Carmen riassunto trama dell' opera

 


 

Carmen riassunto trama dell' opera

 

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Carmen riassunto trama dell' opera

 

La trama dell’opera.

 

Atto I.

Una piazza di Siviglia, davanti al lungo fabbricato della Manifattura dei tabacchi.

Alcuni soldati stanno alleviando la noia del loro turno di guardia osservando i passanti. Giunge la giovane Micaela e chiede del suo “fidanzato” Don José, per cui ha un messaggio. Le dicono che arriverà presto con il turno di guardia successivo: lei si allontana per ripassare più tardi. Si effettua il cambio della guardia con l’“accompagnamento” di un gruppo di monelli; il tenente Zuniga, nuovo del posto, fa alcune domande a José sulle donne di Siviglia, e José risponde che non gli piacciono, perché sono insolenti e litigiose (lui è del Nord, basco, e preferisce donne più tranquille). Suona la campana della fabbrica di tabacchi e le sigaraie escono a prendere una “boccata d’aria”, fumando e civettando con i giovanotti (coro delle sigaraie). Ultima giunge Carmen, corteggiatissima, e canta la sua famosa habanera (“L’amour est un oiseau rebelle”). Vedendo José che sta lavorando in disparte e non le presta alcuna attenzione, gli si avvicina con fare provocatorio e gli getta in faccia un fiore (mentre in sottofondo suona minaccioso il tema del destino). Suona di nuovo la campana e tutte le operaie corrono al lavoro. José, che è rimasto turbato dall’atteggiamento insolente di Carmen, viene raggiunto da Micaela che gli riferisce un messaggio da parte di sua madre: i due ricordano insieme i vecchi tempi (duetto: “Ma mère, je la vois...”). Dopo che la ragazza se ne è andata, scoppia una violenta rissa all’interno della manifattura: José viene mandato a vedere che cosa accade e ritorna con Carmen, che ha accoltellato una sua compagna per futili motivi. Il tenente decide di mandare Carmen in prigione per qualche giorno, mentre lei continua a canterellare con fare spavaldo. Rimasti soli, Carmen convince Don José ad aiutarla ad evitare l’arresto, con la promessa di ricambiare il suo amore. Don José, completamente succube del fascino della ragazza, acconsente e, mentre la sta scortando verso la prigione, finge di farsi gettare a terra da Carmen, che fugge tra le risate degli astanti.

 

Atto II.

Una locanda di infimo ordine alla periferia di Siviglia.

Dopo che Carmen ed alcune amiche hanno danzato un’infuocata danza gitana in onore di alcuni ufficiali della guarnigione di Siviglia, si odono in lontananza le acclamazioni rivolte ad un giovane torero che sta diventando rapidamente molto famoso in Andalusia, Escamillo. I soldati lo invitano per un brindisi in compagnia, ed egli si presenta con un’aria molto trascinante in cui descrive il proprio “mestiere”. Vedendo Carmen, le chiede se è già impegnata, ed avutane risposta affermativa, si allontana sorridendo, dicendo che saprà attendere il suo turno. Quando tutti gli avventori si sono allontanati, il locandiere fa entrare due contrabbandieri, che invitano Carmen e due sue amiche a collaborare con loro per contrabbandare da Gibilterra, territorio inglese, un prezioso carico di merci (“quintetto”). Frasquita e Mercedes accettano subito, ma Carmen dice che per quella sera non può, perché deve incontrare Don José, appena uscito di prigione per il fatto accaduto un mese prima. Cercherà però di convincerlo ad unirsi a loro. José arriva e Carmen si mette a danzare per lui; quando però, al suono della ritirata, José dice che deve tornare in caserma, se non vuole subire una severa punizione, Carmen si inviperisce e lo insulta. A sua volta José reagisce con una certa violenza, dicendo che il pensiero di lei lo ossessionava perfino in prigione (“romanza del fiore”) ed ora non vive che per lei. Carmen gli suggerisce di unirsi al gruppo di contrabbandieri, per essere libero, senza nessuno a cui rendere conto delle sue azioni, ma José rifiuta inorridito: la diserzione dall’esercito sarebbe un disonore, e lo emarginerebbe completamente dalla società. Inoltre, sarebbe una scelta senza ritorno: non potrebbe mai più condurre una vita normale (la diserzione era punita severamente, e chi se ne rendeva colpevole doveva “darsi alla macchia”). Di fronte all’ennesima incomprensione da parte di Carmen, che lo insulta e lo accusa di non amarla abbastanza, Don José decide di lasciarla per sempre, ma è ostacolato dall’arrivo del suo superiore, il tenente Zuniga, che viene a far la corte alla ragazza: ne nasce un violento alterco che viene fortunatamente fermato dai compagni di Carmen. Ormai a Don José, colpevole di insubordinazione ad un superiore, non resta che unirsi ai contrabbandieri ed iniziare la sua nuova vita da fuorilegge.

 

Atto III (scena prima).

Un luogo aspro e dirupato nelle “sierras” tra Gibilterra e l’Andalusia.

