Teatro a Roma
Teatro a Roma
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Il TEATRO A ROMA
Nascita e primi generi
Premessa
I primi generi
I fescennini
Le (fabulae) Atellanae
Il Mimo
La satira
La commedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
La tragedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
Temi e modi delle rappresentazioni
L’organizzazione degli spettacoli
Gli attori e le compagnie
I costumi
Le maschere
I personaggi della palliata
La musica
Prologo e coro
L’edificio scenico
Le scene
Gli spettatori
Le ricorrenze
Nascita e primi generi
Premessa
Si suole suddividere la storia del teatro latino (romano) in due grandi fasi: la prima che va da Livio Andronico a Plauto e la seconda che va da Ennio all’età di Silla. La prima vera rappresentazione teatrale, un dramma di Andronico, avviene nell’anno 240 a.C., data quindi considerata ufficialmente come inizio del teatro. Ma prima di questo periodo più “glorioso” abbiamo un lungo capitolo preliminare che rappresenta l’origine e la lenta maturazione del teatro vero e proprio, non caratterizzato da individualità artistiche collocabili nella scena storico-letteraria o tali da essere oggetto di analisi approfondita, e che si evolve sostanzialmente in quattro forme così denominate: i “fascennini”, la “satura”, l’”atellana”, il “mimo”.
L’origine
Nel passo di Livio n.VII,2 (oggetto di molte discussioni) è descritto come i Romani, nel 364 a.C., messi in ginocchio da una terribile pestilenza, e non riuscendo con nessun rimedio a placare le ire degli dei, decisero ad un certo punto di ricorrere anche a ludi scenici, speciali danze caratterizzate da una particolare gesticolazione eseguite al suono del flauto, per le quali si rivolsero ai “ludiones”, artisti etruschi. Da questo episodio possiamo trarre due precise indicazioni fondamentali: la prima è che il teatro romano ha avuto una origine di carattere religioso, anche se molto “esteriore”; la seconda è che inizialmente abbiamo una evidente influenza etrusca, lo stesso influsso etrusco che è riconosciuto anche in tutti gli altri settori della società romana, compreso quello politico, nei quali si protrae almeno fino al 510 a.C.. Influsso che più tardi verrà superato perché, in seguito ai contatti con la civiltà greca, le rappresentazioni andranno a poco a poco trasformandosi e a fondersi con lo stile dei drammi greci, fino ad arrivare al periodo intorno al 240 a.C. e ai “Ludi Romani”.
Di queste prime rappresentazioni non abbiamo quasi nessuna documentazione, ed è quindi pressoché impossibile una corretta ricostruzione cronologica che ne evidenzi le varie evoluzioni. Questo perché, per loro stessa natura, erano basate sullo spirito di divertimento e sul gusto per la battuta scherzosa (iocularia), ed erano quindi sempre frutto di improvvisazioni, e non prevedevano l’esistenza né di un testo né di un autore. E’ ormai opinione consolidata infatti che i giovani romani, in virtù del loro “modus” di vedere e plasmare il mondo, nel loro imitare i danzatori etruschi abbiano saputo cogliere l’aspetto più propriamente scenico dell’azione, adattandone l’interpretazione e arricchendola con espressioni proprie spesso buffonesche e grossolane, tali da trasformare la primitiva celebrazione culturale/religiosa in un fatto etnicamente nuovo.
Ecco perché i primi documenti rinvenuti, cioè le traduzioni dei drammi greci da parte di Livio Andronico attorno al 240 a.C., e successivamente del contemporaneo Nevio, vengono convenzionalmente considerati la prima vera rappresentazione teatrale latina.
I primi generi
I fescennini
Oltre alla citata incertezza relativa alle forme e ai modi delle rappresentazioni del momento iniziale del teatro, ci troviamo di fronte, in questo caso, anche ad una incertezza di tipo etimologico sulla derivazione del nome stesso attribuito. Abbiamo addirittura tre ipotesi, che probabilmente non si escludono a vicenda, e che comunque non sono in contrasto nei contenuti, in tutti e tre i casi a sfondo apotropaico.
La prima ipotesi si collega al nome della città falisca di “Fascennium”, al confine tra Etruria e Lazio, dove era abitudine che durante il raccolto e per festeggiarne l’abbondanza, i contadini, mascherati, si aggregassero in schiere e si divertissero scambiandosi motti e versi improvvisati, molto rozzi e mordaci, in un clima di grande ilarità che doveva essere l’espressione di gratitudine verso gli dei.
La seconda ipotesi invece fa risalire il termine al latino “fascinum”, malocchio, quello gettato sempre dai contadini agli altri carri incolonnati al termine della vendemmia e che era altresì il modo per scongiurarlo a se stessi. Secondo la terza ipotesi invece sarebbe un sinonimo del latino “veretrum” e si rifarebbe al suo senso fallico, o più in generale ai messaggi licenziosi, sboccati e volgari in cui si concretizzava.
