Canti inferno divina commedia analisi e sintesi

 


 

Canti inferno divina commedia analisi e sintesi

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

 

Canti inferno divina commedia analisi e sintesi

 

SINTESI CANTI INFERNO DI DANTE
CANTO XIX
LUOGO: cerchio VIII, bolgia III
CUSTODE: Gerione (custode del cerchio)
PECCATO: simonia
PENA: i dannati sono conficcati nella bolgia e capovolti con i piedi che vengono bruciati da fiamme.
CONTRAPPASSO: come in vita capovolsero la legge di Dio, ora sono capovolti; rimborsarono il denaro e ora sono imborsati (cioè insaccati, conficcati a testa in giù nel terreno); le fiamme sono il simbolo della loro avidità.
ANIME: Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V (sono papi).
RIASSUNTO
Dante e Virgilio si trovano nella terza bolgia, un terreno pieno di buche circolari, all’interno delle quali stanno conficcati a testa in giù, con i piedi che sono bruciati da fiamme, i simoniaci, cioè coloro che in vita hanno venduto o comprato cose sacre e spirituali. Queste anime sono continuamente mosse da un’agitazione frenetica. Dante vede un peccatore che agita violentemente i piedi a causa delle fiamme particolarmente rosseggianti e calde e chiede a Virgilio il nome. Si tratta di Niccolò III, papa simoniaco che in vita imborsò denaro con il commercio di cose sacre e ora ha imborsato se stesso in una bolgia infernale. Il papa dice a Dante che altri papi stanno conficcati sotto di lui e altri ne arriveranno ancora, come Bonifacio VIII e Clemente V, papa che ha asservito la Chiesa al re di Francia Filippo il Bello. Dante è scandalizzato dal livello di corruzione della Chiesa del suo tempo e scrive un’invettiva, in cui paragona la Chiesa e i papi a una prostituta: “ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando (schiacciando) i buoni e sollevando i pravi (i malvagi). Da voi pastor s’accorse il Vangelista (l’evangelista Giovanni, autore del libro dell’Apocalisse), quando colei che siede sopra le acque (la Chiesa) puttaneggiar (prostituirsi) coi regi (con i re, gli imperatori) a lui (da Giovanni) fu vista”. Dante afferma che la chiesa è diventata troppo corrotta a causa della sete di potere e di ricchezze dei papi e ha dimenticato il compito che le era stato affidato da Gesù, cioè di essere guida spirituale dei fedeli per la loro salvezza, di essere povera e non di farsi dominare dal desiderio di denaro. Per Dante, la causa di questa corruzione della chiesa è da ricercare nella donazione di Costantino, il documento con cui l’imperatore donò terre e beni a papa Silvestro per ringraziarlo di averlo guarito dalla lebbra. In realtà si tratta di un falso storico, perché quel documento era scritto in un latino più imbarbarito, risalente all’VIII secolo e non al IV, cioè quando visse Costantino, come dimostrò Lorenzo Valla, umanista del Quattrocento.   

 

 CANTO XXVI
LUOGO: basso inferno, cerchio VIII, bolgia VIII
CUSTODE: Gerione (custode del cerchio)
PECCATO: consiglio di frode
PENA: i dannati sono avvolti nelle fiamme.
CONTRAPPASSO: come in vita tramarono di nascosto (organizzarono inganni), così ora sono nascosti dalle fiamme che li tormentano continuamente.
ANIME: Ulisse e Diomede
RIASSUNTO
Nell’ottava bolgia Dante vede dall’alto i consiglieri fraudolenti e li paragona alle lucciole che si scorgono in una valle in una sera d’estate. Una fiamma è doppia perché contiene due anime: Ulisse e Diomede, che sono puniti insieme per le colpe commesse. Avevano escogitato l’inganno del cavallo di Troia (donato ai troiani, conteneva i soldati achei che poi, usciti di notte dal cavallo, incendiarono la città) e avevano rubato nel Palladio la statua di Minerva da cui dipendevano le sorti della città di Troia. Virgilio, grazie alla sua poesia (ha ricordato nell’Eneide la storia della guerra di Troia), chiede ad Ulisse come e dove morì. La parte più alta della fiamma in cui è avvolto Ulisse si muove ed inizia a parlare: dopo aver lasciato la maga Circe (era rimasto da lei per più di un anno), volle continuare il suo viaggio per conoscere il mondo e gli uomini e non si curò di tornare ad Itaca, dove lo aspettavano suo padre, suo figlio e sua moglie Penelope. Con una sola nave giunse fino alle coste della Spagna, del Marocco, fino ad arrivare allo stretto di Gibilterra, il punto in cui si trovavano le colonne d’Ercole e dove gli antichi pensavano vi fosse il confine del mondo, assolutamente invalicabile per l’uomo. Ulisse fa un discorso per convincere i suoi compagni a continuare il viaggio; poi navigano per cinque mesi verso ovest e verso sud, nel mare sterminato, fino a quando vedono una montagna. Dalla nuova terra nasce un turbine che la colpisce, la rovescia e la fa affondare con tutto l’equipaggio. Ulisse è l’esempio di intelligenza, astuzia e superbia; ha osato sfidare il destino perché si è spinto oltre i limiti delle possibilità umane ed è stato punito dall’imperscrutabile volontà divina. Da ricordare i famosi versi in cui Ulisse parla con i suoi compagni di viaggio: “considerate la vostra semenza (origine): fatti non foste a viver come bruti (bestie), ma per seguir virtute e conoscenza”.

 

CANTO XXVII
LUOGO: basso inferno, cerchio VIII, bolgia VIII
CUSTODE: Gerione (custode del cerchio)
PECCATO: consiglio di frode
PENA: i dannati sono avvolti nelle fiamme.
CONTRAPPASSO: come in vita tramarono di nascosto (organizzarono inganni), così ora sono nascosti dalle fiamme che li tormentano continuamente.
ANIME: Guido da Montefeltro
RIASSUNTO
Un altro consigliere fraudolento si avvicina a Dante e a Virgilio: Guido da Montefeltro. Era un famoso condottiero molto astuto, capo dei ghibellini di Romagna, fu scomunicato dal papa, era diventato poi frate francescano. Si era convertito non per pentimento sincero, ma per calcolo. Guido riconosce le parole lombarde di Virgilio e chiede notizie sulla situazione politica della sua terra, la Romagna. Dante risponde dicendo che attualmente non ci sono guerre in corso, ma la sorte della città è incerta, tra tirannia e libertà. Guido era stato maestro di furbizia e inganno e  papa Bonifacio VIII lo spinse di nuovo al peccato, chiedendogli consigli su come avrebbe potuto sconfiggere Palestrina, rocca dei suoi nemici. Si tratta di una richiesta scellerata perché i nemici del papa non sono infedeli, ma cristiani e addirittura cardinali. Guido non sa se aiutare o no il papa, ma Bonifacio gli dice di non preoccuparsi, perché egli ha il potere di assolvere o condannare le anime in virtù del fatto che è il rappresentante di Cristo sulla terra (Gesù infatti aveva assegnato a Pietro le chiavi del Paradiso). Così Guido consiglia al papa di fare molte promesse e poi di non mantenerle. Quando Guido muore, San Francesco vuole portare la sua anima in Paradiso, ma il diavolo gli dimostra che Guido è un’anima dannata e deve andare all’Inferno perché Bonifacio lo aveva assolto prima che commettesse il peccato e quindi senza il pentimento. Dante ribadisce che solo chi si pente sinceramente dei propri peccati può essere salvato e un peccatore malvagio e corrotto come Bonifacio VIII non ha nessun potere di redenzione, anzi prenderà il posto di Guido da Montefeltro per gli stessi peccati commessi.

 

 

CANTO XXXIII
LUOGO: basso inferno, cerchio IX
CUSTODE: I giganti
PECCATO: tradimento degli ospiti, degli amici, dei parenti, della patria e del partito.
PENA: i dannati sono immersi nel ghiaccio con il viso eretto o verso l’alto.
CONTRAPPASSO: la mancanza del fuoco della carità li ha resi gelidi; ora sono nel ghiaccio, dove perdono le caratteristiche umane per assumere quelle dei fossili.
ANIME: il conte Ugolino della Gherardesca, Ruggeri degli Ubaldini, Alberigo dei Manfredi, Branca Doria
RIASSUNTO
All’inizio del canto c’è un dannato che sta mangiando la testa di un altro dannato. La scena è macabra: “la bocca sollevò dal fiero pasto”. Il dannato si presenta a Dante come conte Ugolino e l’altro è l’arcivescovo Ruggieri, nipote del cardinale Ottaviano, che Dante aveva già incontrato nel canto X dell’Inferno. Ghibellino di stirpe, il conte Ugolino si accordò col genero Giovanni Visconti, per far trionfare a Pisa il partito guelfo. In seguito la parte ghibellina insorse sotto la guida di Ruggieri; Ugolino, considerato traditore, fu chiuso in una torre insieme a due figli e a due nipoti e dopo alcuni mesi  i 5 uomini furono lasciati morire di fame. Ugolino racconta a Dante il sogno premonitore: egli sogna di essere un lupo inseguito con i suoi lupachiotti da Ruggieri e da altri nobili pisani. Vengono raggiunti e sbranati dalle cagne magre e affamate del popolo di Pisa. Anche i suoi discendenti fanno lo stesso sogno. Ugolino si sveglia all’ora in cui di solito veniva servito il pasto giornaliero e sente dal basso le martellate che chiudono tutte le porte della torre. Il conte rimane impietrito dal dolore, il giorno dopo si morde le mani, i parenti vedono nel gesto disperato di Ugolino il bisogno di cibo e offrono all’uomo le loro carni. Dopo quattro giorni muore uno dei figli di Ugolino, poi gli altri. Il conte brancola nel buio altri due giorni, poi la fame lo uccide. Dopo aver finito di raccontare la sua storia, torna a mordere con odio la testa di Ruggieri e Dante esplode con un’invettiva violentissima contro Pisa, augurandole di essere sommersa e distrutta dal fiume Arno. Dante incontra poi due altre anime, Alberigo e Branca, che sono traditori degli ospiti e degli amici, sono posti nel ghiaccio con il viso rivolto verso l’alto, in modo che le loro lacrime vengano gelate dal vento freddo. Il canto si chiude con un’invettiva contro Genova, patria di Doria e dei traditori.