I contrabbandieri con la loro carovana di muli si prendono un momento di riposo. Carmen e Don José si scambiano parole amare, e si capisce che la loro relazione sta rapidamente deteriorandosi: Carmen non tollera la gelosia ossessiva di Don José e la sua pretesa di “monopolizzarla”, mentre il giovane, dal canto suo, non sopporta di essere considerato da lei uno dei tanti, soprattutto dopo tutto quello a cui ha rinunciato per amor suo. Il dialogo, parlato, è di grande importanza per comprendere il carattere dei due protagonisti e la natura del loro legame. Frasquita e Mercedes si mettono a leggere le carte vicino al fuoco: nel loro futuro vedono cose piacevoli (amore, ricchezza). Anche Carmen prova a interrogare le carte, ma vi legge la morte per sé e per José. La scena è molto importante per la tematica del Destino, a cui è impossibile sfuggire, ed a cui Carmen andrà incontro consapevolmente. Tutti i personaggi si allontanano momentaneamente dalla scena e si assiste all’arrivo di Micaela, che si è avventurata fin lì per comunicare a José che sua madre sta morendo e lo vorrebbe rivedere un’ultima volta; la ragazza è terrorizzata, ma cerca di vincere la propria paura (aria di Micaela: “Je dis que rien ne m’épouvante”). Mentre sta cercando di capire cosa fare, intravede Don José che sta di sentinella su una roccia, ma vedendolo prendere la mira verso il basso con la sua carabina si nasconde spaventata. José ha infatti visto giungere uno sconosciuto e gli spara un colpo di avvertimento. Il nuovo venuto è il torero Escamillo, giunto per vedere se Carmen si è liberata del suo innamorato: dopo un breve scambio di battute i due uomini scoprono di essere rivali e si misurano in un vivace duello, interrotto dal sopraggiungere dei contrabbandieri. Escamillo se ne va, dopo aver invitato tutti alle prossime corride di Siviglia. Mentre la carovana si appresta a riprendere la marcia, viene scoperta Micaela, che comunica a Don José il suo messaggio. Egli rifiuta di andarsene, perché sa che Carmen ne approfitterebbe per iniziare una nuova relazione con il torero, ma quando apprende che la madre è in punto di morte, cede, predicendo però a Carmen con fare minaccioso che si rivedranno presto. Con il “motivo del toreador” che sembra irriderlo dietro le quinte, José si allontana con Micaela. Segue un breve interludio orchestrale.

 

Atto III (scena seconda).

La piazza all’esterno della plaza de toros di Siviglia.

Una gran folla si accalca in attesa di assistere alle corride, in mezzo a numerosi venditori ambulanti di arance, ombrellini, sigarette, ecc... Giungono prima le varie autorità cittadine e poi le quadriglie dei toreri che combatteranno nell’arena, tra cui Escamillo, accompagnato da Carmen, vestita con grande eleganza. Le amiche cercano di avvertire Carmen del pericolo che corre: hanno infatti visto Don José nascondersi tra la folla. Carmen replica spavaldamente che non ha paura di lui, anzi gli vuole parlare per chiarire una volta per tutte la loro situazione. Tutti entrano nell’arena e la piazza si svuota completamente: rimangono soli di fronte i due protagonisti. José all’inizio non minaccia, ma supplica Carmen di tornare con lui, ricordandole che si è completamente rovinato per lei ed ha rinunciato a tutto per causa sua. Carmen non si fa impietosire e ribadisce la sua assoluta voglia di libertà: non cederà mai al volere altrui, né per compassione né per paura. I toni del colloquio si fanno sempre più tesi e violenti, finché Carmen sfida apertamente Don José: la uccida pure, ma lei ormai ha deciso. Non lo ama più, non ha intenzione di ritornare a vivere con lui e vuole essere libera di dedicarsi completamente al nuovo amante. Per sottolineare ancora più chiaramente questo concetto, si toglie sprezzantemente dal dito l’anello che José le aveva regalato e lo getta via. A questo punto José la pugnala a morte, proprio quando la folla acclama il colpo vincente del torero. Di fronte alla folla che esce festosa dall’arena, José si “costituisce”, dichiarando un’ultima volta il proprio disperato amore per la donna che ha appena ucciso.


1° incontro: giovedì 12 novembre 2009

 

 

La “Carmen” nella versione narrativa e in quella musicale.

 

 

Il racconto di Prosper Mérimée.