Non possiamo ancora assolutamente parlare di vere e proprie rappresentazioni teatrali: i suoi tratti caratterizzanti, quali l’immediatezza del dialogo in forma talora drammatica talora comica, le danze e la mimica con le quali i personaggi (mascherati) si esprimevano, costituiscono le prime forme di scenicità che evolverà nella drammaturgia.
Ci fu addirittura un momento in cui la licenziosità delle espressioni raggiunse toni talmente eccessivi da rendere necessario l’intervento della censura con le “Leggi delle XII tavole”, arrivando addirittura alla pena di morte per chi componesse versi infamanti contro un cittadino romano. Tutto ciò non minò il carattere mordace di tale espressione che rimase viva a livello popolare, ad esempio in occasione delle cerimonie nuziali, in forma di canto augurale di fortuna e fertilità da parte dei convitati all’indirizzo dei novelli sposi; oppure in forma di componimenti satirici contro personalità pubbliche. Abbiamo un esempio di fescennino letterario nel carme LXI di Catullo.
Le (fabulae) Atellanae
Da un punto di vista linguistico è evidente la derivazione etimologica dalla città campana di Atella, tra Capua e Napoli. Il problema interpretativo viene invece riguardo al legame tra la cittadina e la “fabula” a cui è legata per antonomasia. Secondo alcuni risalirebbe alla “pazza” posizione presa da Atella contro Roma durante la II guerra punica, in conseguenza della quale dovette subire una pesante punizione, e alla cui manifestazione fu attribuito tale nome. Altri più realisticamente si rifanno al carattere frizzante di “acetum” delle popolazioni campane, accomunate dalla stessa forma di rustica e genuina vivacità, seppur contraddistinte da svariate e multiformi espressioni etniche e culturali.
Con “Atellane” ci riferiamo ad un genere di rappresentazioni caratterizzate da una disciplinata impostazione scenica, molto meglio definita rispetto alle altre forme, con schemi determinati e costanti, a grandi linee paragonabili alla nostra “commedia dell’arte” del 1700. Nella loro forma iniziale si concretizzano in brevi improvvisazioni comico/farsesche, probabilmente derivanti dalla farsa fliacica, di origine greca, e si tratta indifferentemente di scenette mitiche o realistiche. Erano rappresentazioni che venivano inscenate quasi sempre alla fine di spettacoli tragici, perciò si dice che avessero un “exodium” catartico, dovevano cioè ridare, agli spettatori impressionati dalle scene cruente, un senso di ritrovato sollievo aiutandoli ad attenuare la paura suscitata. Di spirito molto popolaresco e vernacolare, erano tutte molto simili fra loro, in particolare per la presenza di figure fisse, che col tempo diventarono veri e propri personaggi popolari che animavano le scene ognuno col proprio ruolo stereotipato e si riconoscevano dal costume e dalla maschera caratteristici.
Nacquero ad esempio Pappus, un vecchio ridicolo e lussurioso che ci richiama il nostro Pantalone; Maccus, il ghiottone, uno scemo maltrattato come Pulcinella; Dossenus, un gobbo astuto ed imbroglione, forse l’antenato del nostro Dottore; Bucco, un fanfarone insaziabile tardo e maleducato, spesso relegato al ruolo di servo che si avvicina al personaggio di Brighella.
In questo modo con l’Atellana nascevano dei veri e propri attori professionisti che recitavano ognuno la propria “trica” (intrigo) di situazioni comiche e ridicole seguendo una specie di canovaccio che conoscevano a memoria, riuscendo comunque ogni volta a dare un senso di immediatezza e di originalità. Non mancavano tra i giovani romani quelli che ne erano attratti e che qualche volta si improvvisavano attori, e incontrò un tal favore che nei primi decenni del I sec. A.C., al tempo di Silla, Novio e Pomponio le diedero una identità letteraria lasciandoci alcuni testi scritti che sostituirono definitivamente l’originaria improvvisazione.
Il Mimo
Il mimo arrivò a Roma tramite i soldati che lo conobbero durante la guerra di Pirro e la prima guerra punica, essendo già a quel tempo molto diffuso presso i Siracusani e i Tarentini. Consisteva in una breve azione drammatica di tipo macchiettistico e caricaturale, ed era di origine greca come lo era pure la derivazione etimologica (mimos, imitatore).
La sua caratteristica peculiare era il “gesto”: l’espressione scenica affidata al linguaggio risultante dai gesti e dagli atteggiamenti del volto e del corpo. Ma se esso fiorì dapprima come farsa improvvisata, punteggiata di danze e di battute salaci, poi si collegò con i ludi in onore della Dea Flores, che avevano carattere quasi orgiastico: venne quindi trasformandosi in un vero e proprio spettacolo composito. Verso la fine del sec.II si venne meglio ordinando il miscuglio di canto, danza e recitazione, in parte sempre improvvisati, in parte aventi forma metrica, e pare che si giunse alla definizione di vari tipi, come ad esempio gli “hypothesesis” dalla trama prestabilita, o i “paignia” che includevano esercizi di destrezza, di giocolieri e di danze, ma tutti avevano comunque un carattere sempre libero e pungente e a tratti anche licenzioso, e includevano salaci frecciate contro personaggi in vista. Anche il mimo, come l’Atellana con la quale si scambiavano spesso il ruolo, aveva la funzione di “exodium”, ma aveva, rispetto a questa e agli altri stili, due elementi che lo differenziavano radicalmente.