 

Fonte: http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Menna/sintesi%20canti%20inferno.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Canti inferno divina commedia analisi e sintesi tipo file : doc

 

Riassunti dei canti I-V e XXVI-XXXIV dell'Inferno.

I. Dante si smarrisce in una selva buia e solitaria; vi trascorre la notte. All’alba, vede un colle già’ illuminato dal sole. Mentre tenta di salirci, gli appaiono tre belve: prima una lince, poi un leone, che gli sbarrano la strada, e infine una lupa, che lo fa lentamente ridiscendere verso la selva. All’improvviso, appare l’ombra di Virgilio, al quale Dante chiede aiuto. Virgilio accetta e si offre di condurlo per un’altra strada, che passa attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Dante lo segue.

II. Dante e Virgilio sono ancora al limi­tare della selva, quando il sole tra­monta. Il poeta fiorentino si prepara spiritualmente ad affrontare il viaggio, invocando le Muse, simbolo della sua intelligenza poetica, e la propria me­moria, che gli permetterà di raccon­tare fedelmente la sua avventura. Prima di partire, però, Dante è preso da dubbi: domanda a Virgilio il mo­tivo per cui è stato scelto, unico tra gli uomini. Virgilio gli spiega di esse­re stato chiamato in suo aiuto da Bea­trice, venuta nel Limbo a cercarlo, a sua volta inviata da Santa Lucia, che aveva ricevuto lo stesso ordine dalla Madre di Dio. Allora Dante riacqui­sta coraggio e comincia il difficile cammino.

III. Dante e Virgilio giungono alla porta d’ingresso dell’Inferno, sulla quale è impressa una spaventosa iscrizione d‘avvertimento. Oltrepassata la soglia, incontrano la prima schiera di danna­ti, formata dagli ignavi, o pusillanimi. Virgilio invita Dante a disprezzarli e a non curarsi di loro. Subito do­po, sulla riva dell’Acheronte, appare il traghettatore delle anime dannate, Caronte. Egli ingiunge a Dante di al­lontanarsi, perché inadatto al luogo e destinato a un altro regno dell’Aldilà. Ma Virgilio gli spiega che la sua presenza è voluta da Dio. All’improv­viso, un terremoto scuote ogni cosa e fa perdere conoscenza a Dante.

IV. Dante, così come aveva perso i sensi, misteriosamente si risveglia. I due viaggiatori fanno ingresso nel primo cerchio : è la sede del Limbo, dove l’a­ria trema perennemente per i sospiri delle anime. La prima zona che attra­versano è immersa nella tenebra e abitata dai bambini morti prima del battesimo, e dagli adulti che non cre­dettero. Da questa zona Cristo liberò i patriarchi dell’Antico Testamento. La seconda zona, dimora eterna del­lo stesso Virgilio, è luminosa e libera dai sospiri: vi sorge un maestoso ca­stello, sede degli Spiriti dei magnani­mi, grandi poeti, saggi ed eroi dell’an­tichità. Dopo averla visitata, i due riprendono il viaggio.

V. Dante è ormai nel secondo cerchio, al cui ingresso si trova Minosse, che avvolgendosi la coda intorno al cor­po invia i dannati al gradino inferna­le a cui sono destinati. Superata la sua resistenza, guida e pellegrino affron­tano la vista dell’eterna bufera che tra­volge i lussuriosi, tra i quali Dante riconosce alcuni protagonisti della storia e letteratura antica o medievale. Infine, staccandosi da un gruppo di anime paragonate a gru per il loro volo si accostano al poeta gli spiriti di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta. Dal racconto di Francesca, Dan­te è sconvolto al punto di svenire.

XXVI. Dante sfoga il suo sdegno contro Fi­renze, che ha tanti suoi cittadini al­l’Inferno. Poi i due poeti passano al­l’ottava bolgia, alla vista della quale Dante è profondamente turbato, tan­to che si pone il problema di come rappresentarla nei suoi versi: gli appare una distesa di fiamme in movimento, simile a una valle piena di lucciole in una sera d’estate. In ciascuna delle fiamme è nascosto un consigliere di frode. Su richiesta del suo allievo, Virgilio interroga uno dei fuochi che ha l’estremità biforcuta: vi sono puniti Ulisse e Diomede, mitici eroi dell’an­tica Grecia che usarono spesso l’ingan­no. Ulisse racconta come morì, nel suo ultimo viaggio, in cui sfidò i di­vieti divini oltrepassando le Colonne d’Ercole.

XXVII. Dopo il silenzio di Ulisse, da un’al­tra fiamma esce una voce dapprima confusa, ma che poi formula una pre­cisa richiesta di colloquio: Virgilio al­lora cede l’iniziativa a Dante, perché ha capito che il peccatore è italiano. Credendo di confidarsi con un com­pagno di pena, e quindi che il suo rac­conto non potrà mai uscire dall’In­ferno, il dannato inscena un lungo monologo, in cui rivela di essere sta­to il conte Guido da Montefeltro, fat­tosi frate francescano dopo una vita di inganni e violenze, è condannato in eterno a causa di papa Bonifacio VIII, che lo indusse a peccare anco­ra, promettendogli falsamente un’im­possibile assoluzione anticipata. Terminata la sua confessione, i due poeti passano alla bolgia nona.

XXVIII. Colui che nella sua vita commise la grave colpa di dividere, suscitare inimicizie e scissioni, subisce nella no­na bolgia il contrappasso più atro­cemente spettacolare: viene mutila­to, squartato, spezzato in sanguinan­ti tronconi dai diavoli preposti. Qui Dante incontra, in una sequenza di or­rori soprattutto fisici, Maometto, che ha il corpo squarciato dal mento al­l’addome; suo genero Ali che ha il viso spaccato dalla fronte al mento; il contemporaneo Pier da Medicina, con la gola squarciata, il naso troncato e un orecchio tagliato; il romano Curione, con la lingua tagliata che gli in­gombra la gola; il fiorentino Mosca dei Lamberti, con troncate entrambe le mani; infine il trovatore Bertran de Born, che porta davanti a sé la testa mozzata come se fosse una lanterna. È il canto più cruento di tutta la cantica.

XXIX. Dante sta per piangere, sconvolto dal­l’orrendo spettacolo della nona bol­gia. Virgilio lo rimprovera e lo incita a proseguire, perché il tempo rimasto per la visita è ormai poco. Ma Dante insiste a guardare perché ha ricono­sciuto tra i seminatori di discordia un suo parente, il fiorentino Geri del Bello. Parlando di lui, i due poeti entrano nella bolgia decima, l’ultima di Malebolge, dove sono puniti i falsari, colpiti dalle più terribili malattie, da sintomi svariati e tutti ripugnanti. Qui incontrano altri due toscani, Griffolino d’Arezzo e Capocchio, che falsi­ficarono i metalli. Il canto si chiude con la considerazione dell’incredibi­le frivolezza del popolo senese.

XXX. Ancora nella bolgia decima, sono in primo piano i falsari di persona, Gian­ni Schicchi e Mirra, che vagano cor­rendo e mordendo rabbiosamente chiunque capiti loro a tiro. Appare poi un dannato affetto da idropisia, e gon­fio come un liuto: è il falsario di moneta maestro Adamo, che dopo aver raccontato il motivo della sua dannazione, cioè l’aver coniato fiorini falsi per i conti Guidi di Romena, battibecca animatamente con Simone, falsario di parola, il greco che convinse i Troiani a portarsi il cavallo di legno dentro le mura della città. Dante li ascolta come incantato, e Virgilio lo ammonisce a non perdere tempo con una lite così volgare.

XXXI. Dante e Virgilio lasciano Malebolge e, superato l’ultimo argine di roccia, finiscono in un luogo dominato da una luce crepuscolare. Sono vicini al pozzo che collega l’ottavo cerchio con il nono. Nella penombra Dante crede di distinguere le alte torri di una città. Ma Virgilio gli spiega che la sua vista è confusa dalla lontananza, e che quelli che ha visto in realtà sono gi­ganti: attorniano la sponda del pozzo standovi immersi dall’ombelico in giù. Così Dante vede da vicino Nembrot, responsabile della costruzione della torre di Babele e ora incapace di par­lare un linguaggio comprensibile; Fialte che sfidò Zeus e ora è incatenato in modo da non potersi muovere; e in­fine Anteo, che fu ucciso da Ercole, nonostante la forza che gli dava sua madre, la Terra. È proprio Anteo che depone i due poeti sul ghiaccio del fiiume Cocito, nel nono cerchio del­l’Inferno.

XXXII. Deposti dalle gigantesche mani di An­teo, Dante e Virgilio si trovano su un vasto lago di ghiaccio, Cocito, in cui sono immersi i traditori Caina è la prima zona, coi traditori dei congiun­ti, sepolti nel ghiaccio fino al collo, e costretti a tenere il capo chino. Qui Dante vede Napoleone e Alessandro dei conti Alberti; poi Camicione dei Pazzi lo informa che sono li presenti anche Mordret, Focaccia dei Cancel­lieri e Sassolo Mascheroni. Nella se­conda zona, Antenora, sono puniti i traditori politici, con la stessa pena dei precedenti, ma a testa sollevata; qui si trova il responsabile della sconfit­ta guelfa di Montaperti, Bocca degli Abati, il quale dice di avere per com­pagni di pena Buoso da Duera, Tesauro da Beccheria, Gianni dei Soldanieri, Gano di Maganza e Tebaldello Zambrasi. Infine, alla vista di Dante appaiono due teste vicine, una intenta a mordere l’altra.

