliano de’ Medici), artista (Leonardo da Vinci) ed intermediario (Agapito Geraldini), potente segretario del Borgia ed amico-consanguineo della dama da ritrarre, dovrebbe far emergere agevolmente il concreto svolgimento della commissione.
Il servizio di Leonardo presso Cesare Borgia ebbe improvvisamente termine prima del marzo 1503 , dando inizio ad un lungo soggiorno fiorentino: gli ordinativi ricevuti fecero sì che egli si trattenesse in patria fino al maggio del 1506. Il tempo che egli impegnò nel completamento del ritratto di Gioconda è ancora altro discorso, ma certamente è di molto successivo alla commissione: quattro anni, come scritto da Vasari, o forse anche dieci, fino a giungere al periodo romano? Possibile che un focoso innamorato avrebbe potuto tanto pazientare? La critica ha fatto sempre rilevare la durata delle composizioni leonardesche: la Vergine delle rocce commissionatagli nel 1483 dalla Confraternita della Concezione di Milano, conclusa con un lodo solo nell’anno 1506; e poi il Cenacolo, ordinatogli nel 1495 che, tuttavia, era spesso trascurato per intere settimane; i quindici anni di studi per il Monumento al Moro; una Madonna richiesta dai frati serviti dell’Annunziata fin dal 1500, e che alla fine gli valse l’ostracismo di quelli, e poi tanti altri episodi consimili. Per la Gioconda è certo che, quantomeno, osservò ritmi altrettanto lenti, senza che evidententemente si possa, allo stato, pervenire ad una data di ultimazione più vicina al vero della data di commissione: Zeri, lo abbiamo citato, parla di un’opera indiscutibilmente «ritoccata infinite volte», e Pedretti già aveva evidenziato che «quadri come la Gioconda o la Sant’Anna, alterati dal tempo e dalle vernici, ci conservano solo una larva delle sue intenzioni […]» .
Giuliano de’ Medici, in seguito, avrebbe conservato gelosamente il ritratto di Lisa, pare fino al 1515, quando dovette disfarsene (restituendolo al Vinci) perché convolato a nozze con Filiberta di Savoia; qualcuno ha sostenuto che proprio al ritratto di Gioconda si riferisse Leonardo allorché ebbe a scrivere :
E già intervenne a me fare una pittura che rappresentava una cosa divina, la quale comperata dall’amante di quella volle levarne la rappresentazione di tal deità per poterla baciare senza sospetto, ma infine la coscienza vinse i sospiri e la libidine, e fu forza ch’ei se la levasse di casa.
6. De Beatis e la Signora Gualandi
Come giustificare, a questo punto, quelle che apparirebbero le testimonianze avverse dei cronisti del passato: perché, ad esempio, Lomazzo aveva scritto del ritratto di «Mon[n]a Lisa napoletana», ben distinto da quello di Gioconda? Possiamo ritenere che egli avesse ben discriminato, poiché ebbe stretti rapporti con Francesco Melzi (erede privilegiato degli scritti di Leonardo). Tuttavia noi conosciamo la biografia di Lisa Gherardini, con il supporto di materiali archivistici autorevoli, e sappiamo che ella era gentildonna fiorentina.
Allora necessariamente si deve ipotizzare il grande equivoco in cui Lomazzo era caduto, confondendo le due Elise, così come fecero Ireneo Affò, quando scrisse di Isabella Carafa , o Angelo Pezzana, riferendosi ad Isabella d’Aragona, duchessa di Bari . Lisa ed Isabella sono ambedue varianti originate dal medesimo nome, Elisa o Elisabetta . Lomazzo, cieco fin dal 1572 , più correttamente avrebbe dovuto scrivere del ritratto di “Mo[n]na Isa [Gualandi] napoletana” distinto da quello di Gioconda: in tal maniera avrebbe evitato di affermare che il dipinto della Gualandi fosse conservato a Fontainebleau, insieme con un altro, quello di Gioconda. La discriminazione era da porre, ora lo sappiamo, soltanto tra quello di Monna Lisa - Gioconda, in Francia, e quello di Monna Isa (Gualandi), chissà dove finito. Così Carlo Vecce :
E si chiarisce ormai il ricordo del Lomazzo di una certa Monna Lisa napoletana, notizia probabilmente risalente al Melzi, e ben rispondente alla nostra Isabella, che dimorava effettivamente tra Napoli ed Ischia.
Sullo specifico siamo tutti in accordo; quindi, accettando che anche la Gualandi era stata ritratta da Leonardo, questo è necessariamente il dipinto di Elisa scomparsa di cui scrive Vecce, non quello con l’effigie della Gherardini. Vecce per primo aveva ipotizzato l’errore, scrivendo che
Lisa è ipocorismo di Elisabetta e Isabella o Lisabella. Monna Lisa, o Madonna Isabella, e Isabella era la donna cantata dall’Irpino; la notizia giunta al Vasari era in parte giusta, il quadro che sommariamente gli era stato descritto era di una Monna Lisa e il Vasari, che aveva letto l’Anonimo Gaddiano, pensò subito all’unica Monna Lisa che la sua memoria poteva offrire, vale a dire la moglie di Francesco del Giocondo.
Tutto ciò dimostra, dunque, che non è di alcuna utilità la “caccia alle vedove” tra le quali scegliere colei che Giuliano avrebbe potuto amare, commettendone poi il ritratto: quale delle suddette Isabelle è quella giusta? O forse dobbiamo aggiungere alle “papabili” anche la Pacifica Brandano ?
Non si approda ad alcun risultato se si decide di giungere all’identificazione della modella muovendo da Isabella Gualandi (solo perché costei era citata nell’Itinerario), spostandosi poi a ritroso, alla ricerca strumentale di prove sulla presenza dei Gualandi a Napoli. Lo ripetiamo: nessun ostacolo a riconoscerlo casato vicino agli Aragona, ove tra i figli di Raniero erano Alfonso ed Isabella, così chiamati in onore della famiglia reale; e nessun bisogno di ricorrere ai manoscritti della Biblioteca Nazionale per leggervi i Gualandi tra i cavalieri nobili fuori piazza . Siamo certissimi sulle figure storiche rappresentate, tuttavia è la scelta - tra le tante Elise - proprio di Isabella Gualandi quale modella di Gioconda che è tutta da discutere e provare.
E’ necessario, a nostro avviso, il riesame della cronaca di mons. De Beatis, considerato che, in larga parte, da quel testo si vorrebbe far discendere la prova provata. Osserviamo innanzitutto che, per il quadro visto a Cloux il 10 ottobre 1517 (certamente di mano di Leonardo), il diarista parlava di “una certa fiorentina”, e l’ipotizzata signora Gualandi era invece napoletana (poi entrata nella cerchia dei salotti romani, favorita di Giuliano de’ Medici, nell’anno 1514, «probabilmente» secondo la testuale osservazione di Vecce ).
«Vi era ancho un quatro dove è pintata ad oglio una certa Signura di Lombardia di naturale assai bella: ma al mio iuditio non tanto come la signora Gualanda»: così De Beatis nel giorno seguente. Due sole righe del diarista, riferite a Blois nel giorno 11 ottobre, sembrano dunque sufficienti (e decisive) per indurre molti a credere che il ritratto visto il 10 ottobre 1517 riguardi Isabella Gualandi?
In effetti, proprio non appare così ovvio, per almeno tre ragioni:
- Innanzi tutto non è scritto che il ritratto della signora lombarda (che chiameremo quadro B, citato alla c. 78 del manoscritto ) fosse opera di Leonardo (accettandolo, sappiamo che per il personaggio sono stati ipotizzati i nomi di Lucrezia Crivelli, Cecilia Gallerani e Beatrice d’Este).
- Non vi è traccia alcuna adatta a far supporre che la signora Gualandi fosse ritratta in un altro dipinto visto il giorno 10 a Cloux (nella fattispecie quello di «certa don[n]a fiorentina», che definiamo quadro A, citato alla c. 76v ): per quale motivo, dunque, dovremmo riferire ad una napoletana (romana “d’adozione”, forse) un ritratto di fiorentina?
- Ne scaturiscono due ipotesi alternative: o si ammette che Antonio De Beatis davvero intendesse porre il confronto verso il ritratto visto il giorno 10, e conseguentemente il quadro A (opera del Vinci) non poteva rappresentare Isabella Gualandi («Monna Isa napoletana») ma, al più, Lisa Gherardini (fiorentina) in un ritratto che, evidentemente, coinciderebbe con quello del Louvre; oppure, un confronto fra le bellezze dei due dipinti giammai era stato ipotizzato dal De Beatis, ed erra chi continua a sostenerlo.
Vecce si ritiene sicuro intorno al nome dell’autore di entrambi i dipinti (A e B), scrivendo che
il nome dell’autore di questi ritratti è omesso, ma si tratta quasi certamente di Leonardo.