La prima differenza era che, essendo per sua natura una imitazione della vita reale, non prevedeva il ricorso a maschere con calzature speciali; anche se bisogna precisare che se è vero che gli attori recitavano a viso scoperto, è pur vero che col tempo si crearono dei personaggi “fissi”, riconoscibili dall’abbigliamento tipico e stabile: c’era ad esempio il “mimus albus” vestito tutto di bianco come il nostro Pulcinella, e c’era il “mimus centuculus” che al contrario vestiva un abbigliamento multicolore come il nostro Arlecchino.
Il secondo elemento di distinzione consisteva nel fatto (unico a quel tempo) che per i personaggi femminili si ricorreva proprio ad interpreti di sesso femminile e non ad attori maschi travestiti da donne, escluse dalla tragedia e dalla commedia. La presenza femminile sulle scene condusse però, ben presto e molto facilmente, alla degenerazione lasciva delle rappresentazioni verso forme sceniche in cui si giocava molto sull’esibizione del nudo femminile, tanto più che le interpreti erano attricette molto disinibite arruolate tra le “meretrices”, paragonabili alle nostre prostitute. Il culmine di questi spettacoli, che diventarono “nudatio mimarum”, veniva raggiunto durante i “Ludi Florales” in un’atmosfera quasi bolgiastica tra fischi e applausi e motti a tema.
Protetto dai potenti, finì col soppiantare l’atellana, come si sa da Cicerone, ed ebbe il suo periodo aureo ai tempi di Cesare, quando, con autori come Decimo Laberio e Publilio Siro, contemporaneamente anche interpreti, il “mimo” arrivò ad una dignità letteraria. Attori popolarissimi di quell’epoca furono Pilade di Antiochia e Batillo di Alessandria.
Nell’età imperiale la storia del mimo si confonde con quella del pantomimo e col diffondersi del Cristianesimo il genere declinò: dopo Costantino le esibizioni di mimo e pantomimi, giudicate “più vicine al vizio che allo spettacolo” furono vietate.
La satira
Riguardo la derivazione etimologica la satira è fra tutti i generi teatrali la più ricca di ipotesi e quindi la più discussa e contrastata. Basta pensare per esempio che già il grammatico Diomede a suo tempo aveva formulato quattro ipotesi, tuttora valide ed egualmente accettate. La prima (forse la meno accettata, perché non suffragata da prove) la farebbe accostare all’ambiente dei “Satyri”, ossia al dramma satiresco greco, per la connessione grafica del nome. Ciò vorrebbe essere una documentazione a sostegno di una origine “illustre” e “dotta” e per questo da molti considerata “sospetta” e “forzata”. Per la seconda ipotesi l’analogia era con il dono votivo agli dei sotto forma di piatto ricolmo delle più svariate primizie, il “satura lanx” . La terza ipotesi allude al contenuto tecnico delle rappresentazioni, “farcito” (“per saturam”) di molte varietà e la quarta infine deriverebbe dalla espressione “lex satura” ed indicherebbe la varietà di soggetti presenti in una composizione poetica. Una attenta valutazione ci porta alla conclusione che in sostanza almeno le ultime tre ipotesi non si escludono a vicenda, ma che anzi sono accomunate dal riferimento alla molteplicità e varietà di argomenti e di contenuti nelle rappresentazioni satiriche: al popolo veniva offerto uno spettacolo molto vario e pieno di diverse espressioni, quali la danza, la musica, il canto, il dialogo, la gesticolazione, il tutto sempre coordinato da un ritmo musicale che faceva da filo conduttore, anche se si è quasi certi dell’assenza di una effettiva azione unitaria preventiva.
La nascita della “satira” come stile in sé si fa invece risalire ad una evoluzione dei “fescennini versus”, derivanti a loro volta dalla fusione con le forme di danza sacrale-liturgico di origine etrusca. Ne deriva che la satira è un genere tipicamente romano: “satura quidem tota nostra est” come ebbe a dire Quintiliano.
Le questioni si moltiplicano poi a dismisura, oltre che sul piano etimologico, suffragate da un dilemma stilistico e di contenuti. Dalle definizioni di Diomede infatti possiamo distinguere due sostanziali fasi della “satira”: una coltivata da Ennio, che è stato il primo autore di “saturae” letterarie nel III – II sec. a.C., e da Pacuvio, e caratterizzata dalla varietà di temi, personaggi e scenografie. L’altra fase caratterizzata da un intento più moralistico e indirizzata alla fustigazione dei costumi di cui abbiamo le prime testimonianze in Lucilio (II sec. a. C.). Questi viene considerato il vero fondatore della satira quale componimento poetico (come poi si fissò definitivamente). Egli ne fece uno strumento di critica delle vanità umane e dei vizi della società introducendo riferimenti personali. Tipici divennero con lui il verso esametro e lo stile colloquiale, anche se pregno di rudezza. La sua opera evolverà nei capolavori di Orazio (65 – 8 a.C.), che con le sue “Satire” si è confermato il massimo autore del genere a Roma: nei suoi due libri, i “Sermones”, esprime il suo duro giudizio sulle follie degli uomini, osservate con ironico distacco. Del I sec. dell’impero abbiamo opere di Persio e Giovenale: il primo, seguace dello stoicismo, fa del moralismo in modo molto astratto, mentre il secondo molto più concretamente si cala nella realtà del tempo, la Roma imperiale, dipingendola come corrotta e viziosa. Passando poi per il Varrone, di cui poco si conosce, arriviamo fino al “Satyricon” di Petronio, spietato ritratto della società del suo tempo.
