Movimenti letterari italiani anni 30

 

 

 

Movimenti letterari italiani anni 30

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Movimenti letterari italiani anni 30

 

I movimenti letterari in Italia negli anni 30’

 

In Italia negli anni Trenta non tutti gli intellettuali furono preda dell’ideologia fascista.
L’alternativa antifascista non era ancora matura così chi non volle essere coinvolto nel regime, non si schierò e si distaccò dall’impegno civile. Nacquero così due movimenti letterari:  l’Ermetismo e il Realismo.

Ermetismo

L’Ermetismo nasce in Italia negli anni Trenta. Il termine, che significa “chiuso, oscuro”, sta a indicare una poetica ambigua dalle scelte sintattiche e lessicali complesse.
I principali esponenti di questa corrente furono: Quasimodo, Gatto, preceduti da Ungaretti e Montale.
Nei confronti dell’ideologia e della politica che il regime fascista impose, i poeti ermetici assunsero una posizione di completa estraneità; più che opporsi al regime, gli Ermetici si distaccarono completamente dalla politica.
La poesia ermetica rifiuta l’impegno politico e civile e si isola dalla società.
La poesia è pura, libera da ogni condizionamento, irrazionale, i poeti si avvalgono di simboli e analogie.
I termini raffinati e astratti rimandano a concetti indefiniti, interpretabili solo da un pubblico che riesce ad entrare in sintonia con l’autore.

Giuseppe Ungaretti

 

G. Ungaretti nacque nel 1888 ad Alessandria d’Egitto, frequentò scuole francesi e conobbe le opere di Baudelaire e Mallarmé (simbolismo francese). Nel 1912 si trasferì a Parigi per perfezionare gli studi, qui conobbe il filosofo Henry  Bergson  e il pittore Pablo Ricasso. Nel 1914 Ungaretti si arruolò in Italia come soldato semplice, combattè sul Carso e in Francia e scrisse le prime opere come: “Soldato, Fratelli, C’era una volta, e Il porto sepolto”.
Nel dopo guerra si stabilì a Roma, aderì al fascismo,  ma il burocrate non uccise il poeta e Ungaretti riscoprì il Leopardi, Dante e Petrarca. Nel 1936 per necessità economiche si trasferì in Brasile come insegnante di letteratura italiana. Durante la seconda guerra mondiale, ruppe con il fascismo, trovò impiego a Roma e iniziò l’ascesa della sua fama.
Tra il 1950 e il 70 pubblicò numerose opere come “Il dolore, La terra promessa , Vita d’un uomo”.
Morì a Milano nel 1970.

 

Stelle [da Sentimento del tempo]

Tornano in alto ad ardere le favole.
Cadranno colle foglie al primo vento.
Ma venga un altro soffio,
ritornerà scintillamento nuovo.

 

Analisi della poesia.

La lirica della fine degli anni venti fa parte della raccolta “Sentimento del tempo”.
In “Stelle” occorre ricostruire le immagini e i paesaggi ai quali Ungaretti fa riferimento.
Nel primo verso abbiamo l’allegoria stelle-favole, le stelle che brillano nel cielo rievocano nel poeta le favole dell’infanzia.
Nel secondo verso abbiamo l’immagine delle foglie che cadono in autunno, accostate alle fantasie che cadono al primo dolore della vita.
Nel terzo e quarto verso, il poeta dice che può bastare un altro vento (soffio) affinchè i desideri crollati tornino alimentati dalla speranza.
Rispetto all’Ungaretti della prima guerra mondiale, “Stelle” è priva di versicoli, i versi infatti anche se liberi sono più tradizionali (troviamo quattro versi: tre endecasillabi e un settenario).
Nei versi è presente la punteggiatura che non troviamo ad esempio in opere come Soldato, Fratelli, Il porto sepolto.

Eugenio Montale

 

E. Montale nacque a Genova nel 1896. Seguì studi tecnici che interruppe per motivi di salute. Si arruolò nell’esercito nel 1917. La notorietà gli venne nel 1925 con la pubblicazione della raccolta Ossi di seppia, nello stesso anno aderisce al Manifesto degli Intellettuali Antifascisti (promosso da Benedetto Croce).
Successivamente si trasferì a Firenze dove conobbe Gadda e Vittorini; nel 1938 fu costretto ad abbandonare il lavoro (direttore di gabinetto) a causa del suo antifascismo.
Nel 1947 si trasferì a Milano, divenne redattore del Corriere della Sera. Pubblicò Le occasioni, La bufera e altro, ricevette il premio Feltrinelli, il premio Nobel per la letteratura (1975), e divenne senatore a vita.
Morì a Milano nel 1981.

La poesia di Montale
La poesia di Montale è la rappresentazione del male e del dolore dell’esistenza, unita alla consapevolezza di non poter rispondere ai perché della vita (Non chiederci la parola).
La funzione della poesia di indagare la condizione dell’uomo del Novecento, assume il valore di testimonianza.

Il pessimismo attivo e la ricerca del varco
Il concetto di disarmonia non determina in Montale uno sterile pessimismo, anzi egli avverte la necessità di un impegno morale, come possibilità di riscatto dalla sofferenza e da una visione della vita troppo vincolante.
Di qui la ricerca di un varco attraverso il muro della vita che ci permette di intravedere la verità.
Nelle sue opere, Montale riflette sui problemi esistenziali attraverso la poesia degli oggetti, nasce così la tecnica del correlativo oggettivo. In questo modo il poeta esprime stati d’animo, sensazioni e concetti mediante immagini concrete che però non hanno nulla a che fare con quei concetti.