Prosper Mérimée (1803-1870) fu un illustre studioso di arte antica e archeologia, viaggiatore indefesso e curioso osservatore di usi e costumi popolari. Poliglotta, nominato dal governo francese ispettore dei monumenti archeologici, si dedicò alla letteratura fin da giovane, pubblicando numerosi racconti, appartenenti grosso modo alla corrente letteraria del realismo, ma caratterizzati talvolta da un marcato gusto del fantastico soprannaturale (“La Venere d’Ille”), secondo alcune tendenze del secondo Ottocento (cfr. Maupassant). La sua grande ammirazione per i Paesi del Mediterraneo lo spinse a viaggiare molto in Spagna, in Italia, in Corsica, nel Vicino Oriente; queste esperienze, unite al gusto dell’esotico “a forti tinte” (già presente nella letteratura francese con Stendhal e Victor Hugo), lo portarono a pubblicare nel 1845 il racconto “Carmen”, che riscosse subito un grande successo. Il racconto è in prima persona: il narratore, che è Mérimée stesso, descrive il suo incontro durante un viaggio in Spagna con due personaggi d’invenzione: prima Don José, un giovanotto basco (notare la sua “estraneità” rispetto all’ambientazione andalusa del racconto) che ha disertato dall’esercito per amore di Carmen, ed ormai conduce una vita da fuorilegge, e poi Carmen stessa, una provocante ragazza gitana, che tenta di sedurre il “turista” straniero e gli ruba anche l’orologio. Dopo qualche mese, ritrova Don José, che in carcere attende di essere giustiziato per alcuni crimini, fra cui l’uccisione di Carmen. Il prigioniero gli racconta tutta la sua storia e lo prega di consegnare un anello alla sua vecchia madre. Il racconto è quindi parzialmente in “presa diretta” e parzialmente in “flash-back”, con una soluzione decisamente moderna. Lo stile è garbato, molto spesso umoristico nelle parti che vedono agire l’io narrante (alquanto “straniato”, in quanto non-spagnolo e non-popolano); nelle parti drammatiche (la contrastata storia d’amore tra Carmen e Don José) la narrazione rimane asciutta e priva di enfasi, molto misurata e mai retorica. Le differenze narrative rispetto al libretto dell’opera sono numerose (vedi sotto).

 

La rielaborazione drammaturgica attuata dai librettisti Meilhac e Halévy.

I due librettisti Henry Meilhac e Ludovic Halévy erano già molto famosi all’epoca della stesura del libretto di “Carmen”, avendo già scritto “a quattro mani” numerosi testi per quasi tutti i musicisti francesi più importanti di quegli anni. Ovviamente un testo teatrale e per di più musicale ha esigenze diverse rispetto ad un testo narrativo: deve incidere più profondamente le caratteristiche psicologiche dei personaggi, deve dare la possibilità ai cantanti di sfoggiare la loro abilità tecnica ma anche interpretativa, deve appoggiarsi su scene di massa per tenere desto l’interesse dello spettatore. Ricordiamo che l’opera francese era già dalle sue origini caratterizzata da un grande amore per le ambientazioni esotiche (mondo biblico, Medio od Estremo Oriente), le scenografie ricche e fastose, i cori monumentali, le scene di massa con centinaia di comparse, e soprattutto (cosa che infastidì molto compositori di altre tradizioni, come Wagner o Verdi) per il ballo. Non era pensabile presentare in un teatro francese un’opera che non avesse almeno un balletto spettacolare e piuttosto lungo. Ecco perché la trama dell’opera presenta notevoli differenze rispetto al racconto: cerchiamo di individuare le più significative. Vengono introdotti nuovi personaggi, ad esempio Micaela, la dolce e timida “quasi-fidanzata” di Don José, sua compatriota, ed Escamillo, il coraggioso e fiero torero di cui Carmen si innamora e che sarà la causa della gelosia omicida di Don José (nel racconto invece si accenna appena di sfuggita ad un flirt di Carmen con un certo Lucas, che però è un semplice picador). Questi personaggi servono per inserire due ruoli vocali (il soprano e il baritono) che sono irrinunciabili nel teatro d’opera; i due personaggi hanno infatti un bel pezzo solistico per ciascuno e un duetto con il tenore. Per lo stesso motivo, ai due contrabbandieri del clan di Carmen vengono affiancate due ragazze, per permettere l’esecuzione, nel secondo atto, di un quintetto (ai quattro si aggiunge Carmen) molto vivace e perfino umoristico, nonché, nel terzo atto, una scena cupa e drammatica in cui le tre donne si predicono il futuro leggendo le carte, ma con esiti diversi. Le scene relative a questi personaggi “nuovi” sono state inventate ex novo dai librettisti, rischiando a volte di minare la rigorosa logica interna del racconto. Al contrario, vengono eliminati personaggi secondari, ad esempio il brutto e malvagio marito di Carmen (che nel racconto viene ucciso da José), ed ovviamente il personaggio-narratore. Molte scene hanno assunto un carattere di spiccata drammaticità, ad esempio la “scena delle carte”, ed ovviamente il colloquio finale tra i due protagonisti, che si conclude con la morte di Carmen. I cori e le scene di massa contribuiscono ad aumentare il “colore locale” spagnolo (lite delle sigaraie, danza delle gitane all’inizio del secondo atto, scena dei contrabbandieri, preparativi della corrida).

 

Passione, Libertà e Destino.