Queste testimonianze escluderebbero la tesi di Livio che la vedrebbe come una sorta di forma drammatica indigena risultato dalla influenza delle manifestazioni etrusche sul “fescennino”.
A tutt’oggi sono comunque aperte discussioni e controversie a non finire e neanche le considerazioni più sottili non sono ancora riuscite a sancire conclusioni definitive. La complessità dell’argomento che spazia nelle più diverse sfumature e tocca le più diverse discipline lascia aperti i più svariati interrogativi per gli addetti ai lavori, tra cui un posto di rilievo occupa il contemporaneo Flocchini.
La commedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
La commedia romana è sostanzialmente simile alla “commedia nuova” greca, dalla quale si discosta solo per poche innovazioni: l’eliminazione del coro, che in seguito verrà comunque ripristinato; e, sotto l’influsso etrusco, l’introduzione dell’accompagnamento musicale. L’ambientazione e l’ispirazione greca sono dimostrate dal fatto che gli attori indossavano un particolare mantello analogo a quello usato dagli attori greci e che ha conferito a questo tipo di commedia il nome di “fabula palliata”. Accanto a questa, di ispirazione straniera, esisteva la “fabula togata”, da “toga”, l’abito nazionale italico, e/o “tabernaria”, da “taberna”, la casa degli umili, dalle origini più “casalinnghe”, di contenuti e ambientazione romani.
I massimi esponenti in questo campo sono Titinio, Afranio e Atta, ma soprattutto sono considerati primi fondamentali autori Plauto e Terenzio che a differenza dei loro predecessori si specializzarono nel componimento esclusivo di commedie.
La tragedia e i suoi primi autori. Brevi cenni
Completamente ripreso dai modelli greci, il genere della tragedia fu molto apprezzato fin dagli albori dai romani che la chiamavano “fabula cothurnata” per i “cothurni, le calzature indossate dagli attori, o “fabula palliata” per il mantello, come già citato, se aveva contenuti e ambientazione greci. Ma se le tragedie avevano un “sapore più nostrano”, con marcate allusioni al clima politico romano, erano dette “praetextae” perché gli attori recitavano indossando la “toga praetexta”, la divisa dei magistrati, orlata di porpora.
Purtroppo non ci sono pervenuti testi di tragedie, ma si sa per certo che ci furono autori molto validi come Ennio, Pacuvio e Accio, e le uniche opere di cui disponiamo risalgono ad un periodo decisamente successivo, tra il 30 e il 60 d.C., e sono quasi tutte di Seneca, compresa l’unica praetexta sopravvissuta, l’”Octavia”. Bisogna tener conto inoltre di tutta una produzione “minore” e soprattutto degli spettacoli romani, più famosi delle opere: i combattimenti dei gladiatori, le corse dei carri, i vanationes e le naumachie.
Temi e modi delle rappresentazioni
L’organizzazione degli spettacoli
La messa in scena degli spettacoli teatrali era strutturata in modo tale che praticamente l’autorità politica poteva esercitare a piacimento una forma di condizionamento sui contenuti per cui agli autori non era consentita nessuna libertà di pensiero, quasi esistesse già una forma di censura (Ennio per esempio incorse in parecchie noie per questo). L’organizzazione delle scenografie era compito specifico degli “aediles” e in qualche caso addirittura del “praetor urbanus”. I magistrati acquistavano personalmente le opere e ne diventavano a pieno titolo unici proprietari togliendo qualsiasi diritto agli autori (non esisteva ancora la tutela continuativa del diritto d’autore): in questo modo i drammi venivano manipolati a piacimento ed erano usati tali e quali fossero degli strumenti di propaganda politica ed elettorale, e addirittura questi “impresari” vi investivano anche del denaro per la miglior riuscita del loro scopo. Stipulavano dei contratti col “capocomico” sovvenzionando una parte delle spese necessarie all’allestimento scenico, salvo farsi rimborsare il denaro in caso di insuccesso: il rischio maggiore gravava quindi proprio sul capocomico. La mancanza della libera iniziativa per gli autori e le compagnie condizionava sovente la stesura delle opere stesse, che non di rado risultavano viziate nei contenuti e nelle espressioni, cariche di sottintesi adulatori, al fine di favorirne la vendita, e di realizzare il miglior prezzo.