Al contrario, proprio questo avverbio distrugge, sottilmente ed inesorabilmente, ogni supposta certezza: perciò, in via teorica, sarebbe anche possibile affermare di ignorare chi avesse dipinto la signora lombarda, chi ella fosse, e soprattutto a quale titolo entrasse la signora Gualandi; se volessimo seguire gli attuali orientamenti critici più accreditati potremmo sostenere che, probabilmente, la lombarda è quella del ritratto conosciuto come La Belle Ferronière (la Crivelli o chi altra sarà possibile provare) . Tuttavia, il punto vero permane ancora nella figura della Gualandi.
A noi sembra più convincente sostenere tutt’altra soluzione: il paragone, tanto sconvolgente per una parte della critica contemporanea, non era posto tra due opere d’arte bensì tra due nobildonne in carne ed ossa, la lombarda ritratta nel dipinto B ed Isabella Gualandi, celebre bellezza dei salotti romani del tempo, e come tale termine assoluto di confronto (e, chissà, forse amata anche dal cardinale d’Aragona che ebbe affettuose relazioni e discendenza illegittima).
A motivo della speciale importanza del passo, proviamo dunque a rileggere De Beatis esaminando de visu il testo originale autografo nel ms. X.F.28, in particolare la c. 78 , stendendo poi l’ipotesi di lettura:
Vi era ancho un quatro dove è pintata ad oglio una certa signura di Lo[m]bardia di naturale assai bella: ma al mio iuditio no[n] tanto come la S[igno]ra Gualanda.
Per cui lo scritto così suonerebbe: il giorno 11 ottobre abbiamo visto il ritratto di un’affascinante nobildonna lombarda, eppure la sua bellezza non sembrava arrivare a quella della signora Gualandi. Insomma, è palese che il confronto si svolge fra l’avvenenza della signora lombarda e quella della celebre Gualandi, non intorno al pregio intrinseco dei dipinti: l’assoluta letteralità con la quale è da leggere il testo dimostra che «assai bella» è in concordanza con la donna e non con l’effigie che la rappresenta (il «quatro» sarebbe stato, altrimenti, “assai bello”); e così dicasi per il «no[n] tanto come», prima di porre il secondo termine di paragone tra le due leggiadrie: deve intendersi “non tanto [bella] come la Signora Gualandi”.
Solo in questo modo la frase mostra un significato compiuto; soprattutto se consideriamo che, in caso contrario, non ne avrebbe affatto l’affermazione del cronista di aver osservato il 10 ottobre il ritratto di «certa don[n]a fi[o]rentina» (un’anonima, dunque) che, in un diverso castello visto in un giorno differente (ed alla distanza di tre facciate del manoscritto), improvvisamente si trasformerebbe nel ritratto della signora Gualandi (una famosa dama, quindi), personaggio che mai prima era stato nominato nell’Itinerario. Assolutamente impensabile: chiunque abbia direttamente osservato il manoscritto originale del diarista immediatamente deve aver colto la psicologia dell’autore; soprattutto ricordando che l’attenta stesura è avvenuta solo nel 1521, a distanza di quattro anni dall’inizio del viaggio, è di tutta evidenza la straordinaria meticolosità con la quale De Beatis ha ripetutamente evidenziato - con sottolineature ad inchiostro rosso e con richiami sul margine laterale, sempre in rosso - ogni passo significativo delle pagine: mai egli avrebbe omesso di definire come la celebre Gualandi (ove così fosse stato) una tale anonima fiorentina (anonima perché Leonardo stesso non aveva svelato alla comitiva l’identità della “favorita” di Giuliano).
Nella c. 78 , accanto alla frase in cui si parla de «la S[igno]ra Gualanda», il cronista riteneva di dover specificare sul margine destro del foglio, alla distanza di soli 5 centimetri, in rosso, «S[igno]ra Isabella Gualanda»; ed ugualmente, al rigo 14 , non aveva mancato di precisare, incollando accanto alla frase in cui scrive di «una certa signura di Lo[m]bardia», il richiamo laterale «quat[r]o dove è di naturale una S[igno]ra milanese»: con inchiostro rosso, ovviamente.
Un’ultima lettura del manoscritto, nelle decisive cc. 77 e 78, dimostra che anche gli argomenti trattati per il giorno 11 ottobre 1517 sono descrittivi degli ambienti (questa volta il castello di Blois) osservati dalla comitiva del cardinale: abbiamo già scritto che nella c. 77 si parla dei magnifici «zardini, dove era primo terreno montuoso et sterile» e poi della libreria e dei «Triomphi del Petrarca hystoriati di mano di Flamingo»; nella c. 78 scrive su un «cameo bellissimo», poi di un ritratto di signora lombarda, del confronto con la Gualandi, e subito appresso di «uno astrolabio molto bello et grande dove è dipinta tutta la Cosmografia» e di «uno ingeniosiss[im]o horilogio». Insomma, la natura stessa del componimento è strettamente diaristica, e l’Itinerario è una sequenza di osservazioni rigidamente vincolate al momento cronologico nel quale la nota è stesa. Quindi, lo ripetiamo, troppo pignolo il nostro canonico (che scrive a due inchiostri, sottolinea e pone millimetriche note a margine) per vederlo compiere raffronti che sarebbero, nell’ipotesi di Vecce, autentici voli pindarici. Lo stesso inserimento del quadro B frammisto tra camei, astrolabi ed orologi può far supporre che esso fosse un bel dipinto fra i tanti, non necessariamente leonardiano (o, quantomeno, De Beatis ne ignorava l’autore, visto che non lo nominava): è un ulteriore ostacolo ad offrire speciale considerazione al ritratto di lombarda, proprio all’opposto di quanto scritto sui quadri di Cloux, allorché il cronista si era sentito in dovere di giudicarli «tucti perfectissimi».
Accettare che il monsignore stesse annotando un vero confronto tra due bellezze femminili, come testé ipotizzato, è perfettamente compatibile anche con l’abito ecclesiastico suo e di molti dei suoi compagni di viaggio: le continue osservazioni sull’estetica muliebre possono apparirci scarsamente sacrali e molto profane, ma essi vivono in pieno la stagione del Rinascimento e con naturalezza hanno giudicato i corpi, gli sguardi ed i comportamenti delle signore incontrate durante l’intero viaggio. Così hanno modo di notare che in Germania le donne, costrette al lavoro domestico, appaiono loro sporche e mal vestite; belle ed amabili, tuttavia, ed anche, «nonostante una cert’aria di freddezza, voluttuose» . Si possono stuzzicare le cameriere d’albergo, ma esse non si lasciano baciare come le Francesi.
Seguitiamo a rileggere l’Itinerario attraverso le pagine di Chastel :
In Fiandra tutto è ordinato e ben tenuto, cominciando dalle vesti femminili […]. Alte, con un colorito bianco e rosa, hanno difettosi solo i denti, «forse a cagione del burro e della birra» spiega il nostro meridionale, ma ciò non nuoce al loro alito. Discorsi da conoscitore, ma che in fondo, facevano parte dell’informazione generale. […] I quindici giorni passati ad Avignone non sono perduti per il piacere degli occhi […]. Bellissime le donne, sono vestite alla francese […]. «A palazzo le signore sono numerose e più che attraenti. […]. Il cardinal legato offrì a palazzo un banchetto pubblico; vi assisterono molte donne graziose; dopo cena si ballò fino a mezzanotte con la maggior licenza possibile e con piacevoli tratti lascivi». A Milano il governatore francese Lautrec offrì, in onore dei viaggiatori, «un banchetto sontuoso, con quaranta nobili signore, tutte belle o, per lo meno, riccamente vestite e piene di grazia».
De Beatis si spinge, addirittura, ad annotare «un’allusione alle fortune di certi membri della comitiva in Germania e i rilievi sul compartamento generale delle cameriere c’informano incidentalmente dei costumi» .
Anche l’orientamento manifestato da Carlo Pedretti nella recente monografia sulla ritrattistica di Leonardo (ove Gioconda è datata dal 1506 agli anni “romani”, ed è coincidente col ritratto di fiorentina citato da mons. De Beatis a Cloux) contribuisce ad escludere l’attribuzione di Gioconda al ritratto della Gualandi: ne impedisce, infatti, qualunque coerenza cronologica con una signora vista da Leonardo, a Roma, non prima del 1514 (ed anche Pedretti ribadisce trattarsi di ritratto di donna fiorentina) . Beninteso vogliamo credere, per via logica, che il pennello fosse posato dapprima per ritrarre il volto, e, solo successivamente, avrebbe lavorato per stendere la figura, il panneggio ed il paesaggio.
Marani osserva che proprio lo studio dell’inventario dei beni di Salaì, redatto il 21 aprile 1525 e studiato da Shell e Sironi , conferma indiscutibilmente il ritorno a Milano, dallo studio di Cloux, di molti capolavori vinciani dopo la morte dell’Artista: oltre a Leda, San Girolamo, e Sant’Anna, proprio Gioconda. Secondo lo studioso, il saggio Shell-Sironi del 1991 unitamente a quello di Zöllner del 1993 costituiscono prove inconfutabili e definitive dell’attribuzione a Lisa Gherardini (coniugata con Francesco del Giocondo) dell’identità del personaggio di Gioconda, anche perché mai il dipinto è stato diversamente denominato: già nel 1525 esso, in originale e non in copia artefatta, fu registrato nell’inventario Salaì come Quadro dicto la honda, corretto in dicto la Joconda, insieme con una consistente valutazione di 100 scudi.