 

Non chiederci la parola...  [da Ossi di seppia]

 

5

 

 

10

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
 


 
Analisi della poesia

Il simbolo degli ermetici è l’oggetto. In questa poesia i correlativi oggettivi sono tre: il croco, uno scalcinato muro, un secco ramo.
Il “croco” (una bella pianta dal colore giallo-rosso caratteristica del fiore dello zafferano) raffigura la poesia la poetica chiara, che offra delle risposte, una poetica che Montale non può fare.
Uno “scalcinato muro” rappresenta le difficoltà e gli ostacoli della vita.
Il ramo è la poesia essenziale.
Polveroso prato rappresenta la società precaria fatta di incertezze.
Nella seconda strofa Montale esprime il suo rammarico verso l’uomo sicuro che non si preoccupa delle conseguenze di ciò che lascia nella vita (il varco).
La conclusione esprime la crisi degli ideali e delle certezze: una società di facili verità e di falsi valori, quali erano quelli propagandati del Fascismo.
Per esprimere il tema della negatività Montale usa suoni aspri come “perduto, polveroso prato, stampa sopra, scalcinato, storta sillaba e secca”.
La poesia è stata anche criticata perché Montale (come in tutte le sue opere) non ha saputo prendere una posizione di fronte al Fascismo.

Realismo

Il Realismo è l’altro movimento letterario che nasce in Italia, negli anni 30, da parte di quegli  intellettuali che disprezzano la volgarità del regime.
I scrittori criticano la borghesia del tempo, indifferente agli avvenimenti che di lì a poco sconvolgeranno l’Europa.
La porta voce di questo movimento è la rivista “Solaria” che si oppone alla cultura fascista.
I maggiori esponenti del Realismo (iscritti a questa rivista) furono: Pavese, Moravia, Vittorini e Silone.
Quest’ultimo è tra i più attivi nel mediare, anche con l’attività di traduttore, le opere della letteratura Europea e Nord Americana. Tra le maggiori opere di Vittorini troviamo: “Il garofano rosso, Conversazione in Sicilia, Antologia Americana. 
Gli esperimenti stilistici e formali danno a ogni sua opera il carattere di una continua riscoperta; la stessa tecnica, la stessa vena critica, viene riscontrata nei romanzi di Silone, anche se il linguaggio è meno tormentato nella ricerca della modernità.

Elio Vittorini

 

 

Nasce il 23 Luglio del 1908 a Siracusa da genitori modesti. A tredici anni fugge da casa per vedere il mondo; ripeterà l'esperienza tre volte in quattro anni. Nel 1924 si stabilisce al Nord definitivamente. S'innamora di Rosa, sorella di Salvatore Quasimodo. I due giovani si sposano nel 1927, si stabiliscono in un primo tempo a Gorizia, dove Elio lavorerà in un'impresa edile e successivamente scriverà alcuni articoli sulla prima pagina su "La Stampa". Inizia la sua produzione letteraria, successivamente inizia a studiare l'inglese, s'interessa alla narrativa americana. Nel 1932 fa un viaggio in Sardegna per lavoro. Successivamente si trasferirà a Milano fino al 1934, anno in cui farà ritorno a casa per la nascita del figlio. Alla fine del 1938 si trasferisce a Milano con la famiglia, dove attraversa un periodo di crisi. Nel luglio del 1943 sarà arrestato durante una riunione clandestina e verrà condotto nel carcere di S. Vittore fino a settembre. Tornato in libertà partecipa alla Resistenza, nel febbraio del 1944 si reca a Firenze ma è costretto a fuggire per evitare le truppe tedesche e si rifugia sui monti. Finita la guerra torna a Milano, annulla il suo primo matrimonio e va da Ginetta, un vecchio amore. Nel 1945 dirige "L'Unità"; negli anni successivi si dedica parzialmente alla politica. Nel frattempo procede nella stesura delle sue opere letterarie. Nel 1955 muore il primogenito. Negli ultimi anni di vita si dedica alla stesura di critiche letterarie ed economiche. Nel 1963 si ammala gravemente; morirà nella sua casa milanese nel 1966.

 

Il garofano rosso

Trama

La vicenda è ambientata in Sicilia nel 1924, un periodo in cui il Fascismo fa la sua comparsa tra gli ideali della gente, avanza fra incomprensioni e fraintendimenti morali.
Il narratore non coincide con l'autore del romanzo bensì con uno dei personaggi, Alessio Mainardi, il protagonista. Si tratta di un narratore che vive la vicenda nel momento in cui la sta narrando.
Sono presenti alcuni monologhi interiori del narratore-personaggio.
In questo testo narrativo sono presenti numerosi termini appartenenti al linguaggio basso, non selezionato, espressioni dialettali e modi di dire.

 