XXXIII. Il canto si apre con la risposta di Ugolino della Gherardesca alla domanda di Dante. Il conte narra la sua agonia nella Torre dei Gualandi a Pisa e la morte per fame sua e dei suoi quattro figli, per il tradimento dell’arcivesco­vo Ruggieri, il cui teschio egli ora mangia in eterno. Dante scaglia quin­di un indignata invettiva contro Pisa, ingiusta carnefice di innocenti. Poi con Virgilio entra in Tolomea, terza zona di Cocito, dove si trovano i tra­ditori degli ospiti, sdraiati supini nel ghiaccio, così che le lacrime formano uno schermo gelato sui loro occhi. Comincia il vento di Lucifero. Dante, con una promessa che poi non mantiene, fa parlare frate Alberigo dei Manfredi, che denuncia la presenza di Branca Doria e rivela che i corpi dei traditori degli ospiti ancora vivi sulla terra sono in realtà abitati da diavoli. Nuova invettiva, stavolta contro Genova.

XXXIV. Giudecca, ultima zona di Cocito do­ve i traditori dei benefattori sono come pagliuzze totalmente incorporate nel ghiaccio. Appare Lucifero, sovra­no del regno del male, preceduto dal gelido vento originato dalle sue stesse ali. Ha il corpo immerso nel ghiaccio dalla metà inferiore del petto in giù; tre facce, di cui una rossa, una giallastra e una nera; sei immense ali da pi­pistrello. Nelle tre bocche stritola i tre peggiori esempi di peccatori di tutta l’umanità : Giuda, Bruto e Cassio, che tradirono rispettivamente Dio e l’Impero di Roma. Aggrappandosi al pelo di Lucifero, i due poeti scendono, poi si capovolgono e infine risalgono. Emergono in una caverna che fa ormai parte dell’emisfero australe. Do­po aver spiegato a Dante che cosa è successo, e ciò che ha causato la ca­duta di Lucifero dal cielo, Virgilio lo guida verso l’aria aperta.

 

Fonte: http://italiano.sismondi.ch/letteratura/autori/Alighieri/Riassunti_canti.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Canti inferno divina commedia analisi e sintesi tipo file : doc

 

Inferno
Canto1:

      Nel mezzo del cammin di nostra vita 
mi ritrovai per una selva oscura 
ché la diritta via era smarrita. 
       Ahi quanto a dir qual era è cosa dura 
esta selva selvaggia e aspra e forte 
che nel pensier rinova la paura! 
       Tant’è amara che poco è più morte; 
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, 
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. 
       Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, 
tant’era pien di sonno a quel punto 
che la verace via abbandonai. 
       Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, 
là dove terminava quella valle 
che m’avea di paura il cor compunto, 
       guardai in alto, e vidi le sue spalle 
vestite già de’ raggi del pianeta 
che mena dritto altrui per ogne calle. 
       Allor fu la paura un poco queta 
che nel lago del cor m’era durata 
la notte ch’i’ passai con tanta pieta. 

  Quando vidi costui nel gran diserto, 
«Miserere di me», gridai a lui, 
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!». 
       Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, 
e li parenti miei furon lombardi, 
mantoani per patria ambedui. 
       Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, 
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto 
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 
       Poeta fui, e cantai di quel giusto 
figliuol d’Anchise che venne di Troia, 
poi che ’l superbo Iliòn fu combusto. 
       Ma tu perché ritorni a tanta noia? 
perch‚ non sali il dilettoso monte 
ch’è principio e cagion di tutta gioia?». 
       «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte 
che spandi di parlar sì largo fiume?», 
rispuos’io lui con vergognosa fronte. 
       «O de li altri poeti onore e lume 
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore 
che m’ha fatto cercar lo tuo volume. 
       Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore; 
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi 
lo bello stilo che m’ha fatto onore. 
       Vedi la bestia per cu’ io mi volsi: 
aiutami da lei, famoso saggio, 
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

 

Canto 3:
       Per me si va ne la città dolente, 
per me si va ne l’etterno dolore, 
per me si va tra la perduta gente. 
       Giustizia mosse il mio alto fattore: 
fecemi la divina podestate, 
la somma sapienza e ’l primo amore. 
       Dinanzi a me non fuor cose create 
se non etterne, e io etterno duro. 
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate". 
       Queste parole di colore oscuro 
vid’io scritte al sommo d’una porta; 
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». 
       Ed elli a me, come persona accorta: 
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; 
ogne viltà convien che qui sia morta. 
       Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto 
che tu vedrai le genti dolorose 
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

 

Ed ecco verso noi venir per nave 
un vecchio, bianco per antico pelo, 
gridando: «Guai a voi, anime prave! 
       Non isperate mai veder lo cielo: 
i’ vegno per menarvi a l’altra riva 
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 
       E tu che se’ costì, anima viva, 
pàrtiti da cotesti che son morti». 
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 
       disse: «Per altra via, per altri porti 
verrai a piaggia, non qui, per passare: 
più lieve legno convien che ti porti». 
       E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare». 
       Quinci fuor quete le lanose gote 
al nocchier de la livida palude, 
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote. 
       Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, 
cangiar colore e dibattero i denti, 
ratto che ’nteser le parole crude. 
       Bestemmiavano Dio e lor parenti, 
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme 
di lor semenza e di lor nascimenti. 
       Poi si ritrasser tutte quante insieme, 
forte piangendo, a la riva malvagia 
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 
       Caron dimonio, con occhi di bragia, 
loro accennando, tutte le raccoglie; 
batte col remo qualunque s’adagia. 

 

Canto 5:
     Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, 
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 
      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, 
a che e come concedette Amore 
che conosceste i dubbiosi disiri?». 
      E quella a me: «Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 
      Ma s’a conoscer la prima radice 
del nostro amor tu hai cotanto affetto, 
dirò come colui che piange e dice. 
      Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 
       Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 
       Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso, 
      la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante»

 

La metafora del viaggio

       La prima Cantica della Commedia descrive la discesa di Dante nella voragine infernale: il viaggio si compie dall'alba del venerdì santo del 1300, anno in cui papa Bonifacio VIII indisse il Giubileo, sino al tramonto del sabato santo; complessivamente l'Inferno descrive gli eventi che si svolgono in un arco di tempo di trentasei ore. Dante si è smarrito in una selva disabitata e spaventosa. Viene a salvarlo il poeta Virgilio: la selva configura simbolicamente il peccato la corruzione dell'umanità. Virgilio simboleggia la ragione umana che può ricondurre l'uomo sulla retta via.
       L'Inferno è concepito come luogo di eterna sofferenza, voluto da Dio per realizzare la sua giustizia. Le anime che si ostinarono a peccare, senza mai pentirsi, nemmeno in punto di morte, confluiscono sulle rive dell'Acheronte e vengono traghettate dal nocchiero Caronte, uno dei dèmoni infernali che si ispirano a personaggi mitologici. Dante prende alcuni spunti dal VI libro dell'Eneide, ma immagina le pene secondo una mentalità cristiana che si avvale della regola del contrappasso.. Così a ogni peccato viene attribuita una pena che rimane immutabile per l'eternità.
       Due sono i tipi di contrappasso riscontrabili:
        - il contrappasso per analogia, che implica una pena che ricorda la colpa;
        - il contrappasso per contrasto, che implica una pena che ripropone esattamente il contrario della colpa.
Per esempio: i lussuriosi (canto V), che vissero nella tempesta della passione, sono tormentati da una "bufera infernale che mai non cessa"; gli ignavi (canto III), indifferenti a ideali e sollecitazioni anche politiche, rincorrono freneticamente una bandiera nel vestibolo dell'Inferno, indegni perfino di essere accolti dall'Inferno stesso.
       Ogni cerchio infernale viene sorvegliato da un custode.
       I dannati sono inchiodati alla loro pena per l'eternità, non hanno speranza di mitigarla: anzi, quando, dopo il giudizio universale, si riapproprieranno del proprio corpo, la loro sofferenza sarà completa e perfetta. Essi non sono pentiti del loro peccato, ma rimpiangono la terra su cui sono vissuti e provano nostalgia della vita terrena, sentendo spesso come una condanna non tanto la pena eterna da scontare per l'eternità nell'Inferno, quanto la morte corporale che non permetterà più loro di vivere sulla dolce terra. Vedono il futuro, ricordano il passato, ma ignorano il presente.
       Non mancano a Dante profezie del suo esilio.

La struttura dell'Inferno dantesco

       L'Inferno ha forma di imbuto. La porta si apre presso Gerusalemme, che si trova esattamente al polo nord del mondo. Virgilio spiega che esso si formò dopo che Lucifero, il più bello degli angeli, ribellatosi a Dio, venne scaraventato giù dal Paradiso. Incastratosi al centro della terra, fece il vuoto intorno a sé. La terra si ritrasse di paura e «sgusciò» fuori dall'altra parte del globo, formando la montagna del Purgatorio che è esattamente simmetrica all'Inferno; tra il centro della terra e la montagna del Purgatorio si formò anche un cunicolo, una «burella», come la chiama Dante, che permetterà al poeta e a Virgilio di giungere «a riveder le stelle» sulla spiaggetta del Purgatorio.
       L'Inferno è formato da cerchi concentrici: nove cerchi, ai quali si aggiunge un vestibolo dove le anime sostano in attesa di conoscere la loro sorte.

L'atmosfera infernale e i personaggi

       All'Inferno dominano disperazione, dolore. Non sono infrequenti le risse, le malignità, l'ostilità anche verso Dante.
       Il luogo della pena, l'Inferno, è buio, non solo perché è scavato sotto terra, ma per il carattere allegorico del viaggio stesso di Dante: il regno del male è privo della luce di Dio, della sua Grazia che corrobora la ragione umana e guida l'uomo a ben operare.
       Più volte, soprattutto nei primi Canti, Dante parla di aere sanza stelle, aura morta, aura sanza tempo tinta. Non mancano paesaggi vari e differentemente rappresentati, che in certo qual modo riproducono le conformazioni più inquietanti e aspre della terra: paludi, fanghiglia, fiumi ribollenti, foreste selvagge, abissi, scarpate, mura inaccessibili, cimiteri costellati di avelli infuocati, sabbioni coperti d'una pioggia di fuoco, ghiacci sterminati.
      È un paesaggio realistico e strutturato architettonicamente in modo da configurare simbolicamente le difficoltà che l'uomo incontra nel suo cammino verso la salvezza.
       