«Da questa data […] iniziò la dispersione dell’eredità di Leonardo» .
7. Monna Lisa ed il regno aragonese
Permangono, certamente irrisolti, i dubbi sollevati da una Monna Lisa–Gioconda non somigliantissima a quella del Vasari: dove sono «la fontanella della gola» in cui «veder battere i polsi» e «le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne»? E dove «il naso con quelle belle aperture rossette e tenere, [che] si vedeva esser vivo» ?
In realtà ancora non sappiamo se l’apparente contrasto è attribuibile ad una descrizione assolutamente fantasiosa per un’opera mai vista personalmente, ovvero se le carni “scomparse” sono conseguenza dei numerosi, maldestri ritocchi compiuti sull’opera. Goulinat, per decenni direttore del laboratorio di restauro del Louvre, scriveva nel 1932 che Leonardo aveva dipinto «il volto della Gioconda servendosi dei carminii che svaniscono col tempo, e le mani degli ocra che resistono, cosa che spiega la leggera rottura d’equilibrio dei colori e della materia tra le due parti del quadro, così come lo scolorimento delle labbra» . Sembrebbe dunque auspicabile un intervento sulle vernici superficiali del ritratto, per renderne più attendibile la lettura; purtroppo, finché si discuterà intorno al restauro del dipinto (peraltro scongiurato da molti), sarà impossibile pervenire ad un esame più approfondito, almeno allo stato attuale delle conoscenze tecnologiche .
Per noi Gioconda certamente non è Isabella Gualandi, per tutti i motivi citati; il ritratto della bella Isa, se effettivamente commissionato, è tutt’altro, e De Beatis è assolutamente inutilizzabile per simile attribuzione . La lettura dello sfondo di Gioconda e la sua datazione alla Valdarno appuntata nel 1502 possono o no apparire convincenti al fine di vedervi il volto di Monna Lisa Gherardini, ma è certo che, una volta di più, saranno probabilmente gli archivi a dire l’ultima parola sull’identificazione della modella. Ci siamo limitati, per ora, ad esporre convinzioni personali, ma direttamente supportate dalle notizie storiche più attendibili, contentandoci nell’escludere, fra le molte altre, anche l’ ”ipotesi Gualandi” ed offrendo buone ragioni per affermare che Agapito Geraldini fosse stato il mediatore della commissione dell’opera.
Piacerebbe, per finire, sviluppare una sub-ipotesi mossa da altri studiosi, ove si tornerebbe, per tutt’altra ragione, a parlare di Napoli: ovvero se nella capitale aragonese, invece che a Firenze, Lisa Gherardini ebbe ad incontrare Francesco del Giocondo, ove i Gherardini avrebbero temporaneamente risieduto (così Rivieccia Zaniboni e Bottazzi , citando però il solo Lomazzo). Le attività commerciali svolte da numerose, importanti famiglie fiorentine nel regno di Napoli potrebbero da sole rendere compatibile la tesi, tanto più considerando che è storicamente certo che i Gherardini erano impegnati in traffici serici e lanieri con la Calabria, così come il Giocondo. Mereskovskij sosteneva che fu un viaggio d’affari in Calabria di Francesco, insieme con Lisa, a determinare poi la malattia della dama sulla via del ritorno, con la conseguente morte a Lagonegro, in Basilicata, nel 1506 . Lo studio dei saggi effettuati sulla comunità toscana a Napoli e nel regno meridionale, unitamente a tentativi da svolgere nel Grande Archivio di Napoli, potrebbe gettare ulteriore luce sull’ipotesi dei Gherardini a Napoli ; particolarissima, ovviamente, la difficoltà di provare il luogo di morte di Lisa.
I numerosi studi compiuti sull’età aragonese, ed in particolare sull’epoca di Ferrante, illustrano diffusamente la repentina nascita delle arti della lana e della seta, alle quali il sovrano contribuì a dare impulso straordinario agevolando i traffici connessi: vedasi il bando reale del 5 ottobre 1477 che definiva l’ordinamento interno delle corporazioni ; sarebbero così nati l’opificio di Sarno, e l’arte della lana di Giffoni. Per noi è rimarchevole il fatto che «il personale tecnico e amministrativo più adatto è molto significativamente di provenienza fiorentina» . Strumento importante per l’economia agricola meridionale, a livello di ingrosso, era il baratto che, quando praticato su larga scala, era incardinato
su una coppia di generi diversi scambiati alla pari: generalmente prodotto finito contro la materia prima necessaria […]. Le compagnie fiorentine barattavano seta calabrese contro drappi di seta (fiorentini, lucchesi, veneziani) o anche contro panni.
Parliamo proprio del campo d’affari della famiglia del Giocondo e del casato dei Gherardini; spiace ricordare che solo le biografie romanzate, come quelle di La Mure e di Mereskovskij , ne abbiamo scritto a proposito delle vicende di Lisa, ma proprio questo è motivo eccellente per svilupparle attraverso il meticoloso esame degli infiniti archivi del Meridione. Ancora molta attenzione dovrà essere riservata dagli storici al Regno aragonese ed all’epoca del Vicereame, per cui nuovi studi sarebbero forieri di una moltitudine di ritrovamenti e di straordinarie scoperte.
Anche la nostra Gioconda aspetta indagini più incisive, che non possono arrestarsi ai documenti ed agli archivi più conosciuti. Longhi aspettava «qualche migliore chiarimento che sgombri Leonardo artista da quall’alone di mistero che non sarà mai neppure un principio di spiegazione» : almeno per Gioconda, è tuttora necessità ineluttabile. Altrimenti essa continuerà, certamente, a rimanere opera imperitura ma, soprattutto finché contornata da questioni insolute, immersa in un’aura eccessivamente fantastica: un feticcio, più che un’opera arte .
Poiché, ricordando la lezione di Pedretti, temiamo che il capolavoro sia stato «vittima di troppa erudizione, troppa filosofia, troppa psicologia, troppa insofferenza e, tutto sommato, troppa incomprensione» , vorremmo sperare che di esso rimangano a commento solo le note storiche più attendibili, magari accostate ad una sola di quelle pagine fantastiche, forse la più conosciuta, che Walter Pater volle dedicare alla Gioconda :
Tutti i pensieri e tutte le esperienze del mondo la incisero e la modellarono per quanto avean potere di affinare e rendere espressiva l’esterior forma, l’animalismo della Grecia, la sensualità di Roma, il misticismo del Medio Evo con la sua ambizione spirituale e i suoi amori imaginativi, il ritorno del mondo pagano e i peccati dei Borgia. Ella è più vetusta delle rocce tra le quali siede; simile al vampiro, fu più volte morta e conobbe i segreti della tomba; fu abitatrice di mari profondi e ne raccolse le luci declinanti; trafficò per strani tessuti con mercatanti d’Oriente; e, come Leda, fu madre di Elena di Troja, e, come sant’Anna, fu madre di Maria; e tutto fu per lei non altro che suono di flauti e di lire, e solamente ha vita nella delicatezza con la quale i mutevoli lineamenti s’improntarono ed ebbe colore le palpebre e le mani. […] Così, certamente, Madonna Lisa potrebbe essere considerata come forma della immaginazione antica, come simbolo dell’idea moderna.
© FIORENZO LAURELLI 2000
© RIVISTA STORICA DEL SANNIO 2000
Abbreviazioni:
ASPN Archivio Storico per le Province Napoletane
ASV Archivio Segreto Vaticano
BAV Biblioteca Apostolica Vaticana
BNF Biblioteca Nazionale di Firenze
BNN Biblioteca Nazionale di Napoli
RL Windsor Castle, raccolta della Royal Library
RSS Rivista Storica del Sannio
NOTA RIASSUNTIVA DEL CONTENUTO:
L’autore muove dall’ultima biografia su Leonardo, convinta sostenitrice dell’identificazione di Gioconda con Isabella Gualandi, per contestarne in toto l’attribuzione attraverso l’esame rigoroso del ms. X.F.28 (in cui è contenuto l’Itinerario di mons. de Beatis) e mediante l’osservazione del periodo storico che il Vinci trascorse al servizio di Cesare Borgia.
Si è dato il dovuto risalto allo speciale ruolo giocato dal primo segretario del Valentino, Agapito Geraldini (personaggio totalmente ignorato dalla biografia di C. Vecce e trascurato da numerose altre), motore di tante decisioni politiche del giovane duca. Doverosamente si è fatto uso dei numerosi, autorevoli materiali archivistici e biografici relativi alla famiglia dei Geraldini d’Amelia ed ai comparenti e soci, i Gherardini di Firenze, esplorando la diretta mediazione esercitata dal potente segretario nella committenza di Gioconda; altrettanto dovute sono apparse le brevissime citazioni tratte dalle biografie romanzate di P. La Mure e D. Mereskovskij, che però sono state opportunamente segnalate con ogni necessaria cautela.