Alessio Mainardi è un liceale siciliano di sedici anni che narra con l'amico Tarquinio, le vicende tipiche della loro adolescenza. I due ragazzi, spinti dalla voglia di essere adulti, aderiscono al fascismo sebbene non capiscano perfettamente le idee di questo movimento, tanto in voga in quel periodo. Accomunati dalle medesime idee antiborghesi, i due giovani creano un mondo tutto loro chiamato "La Cava", all'interno del quale si discute di politica si elogiano figure, come Rosa Luxemburg. Accanto al tema dell'amicizia è accostato quello dell'amore che Alessio prova nei confronti di una studentessa diciottenne chiamata Giovanna. Fra i due ragazzi vi era stato una volta sola un bacio effimero e un dono da parte di Giovanna di un garofano rosso. In realtà la ragazza è indifferente al sentimento che Alessio prova per lei.
Il ragazzino viene bocciato per aver partecipato all'occupazione della scuola e ritorna tristemente al suo paese d'origine, situato nel nord, dove trascorrerà le vacanze estive. In questo soggiorno nel paese natale rivive, accanto alla famiglia, tutti i momenti felici della sua infanzia, ma le sue posizioni antiborghesi lo portano a contrasti con la famiglia stessa, come il disprezzo del lavoro del padre, imprenditore, mentre apprezza maggiormente il lavoro degli operai dipendenti nell'azienda del padre.
Al suo ritorno in Sicilia ritrova l'amico Tarquinio, ma qualcosa nel loro rapporto è cambiato; l'amico assume un atteggiamento da adulto quasi sforzato, e fra i due nascono delle incomprensioni. Abbandonato dall'amico Alessio decide di impegnarsi sui libri per superare gli esami, e riuscirà perfettamente nel suo intento, superando brillantemente gli scritti.
Ma l'impegno scolastico avrà vita breve, in modo particolare a causa dell'incontro di Zobeida, una prostituta misteriosa, con la quale Alessio intraprende una relazione amorosa, passionale, con sentimenti ben lontani da quelli che provava per Giovanna, è qualcosa di diverso ed intenso. Pare quasi che Alessio si sia innamorato veramente di questa donna ma appunto per questo motivo ha termine la loro relazione: Zebeida è una prostituta e come tale non ha il permesso di innamorarsi.
Tempo dopo il giovane siciliano incontrerà i vecchi compagni di scuola e l'amico Tarquinio ma non per un incontro felice tra amici, bensì al funerale di una ragazza siciliana di diciotto anni, Daria Cortis, suicidatasi per amore. Il fatto sconvolgente li farà incontrare dopo il funerale, tutti uniti, in un bar ad ascoltare il discorso di un ragazzino a noi sconosciuto.
Questo ragazzino propone le sue idee criticando la società borghese, propone un codice d'amore che regoli i rapporti umani amorosi e non, rispecchiando ancora le aspirazioni della gioventù del tempo.

I personaggi

ALESSIO MAINARDI : è il protagonista del romanzo, è un liceale sedicenne che desidera diventare adulto e formula perciò proprie idee politiche e morali che affermino la sua maturità.
Non è descritto fisicamente poiché è lui stesso che narra la vicenda. Di se ci dice che ha il desiderio di essere grande, frequenta amici più grandi di lui. Apparentemente il suo carattere intraprendente, dinamico, anche se in certi aspetti, soprattutto con le donne, è timido ed impacciato come un bambino. A livello sociale appartiene ad una famiglia medio-borghese, posizione rifiutata dallo stesso.
Alessio, coincidendo con il narratore è presentato in prima persona. Il suo rapporto con l'ambiente è molto stretto, è legato da alcuni sentimenti ad ogni luogo che presenta, porta sempre dentro di se i particolari di questi luoghi, anche nel suo soggiorno al nord.
TARQUINIO MASSEO : è il migliore amico di Alessio, è visto quasi come un esempio da seguire essendo più grande di lui. È un ragazzo di diciotto anni che avendo perso alcuni anni scolastici a causa di bocciature si prepara da esterno alla licenza del liceo con Alessio. Alloggia in una pensione. È solo, lontano dalla famiglia sia fisicamente che per ideali, durante l'estate infatti non si reca in vacanza, bensì resta in pensione. I suoi atteggiamenti rispecchiano chiaramente il suo carattere, spicca il suo senso di superiorità rispetto agli altri, il suo senso di maturità, che lo porterà a scelte sbagliate.
Viene presentato dal narratore ma il suo carattere è comprensibile indirettamente rispetto alla vicenda, dai suoi atteggiamenti, e non dai giudizi del narratore stesso.
Tarquinio è strettamente legato all'ambiente che lo circonda ma nonostante abbia grandi emozioni legate alla pensione e alla cava, tende a slegarsi da questi per dimostrare la propria autonomia (infatti dopo l'estate si recherà alla Corona di Ferro per vivere da solo).

GIOVANNA : è l'amore idealizzato di Alessio, un po' come la Beatrice di Dante, non ha un ruolo attivo nel romanzo, non interviene nei discorsi, non svolge azioni determinanti. L'unica azione rilevante è il bacio con Alessio e il regalo che dona al ragazzo.
È la figlia del colonnello, una ragazza bella dagli occhi grigi e l'aspetto da bambina. Indossa prevalentemente un vestito verde ed azzurro che rimane impresso nella mente di Alessio. Ha modi di fare altezzosi, e distaccati, quasi di superiorità alle emozioni.
Viene presentata da Alessio e pare che la descrizione dei suoi atteggiamenti sia direttamente frutto dello sguardo del ragazzo, che la esalta, quasi come se fosse una dea.
Non emerge molto riguardo il rapporto tra Giovanna e l'ambiente che la circonda. Secondo me è legata certamente all'ambiente dove essendovi sempre vissuta, vi ha passato l'infanzia, passeggia con le amiche.

ZOBEIDA : è l'amore carnale e concreto di Alessio. Oltre al ruolo di compagna nelle vicende puramente sessuali, la donna assume un ruolo quasi materno nei confronti di Alessio, essendo molto più grande del ragazzo. È una prostituta di bell'aspetto, matura e sensuale. Dai lunghi capelli biondi ed un corpo perfetto. Nel suo campo è la migliore. Alessio è uno dei pochi ragazzi che ha la possibilità di avere dei rapporti sessuali con questa donna e che comprende veramente le emozioni e il carattere nascosto dall'abito indegno di un lavoro come quello della prostituta. Anche Zobeida prova dei sentimenti, sa amare.
Nonostante la donna s'innamori del protagonista pone fine alla loro relazione, perché consapevole del fatto che fra loro non può esserci nulla a causa del suo lavoro. Ha un carattere fragile e sensibile, che emerge lentamente col procedere della vicenda. È presentata da Alessio in terza persona. Il rapporto tra questo personaggio e l'ambiente non è molto forte forse a causa del repentino cambiamento di zona della donna per via del suo lavoro.

