Il mondo delle scoperte
Il mondo delle scoperte
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Le dimensioni della vita.
L'Europa e il mondo alla vigilia e durante l'età delle grandi scoperte geografiche
Oltre la fascia dei popoli civilizzati.
Il regno dei nomadi e delle fiere
Quando Lorenzo il Magnifico s'illudeva di assicurare con la sua politica il precario equilibrio della penisola italiana e il re cattolico Ferdinando d'Aragona poneva termine all'estrema resistenza di Granada, il paesaggio del mondo, pur essendosi notevolmente popolato rispetto alla seconda metà del Trecento, era pur sempre come Ludovico Ariosto, di lí a pochi anni, lo avrebbe descritto nel suo Orlando Furioso: un paesaggio essenzialmente rurale, in cui la maggior parte del suolo è occupata da foreste, pascoli e colture, e la stragrande maggioranza degli abitanti vive sulla terra e della terra, lontano dalle città, dispersa in borghi, in cascine, in casolari.
La percentuale della popolazione rurale nel mondo oscilla alla fine del XV secolo fra 1'80 e il 90 per cento. E una percentuale piú alta nelle zone meno fittamente popolate, in cui sull'agricoltura prevale spesso la pastorizia; è piú bassa, invece, nelle aree in cui la densità demografica supera la soglia dei venti abitanti per chilometro quadrato. Dove la densità della popolazione è minore, nelle zone di confine ai margini delle grandi aree civilizzate, restano vasti spazi aperti per i popoli nomadi, che vivono di allevamento, di caccia e di razzie. Sono i tartari che premono contro i confini polacchi, e compiono spesso rapide incursioni attraverso la boscosa Transilvania, ricca di foreste e di monti, ma punteggiata da pochi insediamenti umani; i mongoli che minacciano da sempre l'impero cinese.
Il vecchio continente, anzi, si può ritenere, rispetto agli altri, privilegiato: i popoli dell'est, i russi che incrementano in questo periodo la loro penetra zione verso oriente, lo proteggeranno dal grosso delle invasioni. Dove non sono neppure gli uomini, o dove questi si fanno troppo radi, comincia il regno degli animali selvatici, e spesso delle bestie feroci. Un regno che spesso anche nei paesi piú fittamente popolati è a stretto contatto con quello degli uomini. In molte popolose regioni dell'Asia è facile imbattersi, nella stessa periferia dei centri abitati, in tigri e in altre fiere. Lo stesso vale, a maggior ragione, per l'Africa nera. Ma non esistono motivi per attribuire al fenomeno un colore esotico: nella stessa Europa gli orsi popolano tutte le montagne, mentre i lupi si aggirano nelle campagne e a volte nelle stesse adiacenze delle città, se non all'interno di esse. Basta un inverno piú rigido, un periodo di crisi economica, un momento di disattenzione nella lotta contro gli animali selvatici perché la situazione precipiti. A Parigi i lupi entrano in branco a piú riprese, ancora nel Quattrocento, attraverso brecce nelle mura e porte mal sorvegliate: li si possono incontrare fra Montmartre e la porta Saint Antoine.
Un mondo ancora agricolo. Il dramma delle stagioni e il peso del clima
Questo mondo in prevalenza allevatore e contadino risente in misura oggi quasi incredibile dei fattori biologici e delle evoluzioni del clima. Consideriamo un'epoca in cui la situazione alimentare è ovunque precaria, molto comune è l'abitudine ad accumulare scorte di derrate, essenziale per qualsiasi nucleo familiare come per ogni centro urbano, e l'uomo guarda al cielo con molta piú apprensione di quanto non faccia oggi, e continua come nel medioevo a vivere col tempo - inteso in senso sia cronologico che atmosferico - un rapporto ben piú drammatico e intenso. Intorno al succedersi dei mesi e delle stagioni, degli equinozi e dei solstizi, ruota ancora nel corso dell'età moderna l'esistenza della stragrande maggioranza degli uomini. Al percorso dell'anno che nasce e che muore sono ispirati i miti di tutte le grandi religioni popolari. Le stesse stagioni non appaiono ai nostri antenati come una semplice, variopinta successione di climi e di colori.
La primavera, ad esempio, non è ancora, nelle campagne dei primi secoli dell'età moderna, la dolce divinità floreale raffigurata dalla pittura rinascimentale. Essa resta piuttosto il "tempo terribile" in cui si decide il destino del raccolto, in cui il sole o la pioggia divengono arbitri del benessere o della carestia, dell'abbondanza o della fame future. Lo stesso vale, sia pure in minor misura, per le altre stagioni: I'estate in cui si miete il raccolto, I'autunno in cui si semina, il freddo e lungo inverno in cui si dà fondo alle ultime scorte alimentari dopo aver macellato il bestiame che sarebbe troppo costoso mantenere per il resto dell'anno.