Si è confermata, infine, la scelta di accettare l’identificazione della modella del dipinto in quella di Monna Lisa Gherardini, coniugata con Francesco del Giocondo, giustificandola a motivo dei molteplici rapporti intervenuti fra i due casati ed attraverso la datazione dello sfondo del capolavoro.
P.C. MARANI, Leonardo, Milano 1994, p. 145; ovviamente un catalogo redatto nel 1931 è ampiamente superato dall’evoluzione degli studi vinciani.
BNN, ms. X.F.28, Itinerario di Monsignor R[everendissi]mo et Ill[ustrissi]mo Il Cardinal da Aragona mio Signore ecc. E’ dedicato al R[everen]do S[igno]r Suo il S[igno]r Antonio Seripando,efu citato da L. VOLPICELLA in ASPN (a. I, fasc. I, Napoli 1876, pp. 106-17), ove è presentato quale «codice cartaceo, in quarto, di carte numerate 170, legato e coperto di pergamena» (p. 106). Fu pubblicato a cura di L. VON PASTOR: Die Reise des Kardinals Luigi d’Aragona durch Deutschland, die Nederland, Frankreich und Oberitalien 1517-1518, Freiburg im Bresigau 1905.
Chastel enumera le dieci opere leonardesche citate nei documenti e conservate (tra cui la Gioconda); altre otto tavole sono documentate ma scomparse; una dozzina di altre furono commissionate a Leonardo, ma non è noto se realmente furono realizzate. «Accanto a questa ventina di dipinti o affreschi di cui non è possibile dubitare […], ne esistono altrettanti che possiamo solo immaginare o che non conosceremo mai» (cfr. A. CHASTEL, Leonardo da Vinci. Studi e ricerche 1952–1990, Torino 1995, pp. 100–101). A p. 98 lo studioso aveva confrontato la scarsa fertilità del Nostro con un pittore meditativo come Poussin (che tuttavia aveva prodotto duecento quadri) e con Rubens (autore di duemila opere, delle quali almeno cinquecento sono grandi tele).
A. CHASTEL, Luigi d’Aragona. Un cardinale del Rinascimento in viaggio per l’Europa, Bari 1995, p. 83 (ed. originale: Le cardinal Louis d’Aragon.Un voyageur princier de la Renaissance, 1986; prima edizione italiana tradotta da M. Garin, Bari 1987).
CHASTEL, Leonardo, cit., p. 106. Non aggiunge alcunché alla cronologia adottata dall’autore neppure il suo volume L’illustre incomprise, Paris 1988 (trad. ital.: L’illustre incompresa. La Gioconda, Milano 1989).
C. PEDRETTI, «Impacientissimo al pennello», in AA.VV., Leonardo, inserto redazionale allegato ad «Art e Dossier» n. 12, Firenze, aprile 1987, pp. 22 ss. Lo studioso propende, dunque, per una datazione dell’opera ben posteriore a quella proposta da Chastel: aggiunge anche che «nell’opera pittorica di Leonardo – concettualmente come stilisticamente – la Leda e la Sant’Anna non potevano che aver preceduto la Gioconda» (ivi, p. 37). Se la prima opera fu degli anni 1504-1508, e la seconda corrisponde al 1510-1513, Pedretti ritiene di poter attribuire la Gioconda soprattutto al periodo romano. Non è comprensibile, tuttavia, perché mai la didascalia che a p. 30 commenta la foto di Gioconda (riprodotta alla pagina successiva) indichi invece la cronologia convenzionale, «1503-1506 ca.». Recentissimo l’allegato ad «Art e Dossier» n. 138 (Firenze, ottobre 1998, p. 44), nel cui inserto redazionale firmato da Pedretti (Leonardo. Il ritratto) è riportata una didascalia su Gioconda così modificata: 1506-1510; 1513-1516.
Nel 1968, scrivendo dopo il fortuito ritrovamento dei mss. Madrid I e II, Pedretti riconosceva che molto altro c’era da esaminare, prima di festeggiare per l’inattesa scoperta: ancora rimaneva il mistero delle due versione della Vergine delle rocce, ancora da indagare sulla presenza di Leonardo a Mantova e Venezia, e poi i cartoni per la S. Anna e gli studi anatomici all’Ospedale di S. Maria Nuova. «E i limiti cronologici dei nuovi manoscritti sembrano escludere del tutto il periodo posteriore al 1506 […] ». Affermava, infine, che «rimane ancora l’enigma dell’identità e della data della Gioconda» (C. PEDRETTI, Leonardo da Vinci inedito. Tre saggi, Firenze 1968, pp. 14-15).
P. GIOVIO, Dialogi de viris et foeminis aetate nostra florentibus, attribuito all’anno 1528. E’ conservato manoscritto nella Biblioteca Civica di Como, ms. 1.6.16, e fu pubblicato da G. Tiraboschi in Storia della Letteratura Italiana, Venezia 1796.
Les manuscrits de Léonard de Vinci de l’Institut de France, mss. da A a M, a cura di C. Ravaisson-Mollien, Paris 1881-91, 6 voll.
G. P. LOMAZZO, Trattato dell’Arte della Pittura e Scultura ed Architettura, vol. II, p. 373, Roma 1844 (prima ed.: Milano 1584).
Sono eccezioni le numerose ristampe del Trattato di Pittura ed il saggio di Venturi sull’opera scientifica, reso possibile dall’asportazione napoleonica dei manoscritti dell’Ambrosiana: J.B. VENTURI, Essai sur les ouvrages physico-mathematiques de Leonard de Vinci, avec des fragmentes tires des ses manuscrits appartes de l’Italie ecc., Paris 1797. Superfluo ogni commento sulla «miniera praticamente inesplorata» costituita da quei codici per l’arco di tre secoli (C. PEDRETTI, Leonardo non aveva la barba, ne «Il Sole-24 Ore», 12 aprile 1998, p. 34, in un’articolo di presentazione della biografia di Vecce). Notare che la seconda edizione del Venturi avrebbo visto luce solo nel 1911 (a Milano) e la terza nel 1924 (a Roma).
Pure, Volpicella aveva premesso nello studio sul manoscritto che «fa mestieri descriverlo, dar ragguaglio del cardinale viaggiatore e dello scrittore del libro, accennare i particolari di maggior rilievo che vi s’incontrano e riportare quei brani che si riferiscono al sobbietto della presente rivista»; evidentemente Leonardo costituiva argomento troppo distante dalle tematiche trattate dalla Società Napoletana di Storia Patria, presieduta dall’autore medesimo.
Enciclopedia Italiana, Roma 1933, vol. XX, p. 876, voce Leonardo. Cfr. B. CROCE in Un canzoniere d’amore per Costanza d’Avalos, duchessa di Francavilla, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXXIII 1903, memoria n. 6, pp. 1-30. Cfr. A. VENTURI, Storia dell’Arte in Italia, IX/1, Milano 1925, pp. 37-42.
A. DE RINALDIS, Storia dell’opera pittorica di Leonardo, Bologna 1926. Cfr. R. LONGHI, Percorso di Raffaello giovine, in Da Cimabue a Morandi, Milano 1973, pp. 690-710 (estratto dalla rivista «Paragone», n. 65, maggio 1955).
RL n. 12581r, datata al 1515 ca. E’ denominata anche la Matelda da Chastel: cfr. Leonardo, cit., p. 179; «una sagoma onirica, […] che designa qualcosa».
PEDRETTI, all.to «Art e Dossier» n. 12, cit., p. 37. Schriften zur Angewandten Seelenkunde, a cura di S. Freud, Wien 1910 (trad. it. S. FREUD, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, in Id., Leonardo 1910, Torino 1981).
C. VECCE, La Gualanda, in «Achademia Leonardi Vinci. Journal of Leonardo Studies and Bibliography of Vinciana», III, 1990, pp. 52 ss. [d’ora in poi ALV].
Su suggerimento dello stesso Vecce (in ALV), si sono cercati, tra le cedole della tesoreria aragonese, eventuali pagamenti che coinvolgessero il Gualandi, utilizzando l’opera di N. BARONE Le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli, dall’anno 1460 al 1504 (in ASPN: 1884, anno IX, e 1885 anno X). Alla p. 606 (anno IX) si sono trovati gli unici mandati interessanti allo specifico: uno in favore di Gabriele Veticano per due scudi e due cimieri forniti «per Ranieri Gualandi e Ranieri di Alagno, cortigiani ed uomini d’arme di S[ua] Sig[nori]a, i qual dovranno tenere convito alla giostra, che il sig[nor] Duca ha ordinato si faria a di 7 del presente» (Reg. 116, fol. 106); l’altro pagamento, per il giorno successivo, riguarda Pietro Ferreri per i paramenti di addobbo ai cavalli dei medesimi cortigiani, da utilizzare per lo stesso convito e da donare poi ai due cavalieri (in ASPN, ibid.). Pur avendo riportato il curatore numerosisssime altre cedole (piccolo estratto di ben 725 volumi di pagamenti), non è stato tuttavia possibile raccogliere altri documenti nei quali figurasse il Gualandi.