 

 

 

"La scoperta degli operai" da "Il garofano rosso"

 

 

Il ragazzo del Garofano rosso scopre in quest’episodio che non è bello fare l’operaio. Lo aveva sognato da bambino, accanto alla fornace di cui è proprietario il padre. Crescendo, i primi interrogativi si pongono; scopre la disuguaglianza e l’organizzazione della disuguaglianza di classe. Vede la sofferenza, la maggior fatica, la condizione obbligata, dove aveva immaginato una condizione più libera e forte. Si aggiunge — elemento collaterale di crisi — la scoperta che suo padre è stato socialista, da giovane; ma che per opportunismo è poi rientrato nel suo ruolo di padrone. È anche per odio a questo socialismo molle e inconsistente che il ragazzo ricerca un’alternativa sociale (e nel contempo la sua personale rivolta al padre) nel fascismo: o meglio in una immagine fittizia e antistorica del fascismo come vera « rivoluzione » di popolo.

 


Con gli operai, a parte il guardiano, non avevo confidenza. Mi sentivo in inferiorità dinanzi a loro, come figlio del padrone e studente, come ragazzo destinato a un’altra vita. Sempre, fin da bambino, era stato così. Pensavo: « Non sono per essi un’offesa? Mio padre mi manda a studiare perché diventi chissà che cosa. Un’altra cosa da operaio delle fornaci. Ha bisogno di loro, se ne serve, eppure non lascia che io impasti la terra come loro. Non significa disprezzarli? » Tali non erano le parole con le quali, verso i dieci anni, cominciai a pensare in tal senso. Ma tali più tardi divennero continuando a pensare. Prima mi ero aspettato di essere messo a fare l’operaio. Che tutti noi figli si dovesse crescere per fare da operai a nostro padre. E me n’ero disperato, nei ritorni dalla casa del nonno dove sognavo una vita come una giostra, con onde e cavalli. Naturalmente credevo mi sarebbe piaciuto governare il fumo e la fiamma, fabbricare quel rosso pane di pietra di cui odorava giorno e notte tutta la nostra campagna, caricarlo sui camion, condurre i camion ai paesi attorno e alla ferrovia, ma mai un istante ammettevo che avrei voluto restare prigioniero di mio padre. Se avessi allora saputo che non c’erano al mondo solo le fornaci di mio padre avrei magari immaginato la mia vita a girare il mondo di fornace in fornace. Ma che non c’erano al mondo solo le fornaci di mio padre, lo seppi quando capii tutto il resto, che studiavo, che per molti anni avrei studiato, che né io né i miei fratelli dovevamo crescere per fare da operai a nostro padre, che c’era un fossato di offesa tra noi figli di nostro padre e gli operai .
Capii in due tempi. Il primo tempo fu nel tornare dal primo anno di ginnasio. Alle elementari avevo avuto compagni di scuola due ragazzi dei nostri operai e di ritorno dal ginnasio chiesi loro:
« Ma dove siete stati a scuola quest’anno voialtri? » Risero.
« Più scuola nòialtri» dissero.
Sembravano contenti di ciò, ma era stato bello quel primo anno di ginnasio per me nella città del nonno e feci una faccia stupita. « Perché più scuola voialtri? »
Essi si strinsero nelle spalle e venne il secondo anno. C’era stata la spagnola, il nonno era morto, zio Costantino era morto, la felice tribù si era dispersa e fu brutto studiare nella città della montagna rosa messo a pensione presso un convitto di preti. Rimandato ad ottobre in latino mio padre mi gettò addosso il suo sguardo bianco come un colpo di saliva, mi disse: « Sta’ attento che ti faccio fare il fornaciaio se perdi l’anno ».
Vidi così dinanzi a me il fossato di offesa che mi divideva dagli operai ed ebbi vergogna, nei giochi, di stare coi loro ragazzi. Era quasi come esser donna, sentivo, quel preservarmi a diventare un’altra cosa che operaio. E se la vergogna passò, se presto ritrovai il modo di stare con i loro ragazzi, con le loro bambine, il senso di portare un’inferiorità su di me rimase vivo. Diveniva, a ogni nuova estate, diverso, ma rimaneva. Avevo dodici anni quando un giorno dissi a Menta:
« Curioso che sia necessario non studiare, per fare gli operai, no? » Lo ripetei alla mamma e la mamma disse:
«. Che significa? » E io dissi:
« Oh niente! »
Ma alcuni mesi dopo di nuovo parlai con Menta:
« Sembra che ci sia bisogno di operai e di altre cose a questo mondo, vero? Di operai e di medici, di. ingegneri, di capistazione, non è così? »
« Naturalmente » disse mia sorella.
« Ma perché » dissi io « c’è bisogno che gli altri sappiano tante cose e gli operai no? »
« Oh! » disse mia sorella « se sapessero tutto anche loro nessuno vorrebbe più fare l’operaio »
« Come? Non è bello fare l’operaio, allora? » dissi io. Mia sorella lanciò lontano un sasso.
« E questione che non sempre si sta bene a fare l’operaio » disse.
« Non bene come è necessario a uno istruito ».
Fin dal giorno in cui mio padre mi aveva mostrato il fossato di offesa, sapevo che forse non si doveva star bene da grandi, al di là di quel fossato, ma era una cognizione in cui non credevo a fondo per ciò che di bello pareva ai miei occhi di vedere nella vita degli operai, durante il lavoro e fuori del lavoro, durante il pasto di mezzogiorno consumato all’aperto in gavette da soldati e alla partenza della sera, col tremante lacerio delle sirene nell’aria dell’ultimo sole, quando tutti si davano pugni di gioia l’uno nelle costole dell’altro. Avere da Menta l’affermazione esplicita che non si stava bene a fare l’operaio mi turbò. Dove non si stava bene? In quali casi? In che senso? Come? Perché? Dovevano, tutti questi interrogativi, maturare e cadere entro di me a poco a poco. Per allora dissi solo:
« Dunque, li si obbliga a fare gli operai? » Menta sorrise.
« Oh no! » disse. « Non li si obbliga. Solo non c’è modo che facciano diverso... »
Dopo appresi che mio padre era stato in gioventù socialista e che cosa era socialismo.
« Ma come! » dissi. « Sei stato socialista e non lo sei più? »
« Ragazzo mio » disse mio padre senza guardarmi perché certo sapeva che il suo sguardo avrebbe subito stabilito tra me e lui il distacco del rimprovero « il socialismo è un’idea e uno può avere avuto delle idee. Anzi è un’idea generosa e uno della mia condizione può aver voluto essere unà volta generoso. Ma poi nella vita s’impone la necessità di salvarsi ognuno per conto suo »
« Oh! » esclamai « allora tu ti salvi.., per via di loro che si perdono? »
Sapevo a stento che cosa intendevo dire, confusamente, ma mi era venuto spontaneo dalla mia logica di ragazzo, la mia logica che mi sentivo battere dentro come una creatura con ali, e per la quale tremavo nel timore che fosse proibita.
Mio padre continuò a non guardarmi. Era in uno dei suoi momenti di indulgenza e la mia logica si accovacciò entro di me, lievemente rassicurata.
« Dio mio! Non si perdono poi del tutto... » disse mio padre.
C’era anche la mamma nella stanza e lo guardava come lui avrebbe potuto guardare me. C’era anche Menta.
« È sempre una brutta cosa! » io dissi.
Qui mio padre si voltò e subito il rimprovero dei suoi occhi bianchi mi saltò addosso, mi ricacciò nel dominio dove non c’erano altre vie d’uscita che la discoleria, la cattiveria, la disobbedienza . E fui per tutto il resto di quelle vacanze discolo, cattivo, disobbediente come non mai. L’anno appresso avevo conosciuto Tarquinio, e mi ero messo nei fascisti per antipatia verso quel socialismo dal quale discendeva mio padre col suo odioso modo di ragionare.

