Saggio breve Italo Svevo

 

 

 

Saggio breve Italo Svevo

 

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Saggio breve Italo Svevo

 

IL SAGGIO BREVE

 

  • Una definizione

Il saggio è una ricerca, un’indagine scritta su un particolare problema o avvenimento. Il saggio è un testo informativo e argomentativo in cui l’autore, basandosi sulla consultazione e sulla rielaborazione di fonti e documenti di vario tipo, fornisce una propria interpretazione.

La scrittura di un saggio richiede, una volta scelto l’argomento, un lavoro rigoroso di ricerca, di approfondimento, di analisi dei dati raccolti; successivamente occorre progettare e scrivere – il saggio appunto – interpretando, problematizzando e rielaborando in modo critico e documentato i vari aspetti del tema affrontato.

L’aggettivo “breve” che nell’uso scolastico accompagna il termine “saggio” rimanda invece al fatto che da un lato la ricerca e le fonti sono sostanzialmente limitate a pochi documenti (per altro già forniti), dall’altro la stesura deve essere contenuta entro uno spazio ben definito.

 

La scansione del saggio breve presenta:

  • l’indicazione dell’argomento e della lunghezza entro cui deve essere trattato;
  • il rimando a materiali da consultare e dai quali attingere dati e informazioni.

 

Nella stesura del saggio breve agli esami di Stato occorre innanzitutto interpretare e confrontare i documenti e i dati forniti; successivamente, sulla base delle informazioni raccolte, redigere un testo critico e argomentativo, anche con opportuni riferimenti alle conoscenze e alle esperienze di studio. Bisogna inoltre dare al saggio un titolo coerente con la trattazione e ipotizzarne una destinazione editoriale (rivista specialistica, fascicolo scolastico di ricerca e documentazione, rassegna di argomento culturale, altro).

Se lo si ritiene opportuno, si può organizzare la trattazione in paragrafi dando ad ognuno di essi uno specifico titolo. Per quanto riguarda la lunghezza del testo, infine, è opportuno non superare le 4-5 colonne di metà del foglio protocollo.

 

  • Scrivere un saggio breve su La coscienza di Zeno

 

Ti invitiamo adesso a scrivere un saggio breve su La coscienza di Zeno seguendo le indicazioni ministeriali sopra riportate.

Comporre un saggio breve sul romanzo di Svevo non è certamente cosa facile, anche perché sono sterminate, contrastanti e talvolta complesse le pagine d’interpretazione del romanzo scritte fin dal 1923, anno dalla sua pubblicazione. Pertanto pensiamo di facilitare il tuo lavoro di ricerca suddividendo i materiali di consultazione in 4 sezioni

 

  • Zeno, protagonista del Novecento
  • Zeno, Svevo e l’ironia
  • La scrittura de La coscienza di Zeno
Zeno, Svevo e il contesto storico culturale

 

Per ogni sezione, ti proponiamo qui di seguito i documenti e i testi di alcuni famosi critici. Dalla lettura e dall’interpretazione puoi trarre utili informazioni e spunti per la stesura del tuo saggio breve.

 

 

SEZIONE I  - Zeno, protagonista del Novecento

 

Giuseppe Langella, Italo Svevo, Morano Editore, Napoli 1992, pp. 170-171

[…] le ‘bugie’ che costellano i ricordi del protagonista non meno degli incontri terapeutici non sono per nulla arbitrarie, frutto cioè di pura immaginazione, ma conservano un preciso rapporto con le ‘verità’ da cui sono scaturite: ne costituiscono il rovescio, l’equivalente capovolto. Nelle confessioni che dovevano preludere alla psicanalisi Zeno ha realmente raccontato la sua vita, ma in controluce, come se avesse proiettato sullo schermo il negativo della pellicola anziché il positivo. La strategia ironica messa in atto dal protagonista della Coscienza rientra nel tipo che Heinrich Lausberg negli Elementi di retorica ha definito “di azione tattica”, dove cioè la finzione è continuata e l’equivoco persiste fino allo scioglimento della situazione. In altri termini, la ‘tattica’ della dissimulazione, lungi dall’essere un accorgimento momentaneo, qui diventa la struttura portante del romanzo. Solo alla fine, nell’VIII capitolo, vale a dire al di là dei quaderni autobiografici scritti su impulso dello psicanalista, avremo lo svelamento dell’autentica personalità di Zeno, in concomitanza con la fornitura della chiave ironica per intendere correttamente il testo memoriale. Il capolavoro di Svevo andrebbe letto pertanto a ritroso, partendo dall’epilogo dove tutte le verità vengono a galla, dal drastico rifiuto della teoria e della prassi analitica, all’incontrovertibile dimostrazione della piena salute di Zeno, alla verifica di un eccezionale fiuto negli affari, tanto più in risalto in quanto calato in una cornice di guerra. Alla luce dell’epilogo tutto diventa più chiaro, né possono più sfuggire le tracce, pur minime, del vigore e del successo di Zeno che il narratore ha lasciato cadere nell’opera con la raffinata negligenza di un sornione. Tocca a noi, quindi, risalendo con il senno di poi la china del romanzo, portare in piena luce le brillanti qualità di Zeno, tenute abilmente nell’ombra. Intelligenza commerciale, oculatezza nella scelta della moglie, piena soddisfazione sentimentale, inconsistenza della malattia, incrollabile ottimismo, superiorità nei rapporti, autorevolezza, equilibrio, spirito e inventiva, umorismo e altri segnali di questo tenore delineano una figura d’uomo non comune e giustificano l’amore di Augusta e di Carla, la stima di Ada, l’amicizia di Guido e l’invidia degli altri antagonisti maschili. Il personaggio sveviano, con arte discreta, è salito in cattedra. 

 

Alberto Asor Rosa, La storia del «romanzo italiano», in Il romanzo. Storia e geografia III, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2002, pp. 283-284