La tematica chiave della vicenda è sicuramente la Passione, l’Eros come forza trascinante e distruttiva, contrapposto alla filia familiare e coniugale (simboleggiata dal dolce, timido e sottomesso personaggio di Micaela). Carmen è il prototipo della femme fatale, della donna “vampiro” cara a Baudelaire, che seduce per vanità un uomo, ubriacandolo con la propria sensualità, schiavizzandolo e costringendolo a discendere tutti i gradini della scala sociale, fino all’emarginazione, al delitto ed all’autodistruzione. La novità di questo personaggio consiste però nella sua paradossale “innocenza”. Carmen non si comporta così per malvagità o superficialità: ella stessa è in un certo senso vittima della propria animalesca passionalità che non riconosce alcuna legge o consuetudine sociale. Nel racconto di Mérimée si sottolinea l’analogia dei suoi occhi con quelli di un lupo, animale selvaggio, a-sociale e predatore (cfr. il racconto verghiano “La lupa”). In questo è molto diversa dal suo omologo maschile, Don Giovanni, il quale seduce il più gran numero di donne, anche vecchie o brutte, esclusivamente per vanità (... “pel piacer di porle in lista...”): Carmen si innamora realmente dei suoi uomini, e rimane a loro fedele per tutto il tempo che ne rimane innamorata. Purtroppo la sua insofferenza quasi patologica per i legami stabili e vincolanti (talvolta sembra affetta da una vera e propria “claustrofobia emotiva”) la porta a cercare continuamente nuove relazioni, cosa impensabile ed imperdonabile in una società maschilista come la Spagna o l’Italia dei secoli scorsi. La passionalità di Carmen è “momentanea”, come una vampa che brucia in pochi attimi: quando scoppia è intensa, divorante e distruttiva per chi le si accosta, ma appena le viene meno il nutrimento si estingue. Pertanto non può che entrare in violento conflitto con la passionalità di Don José, che, viceversa, è tipicamente maschile, possessiva ed esclusivizzante: egli, infatti, piuttosto che condividere la sua donna con altri uomini, preferisce distruggerla fisicamente, condannando anche se stesso all’autodistruzione.

La Libertà di Carmen è pura anarchia, insofferenza totale di qualsiasi legame e di qualsiasi rapporto di dipendenza: smette di amare José appena si accorge della pretesa di quest’ultimo di “monopolizzarla”, perché si sente presa in trappola, imprigionata come un animale in gabbia. Lungo il dramma sono numerosissime le frasi che sottolineano questo concetto, dalla famosa habanera in cui il personaggio, per dir così, si presenta (“L’amour est un oiseau rebelle...”, vero elogio dell’amore libero), alle lodi che Carmen fa nel secondo atto della vita nomade sotto le stelle, fino al duetto finale (“Jamais Carmen ne cédera: libre elle est née et libre elle mourra”). Questo suo culto fanatico della libertà personale è solo in parte riconducibile alla sua appartenenza al popolo gitano, tradizionalmente poco legato a luoghi e tempi istituzionalizzati, ma che rispetta molto le gerarchie familiari ed un rigido codice di regole comportamentali all’interno del clan. Carmen invece è del tutto a-sociale e ferocemente egocentrica: l’Altro con le sue esigenze, per lei, non esiste. Significativamente, quasi si stupisce che non tutti condividano questo suo punto di vista: non capisce che l’amore è una relazione a due, e se uno dei partner non si sente più legato all’altro ciò non vale necessariamente anche per l’altro. Pur di non sottomettersi all’Altro, di arrendersi alla volontà altrui, Carmen accetta la morte, quasi con sollievo. La scena finale è a questo proposito molto significativa: mentre nel racconto Carmen viene uccisa da José in un luogo appartato, un bosco (ancora la lupa!), lontano da occhi indiscreti, nell’opera la scena si svolge davanti all’arena dove si sta svolgendo una corrida, cioè uno spettacolo pubblico di morte “sacrificale”. Carmen cade uccisa nel medesimo momento in cui la folla saluta la morte del toro, come se le due morti avessero lo stesso significato: la forza anarchica, animalesca, selvaggia, “incivile”, quasi demoniaca, che destabilizza le consuetudini e le regole morali deve venire soppressa, eliminata, perché non turbi più l’ordine del cosmos sociale. In un certo senso sono le stesse pulsioni cultural-emotive che hanno portato a bruciare le streghe sui roghi: il totalmente diverso, ciò che non si lascia inserire nel quadro istituzionalizzato, deve venir eliminato radicalmente (fuoco = purificazione + eliminazione). Non a caso Carmen, sia nel racconto che nell’opera, è spesso definita “strega”, “fattucchiera”, “diavolo”, “demonio”, e il suo leitmotiv è costituito da una serie serpentina di note guizzanti (e discendenti) che evocano in modo netto una personalità sfuggente, inquietante, con forti legami con il  “mondo di sotto”.