Gli attori e le compagnie
Le compagnie teatrali, dette “catervae”, erano costituite da un “capocomico”, il “dominus grecis”, tra i quali uno dei più noti fu Ambivio Turpione, amico di Terenzio; da un “conductor” che fungeva da direttore delle scene, e da un “choragus” che era una specie di tuttofare che provvedeva ai costumi e alla messinscena. E poi naturalmente c’erano gli attori, i “grex”: per i drammi “regolari” provenivano dalla schiera degli schiavi o dei liberti, mentre le Atellane erano interpretate da uomini liberi. Inoltre si distinguevano in due categorie principali: gli “histriones” e i “mimi”. Bisogna comunque sottolineare che gli attori, a differenza della Grecia dove erano molto considerati, a Roma non godevano di eguale prestigio. La riabilitazione di questa professione avverrà soltanto ai tempi di Cicerone grazie a Roscio, il più grande attore della Romanità che con la sua maestria riuscì a conquistarsi l’ammirazione dello stesso Cicerone il quale arrivò a difenderlo in una sua orazione e da allora l’intera categoria fu rivalutata.
Per citare qualche nome famoso, un primo attore illustre fu Livio Andronico, che sappiamo essere stato un interprete eccellente dei suoi drammi; Plauto si distinse in gioventù come attore di Atellane, ma non si sa con certezza se poi abbia recitato in qualche sua opera. Di Stazio e Terenzio invece sappiamo che si limitarono alla stesura di opere senza mai calcare le scene.
I costumi
Cambiavano in base al genere teatrale: commedia, tragedia o atellana.
Come già evidenziato nei rispettivi paragrafi la differenza tra il genere comico e tragico veniva sottolineata anche dall’abbigliamento degli interpreti: le rappresentazioni erano dette “palliate” se erano di ambientazione greca e allora gli “histriones” si rifacevano agli omologhi ateniesi e indossavano il “pallio”. Nelle tragedie poi si usavano delle speciali calzature greche, i “cothurni” che, aumentando di statura l’attore, gli conferivano maggior imponenza e dignità, tali da accentuarne il carisma e la tragicità della scena, e da qui il termine “cothurnata” ad indicare tragedie di ambientazione greca, mentre nelle commedie si ricorreva ad un’altra calzatura, il più umile e basso “soccus”. Quando invece si rappresentavano opere di ambientazione romana si distinguevano in “togata” per le commedie, in cui si indossava la “toga”, e in “praetexta” per designare le tragedie per le quali si usava l’abito di ruolo dei magistrati.
A caratterizzare i personaggi e i ruoli che dovevano sostenere sulla scena, entravano poi in gioco il colore dei costumi accanto ad alcuni accessori tipici e simbolici. Per esempio al di là dello stesso pallio gli attori che interpretavano i medesimi ruoli indossavano sempre lo stesso costume: ciò rendeva immediato il loro riconoscimento all’ingresso in scena. Così era palese che il personaggio con la spada e la clamide era un soldato, quello col tabarro e il cappello un messaggero, con la pelliccia il villano, con il mantello il parassita, con il farsetto il popolano, e così via. Inoltre c’è da ricordare che, tranne che nei “mimi” i personaggi femminili erano interpretati dai maschi travestiti da donne, e anche qui c’era tutta una serie di costumi-simbolo. A proposito dei mimi si è già accennato alla “etichettatura” del “tipo” portato in scena, in base al colore stabile del costume: il “mimus albus” e il “mimus centuculus” interpretavano sempre gli stessi ruoli.
Le maschere
Riprendendo ancora una volta il modello greco, le maschere romane erano di legno o di tela ed avevano applicato una capigliatura. Si ricorse all’uso di questo accessorio per facilitare il lavoro degli attori che spesso in una stessa opera dovevano interpretare più ruoli e personaggi anche simili tra loro, ed inoltre i tratti del volto molto marcati, e talvolta volutamente esagerati, erano ben visibili da tutto il pubblico anche ad una certa distanza e in più conferivano maggiore espressività ed enfasi. La bocca soprattutto era conformata in modo da rafforzare il timbro della voce: “ut per-sonaret” si diceva, (dalla cui espressione alcuni farebbero derivare il termine “persona” con la quale i Romani l’avevano designata), poiché i microfoni non esistevano ancora e i teatri erano molto vasti, con prevedibili problemi di audio.
Il problema che accompagna questo argomento riguarda l’origine della maschera stessa e del suo uso. E’ ormai data quasi per scontata la sua derivazione etrusca, e secondo alcuni addirittura il suo nome latino, “persona”, sarebbe derivato dal dio etrusco Phersus. E’ quasi certo anche che il suo uso era d’obbligo nella tragedia, mentre non se ne trova riscontro nella commedia ma sorge l’enigma di come gli attori potessero ovviare al problema dell’esigenza di due personaggi perfettamente identici sulla scena, come ad esempio nell’”Amphitruo plautina”. Se ne è quindi ipotizzato l’introduzione solo in un tempo successivo, e precisamente nel 130 a.C., dal capocomico “Minucio Protimo” , e un uso più continuativo ancora più tardi col già citato Roscio.