Con il romanzo italiano moderno – e come tali leggo i due romanzi di Svevo e Pirandello, - entrano in campo prepotentemente nella nostra narrativa due categorie, strettamente imparentate fra loro, che sono l’inettitudine (anche inerzia) e l’indifferenza: storia di parole, che potrebbe diventare storia di uomini e di cose. La macchina romanzesca, spostando il punto di vista dall’osservazione della realtà all’osservazione dello scarto fra la realtà e la coscienza, richiede nuovi tipi umani: nuovi tipi umani, in cui le condizioni di quella scissione si presentino allo stadio più puro. Il titolo originario del primo romanzo di Svevo, Una vita, era Un inetto […] Non parliamo di Zeno. Solo se si è inetti, cioè privi di ogni capacità, si diventa vuoti al punto giusto da poter accogliere ogni esperienza. La conseguenza dell’«inettitudine» sul piano pratico è l’«indifferenza» (decisamente più visibile in Svevo che in Pirandello). Di «inerzia» (equivalente di «inettitudine») e d’«indifferenza» sono tramati tutti i romanzi di Svevo. […] Nella Coscienza di Zeno, detto del protagonista: «Nella mia inerzia fui preso dal desiderio di rivedere Carla» e «Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quell’attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica»; in ambedue i casi, espressi con il medesimo stilema, altamente indiretto, e cioè «nella mia inerzia», l’«inerzia », un’attitudine della psiche intrinsecamente passiva e rinunciataria, è messa paradossalmente alla base di scelte passionali e di desideri, che sembrerebbero far parte di ben altra sfera della volizione umana: è, cioè, un’attitudine attiva e partecipativa, la vera fonte delle scelte (com’è del resto in tutta la storia di Zeno Cosini); detto della povera Ada, che rientra a Trieste dopo aver trascorso un periodo di cura a Bologna: «… se [Guido] avesse guardata meglio in faccia la povera donna si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza» (VV, p. 328). «Inettitudine», «inerzia», «indifferenza» sono le categorie con cui l’Italia traduce e ammorbidisce – soprattutto nel triestino Svevo, - la perentoria indicazione musiliana dell’«uomo senza qualità»: il dispogliamento mitteleuropeo di quanto nel protagonista è superfluo per arrivare più rigorosamente all’essenza e alla coscienza delle cose. Ma in Zeno Cosini manca l’energia vitalistica di Ulrich, per quanto ormai orientata anche questa all’astrazione assoluta: prevale invece il ripiegamento riflessivo, la rinuncia a qualsiasi azione, anche quando assume anch’essa natura contemplativa.

 

 

Giacinto Spagnoletti, Svevo da «Una vita» a «La coscienza di Zeno», Mucchi Editore, Modena 1991, pagg. 25-29

Quando si legge La coscienza di Zeno, la coscienza riporta immediatamente a due aspetti, la psicanalisi e la coscienza in quanto fatto positivo dell’individuo. Qui si tratta invece di un caso di «incoscienza», perché Zeno Cosini, il personaggio protagonista del romanzo, non ha quella che noi chiamiamo «coscienza», e quindi il titolo è probabilmente ironico. Il romanzo è tutto quanto permeato di ironia; mentre gli altri due [Una vita e Senilità] lasciavano soltanto qua e là interventi ironici, questo romanzo è immerso nell’ironia dall’inizio alla sua fine.

È il romanzo di un commerciante abulico che ha un’infanzia e un’adolescenza alquanto sbalestrate, cambia facoltà troppo spesso e non conclude nulla fino alla morte del padre. […] Vedete allora quale personaggio si dimostra Zeno Cosini: un personaggio che non riesce mai a farsi acciuffare, che rimane sempre come un’anguilla; ma questa è la forza degli inetti o dei malati: ed è proprio la malattia, immaginaria o reale, che induce Zeno a farsi curare da uno psicanalista. La forza dei malati è quella di imporsi all’ambiente nel quale vivono. Io direi che è questa la grande scoperta, per coloro che non s’interessano tanto all’arte narrativa, alle struttura interne dei romanzi, alla loro scrittura: è questa la grande originalità, questo dare alla malattia un senso positivo, concreto e vittorioso, rispetto alla falsa ed immaginaria vittoria dei sani. Tutto il mondo sarebbe sano ed il malato dovrebbe essere trascurato, tenuto in un cantuccio: ma il malato invece riesce, con la forza della sua volontà anguillesca, ad incidere lui stesso sul destino degli altri.

Un commerciante abulico, ho detto prima, sottoposto alla tutela di un amministratore, ma che alla fine proprio per quei contorcimenti tipici dei malati, riesce, durante il primo periodo della guerra mondiale, a comprare un’immensa partita di incenso, convinto che l’incenso sarebbe divenuto il surrogato di ben altri prodotti: così il malato diventa ricco. Il commerciante fallito, l’uomo su cui non poter mai contare, risulta invece vittorioso, e lo dimostra coi fatti.

La conclusione del romanzo è anche questa: il rifiuto della psicanalisi, intesa come metodo di cura alla maniera freudiana, cioè come scavo all’interno della coscienza, alla ricerca dei principi che regolano l’inconscio, per il disvelamento della verità. Zeno Cosini cessa la cura e, un anno dopo, lo scartafaccio che ha scritto per il medico analista sta lì, come un documento che egli spedisce al sanitario, senza speranza. Questo perché ha superato il ponte , sta dalla parte di coloro che hanno vinto, senza bisogno di ricorrere ai trucchi della psicanalisi, a queste confessioni continue e inesatte; Zeno ad un certo punto grida a se stesso: «Ma noi mentiamo sempre, e con tutta la nostra forza, mentiamo di più noi triestini perché parliamo o vorremmo parlare in italiano, mentre la lingua naturale, la lingua nostra di famiglia, è il dialetto. Noi mentiamo dunque anche con l’espressione della lingua.»

 

Alfonso Berardinelli, «La coscienza di Zeno », ovvero: la salute impossibile e la saggezza inutile, in Il romanzo. Vol. V, Lezioni, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2003, p. 455

Zeno ha insieme qualcosa di picaresco e qualcosa di donchisciottesco. Vive per un ideale che è anche un’idea fissa tipicamente moderna e borghese: vuol essere normale, efficiente, equilibrato, sincero, felice, coerente e sano. Ma è anche, al contrario, uno scaltro egoista sempre pronto a mentire e a ingannare pur di conservare la sua tranquillità e procurarsi il suo piacere. È un ossessivo idealista nei suoi buoni propositi. È un furbo e vile opportunista nel cedere di fronte alla resistenza delle circostanze reali uscendone con il minimo danno e con qualche vantaggio. Comici sono i suoi ferrei propositi subito dimenticati e comici sono i suoi inguaribili vizi. Ma Zeno non sarebbe Zeno senza gli uni e senza gli altri. Il racconto della sua vita risulta meravigliosamente sorprendente e complicato. Ma lui è semplice: nella sua coscienza vive di progetti, mentre nella sua vita accadono continuamente piccoli o grandi imprevisti che lo portano sempre là dove non voleva né immaginava di andare. La coscienza di Zeno è il contrario della vita di Zeno. Il rapporto fra coscienza e realtà è comico perché non è mai coordinato. L’eroe incontra la realtà proprio quando e come non prevedeva.

