Volontariato

 

 

 

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Volontariato

LA RELAZIONE D’AIUTO

Appunti tratti dal testo di Paolo Monformoso: “Aiutare alla speranza” ed. Camilliane

Chi è il volontario?
Qualunque sia il motivo della sofferenza di chi incontriamo, occorre ricordare che abbiamo sempre a che fare con uomini e donne. Con persone. E che abbiano un cancro, che abbiano l’Aids in forma conclamata, che abbiano avuto un ictus, che abbiano sbattuto la testa o che abbiano avuto un’altra forma di incidente per noi sono sempre e solo persone che per qualche motivo legato o meno ad azioni consapevoli, si ritrovano con una causa di sofferenza nella propria vita.

Ci sono troppe persone che credono che “volontariato” sia solo il fare qualcosa perché se ne ha voglia e quando se ne ha voglia. Ecco una prima contro-riflessione su cui invito a riflettere: il concetto di volontariato non ha a che fare con il “volere” o la “voglia”, piuttosto ha a che fare con la “volontà”.
Fare volontariato vuol dire mettere in atto un’azione dopo che si è espresso nella propria vita la volontà di dare una mano a persone che per qualche causa si trovano in difficoltà. Quindi non facciamo volontariato perché adesso ne abbiamo voglia, non faremo volontariato soltanto il giorno e l’ora in cui ne avremo voglia perché non avremo niente di meglio da fare.
Facciamo volontariato perché abbiamo espresso la volontà di conoscere una realtà di sofferenza umana e di agire per dono (gratuito) per queste persone.
E se il concetto di volontariato deriva da volontà, sfido a smettere di fare volontariato soltanto perché per una qualche causa personale passerà la voglia di fare volontariato!
Quella persona, quella che aiutiamo, continua ad aspettarselo; non lo ha chiesto lei a noi. Noi abbiamo detto a lei: vengo io. Per quale motivo ci dovremmo prendere la libertà di togliere l’aiuto promesso, e soltanto perché a un certo momento, per qualche motivo non ne abbiamo più voglia?

Cosa fa il volontario?

Il volontario è una persona che con-sola, che sta con chi ha paura di essere solo e con chi teme di essere solo a causa della sua malattia.
Allora il più bel sinonimo di “dono gratuito nell’azione volontaria” è: il desiderio di far sentire all’altro che non è più solo, il desiderio di togliere all’altro tutte le paure, tra le quali quella di rimanere solo, abbandonato, non più amato o amabile.
Il volontario dovrebbe essere un capace “lettore” della persona che ha davanti per poter mettere in atto interventi che siano “ad personam” e “ad situazionem”. Guai se un volontario imparasse solo una tecnica e andasse vanti a mettere in atto la stessa tecnica per tutti i malati che incontra o peggio, la stessa tecnica con lo stesso malato in situazioni differenti.
Il volontario deve diventare un “esperto di umanità” e quindi riuscire a leggere nell’altro quelle che potrebbero essere in quel momento le cause di disagio e mettere in atto interventi relazionali che possono essere capaci di aiutare quella persona in quel momento, e per quella particolare situazione.
Quindi per fare il volontario io devo sì conoscere come si fa volontariato, ma devo anche conoscere i destinatari ai quali io offro il mio intervento.

Motivazione

Perché siamo qui a fare volontariato? Qual è la motivazione che ci ha spinto a fare volontariato?
Io non so che risposta voi diate a questa domanda, ma vi assicuro che la risposta a questa domanda è fondamentale non soltanto per permettere di essere davvero capaci volontari, ma forse e soprattutto per essere persone che stanno bene con se stesse in relazione all’essere volontari-clown.
Non si può fare volontariato senza sapere con chiarezza perché farlo.
Accettiamo che da un punto di vista esistenziale e psicologico non esistano motivazioni giuste e motivazioni sbagliate, ognuno ha la propria. Ma dal punto di vista psicoigienico le motivazioni vengono suddivise in due categorie:

  • motivazioni significative
  • motivazioni non significative

Sulla base di che cosa? Sulla base dell’oggetto destinatario dell’intervento del volontario. Su questa base:
Significative: sono tutte le motivazioni che hanno più o meno esclusivamente a che fare con la persona in stato di bisogno.
Non significative (non “non valide”, ma per qualche causa “psicologicamente pericolose”): le motivazioni che non hanno esclusivamente a che fare con l’oggetto dell’intervento.
Esempio
Se: “faccio volontariato perché in questo momento della mia vita, dopo che sono andato in pensione , ho molto tempo da riempire e faccio volontariato per riempirlo” oppure se: “Vado a fare volontariato perché in questo momento mi sento giù di corda, mi manca un significato esistenziale e faccio volontariato perché questo serve per dare un senso alla mia vita”, oppure ancora: “Vado a fare volontariato perché ho capito l’importanza delle persone che soffrono e voglio andare ad aiutare veramente quelli che soffrono”.  Solo l’ultima delle tre motivazioni è una motivazione significativa; perché dice: vado a fare volontariato perché ho capito il valore di offrire aiuto a chi soffre, ed il valore intrinseco della persona: è una motivazione “eterocentrata”, cioè significativa.
Le altre due sono motivazioni buone, ma psicologicamente “egocentrate” e a rischio perché potrebbero mandare in crisi il giorno in cui, avendo altro da fare, sorgesse il dubbio circa il farlo ancora, oppure fare qualcos’altro. Oppure potrebbero essere causa di crisi il giorno in cui la gratificazione che procurano non è così appagante come desiderato (consciamente o inconsciamente) e allora…

Qual è il senso del fare volontariato?

Per me fare volontariato significa porre in atto una relazione che possa permettere a chi soffre di desiderare di vivere ancora nonostante la presenza della sofferenza. Il volontario  è quindi colui che, grazie alla relazione, aiuta l’altro che per qualche motivo sta soffrendo, a desiderare di continuare a vivere proprio nel momento in cui potrebbe desiderare di non vivere più, di chiudersi, di abbattersi. Dunque il volontario-clown che si approccia al malato oncologico è la persona che, grazie alla relazione interpersonale e che è potentemente terapia, si pone davanti all’altro e cerca di fargli venire la voglia di vivere fino a domani per potersi ancora incontrare. Il volontario-clown è colui che cerca di inondare la vita del sofferente con un fattore semplice e travolgente che si chiama gioia!
Il volontario ha un grande compito nel dire semplicemente al malato lungodegente: “Non vedo l’ora di vederti la prossima volta, non vedo l’ora di incontrarti ancora”, se in questo modo dà all’altro ilo desiderio di vivere altre ore, o giorni, e così facendo gli prolunga la vita.
Il volontario può essere colui che attua una famosa frase del filosofo Friederic Nietzche: “Solo chi ha un perché nella vita sa sopportare quasi ogni come”.
L’aiuto deve partire dal presupposto che anche se probabilmente non riusciremo mai a cambiare il “come”, possiamo sempre aiutare a cambiare il modo con cui atteggiarsi nei confronti della vita che ha quel “come”, e ciò è possibile quando nella vita c’è un “perché”, un motivo per andare avanti ancora.
Non è nostro compito fare accettare a un malato oncologico che soffre la propria sofferenza, forse noi non ce la faremo mai, ma è nostro compito aiutare l’altro, facendolo sorridere, prendendolo per mano, affinché giunga ad avere voglia di andare avanti ancora a vivere, nonostante tutto. Così che su un terreno fertile, le terapie facciano il loro effetto.
Io mi sento un volontario capace nella misura in cui sento che l’altro, nonostante quello che ha di malato, si mette in animo di continuare la vita.
A questo punto il volontario è, nella piena accezione del termine, un vero educatore alla vita e non solo un clownterapeuta per pur bravo e capace che sia.

Stato di “non parità”

Per poter mettere in atto un intervento di relazione d’aiuto chi aiuta e chi è aiutato non devono essere nella stessa situazione psicologica o fisica.  Il volontario può mettere in atto un intervento relazionale d’aiuto se, non vive la stessa situazione di disagio del malato. O per lo meno deve già aver assunto una situazione interiore di chiarificazione per quel problema, e che quella situazione per lui non rappresenta più un problema.