Dante: sintesi e di alcuni canti della "Divina Commedia"

Inferno: canto I

Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba. Perso in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro preannuncio della dannazione della sua anima. Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene, dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago sfuggito ad una tempesta e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia) il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida, il regno dei dannati e quello delle anime del purgatorio. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).

 

Inferno: canto III

Sulla porta dell’interno un’epigrafe promette, a chi varcherà la soglia, disperazione e dolori eterni, ma Virgilio invita Dante a deporre ogni forma di timore e ogni perplessità; poi, con volto rassicurante, lo fa entrare. Nel buio profondo il Poeta è dapprima colpito da un orribile chiasso, poi intravede un numero sterminato di anime che instancabilmente corrono dietro un vessillo: sono le anime degli ignavi. Insieme ad esse si trovano anche quegli angeli che si erano dichiarati neutrali quando Lucifero insorse contro Dio. La pena degli ignavi è avvilente, spregevole: mosconi e vespe li pungono a sangue e il sangue è succhiato ai loro piedi da vermi ripugnanti. Proseguendo nel loro cammino i due poeti giungono sulla riva del fiume Acheronte, dove si raccolgono tutte le anime dei peccatori in attesa di essere traghettate sull’ altra sponda da Caronte. Il nocchiero svolge il suo compito senza parlare: ordina alle anime di salire sulla barca facendo loro dei cenni, e, se qualcuna mostra di voler indugiare, la percuote col remo. Caronte, accortosi che Dante è ancora in vita, lo ammonisce a tornarsene sui suoi passi,ma Virgilio lo costringe al silenzio rivelandogli che il viaggio del suo discepolo si compie per volere del cielo. Improvvisamente la terra trema, e, mentre un lampo di luce rossa squarcia le tenebre, Dante perde i sensi.

 

Inferno: canto V

A guardia del secondo cerchio della voragine infernale i due pellegrini trovano il ringhioso Minosse. Questi, dopo aver udito la confessione dei peccatori che si affollano al suo cospetto, attorciglia la coda intorno al proprio corpo, per indicare, con il numero dei giri, il cerchio dove ogni dannato dovrà espiare la sua colpa. Nel secondo ripiano scontano il loro peccato le anime dei lussuriosi: nel buio un’incessante bufera le travolge, facendole dolorosamente cozzare le une contro le altre, cosicché l’aria è piena di lamenti. Pregato dal suo discepolo, Virgilio indica i personaggi celebri dell’antichità e del Medioevo che non seppero vincere in sé la passione, e che per essa perdettero la vita: Didone, Cleopatra, Elena, Achille... Dante esprime il desiderio di parlare con due di queste ombre: esse, diversamente dalle altre, procedono indissolubilmente unite e sembrano quasi non opporre resistenza al vento. Sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, colpevoli di adulterio. Chiamati da Dante, i due peccatori si accostano, e Francesca, dichiarata al Poeta la sua gratitudine per aver avuto pietà della loro pena, narra di sé e dell’amore che con tanta forza la legò a Paolo. Dante, turbato, vuole sapere quali circostanze portarono il loro sentimento reciproco a trasformarsi in amore colpevole, e Francesca si abbandona ai ricordi del tempo felice: erano soli; leggevano un romanzo; fu quella lettura a far incontrare i loro sguardi, a farli impallidire; fu il primo bacio scambiato fra i protagonisti di quel romanzo a renderli consapevoli della loro passione. Mentre Francesca parla, Paolo piange.

 

Fonte: http://gandolfi.altervista.org/gandolfi.altervista.org/Italiano_(classe_II)_files/canti%20inferno.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Canti inferno divina commedia analisi e sintesi tipo file : doc

 

Inferno – Canto I

 

A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere.
Nel mezzo del cammin di nostra vita: " {la nostra vita] procede a imagine... di arco, montando e discendendo... lo punto sommo di questo arco... io credo, che... sia nel trentacinquesimo anno"` (Convivio IV, XXIII, 6 e 9).
Mi ritrovai per una selva oscura: la selva oscura ("la selva erronea di questa vita: Convivio IV. XXIV, 12), che ciascuno di noi singolarmente, e il genere umano nel suo complesso, è costretto ad attraversare, simboleggia il peccato e le difficoltà che dobbiamo superare per vincerlo. Per aver ceduto alle lusinghe di una vita che lo ha allontanato da Dio, il Poeta si accorge all'improvviso, con terrore, di non aver più alcun saldo punto di riferimento che possa guidarlo nelle sue azioni, cammina nel buio, e le passioni, non più frenate da un principio razionale, Io dilaniano crudelmente. La sua vicenda è quella di ognuno di noi. Fin da questi primi versi Dante trasferisce quindi la sua esperienza personale su un piano di validità universale.
Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento.
Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute.
Tant'è amara che poco è più morte: allegoricamente: il peccato è vicino alla dannazione, la morte dell'anima.
Non sono in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la mia mente era ottenebrata dall’errore, quando abbandonai il cammino della verità.
Tant'era pieno di sonno: l'abbandono della via del bene è graduale e progressivo, e perciò non può essere determinato il momento in cui si comincia a peccare.
Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia,
volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino.
Per Dante, come per tutti i dotti del suo tempo, che seguivano su questo punto la teoria dell'astronomo egiziano Tolomeo, vissuto nel Il sec. d. C., centro dell'universo era la terra ( teoria geocentrica ). 
Nel sistema tolemaico il sole era un pianeta come gli altri e come gli altri ruotava intorno alla terra.
Qui, sul piano allegorico, il sole è simbolo della grazia divina ('Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi esempio di Dio che 'l sole"; Convivio III, XII, 7). È Dio, che, a un certo momento, nella sua infinita misericordia, si manifesta al peccatore; le cose, rischiarate da questa luce, riacquistano un senso, il loro vero senso: chi disperava intravede finalmente la via della salvezza.

Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza,
La notte ch'i' passai con tanta pièta: naturalmente le tenebre. contrapposte alla luce, hanno in Dante, e particolarmente in questo canto introduttivo, una portata simbolico-allusiva che, al di là della lettera, ci pone in presenza di quello che è il dramma della coscienza impegnata a vivere moralmente. Esse stanno a significare il caotico contrastare degli istinti, laddove la luce, principio ordinatore, rappresenta il sorgere di un'armonia, di un'equa contemperazione del bene concepito secondo il principio dell'unicuique suum.
Lago del cor: la parte più interna del cuore. Si tratta di quella parte che lo stesso Dante, nella Vita Nova (II), chiama "la secretissima camera" del cuore. Il Boccaccio, nel suo commento ai primi diciassette canti dell'inferno. riferisce l'opinione dei suoi contemporanei, secondo cui, in questa cavità, abiterebbero "gli spiriti vitali" ed aggiunge: "è quella parte ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò [Dante] dice che in quella gli era perseverata la passione della paura avuta".
E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati,
mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori.
Così il paragone del naufrago rivive nella partecipe interpretazione di un poeta: "... ancora fora è senza storia, se non latente, ancora a se stesso il naufrago è solo, il naufrago che ancora non s'è riavuto d'essersi dibattuto con la burrasca; è ancora l'assonnato, il " pieno di sonno " che si sta sbrogliando dalla notte, trattenuto nella sorpresa del risveglio. E' l'ora deserta, in mezzo alla quale, solo, sta un uomo" (Ungaretti ) . 
Lo passo: il luogo attraverso il quale Dante era passato, cioè la selva, ma anche, sul piano allegorico, il passaggio che congiunge il peccato alla dannazione.
Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento.
Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato:
essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro.
Più che un animale reale, la lonza, il cui nome ci ricorda quello della lince (lonce francese antico), è una fantasiosa creazione del Poeta. Questi ce la presenta come un felino di singolare eleganza, snello e quasi attraente; il suo aspetto piacevole alla vista può forse alludere alle multiformi (il pel maculato e, più sotto, la gaetta pelle) tentazioni del peccato. Terribile sarà invece l'aspetto del leone: forza, ostinazione, furore si sprigionano dalla sua statuaria figura, tanto che lo sgomento sembra da essa propagarsi a tutto il paesaggio circostante. Nella terza delle tre fiere, la lupa, il male supremo l'allegoria sembra quasi soverchiare la evidenza plastica, mentre s'infittisce l'alone di mistero e di angoscia che la circonda. Ma anche la lupa, la bestia sanza pace, vive ai nostri occhi di vita poetica propria, al di là di ogni angusta determinazione concettuale; né può parlarsi al riguardo di una raffigurazione "lievemente grottesca" (Rossi). Proprio la sua famelica magrezza, il controsenso logico che in essa s'incarna, l'aspetto irreale, continuamente contraddetto dalla sua viva presenza e in cui pare configurarsi una minaccia che non e di questo mondo, costringeranno alla fine il Poeta a tornarsene sui propri passi, a disperare. Che le tre fiere propongano una lettura in chiave allegorica è chiaro. Non facile è apparsa tuttavia ai commentatori l'identificazione delle tre inclinazioni al male che esse simboleggiano. Gli antichi hanno visto nella lonza la lussuria, nel leone la superbia, nella lupa l'avarizia, intesa in senso lato come cupidigia, avidità: "tre vizi che comunemente più occupano l'umana generazione" (Ottimo). Dei moderni alcuni hanno visto in esse le tre faville c'hanno i cuori accesi ( Inferno VI, 75 ), cioè superbia, invidia, avarizia; altri, le tre disposizion che 'l ciel non vole ( Inferno XI, 81 ), cioè malizia, matta bestialità e incontinenza.
Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio
creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata
l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone.
Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne.
E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici,
mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle.
La Lupa simboleggia probabilmente la avarizia, intesa nel suo significato originario, come avidità, brama smodata di possesso. Per San Paolo, che la definisce "radice di tutti i mali, l'avidità è il vizio che ha più contribuito ad allontanare gli uomini da Dio (I Timoteo VI, 10). 
In questi versi, come altrove nella Commedia, l'allegoria riflette un pensiero della Sacra Scrittura. Occorre tuttavia aggiungere che qui, come quasi ovunque nel poema, Dante non precisa l'allegoria fino a farla corrispondere, in tutti i suoi particolari, a un concetto. Una simile puntuale corrispondenza non farebbe che immeschinire la poesia, privandola di quell'alone di indefinito che è ad essa essenziale. In questa pagina, ad esempio, la viva presenza delle tre fiere si ripercuote di continuo in un mondo di sublimi significati, tanto più ricco e universale quanto meno precisato. Dio, la legge morale, l'ordine del creato pervadono ogni aspetto della realtà, ma si manifestano per cenni, per balenanti illuminazioni; non possono essere imprigionati nella pochezza dei nostri concetti. Questo ha sentito Dante, questo più volte ha ribadito esplicitamente, questo è riuscito a far dire ai suoi versi, anche là dove questi sembrano più gravati da intenti dottrinali o di edificazione.