 

 

 

SEZIONE II - Zeno, Svevo e l’ironia

 

Bruno Maier, Italo Svevo, Mursia, Milano 1975, pp. 173-178

Il protagonista della Coscienza di Zeno non è un uomo d’eccezione o un «eroe» da romanzo, ma un comune, mediocre «borghese». […] nel romanzo manca un autentico «eroe»; e al suo posto si sostituisce, veramente l’«antieroe». Il fermento dissolutore della Coscienza di Zeno è quell’ironia che, non assente nei due libri precedenti, ne diventa ora lo stesso tono dominante, la condizione perpetua; e costituisce altresì la terribile arma di cui si serve Zeno nelle sue spregiudicate analisi di se medesimo e della società in cui vive. L’uso dell’ironia e dell’autoironia porta il Cosini (e lo Svevo) a distruggere ogni possibile, fervorosa mitologia, a sentire la vacuità d’ogni entusiasmo, di ogni sogno, d’ogni elevazione nei cieli dell’ideale; e, per converso, l’induce a considerare il piatto e pacifico assestamento borghese non più come una limitazione tragica o una fonte d’insoddisfazione e d’angoscia, bensì come una realtà coincidente con il tono «medio» e basso della vita, della naturale pianificazione esistenziale. Sotto questo rispetto Zeno Cosini non si solleva sul mondo che l’attornia; è in tutto degno di tale mondo; o, se qualcosa di più egli possiede, ciò è solamente l’ironica consapevolezza dell’inconsistenza e della precarietà di quel mondo; e di quel bizzarro impastoi di bene e di male, di virtù (poche) e di vizi, che è la propria anima; e in ciò consiste la sua peculiare «saggezza». La concezione della vita, emergente nella Coscienza di Zeno, non punta più sull’eccezionalità, sul desiderio di un «vivere inimitabile» […], sulla ricerca ansiosa e struggente di affermarsi a qualunque costo: è, al contrario, incentrata sul riconoscimento della inevitabile «mediocrità» dell’esistenza, nella varietà imprevedibile dei suoi casi e delle sue vicende quotidiane, nella sua realtà, diremo con lo Stuparich, di «gioco a cui noi diamo troppa importanza».

 

 

 

Sandro Maxia, L’ironia di Zeno, in Lettura di Italo Svevo, Liviana, Padova 1965, pp. 146-152

L’ironia ha […] una funzione essenziale nel romanzo, perché sopporta, per così dire, tutto il peso del piano del giudizio. Essa è lo strumento retorico del quale lo scrittore si serve per afferrare in un giudizio complessivo di condanna il protagonista e il mondo nel quale è invischiato. La scelta del piano unico di narrazione si rivela così, non solo una felicissima invenzione stilistica, ma una necessità strutturale. Grazie ad essa l’ironia-giudizio non si accampa fuori e al di sopra del romanzo, irrisolta come tutti i propositi parenetici, ma è calata e fusa con la narrazione, sicuro possesso della coscienza imparziale, che attraverso di essa misura e colma nello stesso istante il dislivello tra il mondo scombinato e dilettantesco nel quale Zeno ha vissuto stupefatto, ma forse ancora capace di reazioni morali, e la ‘saggezza’ dello Zeno che racconta, la quale ha indubbiamente eliminato la stupefazione, per sostituire ad essa il più limpido e disincantato cinismo.

Del resto Svevo ebbe perfetta coscienza dei risultati conseguibili attraverso il suo linguaggio ironico. In un passo della Coscienza il protagonista parla dei suoi rapporti con la moglie e cerca di mettere ordine nelle proprie idee circa la sua vita coniugale. Ne viene fuori un ritratto di Augusta che è di estremo interesse per l’intelligenza complessiva del romanzo, in particolare del nesso salute-malattia sul quale esso è tutto fondato.

Zeno comincia con lo scoprire che Augusta era la «salute personificata». Durante il fidanzamento non ci aveva fatto caso, perché in quel periodo era tutto intento a studiare se stesso. Ma dopo il matrimonio si accorge con stupore della grande sicurezze della moglie[…]

A tutta prima questo ritratto sorprende non poco. Sembra che tutto risulti da un cumulo di confuse impressioni sul modo di vedere le cose proprio di Augusta che Zeno ha registrato in passato e che ora tornano alla memoria alla rinfusa, giustapponendosi l’una all’altra senza un ordine preciso (una discussione sulla brevità della vita, ciò che lei pensa della morte, l’importanza che attribuisce all’anello di matrimonio, l’etichetta della buona borghesia e i riti religiosi, l’autorità politica e quella scientifica, ecc.), tenute assieme soltanto dal confronto con se stesso che Zeno insinua punto per punto.

In realtà, ad una più attenta lettura ci si accorge che le cose non stanno proprio così, e che lo scrittore ha seguito nello stendere questo ritratto interiore di Augusta, un piano ben preciso, per raggiungere scopi precisi. Lo schema del discorso è press’a poco questo: 1) Augusta possiede una fede sorprendente in un determinato sistema di certezze etico-giuridiche (quelle che regolano la società borghese), che ella accetta senza discutere perché per lei si identificano con la vita stessa (non saprebbe concepire la vita senza la protezione di quel sistema di certezze); 2) la vita, che per lei è sana è eterna, perché la salute ignora il senso del passato e del futuro e vive segregata nel presente (ignora cioè il divenire delle cose, e quindi il loro assiduo disfarsi e perire); 3) il presente d’altra parte è reso più sicuro dagli ordinamenti stabiliti: l’amore garantito dalla legge, l’etichetta, il rituale della vita quotidiana con le sue ore fisse, «sempre al loro posto», e la religione, che infonde serenità; 4) a garanzia ulteriore del tutto c’è l’autorità costituita, che provvede alla nostra sicurezza, e l’autorità medica, provvista di regolare diploma, che veglia sulla nostra salute. Infine si fa riferimento alla fede di Augusta nella salvezza eterna.

Questo schema rende di per sé visibile l’abilità con la quale lo scrittore ha perseguito e raggiunto il suo scopo, calandolo e dissolvendolo dentro le strutture narrative che si è costruito. Non c’è dubbio che qui egli si mantenga fedele alla tecnica del monologo interiore […] Tuttavia ci si accorge subito che lo scopo dello scrittore non è affatto la resa ‘naturalistica’ di un processo mentale passivo: in realtà ciò che gli sta a cuore è rendere evidente la banalità e l’insulsaggine di un modo di pensare e di un intero sistema etico-giuridico, ed egli lo raggiunge proprio col mettere sullo stesso piano religione e galateo borghese, abiti da pomeriggio e da sera e autorità pubbliche, e considerando il tutto da un unico punto di vista: stupefazione di Zeno. il lettore è così aggredito da un procedimento che spaccia come ovvi degli accostamenti che per la gente comune non lo sono affatto, e viceversa dallo stupore per cose da tutti considerate ovvie. Per esempio, si fa riferimento al rossore di Augusta; Zeno ne ha già parlato poche pagine prima […], ed ora, dopo il matrimonio, rileva stupito che esso è scomparso «con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole». Per Augusta dunque talune espansioni amorose di Zeno sono da giudicarsi illecite prima e lecite solo dopo il matrimonio: ciò è del tutto ovvio per lei, ma è stupefacente per Zeno. non si potrebbe dissimulare con maggiore raffinatezza un giudizio sulla futilità di un intero sistema di certezze.