Le paure

Le paure dell’uomo soprattutto quando profondamente sofferente sono:

  • paura di essere abbandonato, di essere o rimanere solo, di non essere amato;
  • paura di non essere considerato, stimato, di non valere;
  • paura di non essere all’altezza, di non farcela, di non avere capacità per andare avanti, di non meritarsi la vita;
  • paura che le cose non possano cambiare più, e che non sia più possibile vivere la vita che si sognava o progettava prima dell’evento-malattia

La prima domanda che la persona malata si pone è: “Perché, perché a me? Dove ho sbagliato? Qual è la mia colpa? Per quale motivo mi è venuto questo? E adesso che mi è venuto questo mi vorranno ancora bene? Mi staranno ancora vicino? Sarà ancora come prima oppure resterò solo, non ci sarà nessuno accanto a me?”

C’è un’unica modalità per affrontare e rispondere alle paure di chi soffre: essere presenti con la forza dell’amore per dire all’altro: “non ti preoccupare, io sto con te!” E poi lo si “cura” con gli strumenti che ci appartengono.

Qual è dunque l’obiettivo primo dell’azione di chi instaura una relazione d’aiuto? Impedire alla persona sofferente di sentirsi non amata, sola, non amabile.
In fondo la vita è vera vita quando si ha la possibilità di fare qualcosa per qualcuno. Qui si realizza la vita: nel fatto di poter ancora in prima persona amare qualcun altro o qualcos’altro nell’esistenza. Certo è importante essere ricambiati, ma è fondamentale il poter amare, non soltanto l’essere amati. Anzi è importante il poter amare e l’essere amati avendo la garanzia che sarò sempre amato e sarò sempre con qualcuno che mi aiuterà, e continuerà ad essere presente con me, anche quando ci sono cause esistenziali che potrebbero rendere non più amabili.
Se è importante nella vita non soltanto essere amati, ma avere la possibilità di amare, di nuovo individuiamo un altro obiettivo dell’azione volontaria: amare per permettere all’altro di amare.
Amare per permettere all’altro di amare ancora una volta nella vita qualcuno o qualcosa, rassicurato dalla presenza e sostegno costante del nostro amore e della nostra presenza.
Il nostro è un amare che libera dalle paure.
Credo che il volontario sia colui che mette in atto una dinamica di amore per dare testimonianza di come si sta bene a vivere, per quante disgrazie ci possano essere; e con questo contagio dell’amore e della gioia fa venire  voglia all’altro di mettere in atto nella vita atti d’amore, nonostante tutto. E così vivere nonostante la sofferenza.
Come volontari non siamo chiamati soltanto a dare testimonianza dell’importanza della solidarietà, siamo piuttosto chiamati a usare la solidarietà per dare testimonianza di qualcosa.
Tu di cosa vuoi dare testimonianza? Di cosa ti senti forte e capace e fiducioso e coraggioso per dare testimonianza e coraggio all’altro per andare avanti e vivere nonostante tutto?
Io sono così capace, voglioso, desideroso, amante della vita nonostante tutto, da dare a lui la forza, il coraggio, l’entusiasmo, il contagio della gioia e di desiderare di andare avanti nonostante tutto?
E pongo a me la domanda: “Come mi comporto quando mi capita qualcosa che non vorrei?”
Dalla risposta a queste domande dipende tutto il nostro intervento come volontari e soprattutto come volontari in ospedali o reparti oncologici.
Se sono uno che cerca di mettere  in atto ancora tutte le possibili risposte per continuare con dignità la propria esistenza, allora sono un capace testimone dell’altro; se invece sono uno che si abbatte quando gli succede qualcosa di negativo, come faccio ad essere testimone che anche nelle difficoltà si può andare avanti a vivere?