Piano piano però essa andò probabilmente scomparendo data la sempre maggior popolarità che riscuoteva il genere del mimo nel quale il suo uso non era contemplato.
I personaggi della palliata
Nella commedia “Palliata” troviamo sempre dei personaggi “tipo”, come a dire delle “figure fisse”. Tra i personaggi maschili più ricorrenti abbiamo: il padre, talvolta in veste severa, o bonaria, o libertina; il giovane, sempre alle prese con un amore impossibile da realizzare per una schiava o una cortigiana la cui avvenenza lo brucia di passione; il soldato spaccone che continuamente si vanta delle proprie imprese, a suo dire, eroiche; lo schiavo che interpreta i più svariati atteggiamenti con astuzia, vivacità e intelligenza, sempre affezionato ai padroncini per i capricci dei quali è pronto a rischiare di persona di fronte ai padroni.
Tra le figure femminili abbiamo invece: la moglie sempre gelosa, a torto o a ragione che sia; la ruffiana, odiosa e ripugnante nei suoi viscidi atteggiamenti; la schiava sempre bellissima e avvenente per cui tutti gli uomini spasimano; la cortigiana, sempre alla ricerca di qualche espediente per spillare denaro. Un ruolo molto particolare è quello della figura della madre: di solito poco presente nelle trame, quando vi appare accentra su di sé tutte quelle oneste qualità tipiche della integrità di costumi del focolare domestico romano
La musica
La musica negli spettacoli romani non era un semplice “corredo” che accompagnava i movimenti e i dialoghi degli attori, perché rivestiva una funzione importantissima, un vero e proprio ruolo da protagonista. Un “tibicen”, cioè un flautista, accompagnava con la “tibia” gli attori nelle parti declamate e dialogate (“diverbia”) o in quelle cantate (“cantica”). La tibia era semplice o doppia, era costituita da due tubi di lunghezza variabile, e si distingueva in “dextera” e “sinistra” a seconda che la si suonasse tenendola appunto con la destra o la sinistra e la si imboccasse dal lato destro o sinistro della bocca. Questo non era un particolare casuale, bensì indicava il diverso tono dello strumento, rispettivamente l’ “alto” e il “basso”. Le diverse tonalità davano maggior enfasi alle situazioni: così ad esempio i suoni più gravi (bassi), ottenuti con tibie di uguale lunghezza, accompagnavano le parti più serie, mentre i suoni più acuti (alti), ottenuti con tibie di diversa lunghezza, si addicevano alle situazioni comiche e ridicole. Questo schema era molto rigido: addirittura il pubblico sapeva riconoscere il personaggio che stava per entrare, o come si stava evolvendo la situazione in base al tono della musica che lo introduceva, e il tibicen si atteneva alle convenzioni che lo volevano sulla scena a fianco degli attori, accompagnandoli con apposite melodie dall’inizio alla fine e spostandosi talvolta insieme ad essi sul palcoscenico.
L’usanza di accompagnare gli spettacoli con la musica pare sia ancora di origine etrusca, infatti da lì sarebbero arrivati i primi suonatori. Per questo non era presente nelle rappresentazioni di senari giambici. Purtroppo della musica romana non ci è rimasto nulla. Da questo lato quindi non ci è possibile ricostruire lo spettacolo: una lacuna che ci impedisce di valutare appieno il carattere e il fascino della commedia romana nella sua completezza.
Prologo e coro
L’idea del Prologo nasce da Euripide come esigenza di spiegare agli spettatori, prima dell’inizio dello spettacolo, l’antefatto del dramma, cioè le cause che hanno portato alla situazione, e di anticipare l’azione stessa e la sua conclusione. Da qui in poi una serie di evoluzioni porteranno alla “commedia nuova” latina. Fino a Plauto il prologo avrà una funzione essenzialmente espositiva dei fatti, mentre si avrà con Terenzio una maturazione al punto che esso diverrà un modo per esternare ed esporre le ragioni artistiche e il pensiero dell’autore, in polemica con gli avversari, in modo da non dare adito a false interpretazioni dei contenuti.
Per quanto riguarda il coro dobbiamo distinguere la tragedia dalla commedia. Nella tragedia venne conservato lo stile greco sia nella struttura del coro che nella divisione della rappresentazione in cinque parti. Nella realizzazione della commedia degli autori latini invece, dove si è già accennato alla funzione del ritmo musicale come parte integrante dell’azione scenica, ci troviamo davanti a caratteri compositivi innovativi molto diversi dai classici: se prima il coro aveva funzione di intermezzo, venne man mano abolito, e con lui ebbe fine la divisione dell’opera nei cinque atti. Si sviluppò al suo posto il modello dei “cantica”, cioè le parti cantate dagli attori stessi, come possiamo valutare da Plauto e forse sperimentarono anche Livio ed Ennio, con effetti di grande spettacolarità e presa sul pubblico estasiato dalla scenicità nuova. Terenzio preferì invece rimanere fedele a Menandro e ai modelli greci mantenendo i dialoghi e i monologhi parlati anziché modernizzarsi e ricorrere alle parti cantate.