Le grandi carestie ed epidemie, favorite spesso dalla diffusa denutrizione; le fasi d'incremento demografico e quelle di recessione, che caratterizzano simultaneamente tutti i continenti del globo, risentono di questi alti e bassi del clima. Per larga parte dell'età moderna, fino al Settecento, l'andamento demografico europeo continuerà a subirne le conseguenze, alternando fasi di crescita a periodi di calo. Solo a partire dal XVIII secolo la popolazione del vecchio continente prenderà definitivamente a salire, con un netto sopravvento delle nascite sulle morti che sino a quel periodo si era verificato solo in archi di tempo relativamente brevi.
Tre colture e tre culture: riso, frumento, mais
All'interno della fascia di territori dediti all'agricoltura, il suolo colonizzato è conteso da tre grandi coltivazioni, cui non corrispondono solo altrettanti modi di nutrirsi e di lavorare i campi, ma anche tre grandi forme di organizzazione sociale. Si tratta del riso, del frumento e del mais. Ognuna di queste colture ha i suoi pregi, le sue responsabilità, le sue caratteristiche. Ciascuna di esse finisce per influire non solo sul paesaggio, ma anche sulla mentalità, la storia, le stesse strutture politiche delle popolazioni che la praticano.
Una monocoltura tirannica: il riso
Fra queste tre grandi colture il riso è senza dubbio la piú redditizia. Un ettaro di risaia assicura spesso sino a venti quintali di prodotto pronto per il consumo, contro i cinque quintali che un campo seminato a grano continuerà a garantire sino alla seconda metà del Settecento. Di qui la sua capacità di assicurare ieri come oggi sia pure a prezzo di un lavoro assiduo ed estenuante - l'alimentazione, o la sottoalimentazione, delle aree piú densamente popolate del subcontinente asiatico.
Ma, insieme a questo innegabile vantaggio, il riso presenta pure alcune pesanti responsabilità dinanzi alla storia delle popolazioni a esso legate. Questa monocoltura spesso tirannica assorbe tutte le energie della popolazione, distraendo i coloni dalla tentazione di dedicarsi ad altre attività agricole e vincolandoli di conseguenza a un'alimentazione priva di varietà e povera di proteine. Nei paesi dell'Estremo Oriente, il riso costituisce il 90 per cento dei pasti quotidiani; con esso si fa di tutto, persino un'acqua vite e un vino ad alta gradazione alcolica. Ma l'autosufficienza alimentare che esso garantisce distoglie i popoli civilizzati della pianura dallo sfruttamento delle zone collinari o montagnose adatte alla pastorizia. Lo scacchiere preciso delle risaie, alimentate da un complesso meccanismo d'irrigazione, implica per di piú un sistema razionale di sfruttamento del suolo, ma anche criteri altrettanto rigorosi nell'organizzazione della società. Per sfruttare a fondo il terreno, occorre infatti sfruttare altrettanto a fondo l'uomo con le sue potenzialità lavorative. I grandi imperi dell'Oriente, il sistema delle caste in India e il predominio in Cina della classe dei mandarini sono anch'essi figli del tipo di società reso possibile dal predominio incontrasta to di questo tipo di coltura.
Una coltura del sottosviluppo: il mais
Molto diverse le caratteristiche del mais, o granoturco, originario dell'America latina, prima di diffondersi sotto varie forme e con diverse denominazioni in tutta Europa e nella stessa Asia. Anche il rendimento di questa pianta è assai piú alto di quello del grano; e, per di piú, la sua cokivazione richiede un impegno assai minore di quanto non ne esigano il riso e lo stesso frumento: secondo calcoli recenti, solo sessanta giornate lavorative l'anno. Anche in questo caso, però, la medaglia presenta il suo rovescio. La coltivazione del mais lascia effettivamente inoperosi per sei giorni su sette i contadini; ma si tratta di un ozio che i governi si affrettano comunque a riempire. Le grandi opere pubbliche, i grandiosi palazzi, le mura ciclopiche che caratterizzano le civiltà azteca, maya, incaica dell'America centro-meridionale sono, sia pure indirettamente, conseguenza della vasta disponibilità di manodopera che questa coltura poco impegnativa assicura a uno stato teocratico e tirannico, grazie allo sfruttamento di un ceto contadino povero, fiacco, denutrito o peggio mal nutrito. Il mais, infatti, è un cibo incompleto, e avrebbe bisogno di un'integrazione di proteine che l'economia sudamericana non assicura, almeno alle classi piú povere, alla fine del Quattrocento, come del resto in certi casi continua a non assicurarla ai nostri giorni.