 

 

 

Guido Guglielmi, Glosse a Svevo, in Letteratura come sistema e come funzione, Einaudi, Torino 1967, pp. 104-105

Il protagonista della Coscienza di Zeno definisce il personaggio dello Svevo più maturo. Zeno è l’uomo dei buoni propositi. La permanenza sotterranea di preoccupazioni indeterminate, la tensione profonda e apparentemente immotivata, l’instabilità perpetua si risolvono e sono come sospese nella formulazione di un buon proposito accompagnato da un’«ultima» infrazione, per rinascere continuamente. Il fatto che l’infrazione sia l’ultima dà un nuovo intenso piacere, proprio dell’illiceità autorizzata e quindi divenuta liceità, congiunto al sentimento di una vittoria su se stesso e della propria riconquistata forza e salute, mentre tale formulazione assume lo schema di un rituale. Per dare maggior fondamento al buon proposito, Zeno gli conferisce una sorta di consacrazione in una data, istituendo un rapporto magico fra data e proposito, nella fede irrazionale che la prima abbia non poca parte nell’adempimento del secondo, anzi che sia misticamente parte del secondo. Non per nulla nelle date egli rincorre certe corrispondeze numeriche («Nono giorno del nono mese del 1899; primo giorno del primo mese del 1901»), tale simbolismo apparendogli tutt’altro che indifferente. Zeno è alienato nelle cose; si attende dall’esterno quello che non può operare da sé, ha abdicato al suo potere di decisione spostandolo all’esterno, trasferisce all’‘altro’ le sue potenzialità investendone l’oggettività. E la sua è una vita indiretta. Egli intrattiene rapporti con il padre, la moglie, l’amante, Guido, ma tali rapporti non sono tendenzialmente univoci e lineari, bensì complessi. Dietro il gesto normale sta il flusso degli Erlebnisse [fatti di coscienza], come dietro la parola razionale si cela un significato irrazionale; mentre nella discrepanza, meglio nella dialettica tra i due piani, si instaura l’elemento giocoso dell’arte di Italo Svevo.

Si veda per esempio il tentativo di Zeno di costringere, schermendosi dietro le parole del medico, il padre morente e giacere supino, nel quale al dolore per la perdita del padre si mescola una corrente antica di ostilità; si vedano gli incontri estremamente ambigui con Ada in occasione del fallimento di Guido, la sua pretesa di avere abbandonato Carla per salvare il rapporto con la moglie; l’imitazione di Ada malata per rassicurare la moglie gelosa, nella quale egli ha la sensazione di abbracciarla, rivelando proprio nell’atto di smentirlo il suo segreto amore per essa, secondo una contraddizione non evidentemente logica ma reale per cui i due diversi momenti dell’amore e dell’indifferenza, lungi dall’elidersi, coesistono disponendosi a diversi livelli; il suo affetto per Guido, che non gli impedisce di mancare al suo funerale e di sbagliare convoglio funebre, in cui sembra capovolgersi l’odio iniziale per essergli stato proposto, ecc. Zeno si sforza di razionalizzare il suo comportamento, di darne una rappresentazione normale nella quale possa rispecchiarsi la sua rispettabilità borghese e una scala convenzionale di valori; ma di tale mistificazione egli è in genere consapevole, donde il fenomeno di autoironia e la costante riserva del racconto.

 

 

 

Alberto Asor Rosa, La storia del «romanzo italiano», in Il romanzo. Storia e geografia III, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2002, pp. 285-286

La dolorosa consapevolezza pirandelliana dell’irrimediabilità della sofferenza umana, che può assumere il più della volte l’aspetto, anch’esso sofferente, del ridicolo e del grottesco, si stempera nella Coscienza di Zeno in un equanime, ininterrotto, in fondo pacificante atteggiamento ironico. […] Nel flusso sveviano della coscienza s’attenua sottilmente il conflitto con il reale, ancora così aspro in Pirandello: Zeno Cosini deve piuttosto affrontare e fronteggiare le contraddizioni con se stesso. Ma le proprie insufficienze, i propri limiti, la propria inettitudine, le proprie debolezze e malattie (che sono altrettante forme dell’inettitudine), persino i propri dolori, che non sono pochi, Zeno li sorveglia e li governa con quest’arma a doppio taglio dello spirito, che è l’ironia. Non dimentichiamo che per Svevo l’ironia è la forma stilistica dell’ipocrisia. L’ipocrisia, dunque, che a sua volta è la forma dominante dei rapporti sociali, istiga anch’essa a non prender le cose troppo sul serio, a velare gli scontri, le disillusioni, i fallimenti, con una tinta attenuata, simile al colore che ha la mediocrità abituale, anzi la normalità della vita. L’inettitudine, sia pure involontariamente, porta alla fine da qualche parte, e quando ci si arriva ci si placa, soddisfatti di questo curioso bene negativo, che la nostra stessa incapacità di agire e di decidere ci ha elargito. Per rendersene conto basta seguire le strane evoluzioni attraverso cui Zeno, dopo aver desiderato di sposare Ada e aver guardato, in seguito al rifiuto di quella, all’altra sorella, Alberta, finisce per fidanzarsi con la terza, Augusta, con cui non avrebbe mai pensato di farlo 

 

 

 

 

 

SEZIONE III – La scrittura de La coscienza di Zeno

 

Guido Guglielmi, La vita originale di Zeno, in La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1986, p. 30-32

Benché siano gli stessi i materiali che compaiono nella Coscienza di Zeno (e, se si vuole, Svevo riscriva sempre lo stesso libro), non c’è dubbio che il trattamento della materia muti radicalmente dai due primi romanzi al terzo. Mentre nei due primi romanzi Svevo procedeva per fusione di elementi e uniformazioni tonali, nel terzo romanzo procede per opposizione di elementi e scarti tonali. Lì immagini contrarie finivano per unificarsi in un’unica immagine; qui l’unica immagine si sdoppia facendo affiorare materiali eterogenei e comici. La novità sta nella sostituzione della parola umoristica e desublimante alla parola ironico-patetica. E la diversa costruzione e carriera di Zeno è la conseguenza di questa diversità strutturale. È molto noto (e molto citato) il luogo della Coscienza di Zeno, in cui il protagonista denuncia la condizione di chi si trova a dover scrivere in una lingua che non parla e a dover parlare in una lingua che non scrive. La fatica di Zeno è quella di dover trasporre una lingua in un’altra lingua, l’oralità nella scrittura. Se egli si serve di una parola è perché è di quella e di quella sola che dispone. Non sono le intenzioni che si esprimono nelle parole, ma sono le parole che selezionano le intenzioni. Detto altrimenti: le intenzioni si nascondono piuttosto che rivelarsi nelle parole. Siamo nel finale del romanzo. La cura – di cui non ci viene dato il resoconto – ha già avuto luogo. E Zeno polemizza con il dottor S. che crede di essere il depositario dell’involontaria verità delle sue confessioni e non della loro inevitabile menzogna:

 

Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto

 

Attraverso la parola narrativa e circostanziale del personaggio, Svevo enuncia la sua poetica. Il dottor S. è convinto che basti correggere la deformazione della parola per ritrovare la verità: per Svevo la deformazione investe la verità e lo statuto del linguaggio. Ed è proprio infatti la condizione del bilinguismo che abilita Zeno a percepire la divergenza interna della parola, sebbene egli mantenga l’idea di un dialetto in cui non può scrivere o di un «vero vocabolario» che gli mancherebbe. Costretto ad essere anche nel linguaggio come «quel tiratore cui era riuscito di colpire il centro del bersaglio, però di quello posto accanto al suo», Zeno problematizza lingua e cultura. Dividendosi tra diverse culture – non identificandosi con nessuna cultura – egli scopre la parola temporale, sostituibile, controvertibile. La condizione del triestino che scrive in italiano, diviene il principio di una poetica. L’impossibilità di sfuggire menzogna, porta a una riformulazione del concetto di verità. Quanto meno presume di far centro, tanto più ora la parola si fa rivelatrice. L’improprio che prende il posto del proprio non solo sposta l’accento semantico delle parole, ma rende i significati fluidi, aperti, veri in accezione dinamico-temporale.