VECCE, Leonardo, cit. p. 334; cita a sua volta J. SHELL- G.SIRONI, Salaì and Leonardo’s Legacy, in «The Burlington Magazine», CXXXIII 1991, n. 1055, p. 149.
Ivi, p. 66; le virgolette si riferiscono al lavoro di S. BEGUIN (Leonardo da Vinci au Louvre, Paris 1983), che menziona l’opinione di PEDRETTI (Leonardo, in «Studi Vinciani», pp. 136-137).
P. C. MARANI, Leonardo. Catalogo completo, Firenze 1989. Tale identificazione sembra confermarsi, per l’autore, anche nelle ultime produzioni.
AA. VV., Della Natura, peso e moto delle acque – Il Codice Leicester (Milano 18 novembre 1995 – 21 gennaio 1996).
Ivi, pp. 30 e 62, in riferimento soprattutto alla c. 4A f. 4r del codice, dal titolo “Del colore dell’aria”.
Ivi, p. 22. Altre mani si posarono sul dipinto, anche successivamente al primo pessimo restauro, commissionato da Enrico IV; i vapori delle terme di Fontainebleau già lo avevano intaccato prima che il sovrano ordinasse di spostarlo in locali del castello più salubri.
C. CANSACCHI, Agapito Geraldini di Amelia primo segretario di Cesare Borgia,1450 – 1515, pubblicato nel «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», vol. LVIII, Perugia 1961, pp. 57 ss.
J. BURCKARD, Diarium sive rerum urbanarum commentarii, 1483-1506, ed. L. Thuasne, Paris 1883-85. Sono stati riferiti a quel periodo gli studi delle onde di Piombino e della costa di Populonia che compaiono nel Ms. L (Biblioteque de l’Institut de France), che spazia dal 1497 al 1504; tuttavia è ancora controverso se quelli fossero studi riferibili non all’anno 1502 bensì al 1504.
Cfr. Ms L nel quale è così datato un appunto riferito alla rampa elicoidale progettata da Francesco di Giorgio Martini. Soltanto qualche studioso aveva giudicato infondato il rapporto di servizio borgiano di Leonardo: cfr. L. BELTRAMI, Leonardo da Vinci e Cesare Borgia (MDII), Milano 1916, p. 25. In realtà, poiché lo studio fu pubblicato mentre l’Italia era impegnata nel primo conflitto mondiale, Beltrami intese sgombrare il campo dall’immagine di una Gloria italica asservita alle crudeltà di un condottiero straniero; perciò ritenne doveroso concludere sbrigativamente che «non trovare altri appunti tecnici nel Cod. L, riferibili all’incarico del Borgia, lascia dubitare che, nell’ottobre dello stesso anno 1502, Leonardo si trovasse nella città di Imola, nella quale il Valentino si era asserragliato […]. Pertanto, le relazioni fra il Valentino e Leonardo da Vinci svaniscono davanti alla prova dei fatti».
Anche la biografia di Leonardo di Vecce, pur riportando il celebre salvacondotto, non fa alcun accenno diretto al Geraldini: l’autore descrive il latinorum della solenne intestazione e l’«elegante scrittura umanistica» del testo riferendoli ad «un segretario borgiano» (cfr. VECCE, Leonardo, cit., p. 212). D’altra parte, l’intera vicenda del Vinci presso il Valentino è tracciata in pochissime pagine in un saggio che, naturalmente, deve trattare non solo del periodo borgiano bensì l’intera biografia e l’opera del Vinci. Su Agapito, oltre a CANSACCHI (cit.), cfr. N. MACHIAVELLI, Legazioni e commissarie, Milano 1964.
Per dimostrare con quanta superficialità Agapito Geraldini fu rappresentato da molti studiosi, rammenteremo che in BELTRAMI (cit., p. 21) il salvacondotto di Leonardo figura firmato, nella trascrizione diplomatica, da «Agapitus Beraldinus», e sempre Beltrami ricorda che «in un elenco di personaggi di qualità, al seguito di Cesare Borgia, è menzionato Messer Agabito da Amelio segretario» (ibid.). Nella nota 1 aggiunge, per soprammercato, che, leggendo la firma della lettera-patente, «nella trascrizione comunicata al Della Valle, il nome del segretario era stato interpretato A. Basyl.» (ibid.). Il Geraldini è, per finire, l’«Agapito da Narni» indicato da G. PEPE ne La Politica dei Borgia (Napoli 1946, p. 145), mentre in I. CLOULAS (I Borgia, Roma 1988) è chiamato «Agapito Gherardi di Amelia»; più spesso è «il fedele segretario» (alle pp. 212, 249, 315, 330, 393), altre volte è «il fedele servitore» (p. 218).
Estesa la bibliografia sul casato; citeremo solo l’opera più recente: M. SENSI, La famiglia Geraldini di Amelia, in AA. VV., Alessandro Geraldini e il suo tempo, (a cura di E. Menestò, Amelia, novembre 1992, edito dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1993). Su mons. Angelo, cfr. A. GERALDINI, Vita di mons. Angelo Geraldini vescovo di Sessa, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», II, 1896, a cura di B. Geraldini [edizione in seguito citata come Vita Angeli] ; J. PETERSOHN, Ein Diplomat des Quattrocento Angelo Geraldini (1422 – 1486), Tübingen 1985. Molte notizie sono estratte in BAV dal cod. Barberiniano lat. 2312 intitolato De Geraldina Familia Episcopi aliique viri illustres. Cfr. dell’Autore, La porpora e l’armilla. Vita ed opere del card. Dionisio Laurerio, frate servita, in RSS (III serie, 2/1997, pp. 76-77, note 15 e 16), ove sono citati numerosi rogiti notarili relativi ai Geraldini.
Cfr. J. PETERSOHN, Diplomatische Bericte und Denkshriften des päpstlichen Legaten Angelo Geraldini aus der Zeit seiner Basel Legation 1482-83, Stuttgart 1987.
Oltre alla bibliografia estratta dalla precedente nota 61, ed agli atti del convegno colombiano del 1992 in Amelia curati da MENESTO’ (cit.), citeremo in particolare, intorno alla figura di Alessandro ed al legame che in vita lo unì a Cristoforo Colombo, tre saggi recenti, nelle rispettive edizioni italiane: S. E. MORISON, Storia della Scoperta dell’America, Milano 1978; Id., Cristoforo Colombo uomo di mare, Milano 1991; P. E. TAVIANI, Cristoforo Colombo, la genesi della grande scoperta, Novara 1982. Su Alessandro primo scrittore del Nuovo Mondo, cfr. A. GERALDINI, Itinerarivm ad Regiones Sub Æqvinoctiali plaga constitvtas ecc., a cura di O. Geraldini, Roma 1631, nell’edizione Nuova Eri curata da A. Geraldini, Roma 1991 (pref. di P. E. Taviani).
Dal 30 giugno 1476, per venti giorni, il papa ed il suo seguito furono ospiti dei Geraldini nel loro palazzo di Amelia, durante la peste che infuriava su Roma.
GAMURRINI (cit., p. 175) enumera in successione tutte le missioni svolte da Bernardino in quasi 40 anni: 1452 governatore in Val Topina; 1459 capitano di Napoli, poi reggente della Vicaria, luogotenente del Gran Giustiziere di Sicilia (caldamente segnalato dal duca di Milano); 1462 presidente della Camera di Summaria e quindi Capitano per guerra e giustizia di Capua; 1464 Gran Commissario generale della dogana di Puglia, poi Gran Giustiziere della provincia d’Abruzzo; 1466 Capitano di Barletta, nel 1467 di Trani, nel 1472 dell’Aquila e nel 1475 di nuovo Capitano di Trani; poi Commissario regio di Bari e nel 1480 Commissario generale in Abruzzo; nel 1481 Capitano di Cittaducale; nel 1483 Capitano di Capua e nel 1485 Capitano a Napoli e reggente di Vicaria; nel 1490 a Trani ed infine reggente a Napoli. Fin dal 24 aprile del 1462 il re di Napoli aveva concesso a lui ed ai discendenti di inquartare il proprio stemma araldico con quello della casa d’Aragona, per i meriti particolari riconosciuti al casato dei Geraldini; se tale provvedimento dovette essere preso fin dall’inizio della carriera di Bernardino è ovvio ritenere che esso fu piuttosto frutto dei buoni servigi di mons. Angelo.
P. CAPPELLO, Relazione di Roma, in E. ALBERI, Relazioni degli ambasciatori veneti, 2a serie, Firenze 1846; A. GIUSTINIAN, Dispacci, a cura di P. Villari, Firenze 1886.