Un tubero di grande avvenire: la patata delle Ande
Piú conveniente, almeno sotto il profilo energetico, si presenta la patata, inizialmente coltivata da popolazioni che, migrate dalla terribile foresta amazzonica, si sono stabilite nel corso del XV secolo sulle cime delle Ande, a un'altitudine dove neppure il mais, che pure cresce sino a 3600 metri, è in grado di attecchire.
La patata andina - o, nel linguaggio dei naturalisti, il solanum andigenum - presenta caratteristiche destinate a farne uno straordinario protagonista della storia alimentare non solo dell'America, ma dell'intero mondo occidentale. Un ettaro coltivato a patate consente di sfamare un numero di persone quadruplo rispetto a un ettaro coltivato a grano e la sua coltivazione richiede un impegno lavorativo relativamente modesto. Per di piú a queste caratteristiche, che ne fanno il cibo piú economico scoperto dall'uomo, il solanum abbina qualità nutritive nettamente superiori a quelle del mais. A differenza di questa coltura, infatti, la patata contiene vitamina C che sottrae chi se ne ciba ai pericoli dello scorbuto e alle tare della denutrizione. Tutti questi requisiti ne faranno un cibo ideale per i ceti piú poveri di tutti i continenti.
Un paesaggio piú vario: la civiltà del frumento
Piú nutriente del mais, meno esigente del riso, è invece il frumento, coltivato, insieme a molti altri grani, in Europa. Peccato soltanto che il suo rendimento sia cosí basso, rispetto all'una e all'altra di queste colture. Fino al Settecento, un chicco di frumento, alla raccolta, non ne rende in media che altri cinque: accantonandone almeno uno per la futura semina, non ne restano che quattro per il consumo. Per di piú, in mancanza di concimi chimici, il frumento non può essere coltivato senza grave danno per piú di due anni di seguito sullo stesso terreno. Si rende cosí necessario un complesso sistema di rotazione delle colture. L'agricoltura convive in Europa con l'allevamento, reso necessario dall'esigenza di bestie da tiro e di letame per la concimazione e praticato spesso col sistema della transumanza, tanto piú che solo una parte del territorio di ogni villaggio è occupata da campi coltivati, e tutto intorno rimangono boschi, terre incolte, prati. Si deve anche a questo se l'alimentazione in Europa è stata sempre assai piú ricca di proteine rispetto a quella dell'Estremo Oriente e dell'America. Il mondo del grano è di conseguenza un mondo piú aperto e piú vario rispetto a quello del riso, piú ricco in confronto a quello del mais. Non è certo grazie solo a queste migliori condizioni alimentari e ambientali che l'Europa alla fine del XV secolo può iniziare la sua grande avventura sugli oceani alla conquista di nuovi imperi e nuove terre. Ma forse non è un caso se proprio nel variegato paesaggio rurale del vecchio continente matura un nuovo tipo umano desideroso di varcare i confini di un mondo che ormai gli rimane stretto.
L'Europa all'alba delle grandi scoperte
Un mondo stretto
Nell'ultimo scorcio del XV secolo, entro i confini del vecchio continente secondo stime approssimative ma attendibili, vivevano 45 milioni di uomini. Di conseguenza, una proporzione di poco meno di 5 abitanti per chilometro quadrato, comprendente però anche l'odierna Russia e i paesi baltici, in molti casi ai margini della civiltà europea e prigionieri di una prolungata preistoria. Era ben poca cosa, rispetto alle medie attuali; ma era parecchio di piú in confronto alle percentuali della seconda metà del Trecento, il secolo della grande peste e della grande crisi. Era una densità che collocava l'Europa, almeno quella occidenta le, in testa fra i continenti piú popolati del globo. E soprattutto, come già sappiamo, era una percentuale che tendeva a salire. Sia pure con un ritmo diverso da paese a paese, da regione a regione, la popolazione europea riprende infatti ad aumentare a partire dalla seconda metà del Quattrocento. A consentirglielo è, secondo le opinioni piú accreditate, una favorevole congiuntura climatica comune all'intera crosta terrestre: assicurando raccolti piú ricchi e migliori condizioni di vita, essa favorisce ovunqueun notevole incremento demografico. La popolazione europea cresce dapprima e piú rapidamente in Italia, in Francia, in Castiglia e nei Paesi Bassi; piú tardi, e con maggior lentezza, in Inghilterra, in Svizzera, in Catalogna. Aumenta nelle città, ma anche nelle campagne, in cui, dietro la pressione demografica, si realizza ovunque uno sforzo considerevole per la riconquista all'agricoltura di quelle terre che nella crisi del Trecento erano state abbandonate, e per la messa a coltura di nuove.