 

Bruno Maier, Italo Svevo, Mursia, Milano 1975, pp. 173-178

Benché non si possa dire col Saba che lo Svevo avrebbe potuto «scrivere bene in tedesco» ma «preferì scrivere male in italiano», è lecito scorgere nella sua lingua una ‘componente’ tedesca, manifesta sia in alcune costruzioni che sembrano tradotte dal tedesco e mantengono un andamento o un giro sintattico tipico di quella lingua - «le risposte che allora io a mio padre avevo dato» -, sia nell’uso, e anzi nell’abuso, della congiunzione ‘di’, che rimanda a un’evidente tradizione linguistica di marca germanica: «Non farei meglio di ritornare a casa?»; «che peccato aver incontrato il signor Maller»; «l’invitai di prendere la bottiglia»; «era difficile d’incominciare la carriera»; ecc. Né vanno dimenticati nel quadro degli elementi tedeschi o tedescheggianti della lingua sveviana il frequente scambio del passato remoto col passato prossimo, ovvero l’incerto impiego delle due forme , la cui differenza non pare essere stata lucidamente avvertita dallo scrittore – lo dimostrano frasi come «Non vide questo notabene?»; «Arrivai or ora»; «Mi scusi se non la riconobbi»; ecc. -; e l’accezione della preposizione «da» con valore di «in», e quindi semanticamente affine al bei tedesco: qualche esempio: «Starà maluccio, ma il posto è sufficiente quando c’è tanta voglia di fare come da noi due»; «Da me la religione acquistava tutt’altro aspetto»; «Bisognerebbe concludere che da me la passione continui eterna»; ecc.

Acconto al ‘vettore’ linguistico tedesco, che è facilmente identificabile e si rivela nell’impacciata, grave e legnosa rigidità di parecchie inflessioni, va registrata la presenza d’un elemento dialettale, di dialetto o, anzi, diceva lo Svevo, di «dialettaccio» triestino, che rimanda al caratteristico habitus loquendi dello scrittore […]

Uno scrittore quale lo Svevo, costretto a conquistarsi non senza fatica il proprio liguaggio artistico, cercando di superare il più possibile gl’impacci del tedeschismo e del dialettismo, e quindi portato a concepire il conseguimento dell’espressione letteraria come un problema di non sempre agevole soluzione, ha tentato di ovviare alla nativa difficoltà linguistica, specialmente nel periodo giovanile, cercando di avvicinarsi ai modelli idiomatici toscani […] L’ossequio dello Svevo all’autorità linguistica toscana, che costituisce un aspetto particolarmente interessante dell’italiano letterario da lui usato, dà luogo a vari risultati espressivi, riscontrabili nella sua prosa; la quale, se talora colpisce per certa sciatteria e trasandatezza, per certa secchezza ed elementarità di nervature e di giunture, o per l’ingenuità e l’immediatezza quasi ‘parlata’ di diverse soluzioni e impasti verbali (che paiono ‘buttati giù’ senza il necessario controllo linguistico e la riposata decantazione dell’autentico ‘stile’), altra volta si fa notare in non minore misura per l’impiego di termini rari, aulici, desueti, di arcaismi e preziosismi lessicali, ovvero per l’adozione di qualche struttura sintattica soverchiamente tornita, elaborata, elegante, in un senso estrinsecamente decorativo, frondoso, prossimo alla civetteria retorica, che rimanda alla lezione dei modelli di ‘bello scrivere’ e agli schemi letterari toscani, anche nella direzione della frangia e del ribobolo. Certo, questi ultimi sono casi limite e hanno comunque uno scarso rilievo nelle pagine sveviane (e anzi progressivamente ‘rientrato’ dalle prime alle ultime opere); e tuttavia la presenza degli anzidetti elementi, che costituiscono il tributo pagato dal romanziere a una sorta di ‘purismo’ toscaneggiante, va segnalato nel suo «sistema» linguistico ed è indice, per così dire, d’un ‘ipercorrettismo’ lessicale, grammaticale e sintattico, considerato non senza ingenuità un benefico antidoto alle abusive invadenze e alle intrusioni di prestiti e residui tedeschi.

 

Giacomo Debenedetti, Svevo e Schmitz, in Saggi critici, Marsilio, Venezia 1990, pp. 60-61

Ragioni analoghe valgono a spiegare la scrittura sveviana. Che è bruttissima senza dubbio, quando venga messa a confronto con le inflessioni più naturali e mature, a cui i secoli hanno avvezzato la prosa italiana. Ma che, dopo di esserne stati sconcertati, si comincia a sentire pronta, bizzarramente gustosa, precisa a suo modo e ricca di risorse, per finire forse con l’amarla, come si ama (o si gusta) l’accento sia pur vizioso di persona che ci tenga incatenati con al sola consistenza del discorso e il calore della comunicativa. Si prova anzi uno specifico e raro piacere a constatare come l’elocuzione e la sintassi di Svevo, malgrado tutti gli arbitrii e le cacofonie esterne e interne, arrivino ad attaccare e mordere le cose; e come da quelle disuguaglianze e incertezze formali balzi l’evidenza di un ritratto, la netta figura di una sensazione o di un movimento. Ed è, direi, il piacere di assistere al funzionamento di un utensile efficace, per quanto inelegante. Più che di un’elocuzione che faccia corpo con la cosa significata, qui bisogna proprio parlare di un utensile che riesce sempre a compiere il lavoro per il quale è destinato.

[…] in Svevo la tradizione letteraria si è sedimentata solo come ornamento umanistico, mentre la zona dove nascono i suoi eroi ignora ogni ornamento umanistico, anzi lo rifiuta. Di fronte alla necessità di estrinsecarsi, di farsi capire, Svevo fu costretto a cercarsi, piuttosto che una lingua, un esperanto: cioè uno strumento qualunque, purchessia, legato solo alla condizione di rendere intelligibile agli altri l’eroe che lo infestava, nonché il clima nativo di questo. Il linguaggio di Svevo è un italiano fortuito e avventizio: somiglia all’italiano perché messo insieme con parole italiane, non già con modi propriamente italiani. È lingua italiana per analogia, come quei romanzi sono sperimentali per analogia. Svevo sapeva e amava i nomi italiani delle cose che voleva dire: e li scrisse come li sapeva. Ciò non ostante, la sua lingua riproduce, come una onomatopea, lo strano e personale dialetto intimo che i suoi parlavano prima di venire alla luce. Tanto è vero che si potrà col lapis rosso e blu del pedante andarne ad appuntare i costrutti, si potrà rimettere ordine in alcune cadenze, scomporre con le pinze del tipografo un «chiedere» che stia al posto di un «domandare»: ma la fisionomia di quella scrittura non muta. È una nomenclatura organizzata, non un linguaggio organico: ne fanno fede i molti vocaboli e modi tolti di peso dalla pratica, dalla tecnica o dal commercio, e poi trapiantati, senza adattamenti, a rappresentare un valore lirico e descrittivo.