CANSACCHI, cit., p. 83. L’autore fa senz’altro riferimento al doppio timbro coniato in sostituzione delle firme autografe del segretario e del duca (A. LUZIO, Isabella d’Este e Cesare Borgia, Milano 1916); il fac-simile del timbro «venne dal Luzio riprodotto da un documento dell’Archivio Gonzaga» (BELTRAMI, cit., p. 21).
A novembre Geraldini si affannava per ottenere un salvacondotto che consentisse al Borgia di partire da Ostia con le sue imbarcazioni; il tutto come da nota dell’ambasciatore veneto, riportante le parole del papa: «Ambassador l’è vero che questo Agapito mi sollecita che li faziamo scrivere (il breve) ma non farò niente anche se il Duca averà pur la conservazione dela vita da mi, cum quel che la sua malora l’ha robbato da questa Chiesa, potrà essere ben contento» (cfr. M. SANUDO, I Diarii MCDXCVI-MDXXXIII, Venezia 1879-1903, vol. II). Infatti, «il Papa attende alla distruzione del Duca ma non vuol che paia la cosa venire da lui» (GIUSTINIAN, cit.). Ed ancora, il 17 dicembre una lettera diretta al vescovo di Veroli, scritta in prigionia, ed invocante l’intercessione del cardinale «de Rhoano», è controfirmata Agapitus (BAV, cod. Vat. Lat. 6559, c. 132).
L’unico ritratto che ci resta del Geraldini (fantastico, evidentemente) è quello tracciato dalla penna di D. MERESKOVSKIJ (Leonardo – La resurrezione degli dei, Milano 1954, p. 428), che descrive un’udienza concessa dal Borgia a Leonardo nella residenza del palazzo municipale di Fano: «di tanto in tanto la porta si socchiudeva e il primo segretario Agapito, con un’aria da uomo sovraccarico di lavoro, gli occhiali sul naso e la penna dietro l’orecchio, faceva capolino nella sala invitando qualcuno a passare da Sua Altezza».
E. GAMURRINI, Istoria genealogica delle famiglie nobili di Toscana e Umbria, Firenze 1673, t. III, p. 170. Cfr. A. GERALDINI, Itinerarium, Torino 1991, p. 208: GAMURRINI (cit., II, p. 169) innesta l’albero dei Geraldini amerini tra i Gherardini fuggiti nel sec. XII «per non volere la guerra» al tempo delle discordie «tra i grandi che possedevano torri in Fiorenza» (G. VILLANI, Cronica, a cura di di I. Moutier, Firenze 1823). Nel 1172 Maurizio, Gherardo e Tommaso passarono in Francia al servizio di Ludovico il Grande; essi erano figli di Geraldino (o Gherardino) di Ottaviano di Uguccione di Cece, in un albero spinto fino a Rainerio (anno 910; cfr. GAMURRINI, cit., pp. 111 ss.). L’autore chiarisce che nella gran mole di atti pubblici medievali da lui consultata ha trovato indifferentemente «de Gerardini» ovvero «de Gherardini», poiché «in tutte le scritture antiche tanto vuol dire Gherardo, che Gerardo, come passim si legge» (GAMURRINI, cit., p. 115).
Il codice è intitolato De vita rev. in Chr. P. Angeli Geraldini episcopi Suessani et de totius familiae Geraldinae amplitudine , e ad esso abbiamo fatto riferimento per la Vita Angeli pubblicata nel «Bollettino di Storia Patria per l’Umbria», cit., p. 22. Cfr. altresì SENSI, cit., p. 69.
Ibid. Battista Geraldini era stato giudice ad Ascoli, Fermo ed Orvieto, di seguito luogotenente degli Aragona in Abruzzo, poi giudice a Milano (dal 1464 al 1467), quindi governatore della Corsica per gli Sforza. Sempre a servizio di costoro divenne, appresso, governatore di Milano dal 1468 al 1472. Fu, invece, Gerolamo Geraldini ad essere eletto podestà di Firenze nel 1474, mentre il fratello Giovanni Battista lo era ad Ancona.
A. OLIVA, Alessandro Geraldini e la tradizione manoscritta ecc., in AA.VV., Alessandro Geraldini e il suo tempo, cit., p. 189, n. 42.
Se ancora necessitasse una qualche riprova, nel sommario della Vita Angeli Antonio Geraldini scriveva che lo zio «fa eleggere vescovo di Catanzaro Giovanni suo fratello che tanto il Pontefice, che lo stesso re di Napoli preferiscono, per suo riguardo, a tutti gli altri concorrenti». Preciseremo che essa fu cattedra episcopale detenuta dai Geraldini, salvo breve intervallo, dal 1467 fino al 1570.
Per la società fondata ad Amelia nel 1491 da Angelo Antonio Geraldini e Battista di Andrea Laureli, dedita all’esercizio dell’arte della lana, cfr. dell’Autore RSS (cit.), nota 16 (v. nella precedente nota 61).
Citazione in MARCOLONGO, cit., p. 57. Cfr. P. LA MURE, La vita pivata di Monna Lisa, Milano 1978. In MERESKOVSKIJ (cit., p. 486) è scritto che, già ricchissimo, Antonio Maria era stato rovinato al tempo dell’invasione francese del 1495.
Quella vicinanza era dipesa in primis dal matrimonio di Bernardo Rucellai, famoso umanista, con Nannina, sorella di Lorenzo il Magnifico. I Rucellai ebbero 14 gonfalonieri ed 85 priori (cfr. Enciclopedia Italiana, Roma 1936, vol. XXX, p. 211, voce Rucellai).
LA MURE, cit. E’ oltremodo impegnativo, se costretti dalla scarsezza delle fonti, riportare notizie tratte da pubblicazioni romanzate e non sufficientemente autorevoli; è allora indispensabile limitarsi a casi estremamente sparuti e ben segnalati, utilizzando quel materiale con ogni necessaria cautela.
Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, a cura di M. Tabarrini - G. Milanesi, Roma 1890, p. XVII, nota 2 (tratto dal Codex Urbinas Latinus Vaticanus 1270, conosciuto come Codice Urbinate e conservato in BAV). La nota aggiunge che, nato nel 1460, Francesco del Giocondo morì di peste nel 1528.
C. STARNAZZI, Il Paesaggio della Gioconda, Arezzo 1994; Id., La Gioconda nella valle dell’Arno, in «Archeologia Viva», anno XV, n. 57 n.s., maggio 1996, pp. 40 ss.
VECCE, Leonardo, cit. , p. 325. Pedretti aveva riportato il riferimento, posto da alcuni studiosi, del «temporale sulla valletta» conservata nella raccolta di Windsor (nel disegno codificato con la sigla RL 12409, ma anche in 12405 e 12406) con lo sfondo della Gioconda, e che presenta «un identico fluire delle colline di primo piano» (PEDRETTI, Leonardo da Vinci inedito, cit., p. 22, nota 34).
N. Ja. BERKOVSKIJ, Leonardo da Vinci i voprosy Vozrozdenija [Leonardo da Vinci e le questioni rinascimentali], in «Stat’i o literature [Articoli letterari]», Moskva-Leningrad 1962.
Kemp è fra quanti ipotizzano che il paesaggio roccioso dello sfondo sia unicamente frutto degli studi geologici di Leonardo: M. KEMP, Leonardo. Le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, Milano 1982.
Madonna del garofano 1470 ss., Annunciazione 1475 ss., S. Girolamo 1480, Vergine delle rocce 1483 ss. La Gioconda può ricordare la prossimità ad un’altra opera del tempo, S. Anna, Madonna, Bambino e S. Giovannino, commissionatogli dai serviti della SS. Annunziata di Firenze, affinché fosse pala dell’altare maggiore della chiesa. Nel cartone preparatorio del 1501 (oggi a Londra) le figure e gli sfondi sono sensibilmente vicini all’Opera in oggetto, soprattutto i corpi che si intravedono sotto gli studiatissimi panneggi. Mentre questi, al contrario, appaiono tanto differenti da quelli raffigurati nella Vergine delle rocce di Parigi (ca. 1483-90) e da quella di Londra (ca. 1495-1501).
«Le grotte delle prealpi lombarde già esplorate da Leonardo speleologo», scriveva Longhi (R. LONGHI, Difficoltà di Leonardo, in op. cit., p. 686); era però una tesi già esposta nel 1952 nella sua rivista «Paragone», maggio, n. 29.
Vedasi il prelevamento di 50 fiorini larghi in oro effettuato il giorno 4 dal suo conto in Santa Maria Nuova (il 5 marzo secondo la nota in Cod. Atl., f. 77r).
BNN, ms. X.A.40, ove troviamo citati i «Gualano di Pisa»; ms. X.A.41, De l’arme dei cavalieri napoletani nobili fuor di piazza; ms. X.A.42, Famiglie ill[ustrissi]me nobili che sono delli cinque seggi di questa fidelissima città di Napoli.