In testa al movimento è la Lombardia: nella seconda metà del secolo questa regione vede assicurata la fertilità delle proprie campagne da un'intensa opera di canalizzazione, che trasforma terreni in precedenza poco fecondi in risaie e marcite, ossia prati continuamente irrigati per favorire la crescita del foraggio. Ma dal Polesine all'Emilia, dalla Maremma alla Terra di Lavoro (nell'odierna provincia di Caserta), dalla Calabria alla Sicilia la tendenza non risparmia le altre regioni della penisola. E non soltanto della penisola: è di questo periodo la colonizzazione della pianura orientale della Corsica, intrapresa dai genovesi.
Un mondo chiuso
Alla fame di terre degli agricoltori corrisponde da parte dei ceti commerciali la sete di nuovi mercati e la ricerca di nuove rotte. Da un punto di vista quantitativo, quello che oggi definiremmo il settore terziario occupa nel tardo Quattrocento uno spazio estremamente limitato. In questo periodo la percentuale della popolazionerurale si aggira fra 1'80 e il 90 per cento del totale. Come testimonia l'esiguità degli insediamenti cittadini, nella maggior parte d'Europa l'aratro ha ancora la meglio sul commercio, oltre che sull'industria, sul credito, sulla burocrazia, sulla stessa spada. Tuttavia, anche se rappresentano una minoranza, i mercanti costituiscono una minoranza che influisce o si avvia a influire sulle vicende storiche in misura assai superiore rispetto alle masse rurali. Già da tempo, a partire dal declino della società feudale, banchieri e commercianti hanno accresciuto il loro peso sociale e politico. Nel corso del XV secolo sono riusciti a realizzare una piú razionale organizzazione del lavoro, elaborando nuovi istituti in grado di assicurare maggiore elasticità e dinamismo alla loro attività in continua crescita. In questo periodo conoscono un processo di trasformazione le grandi compagnie a struttura accentrata, in cui le difficoltà economiche di una filiale si ripercuotono sul patrimonio dell'intero organismo. Per ovviare al pericolo di crisi e di fallimenti a catena, si tende a ristrutturarle in società formalmente indipendenti, anche se controllate di fatto da una stessa persona o da una medesima famiglia. Nel frattempo vengono introdotti nuovi strumenti di tecnica commerciale, come la «girata», il premio di assicurazione, la lettera di cambio. Ma piú di tutto indicativa dell'evoluzione della mentalità mercantile è, nel 1494, l'invenzione della partita doppia, attribuita a Luca Pacioli. Anche per questo, se per il contadino francese o italiano, polacco o baltico, l'Europa è un continente che incomincia ad andare stretto, ma che si può sempre allargare attraverso un pesante ma non avventuroso lavoro di colonizzazione, per il mercante essa incomincia a risultare un mondo chiuso: che si può aprire solo navigando.
Il problema delle relazioni con l'Oriente
Pesanti inoltre risultanole ripercussioni esercitate sugli scambi con l'Oriente dall'accresciuta domanda di prodotti esotici in un secolo, il Quattrocento, nel quale il mercato delle spezie conosce in Europa un considerevole ampliamento in seguito all'ingresso di pepe, cannella e chiodi di garofano anche nelle abitudini alimentari dei ceti medio-bassi. Come infatti già sappiamo, la conquista turca dei territori lungo i quali scorreva l'antica via delle Indie non ha impedito a lungo gli scambi fra Europa e Asia; ma ha riproposto con sempre maggior insistenza, sia nei nuovi stati nazionali che nelle repubbliche marinare rivali della Serenissima, la tentazione di aggirare, navigando, il monopolio del commercio indiano, ormai detenuto da Venezia.
Un'antica nostalgia dell'ovest
Dei lontani itinerari verso l'ovest, tramandati da remote cronache islandesi come da tradizioni diffuse fra la gente di mare, è probabilmente a conoscenza lo stesso futuro scopritore dell'America. Il cardatore genovese, poi marinaio e ammiraglio di Sua Maestà il re di Spagna, Cristoforo Colombo, nel corso della sua permanenza nel porto inglese di Bristol poté avere notizia delle antiche saghe della mitica Vinland, la terra felice dei prati verdi e del vino toccata un giorno dalle navi vichinghe. Comunque sia, è certo che una sorta di favolosa nostalgia del misterioso Occidente nascosto dietro la massa d'acqua dell'Atlantico ispira da tempo tanta parte della mitologia e del patrimonio culturale dei popoli europei: in particolare di quelli piú vicini - come i celti e i vichinghi - alle coste dell'oceano.