E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo,
tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi.
Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce.
Ruvinava: precipitavo. "Ma il sovrassenso si fonde col significato letterale perché in quel "ruinare" - che rappresenta piuttosto l'entità che la velocità della caduta - e in quel basso loco, che si riferisce ugualmente bene alla bassura della selva e alla bassezza della vita viziosa, c'è l'immagine della doppia caduta: materiale e morale. " ( Grabher ) 
Chi per lungo silenzio parea fioco: allegoricamente: la voce della ragione, dopo un lungo silenzio, stenta a farsi intendere. Ma, al di là di ogni intento allegorico, quest'ombra ingigantita dal silenzio, isolata in uno spazio vuoto, si annuncia come portatrice di un mistero ed esercita una profonda suggestione.
Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !"
Miserere: la forma latina conferisce tragica solennità all'invocazione del Poeta.
Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova.
Non omo, omo già fui: la risposta di Virgilio "articolata, intorno a quella realtà umana, in negazione rispetto al presente e in affermazione rispetto al passato, sembra definitivamente ribadire la distinzione tonale del canto fra mondo infraumano e sovrumano, metafisico e simbolico, trascendente e biblico, e mondo umano, della storia e della poesia" ( Getto) .
Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli.
Virgilio nacque nel 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Giulio Cesare morì nel 44 a.C. Non poté quindi conoscere ed apprezzare l'autore dell'Eneide.
Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata.
Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? "
La risposta di Virgilio contrasta, nella sua distaccata serenità, che è quella del saggio, dell'anima ormai immune da ogni passione - con la concitata ammirazione di Dante. Già in queste prime battute si delinea il rapporto da maestro a discepolo che caratterizzerà i dialoghi dei due personaggi.
"Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia?
O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera.
Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama.
Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra."
Famoso saggio: per Dante il poeta deve anzitutto essere un maestro, un sapiente. 
I polsi: le arterie, nell'atto di pulsare.
Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada:
perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo;
e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti.
Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente.
Animali: esseri animati in genere e quindi anche uomini.
'l Veltro: per aver ragione della lupa, occorre un veloce cane da caccia. In quest'allegoria dobbiamo vedere l'attesa messianica di un papa riformatore o di un imperatore giusto.
Tutta l'umanità per Dante avrebbe dovuto essere ricondotta sotto una sola autorità nel campo temporale, sotto un solo magistero in quello spirituale. Ma ai suoi tempi egli vedeva questi due poteri, da Dio ordinati alla guida degli uomini, degradarsi in abusi e compromessi, offuscarsi nella mediocrità di coloro che li rappresentavano. L'interpretazione dei fatti politici di cui fu testimone è in Dante improntata al più deciso pessimismo. Da qui, da questa considerazione negativa del presente, prendono l'avvio alcune delle sue pagine di più alta poesia, animate da un ardore profetico che trova riscontro soltanto nell'Antico Testamento. I commentatori hanno dissertato a lungo nella speranza di giungere ad una plausibile identificazione del personaggio storico che si celerebbe dietro l'allegoria del Veltro. Ma anche a proposito del Veltro giova ricordare che la poesia ha una sua vita autonoma, e che l'allegoria può trasfigurarsi in lirica, nella misura in cui dà voce a un sentimento. La figura della lupa e quella del Veltro esprimono una profonda ansia di rinnovamento morale, una fede saldissima. 
Per quel che riguarda l'interpretazione degli eruditi, alcuni hanno visto nel Veltro un capo ghibellino ( Cangrande della Scala, di cui Dante fu ospite nel suo esilio, o Arrigo VII di Lussemburgo); altri Benedetto XI, pontefice dal 1303 al 1304. Non esistono però documenti che permettano di risolvere la questione in modo probante.

Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni.
Questi non ciberà terra né peltro: l'azione politica del Veltro non sarà dettata né da cupidigia di possedimenti (terra) né da brama di denaro (peltro: lega metallica di stagno, piombo e mercurio ) .
Sapienza, amore e virtute: più che qualità generiche, suggeriscono le tre persone della Trinità: virtute (nel senso latino di potenza, capacità ), il Padre onnipotente; sapienza, il Figlio ("il Verbo si è fatto carne"; Giovanni I, 14); amore, l'afflato di carità dello Spirito Santo.
Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso.
Camilla e Turno combatterono e morirono in guerra contro l'esercito di Enea sbarcato nel Lazio. Eurialo e Niso s'immolarono invece per la salvezza dei Troiani. " L'aver unito nella esaltazione i vincitori e i vinti che combatterono per la patria è tratto virgiliano, ma anche dantesco." (Gallardo)
Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire.
Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna,
dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione;
La seconda morte ciascun grida: lamentano la loro condizione di reprobi, la morte dell'anima; secondo altri interpreti, i dannati invocherebbero, dopo quello del corpo, l'annullamento anche dell'anima, la loro definitiva estinzione anche come spiriti. E' questo il primo alto annunzio della condizione morale dei dannati, del loro tormento spirituale. Alla forza della disperazione morale dei dannati si contrappone la forza della speranza delle anime purganti: perché sperano nel paradiso, son contenti nel foco. Le parole di Virgilio sono già una viva sintesi della fisionomia morale dei due regni." (Momigliano)
e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo.
Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco;
poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ).
Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo"
Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna,
Acciò ch'io fugga...: perché io eviti "lo smarrimento presente (questo male) e poi la dannazione, sua naturale conseguenza (e peggio)" ( Grabher) .
La porta di san Pietro: la porta del paradiso, a guardia della quale, nella immaginazione popolare, era posto San Pietro ("a te darò le chiavi del regno dei cieli"; Matteo XVI, 19).
di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene".
Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.

 

Inferno – Canto II

Il giorno finiva, e l’oscurità faceva interrompere ai vivi in terra le loro fatiche; io solo
mi preparavo a sostenere il travaglio fisico e morale (del viaggio), che la memoria, esatta nel trascrivere ciò che ha appreso, narrerà.
Dante non indulge mai in descrizioni di mero colore: nella Divina Commedia la natura è sempre ricca di dramma, di umana tensione. Così nell'attacco di questo canto, che prende rilievo dal contrasto tra il destino di tutti, che è quello di riposare dopo le fatiche della giornata, e quello del Poeta, oppresso dal peso della sua responsabilità, insonne, travagliato dall'angoscia.
Le parole che Dante rivolgerà a Virgilio per esporgli i propri dubbi trarranno solennità e concentrazione proprio dal fatto di essere dette in questo tramonto, simbolo del commiato di un uomo da tutto ciò che di umano ancora lo tiene legato al mondo dei vivi.

O Muse, o mia forza intellettuale, soccorretemi; o memoria, che porti impressa in te la mia visione, qui apparirà il tuo valore.
Io cominciai con queste parole: "Poeta, mia guida, guarda se le mie capacità sono sufficienti, prima di affidarmi all’arduo passaggio.
(Nell’Eneide) tu narri che il padre di Silvio (cioè Enea, che generò Silvio da Lavinia), mentre era ancora in vita, andò nel mondo dei morti (immortale: perché in esso le anime hanno vita eterna), e fece ciò in carne e ossa.
Ma, se Dio (l’avversario d’ogni male) fu con lui cortese, riflettendo sull’importanza dei risultati ( Roma, la sua storia, il suo impero) che avrebbero avuto in Enea la loro origine, e sulle sue qualità personali e sulla sua stirpe regale,
Però, se l'avversario d'ogni male: contro i presupposti dell'esegesi tradizionale, per i quali oggetto del giudizio dell'uomo assennato è la cortesia usata da Dio ad Enea, il Pagliaro sottolinea "l'impossibilità, per così dire, ideologica, di attribuire al Poeta della cristianità medievale, che nella teologia ha concentrato e trasfigurato la pienezza e la purezza del suo amore terreno, un atteggiamento irrispettoso o per lo meno distratto, al punto da fargli dire che un uomo di senno non può obbiettare nulla contro il favore dimostrato da Dio nei riguardi di Enea..." Il giudizio dell'uomo assennato verterebbe quindi sulla persona di Enea, non sulla cortesia di Dio. Quanto alla domanda affacciata da alcuni interpreti, se cioè Dante credeva alla discesa agli Inferi di Enea (di cui Virgilio parla nell'Eneide, canto VI, 237 sgg.) come a un evento storicamente accertato, occorre ricordare che per la mentalità medievale il problema non si poneva in questi termini: un fatto veniva accettato come vero per il momento di verità interiore che in esso appariva contenuto.
Nell'empireo ciel per padre eletto: il cielo Empireo è il decimo, il più remoto dalla terra, quello che rinchiude in se tutto il creato ed è sede di Dio.
la cosa non appare ingiustificata a chi ragiona; poiché egli fu prescelto da Dio come capostipite della nobile Roma e del suo impero:
Roma e il suo impero, se vogliamo essere esatti, furono costituiti da Dio per preparare il luogo sacro dove ha sede il pontefice, successore del grande Pietro.
A causa di questa discesa ( nel regno dei morti), di cui (nel tuo poema) lo hai considerato degno, apprese fatti (il padre Anchise gli pronosticò il felice esito dei suoi travagli e la grandezza di Roma) che furono le premesse della sua vittoria (nella guerra contro i Latini e i loro alleati) e dell’autorità papale.
L'apostrofe di Dante a Virgilio inizia sul tono di un ragionamento dimostrativo, "ma si trasforma via via in una commossa apoteosi di quella Roma ideale, latina e cristiana, che, per divina elezione, doveva essere luce di vita temporale e spirituale al genere umano" (Grabher).
La seconda discesa nell’oltretomba è quella di San Paolo, l’eletto da Dio, il quale vi andò per trarne forza per la diffusione della fede cristiana, senza la quale la salvezza è impossibile.
Vas d'elezione: il vaso della scelta, il recipiente colmo, per decisione divina, di grazia; nel Paradiso ( canto XXI, versi 127-128) Dante chiamerà San Paolo il gran vasello dello Spirito Santo. Il verso allude al rapimento mistico che San Paolo rivela di aver avuto, allorché "se nel suo corpo, o fuori del suo corpo..., lo sa Iddio, fu rapito fino al terzo cielo" (II Corinti XII. 2-4).
Ma qual è il motivo per il quale io devo intraprendere questo viaggio? chi mi autorizza a farlo? Non sono né Enea né San Paolo: né io mi ritengo all’altezza del compito, né qualcun altro me ne ritiene degno.