Ha contribuito all’attribuzione di autenticità vinciana del dipinto l’esame dei colori e della tavola, che ha dimostrato la coincidenza del legno con lo stesso tronco da cui fu ricavato il supporto del ritratto di Cecilia Gallerani; cfr. John Pope-Hennessy, The Portrait in the Renaissance (New York 1963, Washington 1966), ove è citato lo studio di K. KWIATKOWSKI, La Dame à l’Hermine de Leonardo da Vinci, 1955.
PEDRETTI, all.to «Art e Dossier» n. 138, cit. Peraltro, non sembra che Pedretti abbia più direttamente sostenuto tale attribuzione (da lui ipotizzata nel 1973), neppure nella presentazione del saggio di Vecce.
F. ZÖLLNER, Leonardo’s Portrait of Mona Lisa del Giocondo, in «Gazette des Beaux-Arts», marzo 1993, pp. 115-138. Tuttavia l’autore non attribuisce alla Gherardini il ruolo di amica segreta di Giuliano de’ Medici; e, sempre a giudizio dell’autore, il ritratto, commissionato nel 1503, non sarebbe stato mai consegnato.
Citato in J. F. LASNIER, La Gioconda: troppo gialla perfino per i giapponesi, ne «Il Giornale dell’Arte», anno XVI, n. 169, Torino, settembre 1998.
Cfr., ivi, la lunga teoria di opinoni espresse da critici, storici e restauratori nettamente divisi tra i favorevoli ed i contrari al restauro.
Ripetiamo quanto già espresso nello studio: al di là delle considerazioni ricavabili dall’esame del manoscritto dell’Itinerario, è intuibile che il volto della Gioconda, se cominciato prima del 1514, è automaticamente incompatibile con un eventuale ritratto della Gualandi.
M. RIVIECCIA ZANIBONI, rivista «Historia», n. 183, Milano 1973. F. BOTTAZZI, Leonardo scienziato (a cura di L. Donatelli, F. Ghiretti, A. Russo), Napoli 1986, p. 378, nota 60.
Purtroppo solo la biografia romanzata di MERESKOVSKIJ (cit., p. 517) dà spazio a queste notizie, chissà come conosciute. E’ comunque singolare osservare che alcune notizie dettagliate su Leonardo, sul duca Valentino o su Agapito Geraldini siano state a disposizione del romanziere russo, e soprattutto segnalate in maniera più precisa da lui che non dagli storici del primo Novecento.
Per uno sguardo ai rapporti tra toscani e regno di Napoli nell’età aragonese, cfr. STORIA DEL MEZZOGIORNO, Napoli 1991-94, vol. IV, t. I, pp. 158 ss.
E’ il giudizio, largamente condivisibile, espresso da C. ELAM, direttore del «Burlington Magazine», ne «Il Giornale dell’Arte», cit.
W. PATER, Notes on Leonardo da Vinci, in «Fortnightly Review», novembre 1869, ripreso in Id., The Renaissance. Studies in Art and Poetry (ed. 1893) a cura di D. Hill, UCLA Press, Berkeley - Los Angeles 1980; la citazione è tratta dalla trad. italiana di Aldo De Rinaldis, Il Rinascimento. Studi d’Arte e Poesia, Napoli 1925, pp. 116-117. Chastel volle definire le pagine di Pater «fantasticherie […] sull’affascinante perversione della Gioconda» (cfr. CHASTEL, Leonardo, cit., p. 104).
Vers. 21/01/1999
Fonte: http://www.geraldini.com/documenti/Gherardina/Monna%20%20Lisa%20Gherardini.doc
La Gioconda di Leonardo da Vinci
Geometrie del sorriso
di Marco Bussagli
Sarà di certo capitato anche a voi, dopo aver superato con tenacia e pazienza il muro umano dei turisti imbambolati davanti al quadro più famoso del mondo, di farvi ammaliare dal fascino della Gioconda di Leonardo. Lo sfruttamento selvaggio dell’immagine, cui l’opera è stata sottoposta per anni, con un impiego smodato che ne ha veduto la riproduzione fin sui coperchi delle scatole dei cioccolatini, oppure l’impiego in ambito pubblicitario per reclamizzare una nota marca di acque minerali o, ancora, l’uso che gli artisti stessi ne hanno fatto, a cominciare da Duchamp che vi ha aggiunto i celebri baffetti, non ne hanno minimamente scalfito la bellezza, quando si abbia l’opportunità di vedere il capolavoro dal vero. Nel momento in cui la si guarda, a dispetto del vetro di protezione che la custodisce, Monna Lisa sembra volerti parlare e pare guardare te solo in un rapporto dialogico esclusivo, capace di essere intenso anche senza parole. Un simile effetto Leonardo dovette ottenerlo non soltanto con la magia dei toni e del celebre “sfumato leonardesco” che rende l’atmosfera brumosa e soffusa, ma, prima di tutto, dosando sapientemente quegli elementi che costituiscono lo schema della composizione.
Questione di rettangoli
Il motivo di tale coinvolgimento è da imputarsi, se non esclusivamente, certo in buona parte, al fatto che l’occhio sinistro della Gioconda, ossia il destro guardando la figura, giace esattamente sulla linea mediana dell’intera composizione. (Fig. 1) In altre parole: se si divide a metà il ritratto con una riga verticale, essa passerà per il centro della pupilla sinistra. Questo vuol dire che l’occhio dipinto si avvantaggia d’una simile posizione privilegiata e chi osserva monna Lisa negli occhi finisce per trovarsi, con lo sguardo, al centro del quadro. Non è tutto. Se si avrà l’accortezza di prendere in considerazione il lato lungo della tavola come se si trattasse di un segmento AB, e di ricavarvi la sezione aurea secondo il semplice metodo di costruzione geometrica che individuerà il punto X, sicchè AB : AX = AX : XB, non sarà difficile constatare che quella, ossia AX, copre la distanza fra il margine superiore della tavola e il muro che si eleva alle spalle della figura (Fig. 2). Se poi si avrà cura di spostare il segmento AB in modo che questo sia tangente all’angolo di quel che rimane della base di una delle due colonnine che simmetricamente dovevano inquadrare lo sfondo e la donna, si vedrà che su detto segmento è possibile costruire un rettangolo aureo che comprende l’intero dipinto, fino alla base dell’altra colonnina scomparsa . Si noti che, nella costruzione del rettangolo, il passaggio tecnico che vede l’individuazione della linea mediana che segna a metà il quadrato costruito sul segmento aureo, passa esattamente per la bocca di monna Lisa contribuendo a segnare giusto il punto nel quale Leonardo dipingerà l’enigmatico sorriso (fig.3). In ogni modo, con la realizzazione del rettangolo aureo, la figura della donna è, in pratica, tutta contenuta all’interno della nuova figura geometrica. La costruzione del rettangolo aureo spiega anche l’inclinazione e la collocazione delle mani di Monna Lisa. Le diagonali del rettangolo che eccede il quadrato costruito sul segmento aureo segnano, infatti, le posizioni delle mani della donna. Ma l’immagine nasconde anche altri segreti compositivi impostati sull’impiego di opportune figure geometriche. Considerando la linea mediana della tavola, già individuata in precedenza, si possono disegnare, entro i lati lunghi del rettangolo aureo, due circonferenze d’identico raggio i cui perimetri siano, a loro volta, reciprocamente tangenti a livello della scollatura dell’abito della donna che viene così disegnata dal cerchio superiore il quale, a sua volta, ha il centro nell’occhio della figura. Ancora: dal punto d’intersezione della linea mediana della tavola con il cerchio superiore, è possibile far discendere un triangolo isoscele la cui base giace sulla linea d’angolo del muro che fa da sfondo a mona Lisa. In questo modo la parte superiore della figura è completamente contenuta dal triangolo stesso. Poi, prendendo in considerazione soltanto il cerchio superiore, non sarà difficile constatare che, all’interno di questo, è possibile individuarne un altro, concentrico, che segna l’ingombro della testa della Gioconda definendone così l’altezza (visto che è tangente all’angolo del mento) e la curva del cranio coperta dai capelli scriminati . Tenuto conto dei punti di tangenza fra la testa della donna e il cerchio appena disegnato, sarà abbastanza facile intuire che la figura geometrica che ha guidato le scelte di Leonardo deve essere stata quella dell’ottagono. Iscritto nella circonferenza e orientato opportunamente questo sarà infatti tangente all’angolo inferiore del mento, al margine inferiore della mandibola, a parte del velo, a due punti della calotta cranica e al velo che scende lungo il collo per un totale di cinque punti su otto che denomineremo con altrettante lettere. Allora, se si avrà l’accortezza di unire l’angolo in C con quello in F con un segmento, per farlo intersecare dalla linea mediana del volto che passa per la scriminatura della fronte, il dorso del naso e il tubercolo del labbro superiore, s’individuerà un punto O, che giace al centro della fronte. Da qui, aprendo il compasso con lo stesso raggio della circonferenza in cui è iscritta la testa della figura, si potrà tracciare il cerchio che sottende all’andamento enigmatico del sorriso di monna Lisa. Si otterranno così due cerchi uguali, con i rispettivi centri sul medesimo asse, ma eccentrici fra loro di poco meno della metà del raggio.