La piú remota antichità aveva creduto nel mito - poi tramandato alla storia dal filosofo greco Platone - di un continente d'Atlantide la cui scomparsa avrebbe rappresentato per l'uomo europeo il distacco da una superiore civiltà occidentale. Le piú antiche leggende celtiche parlano anch'esse di favolose isole dei Beati - equivalenti del greco Giardino delle Esperidi - che poi sarebbero divenute, nei volgarizzamenti d'epoca cristiana, meta dei viaggi di San Brandano descritti da tanta letteratura medievale. Neppure il medioevo era rimasto infatti immune da questa primordiale nostalgia dell'ovest legata al mito del sole che nasce e che muore, che sorge e che tramonta, ma che dopo il suo tramonto continua a illuminare le terre situate al di là dell'orizzonte atlantico. La tendenza a mitizzare l'Occidente era stata condivisa anche da Sant'Agostino, secondo il quale, se esisteva una quarta parte di mondo oltre al Nord (l'Europa), al Sud (la Libia, termine con cui veniva denominata l'intera Africa) e all'Oriente asiatico, questa non poteva essere una parte di terra abitata o abitabile, ma solo una distesa d'acque popolata da spiriti demoniaci o divini. Nei romanzi cavallereschi del ciclo brettone la mitica isola di Avalon presente nelle leggende celtiche si trasforma nell'«isola dei meli» in cui re Artú dorme in attesa del suo risveglio. Per non parlare di Dante, che nell'episodio di Ulisse colloca l'Eden al di là delle acque tempestose dell'Atlantico, come di quelle remote leggende di cui pure a Colombo doveva essere arrivata una lontana eco.
Ma Colombo non è il primo a obbedire a questa spinta verso ovest, dettata sia da spirito di avventura che da preoccupazioni di ordine economico. Già due secoli prima della sua impresa due fratelli genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi avevano cercato, circumnavigando l'Africa, di raggiungere un passaggio per le Indie, e non erano tornati, entrando cosí nella leggenda. Una leggenda in piú fra le tante che, come si è visto, circolavano allora sull'oceano e le sue acque inospitali.
Un nuovo modo di navigare: dalla galea alla caravella
A renderne possibili i successi sono senza dubbio i progressi dell'ingegneria navale e delle tecniche di governo delle imbarcazioni. Negli ultimi secoli del medioevo i naviganti, oltre ad adottare la bussola, perfezionano la loro capacità di servirsi dell'orientamento celeste, mediante l'astrolabio, uno strumento che permette di misurare l'altezza di una stella rispetto all'orizzonte, e in questo modo si liberano finalmente della schiavitú della navigazione sotto costa; s'impratichiscono con le correnti dell'Atlantico e con i venti che soffiano su questo oceano. Ma, soprattutto, il Trecento e il Quattrocento costituiscono per le marine europee un'epoca di grandi innovazioni e di fecondi rapporti fra nord e sud, fra Atlantico e Mediterraneo. All'Atlantico, il Mediterraneo procura la vela latina. Questa vela di forma triangolare, ormai divenuta un simbolo dei nostri mari, è un'innovazione abbastanza recente. A introdurla nel Mediterraneo, nel pieno della loro potenza, furono gli arabi, che a loro volta l'avevano ripresa dagli indiani, cui l'avevano vista utilizzare nel golfo di Oman. Anche le flotte cristiane l'adottarono per la sua maneggevolezza, con la quasi esclusiva eccezione dei bizantini; solo le marine del nord, già evolute tecnicamente e di conseguenza poco permeabili all'influsso straniero, rimasero in prevalenza fedeli a quella vela quadrata che aveva costituito il tradizionale appannaggio dei popoli mediterranei, dai fenici ai romani. Ci volle la serrata concorrenza del naviglio dell'Europa meridionale - che a partire dal 1297, data del primo viaggio sino al porto di Bruges delle galere genovesi, cominciò ad annettersi il miglior traffico del nord - perché le marine settentrionali comprendessero a loro spese i vantaggi di quel tipo di velatura piú snella e piú agile. Il Portogallo, data la sua situazione geografica piú sensibile all'influsso islamico, è il primo ad adottare la maneggevole vela latina, cioè araba, cioè indiana, che ben presto viene impiegata da tutte le flotte atlantiche. Ma, a loro volta, queste sono in grado di fornire ai costruttori navali mediterranei qualcosa di valido: il timone assiale, maneggiato all'interno della nave e detto anche timone a ruota di.poppa, che consente di navigare controvento, e gli scafi con i bordi a clivio, che permettono all'acqua rovesciata sul ponte di defluire subito, senza invadere le stive.