 

Giacomo Devoto, Italo Svevo, in Itinerario stilistico, Le Monnier, Firenze 1975, pp. 250-268

È stato detto che nella prosa di Svevo affiorano dei calchi dal tedesco; Svevo stesso ha creduto che, se avesse scritto in dialetto triestino, tante difficoltà così sue come dei suoi personaggi, sarebbero state evitate. Illusione. Tedeschismi come triestinismi non sono che i segni di una occasionale caduta dell’attenzione di fronte ad alcuni fatti di lingua […] Ma la definizione dello ‘scriver male’ di Svevo è d’altra parte nemmeno stata data. Scrivono male quanti, rifiutandosi di fare qualsiasi scelta fra le formule linguistiche impresse nella loro memoria, le impiegano a caso, senza nessuna partecipazione per le loro risonanze nell’animo del lettore. Scrivono male quanti, per incapacità di pensare e sentire in modo autonomo, concentrano ogni attenzione ogni sforzo nella lingua assurdamente concepita come ornamento. Né l’uno né l’altro è il caso di Svevo.

È stato detto che «fin tanto che per esprimersi sulla carta stampata non si è trovato di meglio che l’adoperare il vocabolario e la grammatica di una certa lingua, si sono fissati dei limiti che, quando non sono raggiunti, l’arte svanisce e non resta che una pena». Ci si domanda se questi limiti minimi davvero non sono raggiunti nel periodo di Svevo dal Caprin:

 

Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine dei capelli sconvolti, e forse anche strappati da una mano che s’accanisce a trovar da fare qualche cosa, quando non può altrimenti lenire.

 

Regole grammaticali, toni di vocabolario non paiono offesi; il nero della vestaglia, i capelli in disordine, l’intervento di una mano che si dovrebbe ritenere amica e senza una ragione strappa invece che consolare, sono imagini di vitalità sicura. La debolezza sta nei legami formali fra queste imagini, legami che Svevo, per quello che sappiamo delle sue correzioni, avrà ricercato senza trovarli e che avrebbero normalizzato il passo senza sforzi eccessivi. Per esempio così:

 

Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera con i capelli disordinati, sconvolti; forse anche strappati da una mano che, non potendo lenire, si era accanita nella ricerca di qualche cosa da fare.

 

Anche la definizione molto più fondata di Umberto Morra

 

Ora non si può dire propriamente che questi libri sono scritti male […] Qui ci troviamo a fare i conti con una poco comune imperizia dello scrivere e una curiosa ostinatezza a non imparare, si direbbe a non volersi arrendere a un modo di scrittura più piano e un pochino più elegante, per paura che diventi una maschera o una cosa leziosa

 

ha un lato debole. L’ostinatezza – le correzioni mi pare lo dimostrino – non c’è stata mai. C’è stata l’impossibilità di adeguare i rapporti delle immagini ai rapporti sintattici e in genere grammaticali. Forse una critica più illuminata avrebbe diretto l’attenzione di Svevo, anziché alla ricerca del miglioramento isolato, a uno sforzo ulteriore e organico per fondere nell’unità superiore del suo periodo il groviglio delle sue imagini. Forse il compito di dare una prosa italiana all’altezza delle esigenze della ‘analisi’ doveva essere riserbato a un continuatore della sua opera. È certo che Svevo non ha voluto ribellarsi alla disciplina dell’organismo linguistico, ma si è sforzato di penetrarlo, di ambientarvisi. Non c’è pagina di Svevo di cui si possa dire che è stata ‘buttata giù’, nemmeno prima delle correzioni.

Per questo possiamo desiderare qualche correzione nell’ultimo testo della Coscienza di Zeno; riconoscere la legittimità e il buon fondamento di tante correzioni nella Senilità riveduta; e apprezzare insieme, per lo sforzo che documenta e per i problemi che presenta, la redazione originale di Senilità.

 

 

 

 

 

SEZIONE IV - Zeno, Svevo e il contesto storico e culturale

 

Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste e la Venezia Giulia, in Letteratura italiana. Storia e geografia Vol. III, L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989, pagg. 814-815

La grandezza di Svevo consiste anche nella profondità con cui egli ha vissuto la condizione borghese quale condizione totale del trovarsi nel mondo, l’insidiosa e camaleontica capacità della civiltà borghese di confondersi con la vita stessa, arrogandosi il diritto di rappresentarla nella sua totalità. Trieste è lo scenario ideale per quest’ambigua e senile contraffazione e identificazione di vita e borghesia, che contrassegnano tanta letteratura europea.

Se il Tonio Kroger di Mann è un borghese sviato all’arte, Svevo è un artista che la vita borghese è stata sul punto di deviare dalla poesia, facendolo diventare quell’uomo di affari che la famiglia si attendeva che diventasse e che egli divenne, nonostante tutto, realmente.

Il commerciante Ettore Schmitz, che diviene lo scrittore Italo Svevo, è il caso estremo del triestino che scrive, dell’individuo che appartiene al mondo economico austriaco e che si trasferisce, nell’elaborazione fantastica, al mondo culturale italiano. La vittoria dello spirito borghese si delinea fino all’ultimo come un esito inesorabile della condizione umana e appare, a Svevo stesso, invulnerabile agli attacchi che egli le muove col suo lavoro letterario, nascosto e imbarazzante come un vizio. Soltanto alla fine l’autore della Coscienza di Zeno (1923) si accorgerà, perché a dirglielo saranno gli altri, famosi uomini di lettere riconosciuti come tali in tutta Europa, di essere non una vittima, ma un dissolvente e distruttore di quel mondo.

La consapevolezza della lunga vittoria dello spirito borghese, subita a vissuta nella sua stessa persona e fatta propria da Svevo con amara ironia, gli consente di essere forse il più grande, ossia il più disilluso poeta della scissione dell’esistenza borghese e del compromesso che la rattoppa. Svevo non crede che questo possa spacciarsi per guarigione di quella ferita; quella lacerazione è così irreparabile da lasciare un’unica possibilità di difesa: insinuarsi in essa come in una fessura ed afferrare qualche frammento di piacere e di felicità, strappato al vuoto e all’inesistenza della vita vera.

I due motivi dell’inettitudine e della vecchiaia, assunti a simbolo della condizione dell’individuo nella tarda civiltà borghese, esemplificano la latitanza della vita nei due primi romanzi sveviani Una vita (1892), che doveva intitolarsi originariamente Un inetto, e Senilità (1898).