Il terzo tema cardine della vicenda è il Destino, talmente importante da essere sottolineato da un proprio leitmotiv, che compare numerose volte negli snodi narrativi del dramma ed è facilmente riconoscibile per la sua drammatica cupezza. L’incontro tra Carmen e Don José avviene per caso, come per caso scoppia la lite tra sigaraie che metterà ancora di fronte i due, rinsaldando la loro reciproca attrazione. Il caso vuole che il superiore di José, il tenente Zuniga, giunga nella locanda di Lilas Pastia proprio quando José ha deciso con un grande sforzo di volontà di rinunciare alla pericolosa relazione: il rifiuto di obbedire agli ordini del superiore porterà il protagonista alla inesorabile necessità di disertare e quindi di affondare sempre di più nell’emarginazione socio-morale. Questa fatale concatenazione di eventi porta inesorabilmente alla tragica conclusione. E’ interessante notare che, da un certo punto del dramma in poi, Carmen è perfettamente consapevole della piega che prenderà la vicenda, non solo perché lo ha letto nelle carte: lo dice infatti anche qualche istante prima, quando José le dichiara con fermezza che non le permetterà mai di lasciarlo: “...Tu me tuera, peut-être?”. Nel duetto finale, afferma con lucida consapevolezza: “Je sais bien que c’est l’heure, je sais bien que tu me tuera...”. Nonostante questo, la sua caparbietà la porta a sfidare la morte pur di non cedere alla volontà altrui: “mais que je vive ou que je meure, non, non, je ne te céderai pas!”. Il Destino, nel dramma di Carmen, si configura in un certo senso come l’Anagkh della tragedia greca, la forza ferrea ed inesorabile che porta gli esseri umani all’accecamento ed all’autodistruzione.

 

Il genere dell’opéra-comique e le innovazioni dello stile musicale di Bizet.

La “Carmen” di Bizet appartiene ad un ben preciso sottogenere del melodramma ottocentesco francese, il cosiddetto opéra-comique (N.B.: in francese il sostantivo opéra è maschile). Si tratta di qualcosa di molto simile al Singspiel tedesco (= “Flauto magico” di Mozart), cioè un misto di parti cantate e di dialoghi recitati. I cantanti devono perciò anche essere discreti attori, avere una buona conoscenza della lingua francese ed un’ottima pronuncia, cosa non sempre facile. I dialoghi non sono uguali in tutte le recite, perché i registi e i direttori d’orchestra li modificano a seconda delle loro esigenze; fino agli anni Cinquanta venivano addirittura sostituiti con parti cantate, per aggirare la grossa difficoltà della recitazione da parte dei cantanti. Inoltre, almeno in parte, l’opéra-comique doveva essere, appunto, “comica”, cioè presentare episodi divertenti o buffi (nel nostro caso, il quintetto dei contrabbandieri). Per questo tipo di spettacoli, considerati di rango inferiore al grand-opéra, più solenne e “retorico”, venne addirittura costruito un teatro apposito, l’Opéra-Comique appunto, in Boulevard des Italiens. Ciò non toglie che molte opere di questo genere non siano affatto a lieto fine, anzi, si concludano tragicamente, con la morte di almeno uno dei personaggi principali; in questo ci sono molte analogie con la zarzuela spagnola, una specie di “sceneggiata napoletana” molto amata dal popolo. Su questa tradizione ormai consolidata, Bizet attua alcune innovazioni degne di nota, che forse furono all’origine del parziale insuccesso della sua creazione.

  • Rinuncia in gran parte alle “forme chiuse” tipiche del melodramma ottocentesco, ad esempio non fa seguire necessariamente all’aria melodica una cabaletta veloce, come è tipico di Verdi. A questo proposito è significativa tutta la scena finale, che passa senza soluzione di continuità dal coro di massa, al canto effuso, al canto “recitato”, teso e drammatico.
  • Sceglie un colore orchestrale molto ricco, con un ruolo importante giocato dagli ottoni e dai legni dell’orchestra (tromboni, corni, clarinetti, fagotti), imitando in certa misura lo stile wagneriano. Particolarmente cupa è l’ambientazione sonora della scena della sierra (primo quadro del terzo atto).
  • Usa la tecnica del Leitmotiv (che era già presente nei compositori della prima metà dell’Ottocento), sfruttandolo (quasi) con la profondità psicologica di Wagner: infatti non associa semplicemente un “epiteto” musicale ad un determinato personaggio o ad una determinata situazione, ma lo fa “vivere” ed evolvere insieme al personaggio, piegandolo e trasformandolo a seconda della situazione esistenziale che viene di volta in volta affrontata nel dramma.