Dalla sintesi fra pesanti imbarcazioni mediterranee e agili legni nordici deriva infatti un nuovo tipo d'imbarcazione destinato a svolgere un ruolo di fondamentale importanza nella navigazione oceanica: la caravella portoghese. Nata intorno al 1430, la caravella è un piccolo veliero a tre alberi col timone assiale e i bordi a clivio. Due delle vele sono quadrate: usate nel senso della larghezza della nave, sono adatte a ricevere il vento in poppa; l'altra vela, triangolare, serve a orientare la nave e ne rende piú agevole la manovra.
Creata per il commercio e per la pesca d'alto mare nei ricchi fondali atlantici, la caravella diviene ben presto la protagonista dei viaggi di scoperta.
Il ruolo delle monarchie nazionali
Prendiamo ora in esame la situazione in cui versano nello stesso periodo i piú importanti stati nazionali dell'Europa occidentale. A parte infatti il pericolo turco, che tuttavia nessuna di esse, a parte l'Austria degli Asburgo, si trova a dover fronteggiare direttamente, queste monarchie non vedono per il momento minacciata da alcuna potenza extraeuropea la loro integrità territoriale. Alcune hanno terminato, come il Portogallo, o, come nel caso della Spagna, si apprestano a concludere la riconquista del loro suolo dai mori; ma anche le altre, come l'Inghilterra e la Francia dopo la guerra dei cent'anni, sono sulla buona strada per ultimare il loro programma di unificazione nazionale. Questí stati nazionalí in formazione hanno dunque tutto da guadagnare dall'applicazione delle nuove tecniche nautiche, cosí come non hanno avuto altro che vantaggi dai progressi della tecnologia militare. Ripagando in pieno gli investimenti iniziali, i grandi viaggi di scoperta consentono loro sia di finanziare il proprio ulteriore sviluppo burocratico e militare, sia di risolvere a loro beneficio le tensioni presenti al loro interno e in particolare il disagio economico che già nel corso del Quattrocento ha iniziato a manifestarsi soprattutto all'interno di un'aristocrazia impoverita. E cosí un duplice beneficio quello che Portogallo e Spagna, prima, Francia e Inghilterra, piú tardi, cercheranno e troveranno nelle loro avventure d'oltremare. L'America, l'Asia, l'Africa forniscono ad esse prestigio per le loro corone, spezie per i loro mercati, mercati per i loro traffici, oro e argento per le loro zecche, spesso a corto di metalli preziosi con cui pagare burocrazie sempre piú numerose ed eserciti permanenti. Ma finiranno anche per assicurare uno sfogo per quei ceti che, come la piccola nobiltà terriera, attraversano in questo periodo una sfavorevole congiuntura economica e potrebbero di conseguenza costituire un pericolo per la solidità dei nuovi regni. Sarà cosí che i cadetti dell'aristocrazia iberica troveranno nell'avventura d'oltreoceano una possibilità di affermazione dentro e non contro il sistema della monarchia nazionale, nonostante alcuni attriti con i funzionari regi. E sarà anche per questo motivo che, non avendo alle spalle entità statali abbastanza solide e un ambiente imprenditoriale abbastanza dinamico per finanziarne gli sforzi, molti navigatori italiani porranno il loro patrimonio di ardimento e di esperienze al servizio di stati stranieri, che alle loro imprese dovranno molta parte della loro futura prosperità.
Dopo la conquista.
I meccanismi della colonizzazione. Una difficile normalizzazione.
L'organizzazione amministrativa dell'America latina
Dopo i conquistadores, che hanno il piú delle volte agito d'iniziativa propria e talvolta contro gli stessi ordini dei governatori regi, i sovrani spagnoli si preoccupano di assicurare un regolare ordinamento ai territori conquistati. I primi a farne le spese sono proprio i conquistadores : reazione naturale alle tendenze feudali e centrifughe che potrebbero incarnarsi nei rappresentanti vittoriosi di quella razza di avventurieri e di vincitori. Cortés muore dopo essere caduto in disgrazia per le sue controversie col governatore iberico; Pizarro viene assassinato dai partigiani del suo compagno di avventura Diego de Almagro, che egli a sua volta aveva ucciso per liberarsi di un pericoloso concorrente. Nel frattempo procede l'opera di organizzazione giuridica e amministrativa degli immensi territori conquistati. Fin dall'inizio del XVI secolo, infatti, la monarchia spagnola si preoccupa di costituire organismi atti alla tutela dei suoi interessi e dei suoi diritti sul nuovo mondo, ma anche alla difesa degli indigeni, minacciati dall'avidità dei colonizzatori. Del 1503 è l'istituzione della Casa de Contractación, che detiene il monopolio degli scambi con le colonie e in particolare dei metalli preziosi estratti nelle miniere americane; al 1524 risale l'organizzazione in forma definitiva del Consiglio delle Indie, cui sono affidati i poteri sui nuovi territori. Dopo i successi di Cortés e di Pizarro le terre strappate agli aztechi e agli inca vengono ordinate in due vicereami: la Nuova Spagna, comprendente il Messico, i Caraibi, e piú tardi le Filippine, e la Nuova Castiglia, comprendente quasi tutti i territori conquistati nel frattempo nell'America meridionale. A loro volta questi vengono ripartiti in unità amministrative minori, denominate province, mentre in rappresentanza degli interessi locali sono riconosciuti legalmente appositi consigli di notabili e funzionari, detti audiencias. Neppure la chiesa resta estranea allo sforzo organizzatore dei nuovi territori. Ben presto vengono regolarmente inviati missionari domenicani e francescani a evangelizzare le popolazioni locali, che non tardano a convertirsi alla religione dei vincitori, pur continuando spesso a rimanere legate ai vecchi costumi pagani.