Nella sua opera matura o tarda Svevo riprende questi grandi temi non più in chiave di rappresentazione o finzione realistica, come nei due romanzi giovanili, bensì in forma di parabola o di metafora. In questo senso lo Svevo della Coscienza di Zeno e degli ultimi racconti rientra nella grande tradizione analitica, etico-scientifica della narrativa austriaca e mitteleuropea che, negli anni ’20 e ’30, ha trasformato la letteratura in un glossario del delirio contemporaneo, in un manuale di geometria delle tenebre. Al pari dei classici di questa tradizione – da Kafka a Broch, da Musil a Canetti – pure Svevo è un enciclopedista che stende voci e lemmi per ogni dettaglio dell’esistenza, per ogni particolare della totalità infranta.

La rappresentazione della vita, ossia il romanzo-enciclopedia, è destinato all’incompiutezza, all’oscurità e all’irregolarità. «Ricordo tutto, ma non intendo niente», dice Zeno, autore di un’autobiografia che dovrebbe guarirlo e dargli chiarezza, ma la sua autobiografia scompone e altera le esperienze e le unità significative che dovrebbe chiarire e ordinare.

Svevo appartiene a quella generazione di scrittori nella quale si compie la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disarticolazione del grande stile classico. Con quest’ultimo si infrange pure quella violenza metafisica, la quale – secondo Nietzsche e Heidegger – è implicita in ogni grande stile, che costringe e comprime le dolorose dissonanze del mondo, ed anche le sue diversità liberatorie, nella compatta armonia della forma e del significato. Il luogo infranto della classificazione è innanzitutto il linguaggio, l’ordine del Logos e della sintassi che impone un senso e una gerarchia alla vita.

Come per Musil, anche per Svevo la vita non dimora più nella totalità, ogni particolare acquista autonomia a spese del Tutto. Il soggetto si affaccia sul turbine di immensa proliferazione del desiderio, nel quale il soggetto medesimo si scioglie, in quanto sente la sua stessa unità come una catena. La pace, come l’ordine e il senso impartiti alla vita, possono essere solo effetto della distanza; è l’arbitraria assunzione di un punto prospettico, dal quale l’io orgogliosamente si pone, che consente la composizione fittizia del caos. Il riso di Zeno nasce da questo vuoto e dall’ironica, dolorosa guerriglia per aggirarlo. Svevo è lo scrittore post-moderno che forse più d’ogni altro ha compreso il crepuscolo del soggetto individuale.”

 

Alberto Asor Rosa, La storia del «romanzo italiano», in Il romanzo. Storia e geografia III, a cura di Franco Moretti, Einaudi, Torino 2002, pp. 281-282

La mia tesi è la seguente. Il decadentismo, pur presentando alcuni fondamentali connotati comuni, si atteggia diversamente nei vari paesi europei. In Italia esso, accanto ai filoni più francamente idealistici, spiritualistici e irrazionalistici, ne annovera uno ancora fortemente influenzato dal positivismo, - più in particolare dal ragionamento scientista e psicologista del positivismo. Svevo e Pirandello sono per età, formazione, convinzioni, uomini del positivismo. In loro la maturazione e l’età (che non sono da trascurare: Il fu Mattia Pascal è scritto da Pirandello dopo i trentacinque anni, La coscienza di Zeno da Svevo intorno ai sessanta) non li portano mai ad abbracciare opinioni puramente idealistiche, ma a quella che io chiamo una critica dall’interno del positivismo: una corrosione sarcastica, per così dire, dei fondamenti obiettivi del reale e della conoscenza, che restano tali, ma come un puro scheletro di nozioni e di percezioni, di cui invece, con ossessiva insistenza, si rovesciano sistematicamente il senso, la portata e gli effetti. Del resto, anche gli autori a cui essi appoggiavano le loro parziali rivoluzioni, - e cioè Bergson per Pirandello , Freud per Svevo, - si erano mossi, più che sul côté idealistico, su quello di una più attenta e, a rigor di termini, scientifica investigazione dei dati del reale, più propriamente della coscienza, attraverso cui il reale è guardato e viene filtrato. Se poi i risultati delle loro riflessioni comportavano il mettere in crisi le ingenue certezze della scienza materialistica precedente, questo poteva non voler dire affatto che essi fossero meno scientifici dei loro predecessori. Essi, - come poi, Pirandello e Svevo, - non avevano fatto che guardare cosa c’era sotto o dietro la superficie delle cose, scoprendo che spesso il senso nascosto, il senso profondo, contraddiceva e smentiva quello apparente. […] I due romanzi in questione hanno in comune questo carattere decisivo: che rimettono in discussione il senso delle cose. Questo è un passaggio fondamentale nella storia del romanzo italiano, anche se per la verità pochi allora se ne avvidero e li seguirono sulla stessa strada. Il cambiamento, cioè, è strutturale. Il romanzo non è più rappresentazione di realtà. È rappresentazione dello scarto che, sistematicamente, si verifica tra la realtà, - spesso solo presunta in questo contesto, come si può capire, - e l’identità, la storia, la coscienza del protagonista.

 

Alfonso Berardinelli, «La coscienza di Zeno», ovvero: la salute e la saggezza inutile, in Franco Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. V – Lezioni, Einaudi, Torino 2003, pagg. 453-468

Nel romanzo italiano del Novecento La coscienza di Zeno, che Italo Svevo pubblicò nel 1923, quando aveva più di sessant’anni, occupa ormai stabilmente il luogo di capolavoro della modernità. Fatte le dovute differenze e stabiliti i necessari distinguo (come Giacomo Debenedetti nel suo Romanzo del Novecento), Italo Svevo viene presentato dalla critica italiana come l’equivalente di Proust, Joyce e Kafka. Se in Svevo non si notano innovazioni eclatanti come le «intermittenze del cuore», il flusso di coscienza o l’allegoria e la parabola chassidica [le tre innovazioni indicate sono rispettivamente di Proust, Joyce e Kafka], almeno su un punto Svevo sembrerebbe del tutto adeguato alla modernità novecentesca e perfino in vantaggio sugli altri: con La coscienza di Zeno infatti abbatte la barriera naturalistica e si trasforma in narratore psicanalitico. Svevo dunque introdurrebbe in letteratura l’epistemologia di Freud facendo fare un salto in vanti al romanzo e «rivoluzionando» le sue strutture.

Da questi eminenti luoghi comuni, con i quali la critica ha elevato negli ultimi decenni in suo monumento alla modernità di Zeno, è comunque necessario partire. Ma la lunga e laboriosa digestione-legittimazione dell’arte moderna che la critica ha dovuto compiere nella seconda metà del Novecento è ormai conclusa. Insistere sulla modernità di Svevo è pleonastico. E perfino fuorviante. La tesi che qui vorrei sostenere è che Svevo usa la modernità lottando con essa. Si serve della psicanalisi più come pretesto che come un metodo. Infine innova rispetto allo schema naturalistico, che non abbandona mai del tutto, facendo anche riemergere forme più antiche nella tradizione del romanzo europeo. Di fronte alla modernità novecentesca, sentita come una possibile minaccia all’esistenza del romanzo, Svevo rimette in circolo modalità di racconto umoristico-illuministe che precedono il codice realistico e naturalistico ottocentesco. Materia e superficie della narrazione sono da romanzo psicologico e sociale. Ma ora ciò che interessa e che cambia le forme della scrittura sono gli inganni involontari dell’autocoscienza, è la patologia del protagonista studiata e raccontata da lui stesso secondo un metodo definibile «aneddotica freudiana» o «autobiografia clinica».