Ignazio Silone

 

Ignazio Silone, pseudonimo di Secondo Tranquilli, nasce a Pescina dei Marsi, in provincia dell'Aquila, l'1 maggio del 1900. Ben presto si ritrova orfano e indigente; deve abbandonare gli studi e guadagnarsi da vivere. Ancora giovanissimo partecipa alle lotte contadine e operaie; aderisce entusiasta al Partito Comunista fondato da Gramsci nel 1921 e ne diviene membro dell'Ufficio stampa. Nel 1926, quando vengono aboliti tutti i partiti politici tranne quello fascista, Silone fugge all'estero, stabilendosi in Svizzera. In quello stesso anno esce dal Partito, di cui non condivide l'adesione allo stalinismo. L'impegno politico dell'autore continua attraverso le sue opere ("Fontamara", "Vino e pane", "Il seme sotto la neve", "Il segreto di Luca").
Ignazio Silone muore a Ginevra il 22 agosto del 1978.

 

Fontamara

Sintesi del racconto

Fontamara è un piccolo paese situato nell'aspro Appennino abruzzese; qui i cafoni, braccianti ignoranti e indigenti, vivono di stenti lavorando l'arida terra. Il fascismo è salito al potere, ma i Fontamaresi non ne vengono informati finché, un giorno, al villaggio arriva il cav. Pelino, un graduato della Milizia che raggira i cafoni e li convince a firmare un foglio bianco. Quel foglio diverrà in seguito un documento legalmente valido che permetterà al podestà di appropriarsi del ruscello di Fontamara, privando i contadini dell'acqua necessaria alla coltivazione. Troppo tardi i cafoni comprenderanno il tranello e potranno solo rassegnarsi al proprio misero destino: per i cafoni mai nulla è cambiato, né mai muterà. Nel corso della loro storia essi hanno sempre subito i soprusi dei potenti, ma mai si erano trovati di fronte a un regime tanto autoritario; non possono nemmeno ricorrere all'aiuto delle autorità, servili nei confronti del podestà. Il prete don Abbacchio, l'avvocato don Circostanza e tutti coloro che l'autore definisce ironicamente "galantuomini" stanno dalla parte del più forte. Di fronte agli inganni, i cafoni non sanno come reagire; vorrebbero ribellarsi, ma ne temono le conseguenze e soprattutto non si uniscono in un'azione comune, perché ciascuno pensa ai propri interessi e non vuole compromettersi. Solo Berardo Viola, il cafone più forte, è dinamico e lotta contro le istituzioni per il bene di tutti, ma i Fontamaresi non lo seguono fino in fondo. Una sera gli squadristi giungono a Fontamara e compiono ogni sorta di violenze, senza che nessuno si ribelli; in seguito i Fontamaresi sono chiamati a discutere per una nuova distribuzione dei terreni fertili, ma vengono nuovamente truffati dal podestà che se ne appropria in nome del regime; perfino il prete deruba i poveri contadini facendosi pagare per dire una messa... Ma quando questi sarebbero disposti a lottare, il loro capo Berardo rinuncia perché ha i suoi interessi da difendere: si è innamorato di Elvira, desidera sposarla ma per farlo deve prima trovare un lavoro. Egli si reca allora a Roma per accumulare un po' di denaro; nonostante la sua buona volontà, parecchi ostacoli burocratici glielo impediscono; Berardo è arrestato insieme a un violento, l'Avezzanese; da Roma giunge la notizia della morte di Elvira e proprio quando la vita di Berardo pare un fallimento, egli dà una svolta decisiva e coraggiosa alla sua vita: si sacrifica perché le vicende dei cafoni siano rese note a tutti dai giornali clandestini, diretti appunto dall'Avezzanese. Berardo muore atrocemente in carcere, divenendo il simbolo dei Fontamaresi; essi prendono finalmente un impegno politico denunciando i soprusi del regime fascista, ma la loro azione è subito stroncata nel sangue dai militi. Molti muoiono, tuttavia una famiglia si salva, e dopo un lungo pellegrinaggio raggiunge Silone per raccontargli la triste avventura dei cafoni di Fontamara..