A più riprese, nella Divina Commedia, Dante manifesta l'alta coscienza che ha di sé e della missione affidatagli; ma qui, in questo severo e tormentato dibattito con se stesso, vediamo quanto sia profonda la sua umiltà dinanzi ai supremi ideali in cui crede. L'Impero e la Chiesa si levano giganteschi davanti a lui nelle persone: Enea e di San Paolo, a testimoniargli la provvidenzialità del corso della storia. Di fronte a questi due fulcri della volontà di Dio in terra, il Poeta ha vivo il sentimento della sua umana piccolezza.
Perciò, se, per quel che riguarda questo viaggio, m’induco ad acconsentire, temo che la mia venuta (nell’oltretomba) sia temeraria: sei saggio; sei in grado di comprendere meglio di quanto io non sia in grado di esprimermi.
E nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che ha voluto prima e cambia intento per il sopraggiungere di nuovi pensieri, in modo da scostarsi dal proposito iniziale,
venni a trovarmi io su quel buio pendio (e scesa nel frattempo la notte), perché portai a termine, col pensiero ( prevedendone tutti gli ostacoli e rendendomi conto della sua folle temerarietà), l’impresa cui mi ero accinto con tanta baldanza.
Il paragone, volto a illustrare uno stato d'animo, senza avere l'ampiezza di risonanze della similitudine del naufrago del primo canto, è condotto con "energia nervosa ", cui "conferisce l'evidenza d'una scena drammatica lo scenario interposto, tal mi fec'io in quella oscura costa" (Momigliano).
"Se ho capito bene il tuo discorso" rispose l’ombra di Virgilio, "il tuo animo è fiaccato dalla pusillanimità:
Magnanimo: si contrappone alla viltate del verso 45: "Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanime, per contrario, sempre si tiene meno che non e" (Convivio I, XI, 18).
essa molte volte ostacola l’uomo tanto da allontanarlo da un’impresa onorata, così come una ingannevole apparenza fa volgere indietro una bestia quando si adombra.
Perché tu ti liberi da questo timore, ti esporrò il motivo per cui sono venuto (in tuo aiuto) e ciò che udii quando per la prima volta sentii pietà per il tuo stato.
Mi trovavo (nel limbo) tra coloro che sono in una condizione intermedia tra i beati e i dannati al fuoco eterno, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e soffusa di tanta letizia, da essere indotto a pregarla di comandare.
I critici hanno variamente insistito sugli aspetti che ricollegano l'apparizione di Beatrice a Virgilio in questo canto ai modi in cui la figura di Beatrice è presentata nella Vita Nova, lo scritto giovanile con cui Dante ha celebrato le virtù della donna amata. Per il Sapegno tutta l'intonazione dell'episodio riflette quel "misticismo amoroso" che aveva trovato in Dante il suo più sicuro interprete, nell'ambito della scuola poetica del dolce stil novo. Il Momigliano nota anch'egli la "continuità ideale e artistica" fra la Vita Nova e la Commedia, rilevando in questo episodio maggiore maturità e sicurezza d'impianto rispetto agli scritti giovanili.
La luce dei suoi occhi vinceva quella delle stelle; e cominciò a parlarmi dolcemente e pacatamente, con voce d’angelo:
"O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini, ed è destinata a durare tanto a lungo quanto durerà il mondo,
colui che è amato da me, ma non dalla sorte, ha trovato tali ostacoli sul deserto pendio del colle, che si è già volto indietro per la paura;
il mio timore è che egli si sia a tal punto nuovamente perduto (nel buio del peccato), da rendere ormai tardivo (e quindi inutile) il mio aiuto, per quel che di lui mi è stato riferito in cielo.
Alcuni credono che con l'espressione l'amico mio Beatrice intenda accennare all'amore di Dante per lei, anziché a quello suo per Dante. Questa interpretazione concorderebbe con quella di un antico commentatore che insiste sul senso allegorico: ''molti amano Beatrice, cioè la dottrina delle cose divine, non per lei né per aver quella, ma per acquistarne fama e reputazione mondana e ricchezze e dignità, le quali cose son beni di fortuna" (Buti).
Va dunque, e aiutalo sia con la tua eloquenza sia con tutto ciò che altrimenti occorra per la sua salvezza, in modo da rendermi contenta.
Io, che ti invito ad andare, sono Beatrice; vengo dal cielo, dove desidero tornare; sono stata spinta (fin qui) da amore e amore ha ispirato le mie parole.
Il termine "amore", ha qui una grande complessità di significati. "È' l'amore di Beatrice per il suo fedele; ma anche l'Amore inteso nel suo valore assoluto, cioè Dio, da cui deriva ogni impulso caritatevole." ( Sapegno )
Quando sarò davanti a Dio, spesso Gli parlerò degnamente di te." Allora tacque, e poi io cominciai:
"O signora di virtù, per la quale virtù soltanto il genere umano è superiore ad ogni altro essere contenuto dal cielo (quello della Luna) che compie (nel suo moto di rotazione intorno alla terra) i giri più piccoli,
Di quel ciel c'ha minor li cerchi sui: secondo il sistema tolemaico, nove cieli concentrici girano intorno alla terra, che viene quindi a trovarsi come contenuta in essi. Il più basso e quindi il più piccolo (e il più vicino alla terra) è il cielo della Luna.
il tuo comando mi è così gradito, che, se anche avessi iniziato ad obbedirti, mi sembrerebbe pur sempre d’aver fatto tardi; più non occorre che tu mi manifesti: il tuo volere.
Dimmi piuttosto il motivo per cui non temi di scendere qua in basso, nel centro dell’universo ( occupato appunto dall’inferno), dal luogo sconfinato (I’Empireo), dove bruci dal desiderio di ritornare."
"Poiché vuoi penetrare tanto in profondità con la tua mente, ti dirò in breve perché non temo di scendere nell’inferno" mi rispose.
Conviene temere soltanto quelle cose che possono arrecare danno; le altre no, poiché non sono temibili.
Il Boccaccio, riportandosi a un passo dell'Etica di Aristotile, afferma: "il non temer le cose che possono nuocere... è atto di bestiale e di temerario uomo; e così temere quelle che nuocere non possono... è atto di vilissimo uomo..."
Questa così ovvia risposta di Beatrice - sarebbe sufficiente alla domanda di Virgilio. "Ma Beatrice ha compreso che Virgilio desidera sapere la ragione personale, intima, della improvvisa e affatto straordinaria discesa di lei, non già di udire una sentenza filosofica." (Torraca)

Dio mi creò, per sua grazia,tale che la vostra miseria di peccatori non mi tocca, né possono attaccarmi le fiamme infernali.
In queste parole di Beatrice "non c'è disprezzo per la miseria e l'incendio... che travaglia i dannati, ma il senso di una pace, di una felicità sicura, di un distacco ineffabile dal mondo e dalla materia... e nello stesso tempo il candore della creatura celestiale, trionfante con tanta semplicità e umiltà (Chimenz).
Nel cielo una donna gentile (la Vergine) ha compassione per queste difficoltà verso le quali io ti mando (a liberare Dante), tanto da mitigare la severità della giustizia divina.
Questa chiamò Lucia e disse: "Il tuo fedele ha ora bisogno di te, ed io a te lo raccomando".
Lucia: martire siracusana, protettrice della vista, simboleggia la Grazia illuminante; forse Dante le fu particolarmente devoto in seguito ad una malattia degli occhi di cui ebbe a soffrire (Convivio III, IX, 15-16).
Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse, e venne dove io sedevo insieme all’antica Rachele.
Rachele: personaggio dell'Antico Testamento, nel Medioevo simboleggia la vita contemplativa ed è perciò posta accanto a Beatrice, simbolo della teologia.
Parlò: - Beatrice, vera gloria di Dio (loda: lode, in quanto la sua perfezione torna a gloria di chi la creò), perché non aiuti chi tanto ti amò, colui che, per amor tuo, seppe elevarsi sulla turba dei mediocri?
Beatrice, loda di Dio vera: il senso di questa espressione così concisa si chiarisce attraverso una pagina della Vita Nova, ove è scritto che la gente, dopo aver visto Beatrice, ringrazia il Signore per la perfezione delle sue creature: "Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilmente sae adoperare!" (XXVI).
Ch'uscì per te della volgare schiera: Dante è consapevole di essere riuscito, per altezza di poesia, per coerenza di vita morale, per sicurezza di dottrina. a sollevarsi al disopra dei suoi contemporanei. Questo verso può riferirsi "sia al bello stile che ha fatto onore a Dante cantando di Beatrice, sia alla superiorità spirituale sopra la gente volgare, raggiunta dal Poeta in virtù del suo amore" (Chimenz).
non odi il suo pianto angoscioso? non vedi il pericolo della dannazione che lo assale sul fiume (del peccato), sul quale il mare non può vantare la sua forza?
La fiumana ove 'l mar non ha vanto: nella fiumana dobbiamo vedere lo scorrere della vita dell'uomo nel peccato e nel male. Una interpretazione diversa è stata avanzata dal Pagliaro, il quale, accertato che ove può avere soltanto il significato di "nel luogo in cui", ricostruisce così il senso della metafora: "Dante è in pericolo come colui che si trova su una fiumana, nel punto in cui questa si incontra col mare, e il mare non riesce a vincerla". In questa interpretazione, l'immagine, circoscritta al senso letterale, non richiede l'aggiunta di un sovrassenso.
Sulla terra non ci furono mai persone così pronte a perseguire il loro utile e a evitare ciò che potesse danneggiarle, come fui pronta io, dopo che tali parole mi furono dette,
nello scendere fin quaggiù dal mio seggio di beata, confidando nella tua nobile eloquenza, che onora sia te sia quelli che l’hanno intesa (traendone profitto spirituale)."
Dopo avermi dette queste cose, volse verso di me gli occhi lucidi di lagrime; e per questo mi rese più sollecito a venire (dove tu eri);
La figura di Beatrice in lagrime suggerisce al Boccaccio questo commento: "atto d'amante e massimamente di donna; le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale desiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il desiderio loro essere ardentissimo". Beatrice ha qui un contorno luminoso e celestiale, senza tuttavia nulla perdere della trepidazione di una donna che ama. C'è in tutto il suo discorso "una linea pura, la semplicità di una sfera remota dal mondo" (Momigliano).
Nel suo saggio su Dante il Croce sembra voler suggerire una ideale collocazione di Beatrice quale appare in questo "prologo in cielo", accanto alle grandi eroine della letteratura mondiale, allorché osserva: "Beatrice è ora veramente l'eterno femminile, la pietà, la sollecitudine quasi materna, con alcunché di molle e di amoroso, una santa, e pur sempre una donna bella, che in qualche modo gli appartenne e fu di lui solo, di lui suo cantore, che la celebrò viva e morta".