Una curiosità, probabilmente escogitata ed introdotta da Livio Andronico che, interpretando di persona una sua opera, per paura di una caduta della voce a causa dei numerosi bis, è che l’attore/cantante intonava il suo canto, ma poi talvolta si faceva “prestare” la voce da un altro esecutore, nascosto, che continuava al suo posto, mentre lui, stando in primo piano sulla scena, si limitava a mimare il canto.
L’edificio scenico
Oggi noi stimiamo il teatro come una delle più indovinate ed attraenti opere dell’architettura romana, che riassumeva nella sua maestosità tutta la magnificenza e la grandiosità di quella cultura. Non sempre però è stato così: i primi edifici teatrali in muratura furono costruiti solo nel 30 a.C.
Prima di questa data in occasione delle rappresentazioni venivano allestiti teatri provvisori, in genere di legno, le cui strutture rispondevano di volta in volta alle esigenze sceniche e ai diversi eventi che vi si svolgevano. Di solito venivano eretti nel circo o davanti ai templi di Apollo o della Magna Mater. L’esigenza di passare a strutture stabili venne dalla passione dei romani per i generi di spettacoli molto “ingombranti”, con scenografie grandiose, per cui si rese necessaria la edificazione di luoghi adeguati per contenere sia l’allestimento scenico che gli spettatori. Il maggior esempio ideato e costruito, e che ci è rimasto, è l’Anfiteatro Flavio, il Colosseo. Queste strutture volevano inizialmente riprodurre gli esempi greci, ma le esigenze specifiche hanno indotto ad apporre importanti e sostanziali modifiche, in modo da ottenere delle architetture molto originali.
Così il teatro romano di età Augustea e imperiale è costruito su un terreno pianeggiante, a differenza del greco che poggia su un declivio, ed è un edificio che si presenta a pianta semicircolare, tutto chiuso da mura perimetrali di eguale altezza che collegano le gradinate del pubblico (cavea) con la scena monumentale, davanti alla quale si apriva il palcoscenico (pulpitum) basso e profondo, mentre nel teatro greco fino al IV sec.a.C. non esisteva palcoscenico e gli attori recitavano insieme al coro nell’orchestra circolare. La forma circolare e il perimetro della stessa altezza permetteva la copertura dell’intera struttura tramite un “velarium”: soluzione assolutamente innovativa che ha il merito di aver anticipato il prototipo dell’edificio teatrale moderno.
Le scene
E’ principalmente Vitruvio a tramandarci notizie dettagliate sulla scenografia romana: è lui ad evidenziare che all’inizio non esistevano scenografie specifiche o comunque complesse, ma erano piuttosto gli attori stessi che con i loro dialoghi e la loro bravura sapevano evocare luoghi e circostanze in cui ambientare le azioni. Generalmente comunque un teatro era allestito in questo modo:
- La parte anteriore era detta “proscenium”, quella che noi oggi identifichiamo con “scena”, era in legno, ed era il luogo dove gli attori recitavano. In genere rappresentava una via o una piazzetta, comunque un luogo pubblico all’aperto.
- Quello che oggi è il nostro “fondale” era la “scenae frons”. Una parete dipinta raffigurava la facciata di un edificio nella quale si aprivano in genere due o tre porte: erano gli ingressi utilizzati dagli attori che, sommando i due passaggi laterali destro e sinistro, avevano a disposizione ben quattro o cinque entrate (o uscite). Le porte sullo sfondo avevano valenza di “interni” della vicenda, mentre le laterali rappresentavano rispettivamente quella di destra (dal punto di vista del pubblico) la via che conduceva al foro, quella di sinistra la via che portava al porto, cioè i due punti di riferimento dell’”Urbe” dal punto di vista l’uno politico e giuridico, l’altro commerciale. Secondo la convenzione teatrale poi era quasi sempre previsto che le case di cui si vedevano le porte sul fondale avessero sul retro un vicoletto (“angiportum”) che serviva per raggiungere le case stesse attraverso il giardino senza passare davanti.
- C’erano poi i “periaktoi”, una trovata greca, che consistevano in prismi triangolari rotabili dipinti con una scena tragica su un lato, comica sull’altro e satiresca sul terzo, che davano un tocco di ambientazione in più.
- I romani introdussero poi l’uso dell’ ”auleum” , il predecessore del moderno sipario, ancora sconosciuto ai greci, di cui abbiamo certezza solo dall’epoca di Cicerone. Ci sono discordanze sul suo modo di essere utilizzato: secondo alcuni studiosi veniva sollevato dall’alto, mentre secondo altri veniva lasciato cadere dall’alto, e inoltre alcuni asseriscono che doveva improvvisamente rivelare una nuova scena, altri che serviva per passare da un atto all’altro, altri ancora che indicava la fine della commedia.
Era già in uso in Grecia, inoltre, creare veri e propri “effetti speciali” con l’utilizzo di macchine teatrali. I romani se ne servivano negli anfiteatri soprattutto per creare le scene di massa affollate di personaggi e animali, scene che mandavano in deliquio gli spettatori per la loro sensazionalità.