Per quanto riguarda il “timbro locale”, dovuto all’ambientazione della vicenda in Spagna, occorre fare un’importante osservazione. La “moda” della Spagna (ispanofilia) si era diffusa in Francia e nel resto d’Europa fin dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, dopo il matrimonio, nel gennaio del 1853, dell’imperatore Napoleone III con la bellissima contessa spagnola Eugenia de Montijo: già nello stesso anno troviamo nella “Traviata” di Verdi un coro di giovanotti alla moda travestiti da toreri in occasione del Carnevale. Motivi di danze spagnole (fandango, bolero, jota, habanera) cominciarono a venir usati in varie composizioni da camera o per orchestra, e questa tendenza continuerà fino agli anni Trenta del Novecento. Ricordiamo, tra i molti possibili esempi, il famosissimo “Bolero” di Ravel (che però è piuttosto recente: 1928), ma anche la “Sinfonia spagnola” di Eduard Lalo (1873), il “Capriccio spagnolo” di Rimskij-Korsakov (1887), i quadri sinfonici di “Iberia” di Debussy (1906), l’opera comica “L’heure espagnole” (1907), sempre di Ravel, la cui madre era spagnola. Verso la fine dell’Ottocento si formò inoltre in Spagna una vera e propria “scuola nazionale”, con i compositori Albéniz, Granados, Turina, che continuerà poi nel Novecento con Manuel De Falla e Joaquín Rodrigo. Nella “Carmen” di Bizet c’è sicuramente molto di questa tradizione, dall’ouverture con il suo baldanzoso tema iniziale ai cori del quadro finale, passando per le canzoni di Carmen, cantate o “fischiettate”, per la frenetica danza all’inizio del II atto, per la “canzone del toreador”; si ha però sempre come l’impressione che ciò rimanga in fondo estraneo alla più profonda ispirazione del musicista, e serva appunto a fare solo un po’ di scena, di folclore, di colore locale appunto. In realtà, la vena più genuina del compositore va cercata nel canto effuso, melodico, tipico della tradizione francese della seconda metà dell’Ottocento. La “melodicità” dell’opera francese è inconfondibile, perché non si basa esclusivamente sulle doti vocali e sulla bellezza della voce dei cantanti, come nell’opera italiana, ma fa affidamento anche sul caldo timbro dell’orchestra, che non fornisce un semplice accompagnamento al canto, ma “canta” anch’essa con il solista, sostenendo e irrobustendo il volume del suono. Inoltre è una “melodicità” molto dolce, tenera, sentimentale, ma allo stesso tempo intensa e robusta. Come esempi significativi possiamo citare il coro delle sigaraie, il duetto del I atto tra José e Micaela, la “romanza del fiore”, l’aria di Micaela del III atto. (N.B.: Carmen non canta mai in questo modo, perché è un personaggio duro, scabro, quasi arido, esente da sentimenti dolci ed affettuosi). In Italia questo tipo particolare di espressività sonora verrà impiegato dai compositori del cosiddetto “periodo verista”, cioè Puccini, Leoncavallo, Mascagni, Umberto Giordano, Francesco Cilea, ma solo a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento.

L’opera venne composta da Bizet nell’autunno-inverno del 1874 e fu rappresentata il 3 marzo 1875 all’Opéra-Comique di Parigi con esito tiepido, anche a causa della cattiva performance del mezzo-soprano protagonista. Bizet, che soffriva di gravi disturbi nervosi ed aveva una salute nel complesso molto cagionevole, rimase estremamente scosso dal parziale insuccesso di quello che riteneva giustamente il suo capolavoro, e morì solo tre mesi dopo. Negli anni successivi, l’opera cominciò a riscuotere sempre più successo, fino a diventare una delle opere più rappresentate nei teatri e più amate dal pubblico.


2° incontro: giovedì 26 novembre 2009

 

 

Il film “Carmen” di Francesco Rosi (1984).

 

 

Rosi ha saputo creare un film-opera dai ritmi perfetti, senza tradire minimamente il contenuto musicale dell’opera nonostante l’ambientazione molto realistica, quasi neo-realista. Il regista ha infatti girato il film in luoghi “veri” (Carmona, Ronda, Siviglia), impregnati di ispanicità non da cartolina, ma sincera e reale. Citiamo alcuni significativi passi della recensione che Giovanni Grazzini scrisse sul “Corriere della Sera” subito dopo l’uscita del film nelle sale cinematografiche: “...dando conveniente risalto alla separazione tra il ghetto degli zingari e il fasto dei gran signori, Rosi sublima il folclore e va alle radici della realtà andalusa con una fantasia visionaria che l’apparenta con quella napoletana. Cerniera perfetta è proprio Carmen, una sorta di scugnizza sfrontata alla quale le provocanti movenze di Julia Migenes Johnson (mai vista una cantante governare così il proprio corpo) danno stupenda vitalità. [...] Né ci sembra che l’aggiunta di alcuni rumori (l’abbaiare di un cane, gli scalpiccii, i canti degli uccelli) offenda la musica. Annulla la convenzione teatrale, e accresce l’effetto-realtà...”.