Ideologia dello scrittore

Silone descrive la situazione di ignoranza e di miseria dei cafoni, i contadini meridionali;  agricoltori che, abbandonati dalle istituzioni, non sanno mutare la propria condizione. L’arretratezza che attanaglia Fontamara non può essere attribuita a nessuno se non agli stessi cafoni; essi, come afferma lo stesso Silone, preferiscono vantaggi personali immediati a miglioramenti futuri dell'intera società. Sono una massa che non sa né vuole agire, perché teme di subirne le conseguenze. L'autore era un cafone, ma aveva una capacità critica superiore agli altri; il suo coraggio, dimostrato nella resistenza al regime fascista, lo rende diverso dai pavidi cafoni. L'autore mette in luce anche l'importanza della cultura come mezzo di difesa contro i soprusi delle persone dotte ed approfittatrici: se i Fontamaresi avessero compreso fin dall'inizio l'inganno, avrebbero agito diversamente.
Inoltre non appoggia l'atteggiamento della Chiesa, remissiva di fronte ai potenti; simboleggiata da don Abbacchio, un personaggio vile che tradisce quelli che dovrebbero essere i suoi principi morali per usufruire dei privilegi che solo chi stava con i potenti poteva godere; nelle mani del prete anche i sacramenti diventano una merce, spesso troppo costosa per i cafoni; ed è per questo che lo scrittore invita i lettori alla vera cristianità, che si dimostra aiutando la gente come i suoi poveri compaesani.
Silone riesce con il suo testo a raccontare la situazione del tempo in maniera esauriente ma senza annoiare il lettore.

 


 

 

"I fascisti a Fontamara"
I nuovi padroni dello stato — di norma, lontano ed estraneo alla vita dei contadini del Fucino tra cui si svolge il romanzo di Silone — vogliono questa volta imporre la propria presenza e la propria forza agli abitanti di Fontamara. I fascisti giungono sugli autocarri per una spedizione punitiva che deve, una volta per tutte, allineare anche questo riottoso paese di braccianti e minuscoli proprietari. Non che la resistenza dei cafoni sia stata ispirata da convinzioni politiche antifasciste. Siamo anzi al di qua d’ogni convinzione politica. Semplicemente, il mondo contadino — qui rappresentato da Fontamara — continua a vedere nello stato il solito apparato prepotente che tassa, sfrutta, taglieggia, investito di una autorità misteriosa e insindacabile, cui si può solo opporre una resistenza passiva. Di recente, i paesani hanno poi conosciuto la prepotenza fascista nei suoi riflessi locali. Si è infatti accentuata la pressione su dl loro; e ai vecchi proprietari si va in parte sostituendo, e in parte alleando, un nuovo, ancor più duro e rapace ceto imprenditoriale e capitalistico, che rende se possibile più dura la vita dei Cafoni.
Ma nell’ « esame » politico collettivo imbastito dai fascisti a tutti gli uomini di Fontamara sulla piazza del paese, si profila un fatto nuovo: la vecchia generazione teme solo che l’arrivo degli uomini neri preannunci nuove tasse e ciascuno si studia, prudentemente ed egoisticamente, di esporsi il meno possibile; mentre la nuova generazione contadina, ammaestrata dall’energico Berardo — un contadino senza terra, pieno di rancore sociale contro i ricchi e i loro complici — risponde invece aggressivamente e polemicamente, con la parola e con i fatti, alla sommaria inchiesta politica organizzata dai fascisti.

 