e come Beatrice volle venni da te; ti portai via dal cospetto della lupa, che t’aveva impedito di raggiungere per la via più breve la cima del colle.
Che hai dunque? perché, perché indugi ? perché accogli in cuore tanta pusillanimità? perché non hai coraggio e schietta fiducia in te stesso?
dal momento che tre beate tanto potenti perorano la tua causa davanti al tribunale di Dio, e che le mie parole promettono (al tuo viaggio) un esito così felice? "
Come i gracili fiori, prostrati a terra con le corolle serrate per difendersi dal freddo della notte, appena li rischiara all’alba il primo raggio di sole si ergono sui loro steli con le corolle tutte aperte,
così mi ripresi dal mio precedente stato di abbattimento, e tanto coraggio entrò nel mio animo, che cominciai (a parlare) libero da ogni timore:
Quali i fioretti...: la similitudine riflette, attraverso un particolare aspetto della natura all'alba. il progressivo ritorno della fiducia (buono ardire) nel cuore di Dante. La preziosa sostanza dell'immagine, il delicato atteggiarsi dei fioretti, il senso di fragilità che c'è nel loro risveglio, propongono un confronto tra l'arte di Dante e la grande tradizione figurativa del Trecento.
C'è in questa similitudine qualcosa che attesta... una malattia solo da poco decisamente superata: Dante puo ben paragonarsi a un convalescente. Guardate quei fiori: sono gracili, teneri fiori, sono soltanto fioretti: e il primo sole, che i color vari suscita dovunque si riposa, non fa che imbiancarli solamente, quasi non fossero ben capaci ancora di sopportare l'intensità dei loro colori; torna lo slancio vitale e si manifesta in quell'aprirsi, dilatarsi tutta, avidamente, della corolla, come a inebriarsi della luce del nuovo giorno, quasi di una nuova vita... (Chimenz)

"Oh misericordiosa colei che mi venne in aiuto! e te generoso, che non hai tardato a prestare obbedienza alle veritiere parole che ti indirizzo!
Col tuo ragionamento mi hai a tal punto predisposto l’animo con desiderio al viaggio, che sono tornato ad avere l’intenzione che avevo in origine.
Incamminati dunque, poiché un’unica volontà ci governa: siimi guida, padrone, maestro. " Cosi parlai; ed essendosi egli avviato,
entrai (dietro a lui) nell’arduo e orrido cammino.

 

Inferno – Canto III

« Attraverso me si entra nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine, tra le anime dannate.

Ossessiva e agghiacciante si ripete nella prima terzina "la stessa idea, come presente immobile, eterno, ripetizione di se stesso: dolore e sempre dolore, quel luogo e sempre quel luogo" (De Sanctis) .

Dio, mio eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore).

Prima di me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni speranza ».

Se non etterne: le cose create per essere eterne, prima dell'inferno, sono i cieli, gli angeli, la materia ancora informe.

Vidi questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: « Maestro, ciò che essa dice per me è terribile ».

Ed egli, da persona perspicace qual era: « A questo punto occorre abbandonare ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora sparire.

Siamo giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio ».

Il ben dell'intelletto: secondo Aristotile, il vero e, quindi, la verità suprema, Dio.

Ivi echeggiavano nell'aria senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che (udendoli) per la prima volta ne piansi.

Differenti lingue, orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi delle mani l'una contro l'altra

creavano nell'aria buia, priva di tempo, una confusione eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la sabbia quando soffia un vento turbinoso.

Il Mazzoni ha ravvisato una suggestiva rispondenza tra il contenuto di questa similitudine e la sua struttura sintattica: "La rena si avvolge a spirale crescendo rapida dall'inerzia al moto culminante, per quindi ricadere dal moto culminante all'inerzia: non altrimenti troviamo nella descrizione del Poeta un salire dal meno al più, e un ridiscendere dal più al meno".

E io che avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai: "Maestro, che significano queste grida? che gente è questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?"

E Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né biasimo né lode.

Gli ignavi non possono, a rigore, essere inclusi fra i dannati, non avendo essi trasgredito in modo esplicito la legge morale. Questo è il motivo per cui Dante li colloca al di qua del fiume Acheronte, in quel vestibolo dell'inferno che l'autore dell'Eneide aveva assegnato agli insepolti.
Ma la concezione eroica ed intransigente che il Poeta ha del nostro compito in terra, conferisce alla sua parola vigore eccezionale nell'atto in cui li addita alla nostra riprovazione. Così ha osservato il Croce: ."la vera loro punizione sono i versi che li fustigano in eterno: questi sciaurati, che mai non fur vivi...; che visser senza infamia e senza lodo...; a Dio spiacenti ed a nimici sui...: che fece per viltate il gran rifiuto...; non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
Il disprezzo di Dante per coloro che per viltà si astennero dall'agire, disprezzo che il Poeta manifesta con estrema violenza, "è correlativo alla simpatia, in lui così viva sempre, per i magnanimi, per coloro cioè che, in bene o in male, seppero imprimere una potente impronta nella storia del loro tempo" (Sapegno).


Sono mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé.

Perché il loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine infernale, perché i colpevoli (gli angeli che parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi rispetto ad essi " .

Ed io: "Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo dirò in pochissime parole.

Costoro non possono sperare in un completo annullamento del loro essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte) la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino.

Il mondo non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna non parliamo di loro, ma osserva e va oltre ".

E io, guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo che girava correndo così velocemente, da sembrare incapace di una qualsiasi forma di quiete;

e dietro ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei immaginato fosse stata annientata dalla morte.

Le pene dell'inferno e del purgatorio riflettono, nella Divina Commedia, la razionalità della giustizia divina. Tra esse e il peccato che colpiscono c'è sempre una stretta relazione, il cosiddetto contrappasso: questa punizione in alcuni casi si manifesta per analogia, in altri, invece, per contrapposizione, come qui, per gli ignavi. "... indegno di riposo è chi non milita, chi non arrischia, chi non combatte. Dopo la vittoria ci si riposa, e dopo la sconfitta; o anche dopo il cammino: e costoro non vollero vincere, temerono di perdere, non si mossero mai. Vadano dunque eternamente, camminando rapidi, senza saper neppure quale insegna sia quella che li precede; e poi che per nulla mai si scaldarono, prorompano ora in accenti d'ira; poi che per nulla mai gemerono, versino ora lamenti e lagrime; poi che per nulla mai rischiarono una goccia di sangue, stillino sangue. Lagrime e sangue, che furono da loro negati al servigio delle cause umane, e di quella di Dio, scendano a impinguare i vermi che brulicano ai loro piedi con tormentoso fastidio" (Mazzoni).
L'infinita moltitudine degli ignavi riecheggia, qui, un passo della Sacra Scrittura: "Degli stolti il numero è infinito" (Ecclesiaste 1, 15). Scrive il Momigliano: "il mondo, dunque, secondo Dante è fatto soprattutto di ignavi, di una folla amorfa e grigia, su cui emergono quelli che vivono con infamia o con lode".


Dopo aver ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale (fece per viltà il gran rifiuto).

L'eremita Pier da Morrone, eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V, dopo cinque mesi rinunciò al pontificato.
Gli succedette, sulla cattedra di Pietro, Bonifacio VIII, il quale, nel conflitto divampato a Firenze fra le due fazioni dei Guelfi, i Bianchi e i Neri, favorì questi ultimi. In seguito al prevalere dei Neri, Dante, che era andato a Roma in missione ufficiale presso il papa, non poté più tornare nella sua città (1302).


Compresi allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i diavoli).

Questi miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in quanto non seppero affermare la loro personalità), erano nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si trovavano lì.

Esse rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime, era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi.

E dopo aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio: "Maestro, consentimi

di apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva, come intravedo attraverso la debole luce".