La Spagna che vediamo è un’alternanza di luce accecante, da deserto o da spiaggia tropicale, e di buio quasi funebre (la processione, la scena della taverna, la scena tra i monti). Inoltre compare in modo evidente l’intento sociale, molto caro agli interessi del regista . La povertà delle operaie della manifattura è sottolineata in modo chiaro dai loro volti sciupati, dai bambini che portano in braccio e che tengono vicino a sé lavorando, dalle vesti sporche e lacere. Lo spettacolo di danza flamenca “addomesticata”, ad uso e consumo dei ceti alti, trova il suo contrappunto nella “vera”, autenticamente popolare, danza dei gitani accampati ai margini della città, confinati nei loro tradizionali ruoli di calderai, maniscalchi e venditori ambulanti; il torero Escamillo, pur corteggiato da una ricca ed elegante signorina, preferisce per brindare alla sua professione il contatto con l’umile popolo della taverna, più sincero e genuino nel suo entusiasmo.

Elenchiamo alcune geniali intuizioni registiche presenti nel film.

  • “Composizione ad anello”: il film inizia e si conclude in un’arena, con l’uccisione del “diverso-ribelle-selvaggio” irriducibile all’ordine costituito (toro / Carmen).
  • La Spagna è vista come un immenso teatro dove tutto è spettacolo (nel senso più alto), dramma, tragedia, perfino la religione (processione della Settimana Santa): tutti guardano agire gli altri, c’è sempre un vasto pubblico per ogni occasione , ed ogni fatto della vita è inserito in una dimensione collettiva, pubblica, senza ombra di privacy.
  • Il personaggio di Carmen cambia in modo sensibile lungo la vicenda: dalla ragazza sguaiata e completamente “anarchica” dei primi due atti, evolve sempre più chiaramente in una donna pensosa, quasi sbigottita di fronte al proprio destino (nel “duello” finale con Don José appare a tratti quasi commossa, o per lo meno consapevole del dolore che sta causando, e poi seriamente spaventata), anche se per orgoglio non cede alle proprie paure. Questa evoluzione è chiaramente sottolineata dall’abbigliamento: quasi svestita nei primi due atti, vestita “correttamente”, con toni scuri, nell’atto della sierra e infine vestita riccamente, quasi da agiata signora borghese.
  • Il selvaggio, aspro e caotico scenario naturale delle gole montuose ricorda visivamente alcune famose incisioni di Gustave Doré per l’“Inferno” dantesco: i due protagonisti scendono in un loro inferno personale da cui non sapranno più riemergere, e Micaela sembra impersonare un Virgilio timido e spaventato a cui nessuno vuole o sa dare ascolto.
  • Alla fine: l’inquadratura del toro che esce dal toril e l’immediato stacco successivo su Carmen che esce dall’arena per il fatale ultimo incontro con José (preludio dell’uccisione “sacrificale” per entrambi). Tutta la scena finale ha un’estrema forza visiva, giocata sull’essenzialità delle forme e sui violenti contrasti coloristici dell’universo mediterraneo: bianco, nero, rosso (cfr. il “Lamento per Ignacio” di García Lorca).

 


3° incontro: giovedì 10 dicembre 2009

 

 “Carmen” e dintorni: variazioni sul tema.

 

Nella storia del cinema ci sono state diverse versioni della novella di Mérimée musicata da Bizet: già nel 1909 ne venne girata in Italia una trasposizione filmica, presto seguita da molti altri film muti (sette versioni solo negli anni 1913-1918!). Perfino Charlie Chaplin girò nel 1915 un cortometraggio parodistico sul soggetto, ma con risultati poco felici. Due versioni francesi (1926, 1943) sono molto raffinate figurativamente; una italiana del 1962 cerca di ambientare la vicenda in un contesto neorealista, ma senza raggiungere livelli di qualità artistica. Curioso un film spagnolo del 1938 in cui muoiono i due uomini mentre Carmen sopravvive. Non ha quasi nulla a che vedere con la narrazione di Mérimée, anche se molto bello, il film di Jean-Luc Godard “Prénom Carmen”, del 1983, in cui la protagonista è una terrorista che muore uccisa dalla polizia durante la rapina ad una banca. I tre film migliori sul tema rimangono, in ordine cronologico: “Carmen Jones” di O. Preminger, “Carmen” di F. Rosi e “Carmen Story” di C. Saura.

 

Il film “Carmen Jones” di Otto Preminger (1954).