Nessuno capiva nulla di quello che succedeva . Nessuno parlava. Ognuno guardava l’altro. Ognuno capiva che si aveva a che fare con l’autorità per un motivo ancora sconosciuto e nessuno voleva compromettere se stesso più degli altri. Ognuno pensava a se stesso. E ogni tanto arrivava qualcun altro. Che cosa avesse nella testa di fare l’omino panciuto era difficile immaginare. Portarci tutti in carcere? Era inverosimile e praticamente impossibile. Finché si trattava di stare un po’ fermi nel mezzo della piazzetta del nostro paese, ognuno di noi poteva accettarlo, ma per trascinarci tutti nel capoluogo e metterci in carcere gli uomini armati li presenti non sarebbero bastati.
Questi uomini in camicia nera , d’altronde, noi li conoscevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire di notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente , senza terra, senza mestiere, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli per strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda e sempre lo saranno . Ma il lororaggruppamento in un esercito speciale, con una divisa speciale, e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. Sono essi i cosiddetti fascisti. La loro prepotenza aveva anche un’altra facilitazione. Ognuno di noi, fisicamente, valeva almeno tre di loro, ma cosa c’era di comune tra noi? che legame c’era? Noi eravamo tutti nella stessa piazzetta ed eravamo nati tutti a Fontamara; ecco cosa c’era di comune tra noi cafoni, ma niente altro. Oltre a questo, ognuno pensava al caso suo; ognuno pensava al modo di uscire, lui, dal quadrato degli uomini armati e di lasciarvi magari gli altri; ognuno di noi era un capo di famiglia, pensava alla propria famiglia. Forse solo Berardo pensava diversamente, ma lui non aveva né terra né moglie.
Nel frattempo si era fatto tardi. -.
« Be’ », gridò Berardo minaccioso « ci sbrighiamo? ».
L’ornino panciuto rimase impressionato dal tono di quella voce e disse:
« Adesso cominciamo l’esame ».
« L’esame? Che esame? Siamo a scuola? ».
Nel quadrato si fece un varco della larghezza di un metro e ai suoi due lati si posero l’omino panciuto e Filippo il Bello . Proprio come fanno i pastori negli stazzi, per la mungitura delle pecore.
Così cominciò l’esame.
Il primo a essere chiamato fu proprio Teofilo il sacrestano.
« Chi evviva? » gli domandò bruscamente l’ornino con la fascia tricolore.
Teofilo sembrò cadere dalle nuvole.
« Chi evviva? » ripeté irritato il rappresentante delle autorità.
Teofilo girò il volto spaurito verso di noi, come per avere un suggerimento, ma ognuno di noi ne sapeva quanto lui. E siccome il poveraccio continuava a dar segni di non saper rispondere, l’ornino si rivolse a Filippo il Bello che aveva un gran registro tra le mani e gli ordinò:
« Scrivi accanto al suo nome: ‘refrattario’ »
Teofilo se ne andò assai costernato. Il secondo a essere chiamato fu Anacleto il sartore.
« Chi evviva? » gli domandò il panciuto.
Anacleto che aveva avuto il tempo di riflettere rispose:
« Evviva Maria ».
« Quale Maria? » gli chiese Filippo il Bello.
Anacleto rifletté un po’, sembrò esitare e poi precisò:
« Quella di Loreto ».
« Scrivi » ordinò l’omino al cantoniere con voce sprezzante: « ‘refrattario’ ».
Anacleto non voleva andarsene: egli si dichiarò disposto menzionare la Madonna di Pompei, piuttosto che quella di Loreto; ma fu spinto via in malo modo. Il terzo a essere chiamato fu il vecchio Braciola. Anche lui aveva la risposta pronta e gridò:
« Viva San Rocco ».
Ma neppure quella risposta soddisfece l’ornino che ordinò al cantoniere:
« Scrivi: ‘refrattario’ ».
Fu il turno di Cipolla.
« Chi evviva? » gli fu domandato.
« Scusate, cosa significa? » egli si azzardò a chiedere.
« Rispondi sinceramente quello che pensi » gli ordinò l’ornino: « Chi evviva? ».
« Evviva il pane e il vino » fu la risposta sincera di Cipolla.
Anche lui fu segnato come ‘refrattario’. Ognuno di noi aspettava il suo turno e nessuno sapeva indovinare che cosa il rappresentante dell’autorità volesse che noi rispondessimo alla sua strana domanda di chi evviva, La nostra maggiore preoccupazione naturalmente era se, rispondendo male, si dovesse poi pagare qualche cosa . Nessuno di noi sapeva che cosa significasse ‘refrattario’; ma era più che verosimile che volesse dire ‘deve pagare’. Un pretesto, insomma, come un altro per appiopparci una nuova tassa. Per conto mio cercai di avvicinarmi a Baldissera, che di noi era la persona più istruita e conosceva le cerimonie, per essere da lui consigliato sulla risposta; ma lui mi guardò con un sorriso di compassione, come di chi la sa lunga, però solo per suo conto.
« Chi evviva? » chiese a Baldissera l’ornino della legge. Il vecchio scarparo si tolse il cappello e gridò:
« Evviva la Regina Margherita ».
L’effetto non fu del tutto quello che Baldissera si aspettava. I mi- liti scoppiarono a ridere e l’ornino gli fece osservare:
« È morta. La Regina Margherita è già morta ».
« È morta? » chiese Baldissera addoloratissimo. « Impossibile ». « Scrivi », fece l’ornino a Filippo il Bello con un sorriso di disprezzo « ‘costituzionale’ »
Baldissera se ne partì scuotendo la testa per quel susseguirsi di avvenimenti inesplicabili. A lui seguì Antonio La Zappa, il quale, opportunamente istruito da Berardo , gridò:
« Abbasso i ladri ».
E provocò le proteste generali degli uomini neri che la presero per un ‘offesa personale.
« Scrivi » fece il panciuto a Filippo il Bello « ‘anarchico’ » La Zappa se ne andò ridendo e fu la volta di Spaventa. « Abbasso i vagabondi » gridò Spaventa, sollevando nuovi urli nelle file degli esaminatori. E anche lui fu segnato come ‘anarchico’.
« Chi evviva » domandò il panciuto a Della Croce. Anche lui era però uno scolaro di Berardo e non sapeva dire evviva, ma solo abbasso Perciò rispose:
« Abbasso le tasse ».
E quella volta, bisogna dirlo a onor del vero, gli uomini neri e l’ornino non protestarono.