La possibilità di rapidi arricchimenti e il fascino dei nuovi territori favoriscono nel frattempo un consistente flusso migratorio dalla penisola iberica verso quella che verrà chiamata l'America latina: nell'ultimo quarto del Cinquecento vi sono state fondate già duecento città spagnole e vi si sono stabiliti quasi 180.000 immigrati. Né mancano le manifestazioni di una certa vita culturale, con la nascita delle prime tipografie e la fondazione - intorno alla metà del secolo - di tre università, a Lima, a Città del Messico e a Santo Domingo. La scoperta di numerosi e ricchissimi giacimenti d'oro e d'argento, soprattutto in Perú e in Messico, contribuisce a incentivare lo sviluppo della regione, nella quale vengono praticate su larga scala anche l'agricoltura e la pastorizia.
La Spagna e i coloni creoli. L'istituto dell'encomienda
Nel suo complesso, almeno da un punto di vista formale, questo sistema sarebbe il piú adatto a frenare gli egoismi e gli abusi dei coloni, tutelando i diritti delle popolazioni locali e assicurando un'amministrazione accentrata e razionale. E senza dubbio non manca la buona volontà da parte dei sovrani spagnoli, ostili sin dall'inizio, contro il parere di Colombo, all'asservimento degli indigeni. Di fatto, questo complesso e rigoroso apparato amministrativo si trova nell'impossibilità di contrastare con successo le esigenze della civiltà fondata dai successori dei colonizzatori bianchi, chiamati, con un vocabolo inizialmente dispregiativo, creoli, dallo spagnolo criollo, "meticcio", "servo nato in casa". La società creola, nata sulle rovine delle civiltà precolombiane, e infatti una società di tipo aristocratico, anche se solo una minoranza dei suoi appartenenti è di origini nobili. Al contrario di quanto avverrà nell'America del nord, dove anche i coloni inglesi di sangue blu rinunzieranno ai diritti derivanti dalla nascita per assimilarsi nella generale eguaglianza di quella società, nell'America latina anche i non nobili portano con sé la mentalità aristocratica che permea la civiltà spagnola, e tendono a «nobilitarsi», rifiutando il lavoro manuale. Ma una società aristocratica fondata sul rifiuto del lavoro manuale da parte dei vecchi o nuovi nobili per sopravvivere ha bisogno dell'utilizzazione intensiva di una manodopera servile. Questo tipo di esigenza per tutto il corso del Cinquecento sarà soddisfatto dall'istituto giuridico dell'encomienda. In linea teorica, l'encomienda era stata istituita per migliorare, regolarizzandola, la posizione degli indigeni dinanzi ai conquistatori. Al titolare di essa, chiamato encomendero - in genere un ufficiale o un funzionario regio -, si «encomendava», ovvero si affidava un nucleo di popolazione indigena, della cui evangelizzazione era responsabile e su cui esercitava funzioni di diritto pubblico paragonabili a quelle del feudatario nell'Europa medievale. L'encomendero esige dalla preesistente classe dirigente locale una parte piú o meno grande delle eccedenze di cui essa, già prima della conquista, si appropriava. Dove lo sviluppo è minore, e manca un'élite indigena in grado di svolgere questo ruolo di mediazione, gli spagnoli ricorrono allo sfruttamento diretto della manodopera locale, in forme, come si è detto, spesso molto gravose. Ad accrescere la pesantezza di tale sfruttamento contribuisce anche la circostanza che, mentre i feudatari tradizionali sono soliti consumare nella loro regione i propri redditi, gli spagnoli trasferiscono regolarmente un'elevata aliquota dei loro guadagni in Europa, sia per comprare prodotti voluttuari inesistenti nel nuovo mondo, sia per garantirsi al ritorno in patria - tramite l'acquisto di beni immobili - un adeguato status sociale. Di conseguenza i maggiori sforzi dei coloni sono finalizzati al massimo sfruttamento possibile delle piantagioni, ma soprattutto delle miniere. A farne le spese il piú delle volte è l'indio, trattato non piú come un libero lavoratore o anche come un servo della gleba, ma talora come un vero e proprio schiavo, da una ristretta oligarchia di avventurieri. Basti pensare che, intorno alla metà del XVI secolo, 130 encomenderos controllano nell'area dell'odierno Messico oltre 180.000 indlos.