E’ bella l’azione del volontario quando, essendo capace di amare, diventa anche capace di permettere all’altro di avere voglia di amare, di avere ancora voglia di provare la gioia di provare amore nella vita, sino all’ultimo istante


“Conoscerò un rumore di passi e sarà diverso da tutti gli altri. E’ il tuo…” – dice la volpe al Piccolo Principe nell’omonimo libro di A. de Saint Exupery, - intendendo che quando c’è una relazione buona “gli altri passi mi fanno nascondere…, il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica… e se tu vieni tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…”.

Educare alla salute

Educare deriva dal latino “e-ducere”, ossia tirare fuori, cioè tirare fuori dalla persona qualcosa che è in lei. Se “educhiamo” alla gioia, tiriamo fuori dalla persona la gioia che è in lei. L’educatore alla salute è colui che fa sì che emerga qualcosa che il malato ha in sé.
Ma “e-ducere”  ha anche un altro significato: è ducere-da cioè uscire fuori. Questo “tirare fuori” ha il significato di uscire da una situazione per entrare in un’altra: uscire dallo stato di tristezza per entrare nello stato di gioia. Uscire dallo stato di sofferenza cieco per entrare nello stato di sofferenza consapevole.
Il secondo termine latino che ha significato  legato a “educare” è: “Adducere”, ovvero portare verso una meta, condurre a…
Colui che educa lo fa, cioè libera chi soffre dalle convinzioni legate alla paura che nulla possa cambiare, per portarlo verso una nuova meta: non basta essere liberi dalla malattia, occorre anche essere desiderosi di vivere. Se non c’è questo passaggio non c’è possibilità di guarigione.
Guarire è dire: “Vorrei guarire perché per me è importante fare qualcosa, per poter amare questo, quello…”
Il terzo verbo latino che riguarda l’educare è “con-ducere”: l’educatore che conduce è colui che si fa compagno di viaggio e si mette alla stessa altezza della persona che accompagna: è colui che si fa umile per il malato, è colui che sa farsi “servo”, che abbraccia la persona in quella particolare situazione.
Noi come volontari che abbiamo scelto di accompagnare il malato siamo chiamati a liberarlo dalla paura per condurlo verso un nuovo destino di vita che in quel momento non vede perché ha paura della malattia.

Ecco quindi la completezza del verbo “educare” nelle sue tre accezioni:
Io e-duco: tiro fuori da te la gioia, per ad-ducere in te la voglia di vivere.
Io ti con-duco fuori dalla paura per farti capire che hai ancora un motivo per vivere

Che cosa mantiene l’uomo sano?
Se facciamo uno studio tra persone sane e persone “non malate”, ovvero quelle persone che pur con tutti gli acciacchi del mondo si considerano non malate, ci accorgiamo che non sono i traumi avvenuti o in corso a fare la differenza, ma la presenza di “fattori protettivi”, quali ad esempio la motivazione a vivere.
Educare alla salute è aiutare ad avere motivazioni: è stimolare alla comprensione che nelle situazioni di sofferenza è importante l’assunzione dei giusti atteggiamenti interiori. Educare alla salute è stimolare, stare accanto, attivare una decisione positiva.

“Siamo chiamati a lavorare per il benessere integrale delle persone che incontriamo”

Educare alla salute è sempre un liberare, è aiutare le persone ad aprire gli occhi e la mente perché possano ancora comprendere il senso della vita. Nonostante la malattia c’è ancora qualcosa che può essere fatto e lo si può fare insieme.

Essere idealisti significa essere convinti che c’è ancora uno spazio di vita, nonostante tutto.

Il saggio ed equilibrato idealista è un portatore di speranza, convinto che anche se restano solo tre minuti da vivere, questi sono ancora vita e comunque ci può essere un’altra Vita oltre. Chi soffre non ha quest’ottica, perché vede solo i tre minuti che gli restano e null’altro; spetta a chi lo aiuta comunicargli la convinzione che si può andare oltre,…
Un’altra caratteristica che dovrebbe essere propria dell’educatore alla salute è l’essere una persona gioiosa.

 

Fonte: http://www.drclown.it/dispensa.2011.2012.doc

Sito web da visitare: http://www.drclown.it/

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