Ma anche Della Croce fu segnato come ‘anarchico’, perché, spiegò l’ornino, certe cose non si dicono .
Maggiore impressione fece Raffaele Scarpone, gridando quasi sul muso del rappresentante della legge:
« Abbasso chi ti dà la paga ».
L’ornino ne fu esterrefatto, come per un sacrilegio, e voleva farlo arrestare; ma Raffaele aveva avuto cura di pronunziarsi solo dopo essere uscito dal quadrato, e in due salti sparì dietro la chiesa e nessuno lo vide più.
Con Losurdo riprese la sfilata delle persone prudenti.
« Viva tutti » egli rispose ridendo ed era difficile immaginare risposta più prudente; ma non fu apprezzata.
« Scrivi », disse l’ornino a Filippo il Bello « ‘liberale’ ». « Viva il Governo » gridò Uliva col massimo di buona volontà. « Quale Governo? » chiese incuriosito Filippo il Bello. Uliva non aveva mai sentito che esistessero diversi Governi, ma per educazione rispose:
« Il Governo legittimo ».
« Scrivi », fece allora il panciuto al cantoniere « ‘perfido’ » Pilato volle fare una speculazione, e siccome fu la sua volta, gridò anche lui:
« Viva il Governo ».
« Quale Governo? » chiese allarmato Filippo il Bello.
« Il Governo illegittimo ». -
« Scrivi », comandò il ventruto al cantoniere « ‘mascalzone’ ». Insomma, ancora nessuno era riuscito ad azzeccare la risposta soddisfacente. A mano a mano che aumentavano le risposte riprovevoli si restringeva la libertà di scelta per noi che restavamo da esaminare. Ma la cosa veramente importante che rimaneva oscura, era se rispondendo male si dovesse pagare qualche cosa e quanto. Solo Berardo mostrava di non avere questa preoccupazione e si divertiva a suggerire ai giovanotti suoi amici risposte insolenti di abbasso e non di evviva.
« Abbasso la banca » gridò Venerdì Santo.
« Quale banca? » gli chiese Filippo il Bello.
« Ce n’è una sola e dà i soldi soltanto all’Impresario » rispose Venerdì da bene informato.
« Scrivi », fece l’ornino al cantoniere « ‘comunista’ ». Come comunista fu anche registrato Gasparone che, alla domanda chi evviva, rispose:
« Abbasso Torlonia »
Invece Palumbo fu registrato come socialista per aver risposto assai cortesemente:
« Viva i poveri ».
In quel mentre apparve dall’altro lato della piazzetta Maria Rosa, la madre di Berardo, che noi avevamo visto scendere dal vicolo ed entrare nella casa di Maria Grazia ch’è al principio della salita dietro alla chiesa.
« Berardo? dov’è Berardo? » gridava la vecchia. « Sapete cosa han fatto questi briganti nelle nostre case? Sapete che cosa han fatto alle donne? . E i nostri uomini? Dove sono i nostri uomini? Dov’è Berardo? ».
Berardo capì subito, o almeno credé di capire, d’un salto fu presso a Filippo il Bello che era livido di paura, lo prese per il bavero, gli sputò in faccia e gli domandò:
« Dov’è Elvira? Cosa hai fatto a Elvira? ».
La vecchia Maria Rosa era arrivata fin alla soglia della chiesa e in ginocchio aveva ripreso a gridare:
« Madonna, difendici tu, intervieni tu, perché i nostri uomini non servono a nulla ».
La vecchia non aveva ancora terminata l’invocazione che un rintocco della campana maggiore ci fece guardare tutti sopra il campanile.
A fianco alla campana maggiore scorgemmo tutti una strana apparizione, un fantasma di donna giovane, alta, sottile, con la faccia bianca come la neve e le mani giunte sul petto: Rimanemmo tutti un istante senza fiato. La visione sparì.
« La Madonna, la Madonna » si mise a gridare Filippo il Bello preso da un improvviso panico.
« La Madonna, la Madonna » cominciarono a urlare anche gli altri uomini neri presi dalla stessa paura.
Il quadrato si sciolse e i militi si diedero a precipitosa fuga verso i camion lasciati all’entrata del paese e l’ornino della legge con loro. Noi sentimmo da lontano il rombo dei motori. Poi vedemmo i camion ridiscendere la collina, coi fari accesi, a grande velocità. Non ci riuscì di contare quanti fossero. Erano una lunga fila.
Ai piedi della collina, all’ultima svolta che precede la via nazionale, vedemmo la processione dei camion improvvisamente arrestarsi. La sosta durò più di mezz’ora.
« Perché si son fermati? Che vogliano tornare indietro? » domandai a Berardo.
« Forse Scarpone sa perché si sono fermati » egli mi rispose ridendo. (Il giorno dopo sapemmo che la sosta dei camion ai piedi della collina era stata provocata dal ribaltamento del primo camion che non era riuscito a evitare un tronco d’albero messo di traverso sulla strada. Vi erano stati vari feriti, tra i quali l’ornino dalla fascia tricolore).
Quando i camion ripresero la corsa, era notte alta.
« Conviene andare a letto o conviene aspettare ancora un po’ e riprendere la via della campagna? » domandai a Berardo.
« Conviene prima di tutto vedere chi è sul campanile » mi rispose Berardo.
Infatti Berardo credeva al diavolo, ma non alla Madonna. Un’apparizione del diavolo l’avrebbe senz’altro convinto, ma non un’apparizione della Vergine. Salimmo sul campanile e con nostra sorpresa trovammo mia moglie ed Elvira. La ragazza era ancora ‘svenuta e stentava a riaversi.

 

Fonte: http://phaa.altervista.org/download/ingegneria/appunti/tesine/imovimentiletterariinitalia.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Movimenti letterari italiani anni 30 tipo file : doc

 

 

 

Letteratura italiana e straniera biografie giornalismo argomenti in ordine alfabetico

 

Nel nostro portale puoi trovare appunti, riassunti brevi , parafrasi, ricerche scolastiche, tesine, testi decisamente utili per studenti delle scuole medie , scuole superiori e università.

 

Appunti, riassunti brevi , ricerche scolastiche, tesine, analisi testi decisamente utili per studenti delle scuole medie , scuole superiori e università.

 

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Movimenti letterari italiani anni 30

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Movimenti letterari italiani anni 30