Il film “Carmen Jones” di Otto Preminger si inserisce in questo filone già collaudato con grande originalità, in quanto ambienta la vicenda in una cittadina del Sud degli Stati Uniti in un’epoca contemporanea, cioè negli anni della II Guerra Mondiale. I personaggi sono tutti afro-americani, ed i ruoli sono ovviamente molto diversi dall’opera: Don José (Joe) è un soldato dell’esercito, Carmen è un’operaia che lavora nella base militare dove presta servizio José, Micaela è la “girl-friend” di quest’ultimo, Escamillo (Husky Miller, con simpatico tentativo di eufonia imitativa!) è un famoso e ben pagato pugile, le amiche di Carmen due simpatiche avventuriere sempre alla ricerca di qualche uomo danaroso che le mantenga nel lusso. La trasposizione di epoca e di ambiente, che ai tempi del film sembrò a molti critici troppo ardita, quasi oltraggiosa, in realtà non tradisce in nulla lo spirito dell’opera di Bizet; si allontana invece parecchio dall’atmosfera e dai toni della novella di Mérimée. Il risultato è molto suggestivo, anche perché non si deve vedere in questo film una versione della “Carmen”, ma un’altra cosa, del tutto autonoma, anche se chiaramente ispirata al famoso modello. Siamo appunto nei “dintorni” del mito di Carmen, che come tutti i miti può essere benissimo interpretato, approfondito, trasposto, aggiornato, attualizzato, a patto che alla base dell’operazione ci siano sincerità e correttezza intellettuale. Il grande successo del film fu dovuto anche alla bellezza ed alla forte presenza scenica della protagonista, Dorothy Dandridge (doppiata nelle parti cantate dall’allora quasi sconosciuto mezzosoprano Marilyn Horne, destinata ad una folgorante carriera), affiancata da un gruppo di comprimari molto validi. Le parti musicali sono esattamente quelle scritte da Bizet, ma con i testi tradotti in inglese e ovviamente profondamente modificati nelle parole (un pugilatore non può presentarsi con le stesse espressioni usate da un torero!). I dialoghi parlati, inventati dagli sceneggiatori del film, sono molto gradevoli, a volte veramente umoristici, improntati allo slang afro-americano, ricchi di spontaneità e vivacità.

 

Il film “Carmen Story” di Carlos Saura (1983).

Questo film fu girato, per così dire, in “simbiosi” tra il regista spagnolo Carlos Saura e il famoso coreografo e ballerino di danza flamenca Antonio Gades, fondatore di una compagnia di ballo attiva tuttora. Si immagina che Gades (che pertanto interpreta se stesso) stia allestendo un balletto sul soggetto della “Carmen” di Bizet, ma non trovi una degna interprete per la parte della protagonista, dal momento che la prima ballerina della compagnia (Cristina Hoyos) è ormai troppo attempata per il ruolo della giovane gitana. Per puro caso in una scuola di danza Antonio incontra una ragazza che gli sembra l’ideale per il suo progetto e la ingaggia. Tra i due nasce subito un’intensa storia d’amore ed Antonio giunge a dare una grossa somma di denaro al marito della ragazza (che è un “balordo”, sempre dentro e fuori dal carcere) purché se ne vada all’estero e li lasci in pace. Man mano che si susseguono le prove del balletto, il confine tra fantasia e realtà si fa sempre più sottile e i due ripetono nei loro comportamenti il destino tragico di Carmen e Don José. Antonio scopre l’infedeltà della ragazza con un ballerino della troupe e durante la prova generale dello spettacolo, di fronte alla decisione di Carmen di lasciarlo, la uccide. Il fascino del film sta soprattutto in due elementi:

  • le scene di danza flamenca, a detta di alcuni puristi un po’ troppo accademiche e “classiche”, ma sicuramente di grande impatto drammatico, basate come sono su di una emotività intensa ma ritualizzata (come in certi combattimenti tra animali) e per cosi dire “asciugata” rispetto ad un facile patetismo o folclorismo di maniera;
  • la commistione delle due trame, quella della novella/opera messa in scena dal coreografo e quella della vita reale, dell’amore vissuto dai due protagonisti: le due vicende si mescolano gradualmente fino a non distinguersi più, pirandellianamente. Anche il finale resta ambiguo: Antonio uccide davvero Carmen o fa anche quello parte della “recita”?

 

Il balletto “Carmen” con la coreografia di Roland Petit (1980).

Roland Petit è un coreografo francese. Nel 1948 fondò i Ballets de Paris al teatro Marigny, con Zizi Jeanmaire, sua moglie, come ballerina étoile. Nel 1972 fondò il Ballet National de Marseille, che diresse ininterrottamente per ventisei anni. “Le jeune homme et la mort”, su libretto di Jean Cocteau, è considerato il suo capolavoro, con coreografia e costumi di straordinaria modernità. Lo stile di Petit è inconfondibile: da un lato mantiene una grande fedeltà ai passi della danza classica, esigendo spesso grande virtuosismo da parte dei ballerini, dall’altro la sua coreografia è intensa, drammatica, assolutamente non convenzionale, soprattutto nelle scene di massa. Nel suo balletto “Carmen”, del 1980, sono memorabili soprattutto la scena della taverna, con movimenti del corpo di ballo che ricordano la “Sagra della primavera” nella famosa coreografia di Maurice Béjart, e il finale, con il “duello” tra i due protagonisti, senza musica (o meglio, con un semplice ma intenso sottofondo di percussioni), in un crescendo di tensione drammatica veramente eccezionale. Ovviamente il merito va anche ai due interpreti principali, Michail Barishnikov, che era allora all’apice della carriera, e Zizi Jeanmaire, forse un po’ troppo “parigina” nei panni di Carmen, ma sicuramente molto intensa, graffiante, quasi aggressiva. Splendida la sua “morte”, che fa pensare ad una farfalla o ad un uccello trafitti, o ad una bambola spezzata.

Fonte: http://www.liceomanzoni.net/download/iniziative/Scala_Carmen.doc

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