[…]La coscienza di Zeno innova la forma romanzesca ritrovando la sua tradizione. Il romanzo infatti è un genere letterario che ha nel centro della sua tradizione il rifiuto di ogni tradizione e l’impulso a ripartire dal presente, da zero e dal basso. Antiletterario per cultura e per temperamento, Sveo è un tipico romanziere. Solo che la sua tipicità o classicità di romanziere, prima della Coscienza di Zeno, in Italia era caduta nel vuoto e rimasta senza eco. Orchestrando con il suo ultimo libro una burla riuscita ai danni della psicanalisi, che minacciava di esautorare l’arte della narrazione, Svevo schiera le forze analitiche e mimiche del romanzo contro quelle del nuovo metodo clinico. Scrive un romanzo in forma di autobiografia clinica di un malato. Ma invece che verificare e accreditare la psicanalisi, la relativizza, e infine la scredita. Mette in scena le categorie della malattia psichica, del sintomo e della cura, del rapporto fra ciò che si crede di volere e ciò che effettivamente si vuole. Ma siamo al di qua della psicanalisi. Di fronte a quanto succede in quel modo totale di essere malati che è la vita, i medici che compaiono nel libro sono tutti dei solerti dottrinari i cui metodi terapeutici appaiono ridicolmente inadeguati.

[…] Nella corrente maggiore del romanzo europeo, da Cervants a Tolstoj, l’interesse centrale è la rivelazione di realtà, il confronto fra ciò che si crede e si pensa e ciò che si fa o avviene. Anche nei casi estremi, anche quando racconta straordinarie e insolite avventure, anche quando compie esperimenti bizzarri e crudeli con quelle cavie umane che sono personaggi (Defoe, Voltaire, Gogol’, Conrad), il romanziere è un indagatore dei rapporti fra individuo e ambiente, è uno scienziato del comportamento umano nelle sue manifestazioni quotidiane fino alla rivelazione di un destino. Si tratta di indagini su ciò che comunemente avviene o può verosimilmente avvenire, anche se ciò che ritiene comune ci sorprende per la sua stranezza e imprevedibilità. Il lettore di romanzi deve potersi convincere che si sta parlando anche di lui e che in ogni pensiero e gesto è in agguato un esito futuro che contraddice ogni aspettativa.

La coscienza di Zeno si spiega con l’appartenenza a questa tradizione empirica e sperimentale del romanzo europeo, più che con le rivelazioni estetiche del primo Novecento. O meglio: in Svevo la continuità è più evidente, i programmi e le idee sul rinnovamento delle forme narrative sono più in secondo piano. Se Svevo, dopo venticinque anni di silenzio, adotta una forma insolita e certamente innovativa giocando in vecchiaia tutte le sue carte, è perché l’oggetto di indagine è cambiato e non si può più indagarlo da fuori, da lontano o dall’alto. La teoria di Freud gli serve soprattutto a questo: permette e impone che nelle vicende di un personaggio si prendano in considerazione molti dettagli ritenuti precedentemente trascurabili. La realtà rappresentata si allarga. L’idea di far raccontare a un malato, magari immaginario, la propria vita, offre una materia nuova e insolita, che acuisce la curiosità sia conoscitiva che «voyeuristica » del lettore.

 

 

Franco Petroni, Le parole di traverso, Jaca Book, Milano 1998, pp. 40-42

Svevo parla dei suoi rapporti con l’ambiente letterario italiano in termini quanto mai icastici: disse che i suoi romanzi «erano come un pezzo d’aglio nella cucina di persone che non possono soffrirlo». Il sentore d’aglio, nei salotti delle patrie lettere, l’opera di Svevo continuò a emanarlo ben oltre il ’25. Lo «scriver male», di cui egli fu accusato, non c’entra. Di famiglia ebraico-tedesca residente a Trieste, Svevo si esprimeva in dialetto triestino, per cui l’italiano gli apparve sempre una lingua straniera: ma questa circostanza, costringendolo a una continua attenzione alla scrittura, favorì il carattere sperimentale ed anche il rigore formale della sua narrativa. La principale ragione dell’ostilità o dell’indifferenza della critica ufficiale del suo tempo sta però, più che nelle occasionali errori di sintassi, del resto molto giustificati da ragioni espressive, nel fatto che Svevo, sia per gli argomenti dei suoi romanzi che per le scelte formali, era molto lontano dalla tradizione italiana. Le esperienza culturali e specificamente letterarie cui egli si richiama si collocano per lo più fuori d’Italia, e a lui pervengono grazie alla particolare posizione geografica e politica di Trieste che, fino alla sua annessione all’Italia, a tutti gli effetti fece parte di quell’area di incontri e di sperimentazioni che fu la Mitteleuropea. Ma all’origine dell’incompatibilità tra Svevo e l’ambiente letterario italiano c’è un altro fattore, e cioè il carattere ostentatamente «privato» della sua esperienza di scrittura.

Svevo pretende di ridurre la letteratura a un’operazione quotidiana, a una pratica igienica, togliendole quindi ogni «aura». La letteratura rinuncia all’universalità e alla totalità per restringersi al privato e all’occasionale. Essa diventa un atto terapeutico che riguarda solo l’individuo: un «clistere», come si esprime il protagonista di uno degli ultimi racconti sveviani, Una burla riuscita. In altre parole, con Svevo la letteratura rinuncia alla funzione sociale di sublimazione e neutralizzazione dei conflitti per essere soltanto il canale attraverso il quale tali conflitti affiorano e si esprimono. Il luogo dove essa opera è la coscienza in crisi dell’uomo contemporaneo, nella quale lo spazio per ogni mediazione inevitabilmente si restringe fino a scomparire, dato che nell’individuo rimane sempre un residuo di malattia inattaccabile da qualsiasi antibiotico. Questo carattere privato e terapeutico della narrativa sveviana diventa, per il critico e per il lettore medio italiani (almeno per quelli della prima metà del nostro secolo), un fattore di disturbo. Evidentemente la chiave ideologica, a prescindere dal segno e dalle caratteristiche dell’ideologia stessa, è primaria nell’approccio all’opera di uno scrittore: ne facilita la comprensione e la sistemazione nel contesto dei valori costituiti. Senza una chiave ideologica sufficientemente esibita, l’opera letteraria si presenta priva della sua funzione sociale, e quindi può acquistare, agli occhi di un lettore non attrezzato per scendere a livelli interpretativi profondi, un carattere gratuito, irritante, insopportabilmente «privato», se non addirittura «perturbante» in senso freudiano.

 

 

 

 

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