In difesa degli indigeni: le denunzie di Bartolomé de Las Casas
Gli abusi degli encomenderos non sono certo i soli motivi del brusco peggioramento delle condizioni di vita della popolazione indigena, che registra nel corso del XVI secolo un calo demografico impressionante, passando dai circa venticinque milioni del 1519 ai sei milioni del 1540. I recenti studi di demografia storica e di storia sociale delle malattie hanno dimostrato che i motivi della spaventosa moría degli indigeni sono da ricercare, piú che nelle stragi dei conquistadores o negli abusi dei colonizzatori, in fattori di ordine biologico. Violente epidemie di vaiolo, di tifo e di morbillo fanno strage degli indigeni, che non possiedono gli anticorpi di queste malattie, provocando un calo demografico annuo che in certi casi sfiora il 6 per cento. Solo nel corso del Seicento la popolazione india riprenderà ad aumentare. Privi di queste cognizioni mediche, molti contemporanei però non possono che attribuire questi spaventosi massacri allo sfruttamento degli encomenderos. Sin dall'inizio della colonizzazione spagnola non mancano perciò le denunce delle disumane condizioni degli indios . I coloni creoli, come prevedibile, le accolgono con ostilità; con molta attenzione, invece, le ascolta la corona spagnola.
La voce piú sentita è quella del padre Bartolomé de Las Casas. Questi, un ex encomendero che ha preso i voti all'età di trentasei anni, sostiene a partire dal 1514 la causa degli indigeni. Le sue opere, la piú nota delle quali è la Brevisima relactón de la destruyctión de las Indias, edita nel 1552, denunciano sia i massacri di indigeni compiuti dai conquistadores, sia gli abusi di molti encomenderos nei confronti degli amerindi. Le accuse di Las Casas, in molti casi ai limiti del credibile, fanno presto scalpore sia in America che nella madrepatria. La corona promuove un'inchiesta che si scontra con gli interessi dei coloni e lo stesso clero missionario si trova profondamente diviso di fronte alle questioni sollevate dal battagliero sacerdote. Las Casas è un domenicano. La sua critica al sistema dell'encomienda cosí come ha finito per strutturarsi deriva anche da preoccupazioni di ordine proselitistico. Come può la parola di Cristo - si domanda l'«apostolo degli indios» - essere diffusa con qualche possibilità di duraturo successo dalle stesse persone che, giustificando un crudele sistema di sfruttamento, pongono le premesse per la distruzione dei gruppi etnici che dovrebbero evangelizzare?
Di opinione diversa è invece il francescano Domenico Ortis, che si fa interprete anche degli interessi del suo ordine, tradizionalmente rivale dei domenicani e tra l'altro interessato direttamente allo sfruttamento dei territori d'oltreoceano. Ortis presenta nel 1524 al Consiglio delle Indie una relazione in cui gli indigeni vengono accusati di sodomia, di stregoneria e di cannibalismo. Le conclusioni sono evidenti: è lecito che gli indios vengano asserviti. Lo stesso concetto viene sviluppato anche da Juan Ginés de Sepúlveda, che sostiene una ventennale polemica contro il Las Casas, al punto di accusarlo nel 1547 di tradimento e di eresia.
Alla fine, comunque, almeno sulla carta, prevale un indirizzo favorevole agli indigeni. Con la bolla Sublimis Deus, papa Paolo III sanziona nel 1537 il principio della piena umanità e razionalità di tutti gli uomini e la conseguente proibizione di privarne alcuni della libertà. A loro volta i re di Spagna, con le Nuove Leggi delle Indie, proibiscono la concessione di ulteriori encomiendas, mentre i confessori negano l'assoluzione agli encomenderos indegni e lo stesso Cortés, in testamento, raccomanda agli eredi l'affrancamento dei servi. Le opere del padre Las Casas raggiungono, dopo aver superato le iniziali ostilità, una larga diffusione, mentre la propaganda del Sepúlveda, condannata da due università, si vede rifiutare la diffusione da parte del Consiglio di Stato e del Consiglio Reale. La circolazione di questo libro messo all'indice rimarrà proibita in Spagna sino al secolo scorso: fino a quando non verrà abolita l'Inquisizione.
Autore: non indicato nel documento di origine
http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/PrimoTr/Storia/Mondo%20delle%20Scoperte.doc
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