Gli spettatori
Se il pubblico greco era colto e raffinato, quasi elitario, il teatro romano si rivolgeva invece ad un pubblico eterogeneo dal punto di vista sociale, per la maggior parte incolto e non ancora introdotto agli ideali dell’ “urbanitas”: essendo gli spettacoli organizzati dallo stato era data la possibilità di assistervi a tutte le classi sociali, perciò vi era grande affluenza soprattutto proprio di plebei. Questo ha sempre condizionato la stesura delle opere e la loro messa in scena. Una platea così poco raffinata e spesso irrequieta preferiva per esempio spettacoli di circo ed esibizioni di giocolieri che venivano dati contemporaneamente alle rappresentazioni teatrali, intrecci avventurosi e dialoghi scurrili, scene movimentate da ballerini e cantanti, insomma policromia stilistica molto grossolana e soprattutto poco “culturale”. Per questo autori come Terenzio, rivolto ad una caratterizzazione intimistica e psicologica dell’intreccio, anche se sempre più ridotta al minimo per adattarsi ai gusti pacchiani della plebe, non ebbero mai il favore del pubblico ancora troppo lontano da questa delicata e raffinata sfumatura della trama. Per contro invece assistiamo al clamoroso successo di Plauto la cui genialità consiste nell’adattare le forme culturalmente più mature del teatro greco alle esigenze grossolane che gli spettatori romani dimostravano preferire.
Le ricorrenze
Come in Grecia, anche a Roma gli spettacoli teatrali venivano allestiti per la maggior parte durante feste di carattere religioso, talvolta in occasione di vittorie militari, oppure per la consacrazione di pubblici edifici, o per i funerali di personaggi importanti. A differenza dell’atmosfera che regnava ad Atene però, dove la partecipazione comune agli spettacoli rappresentava il punto più alto ed intenso di un’esperienza religiosa, etica e politica, a Roma lo spettacolo era sostanzialmente divertimento e momento di goliardia, indipendentemente dal tono più o meno elevato dell’opera. Più precisamente i romani avevano dedicato alle diverse divinità alcuni giorni fissi dell’anno per celebrare anche con spettacoli teatrali la loro devozione, a completamento e ornamento degli uffici religiosi e delle celebrazioni di rito. Questi periodi erano detti “Ludi”, seguiti da un aggettivo che ne indicava la celebrazione o la divinità festeggiata. Così ricordiamo:
- i “Ludi Romani”, di antichissima istituzione, di cui già si è accennato nella ricorrenza del 240 a.C. con la rappresentazione di Livio. Si celebravano in settembre, nel Circo Massimo, ed erano dedicati a Giove Ottimo Massimo. Al loro allestimento erano preposti gli “edili curuli”.
- I “Ludi plebei”, istituiti nel 220, si svolgevano in novembre nel Circo Flaminio sempre in onore di Giove e a commemorazione della riconciliazione dei patrizi con i plebei dopo la famosa secessione dell’Aventino. Alla loro organizzazione erano preposti gli “edili plebei”. Dal 200 furono affiancati dalle rappresentazioni drammatiche, inaugurate dallo “Stichus” di Plauto.
- I “Ludi Apollinares”, istituiti nel 212, si svolgevano in luglio presso il tempio di Apollo, anche per commemorarne un oracolo, e furono caratterizzati fin dall’inizio da spettacoli scenici. Alla loro organizzazione era preposto il “pretore urbano”.
- I “Ludi Megalenses”, in onore della “Magna Mater”, istituiti nell’aprile del 204, furono arricchiti dei “ludi scaenici” a partire dal 194. Al loro allestimento erano preposti gli “edili curuli”.
- I “Ludi Florales”, in onore di Flora, si svolgevano dal 28 aprile al 3 maggio e in essi predominavano gli spettacoli di mimo. Alla loro organizzazione erano preposti gli “edili plebei”.
In base a questo schema si calcola che in media a Roma c’erano dagli 11 ai 17 giorni di spettacoli all’anno, se teniamo conto solo delle ricorrenze “ordinarie, cioè le festività istituite. Ad esse dobbiamo aggiungere numerosissime occasioni “straordinarie” durante le quali venivano anche date delle rappresentazioni teatrali: i “ludi votivi”, per festeggiare particolari circostanze dello stato, i “ludi funebres”, in occasione della scomparsa di personaggi illustri e famosi, i “ludi triumphales” per festeggiare trionfi militari. Va inoltre sottolineato che era usanza “ripetere” letteralmente la festa con tutte le sue manifestazioni, qualora qualche imprevisto ne avesse compromesso la buona riuscita. Si ricorreva al fenomeno particolare e tipico romano della “instauratio”, espediente di cui si abusò parecchio per riproporre in scena spettacoli che avevano ottenuto particolare successo di pubblico.
Va anche ricordato che esistevano delle compagnie teatrali di dilettanti che davano rappresentazioni anche durante tutto l’anno, al di fuori delle scadenze dei “ludi”, oppure in occasione di festività religiose non ufficiali.
Fonte: http://ipertestiscuola.altervista.org/storia/teatroaroma.zip
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