Coincidenze evidenti
Come spesso accade, i dubbi che emergono dopo una simile lettura dell’opera d’arte cadono sull’intenzionalità o meno delle coincidenze rilevate. In altri termini, potrebbe essere il critico ad aver visto quello che, in realtà, non c’è e quella che potremmo chiamare evidenza geometrica potrebbe essere né più né meno che frutto del caso. Uno strumento utile per tentare di rimuovere queste riserve, risiede nell’analisi della personalità dell’artista preso in esame. E’ del tutto evidente, infatti, che se il pittore avesse una formazione culturale e degli interessi lontano da questo tipo di problematica apparirebbe difficile convincersi che quel che si è visto sotto la “pelle” del quadro sia stato veramente voluto. Non è questo il caso di Leonardo. Basterebbe l’insistenza con cui Luca Pacioli ricorda, nell’introduzione al suo De divina proporzione, che sia stato proprio il genio vinciano a disegnare tutte le figure di solidi geometrici che illustravano il manoscritto originale del suo libro, per fugare i dubbi . E’ quello un libro nel quale il frate di Borgo Sansepolcro aveva riversato tutto quel sapere geometrico che, partendo da Euclide “nostro philosopho”, era poi applicato alle arti figurative. Una tale collaborazione sarebbe di per sé sufficiente a dimostrare che per Leonardo la geometria descrittiva e, in particolare, l’impiego della sezione aurea, che costituisce l’argomento del testo di Pacioli, non doveva avere segreti di sorta. Non basta: un’ulteriore conferma delle scelte e degli interessi del grande artista provengono da alcuni passi del Trattato della pittura. Nei paragrafi preliminari, infatti, il Vinciano affronta una serie di problematiche come quella della comparazione fra le arti. L’idea che la pittura sia la regina delle arti e che questa sia strettamente legata alle scienze “matematiche cioè numero e misura, dette aritmetica e geometria, che trattano con somma verità della quantità discontinua e continua. Qui non si arguirà che due tre facciano più o men che sei, né che un triangolo abbia i suoi angoli minori di due angoli retti, ma con eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono fruite dai loro devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali. E se tu dirai tali scienze vere e note essere di specie di meccaniche, imperocché non si possono finire se non manualmente, io dirò il medesimo di tutte le arti che passano per le mani degli scrittori, le quali non sono di specie di disegno, membro della pittura: e l’astrologia e le altre passano per manuali operazioni, ma prima sono mentali com’è la pittura, la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione” . In altre parole, la pittura nasce da un’operazione mentale che diviene concreta utilizzando quei principi matematici e scientifici alla base della pittura stessa (prospettiva, composizione, geometria) così da farla pervenire alla perfetta realizzazione grazie a quel processo manuale comune anche a quelle scienze che parrebbero solo mentali, come appunto la matematica e la geometria. Si tratta infatti di quella “manuale operazione” necessaria per evitare che la pittura possa confondersi con le “bugiarde scienze mentali”. Non solo, ma se con la mente voliamo alle implicazioni geometriche che sottendono la costruzione del celebre Uomo vitruviano, ritroviamo già in quel disegno il modo di procedere che ora è emerso dall’analisi della nostra opera. “Non mi legga, chi non è matematico nelli mia principi”, scriveva l’artista in margine a un foglio di studi anatomici conservato a Windsor . Mi pare che ce ne sia abbastanza per ritenere intenzionale la costruzione geometrica che sottende la Gioconda.
Vera e propria icona della pittura, la Gioconda è stata sottoposta a quella che potremmo definire un’usura d’immagine” così grande da non avere il minimo paragone con tutte le altre, sia pure celebri, opere d’arte del Rinascimento italiano. Basterà ricordare che nel Paese dei balocchi del Pinocchio disneyano del 1939, l’opera giace da una parte mentre i monelli ci scarabocchiano sopra. Una carrellata delle operazioni più o meno discutibili che hanno interessato l’opera sta in: L’opera completa di Leonardo pittore, a cura di di A. Ottino Della Chiesa, Milano, 1978; p. 105. Sul valore e il significato dell’operazione di Duchamp, si veda: m. Calvesi, Duchamp “Art e Dossier”, 78, 1993, p. 38; Id., Il sesso della Gioconda, “Art e Dossier”, 31, 1989, pp. 30-35.
Lo stato è buono, anche se si ipotizza una diminuzione del supporto lungo i fianchi di circa sette millimetri, che, però, non pregiudicherebbe in alcun modo il tipo di costruzione geometrica da noi rilevata che è tutta interna alle colonnine. Sullo stato dell’opera: F. Hours, La Joconde, Parigi 1952.
“Di aritmetica si occupò appena; assai più lo interessò la geometria, dai fondamenti euclidei a speculazioni sul tipo “ludi matematici”. Già a Milano fra il 1494 e 1498 raccolse in due taccuini le proposizioni geometriche principali che costituivano – per l’arte di quel secolo – il fondamento della prospettiva e quindi il “fondamento scientifico” della pittura. Suo consigliere fu prima d’ogni altro Luca Pacioli per la cui opera […] Leonardo disegnò le figure geometriche e le rappresentazioni in prospettiva dei corpi regolari”. Da L.H.Heydenreich, s.v. Leonardo da Vinci, in Enciclopedia Universale dell’Arte, VIII, Venezia-Roma 1958, col. 579. Si veda pure : Ch. Bouleau, La geometria segreta dei pittori, Milano 1996, pp. 85, 86 e 117. Sul numero aureo, sulla costruzione del segmento aureo e del rettangolo che ne deriva: M. Ghyka, Le nombre d’or. Rytes et rythmes pytagoriciens, I, Parigi 1931, pp. 43-56. Il testo porta riprodotti anche i poligoni leonardeschi delle tavole VII-IX e la costruzione geometrica che sottende il celebre cartone con il Ritratto d’Isabella d’Este, pure conservato al Louvre. Sulla figura di Pacioli e sul suo ritratto a opera di Iacopo de’ Barbari: M.G. Ciardi Dupré dal Poggetto, Il ritratto di Luca Pacioli e di Guidobaldo da Montefeltro, in P. Dal Poggetto (a cura di), Piero e Urbino, Piero e le Corti rinascimentali, catalogo della mostra, Urbino, Palazzo ducale 24 luglio-31 ottobre 1992, Venezia 1992, pp. 197-204.
Fonte:http://matematica-old.unibocconi.it/leonardo/Geometrie%20del%20sorriso.doc
LA Gioconda Louvre
Secondo le tradizioni sarebbe il ritratto di Monna Lisa Del Giocondo, una nobil donna fiorentina eseguito tra 1503/07. Però ci sono delle incongruenze tra l’aspetto della donna del quadro e le descrizioni di Monna Lisa che ci sono giunte. Il Vasari la descrive come una donna con gli occhi acquitrinosi, una fossetta sul collo, la carnagione rosata, dei peli. Le ipotesi sono tre: la descrive così di proposito per vendetta personale; perchè era brutta; descrive una donna diversa credendola Monna Lisa. Antonio De Bertis,un colto aristocratico fiorentino contemporaneo di Leonardo gli fece visita quando lui era in Francia, sotto invito di Francesco I (ad Ambois). Al ritorno da questa visita descrive un quadro che lo ha colpito “ una dama nobil fiorentina facta de naturale ad istanzia del del quondam Giuliano De Medici (una nobil donna fiorentina fatta dal vivo su commissione del signor Giuliano De Medici. Nel 1513 Giuliamo è a Roma con la sua amante Isabella Gualandi e in questo viaggio da Firenze a Roma si porta dietro Leonardo. Da questo si può dedurre che il durante il viaggio abbia dipinto la Gioconda perchè quando Leonardo va in Francia ( ) si porta dietro un solo quadro, ancora da terminare ( lo sfondo lo finisce ad Amboise). Concludendo Antonio De Beatis se ha visto un solo quadro il quale è stato completato in Francia può essere solo il ritratto di Isabella Gualandi. Ci sono più probabilità che sia il ritratto di Isabella che di Monna Lisa. Il dipinto ha subito delle modifiche. In origine la donna era affacciata su un balcone che ora è poco visibile sulla sinistra. Il paesaggio è visto dall’alto. La tavola è stata segata ai lati.
Provato che non è certo il soggetto del dipinto, se si tratta di Monna Lisa Del Giocondo è datata 103/07, se si tratta di Isabella Gualandi si data 1515. una delle peculiari caratteristiche di Leonardo è per l’ennesima volta questo studio approfondito delle mani. Il dipingere le mani è una delle poche cose che ricordano la sua formazione nella bottegha del Verrocchio dove Leonardo apprende alcune nozioni di anatomia. Studia la struttura ossea, cartilaginea etc...
Fonte: http://www.blocconote.it/alisce/scuola%5Carte%5C02.%20LEONARDO%20DA%20VINCI.doc
Autore: non identificato nel documento di origine del testo
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