Osserva il Momigliano, a proposito della scena che qui inizia: "Il tema direttivo della seconda parte del canto è questa lividità sconfinata e minacciosa, dentro cui s'inquadra così bene l'immagine autunnale delle anime che si staccano dalla riva come foglie morte dall'albero. Tutta la vita della scena spira dalla livida palude, da questa tinta, da questo tragico barlume dell'orizzonte, che Dante accenna solo e che pure si stende dovunque come il colore che evapora naturalmente da quell'affollarsi di dannati che hanno lasciato ogni speranza. Perfino il terremoto che chiude il canto, è in armonia con quella tinta di corruccio che ne domina lo sfondo".

Virgilio mi rispose: « Le cose ti saranno note (conte: conosciute) quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume Acheronte ».

Allora, con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare finché arrivammo al fiume.

Questo, come altri atteggiamenti di umiltà di Dante nei confronti del maestro, rischia di apparire eccessivo rispetto al motivo che lo ha determinato, se lo si limita al suo significato più ovvio.
In realtà, Virgilio, nelle prime due cantiche, non è un personaggio al pari degli altri, come d'altronde non è nemmeno solo un'allegoria, un semplice simbolo. Per capire il rapporto che si stabilisce nel corso del poema tra Dante e Virgilio, occorre tener presente che in quest'ultimo si incarnano, per Dante, le più eccelse qualità della poesia, quasi un traguardo di perfezione nella cui contemplazione egli si perde. Non si tratta di un sovrassenso meccanicamente imposto alla lettera (come potrebbe essere la ragione, o la filosofia, o - sul piano politico - l'idea imperiale, cui di volta in volta la figura di Virgilio è stata ricondotta, con scrupolo forse eccessivo, dagli interpreti), ma di un senso più vasto del significato letterale, che da quest'ultimo continuamente trabocca. La trascendenza come poesia: ecco quello che il personaggio di Virgilio incarna agli occhi di Dante. Il poeta latino - avverte il Montanari "è la persona viva che ha rivelato a Dante il più alto valore della poesia: di una poesia che sia capace di assorbire nella propria forma non solo la ragione umana che si esercita sulle cose visibili, ma l'aspirazione dell'uomo a varcare le soglie di quel cammino invisibile senza del quale l'uomo non può raggiungere il suo ultimo destino". Solo un sentimento religioso può dettare parole come quelle che la reverenza per il maestro ha ispirato a Dante.


E (dopo essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage !

Non illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco e nel ghiaccio.

E tu che, ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me n'andavo,

continuò: « Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato (per passare): una barca più leggiera ti dovrà trasportare ».

Caronte è il primo dei custodi infernali che i due poeti incontrano nel loro viaggio. La sua figura è desunta, come altre della prima cantica, dal libro VI dell'Eneide, in cui è narrata la discesa di Enea nell'oltretomba. Ma su qualunque argomento Dante si soffermi, sia esso tratto dall'osservazione diretta della realtà o invece rivissuto sulle pagine degli autori a lui cari, gli imprime i tratti della sua poesia: essenzialità, concisione, vigore drammatico ed espressivo. A proposito dei mostri passati dalla mitologia classica nell'inferno dantesco, il Momigliano osserva: "hanno tutti un'imponenza che, fusa con l'aspetto minaccioso e mostruoso, tradisce in questi guardiani sotterranei la espressione d'una potenza superiore intesa a flagellare il regno del peccato. Tutti hanno una gagliarda, quasi tutti una monumentale, violenza di atteggiamenti e di movimenti, e condensano in sé la disperata vitalità che è il carattere dominante dell'Inferno".
Caronte sa che Dante è destinato a salvarsi: l'anima del Poeta, dopo la morte del suo corpo, sarà tra quelle che si raccoglieranno alla foce del Tevere, per essere trasportate in purgatorio da un vasello snelletto e leggiero (Purgatorio II, 41) , ossia dal più lieve legno cui accenna Caronte.


E Virgilio gli disse: « Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò che è voluto può avere immediata attuazione), e non chiedere altro ».

Vuolsi così colà dove si puote: Dante non nomina mai Dio parlando con i custodi infernali, ma la perifrasi è esplicita nell'indicare Colui che ha decretato il suo viaggio nell'al di là.
Un motivo più intimamente poetico può tuttavia rendere ragione di questa formula, che verrà ripetuta tale quale o con lievi modifiche in occasione di altri incontri con i guardiani infernali. "Se infatti Virgilio avesse risposto semplicemente che questo era voluto da Dio, Caronte non sarebbe stato colpito come da quel tortuoso intrico di parole, che lo circuiscono tremende e misteriose, incidendo, ossessionanti, la volontà e la potenza del Cielo..." (Grabher)
Il Sapegno scorge invece in questo procedimento "un certo schematismo e una certa meccanicità d'invenzione", destinati a sparire col progressivo maturare, in senso drammatico e mosso, dell'arte del Poeta.


Da questo istante si calmarono le gote ricoperte di fluente barba del traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è, per antonomasia, il colore della morte), che aveva intorno agli occhi cerchi di fuoco.

Quinci fuor quete le lanose gote: Caronte ha cessato di parlare. Dante non si sofferma. tanto sull'aspetto auditivo di questo silenzio, quanto su quello visivo. "Infatti le parole di Caronte, nella loro violenza, specialmente iniziale (guai a voi ecc.) hanno scomposto la plastica di quel volto, facendo sobbalzare l'antica e copiosa canizie. Appena Caronte tace; ciò che più colpisce Dante, fisso con stupore e terrore nel volto del vecchio, è il ricomporsi del volto stesso, nella sua compostezza plastica. Ecco perché il Poeta dice: fuor quete le lanose gote; e lanose, richiamando il vello degli animali, aggiunge qualcosa di bestiale a quella che, nel Caronte virgiliano, è solo una « abbondante, incolta canizie »." (Grabher)

Ma quelle anime, che erano affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti, non appena ebbero udite le crudeli parole:

maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il luogo e il tempo (in cui erano state generate) e l'origine della loro stirpe e della loro nascita.

La bestemmia è, tra le manifestazioni dei dannati, forse la più tipica. Privati della possibilità del pentimento, all'ingresso dell'inferno, essi sfogano, in questa incalzante e grandiosa maledizione, che ha per oggetto il creato nei suoi principii di vita e di generazione (Dio e lor parenti... e 'l seme), la loro rabbia cieca e impotente.
Ma la bestemmia solo apparentemente può sembrare in loro una manifestazione di rivolta; in realtà essi, come automi, riflettono una volontà che li trascende, glorificano, sia pure negativamente, Colui che le loro imprecazioni invano bersagliano.
"Il dannato stesso è parola di Dio, esercita un ministerium, è inviato al vivente per ammonizione salvifica." (Montanari)
Qui, sulla riva dell'Acheronte, i reprobi sono impazienti di varcare la livida palude. La paura che incutono in essi i prossimi tormenti infernali è vinta dal desiderio di eseguire i comandi di Chi giustamente li ha dannati, e perciò ogni bestemmia, pronunciata da loro, assume tragici riflessi.


Poi si adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non temono Dio.

II demonio Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque tarda (ad obbedirgli).

Caron dimonio, con occhi di bragia: il virgiliano "stant lumina flamma " (Eneide VI, 300) - precedentemente riprodotto da Dante (che 'ntorno allí occhi avea di fiamme rote) "con una di quelle immagini stilizzate, quasi di pittura pregiottesca, che erano dello stile lirico" (Sapegno) - viene qui interpretato nel senso di una più intensa espressività e di un maggiore realismo: con occhi di bragia. Domina su tutta la scena il muto cenno del nocchiero, che basta da solo a far salire le anime nella barca.

Come in autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua veste frondosa,

allo stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte), come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere).

La similitudine delle foglie che si staccano dall'albero è già in Virgilio (Eneide VI, 305-312), a significare la sterminata turba dei defunti. Dante la ricrea conferendole movimento drammatico e un che di ineluttabile (come auge! per suo ríchiarno) che sottolinea la perdita, nei trapassati, di qualsiasi forma di libero arbitrio. La similitudine in Dante, pur nella sua immediatezza e nel suo realismo, si carica sempre di accenti morali.

Avanzano così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel punto d'imbarco.

« Figlio mio », spiegò cortesemente Virgilio, « tutti coloro che muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra:

e sono (spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore (delle pene) si converte in loro nel desiderio (di affrontarle).

Di qui non passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai quale significato hanno le sue parole.»

Appena Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria) dello spavento provato m'inonda ancora di sudore.

Dalla terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento, che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece perdere i sensi;

Nel Medioevo si credeva che i terremoti fossero provocati da masse aeriformi compresse nelle viscere della terra. L'origine dei lampi era attribuita al subitaneo erompere di vapori.

e caddi come chi cede al sonno..

 

Inferno – Canto IV

Un cupo tuono interruppe il profondo sonno nella mia testa, così ripresi coscienza come una persona che è destata violentemente;
Un greve truono: quasi tutti gli interpreti moderni respingono l'identificazione del greve truono con il truono... d'infiniti guai del verso 9. Mentre il primo, per svegliare Dante, deve avere un carattere di subitaneità, il secondo è continuo, ininterrotto. "Inoltre, il prodigio atmosferico del lampo, che provoca l'immediato addormentamento di Dante, richiede - allegoricamente e poeticamente - un altro prodigio, laddove il preteso fragore infernale sarebbe uno stato di fatto normale, permanente e invariabile. " ( Chimenz )
Gli antichi hanno visto, tanto nel lampo che addormenta il Poeta alla fine del canto precedente quanto nel truono che qui lo ridesta, due manifestazioni della Grazia (in particolare della Grazia illuminante, in relazione al bagliore improvviso che rischiara le tenebre infernali: balenò una luce vermiglia: Inferno canto III, 133-134), la quale dapprima assopisce la concupiscenza del Poeta e poi lo risveglia nella condizione di giudicare rettamente i propri peccati.

allora, levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove ero.
Il fatto è che mi trovai sul margine della profonda voragine del dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli lamenti,
Vero è che: l'espressione è meno prosaica di quanto a una prima lettura può apparire; infatti essa "conserva in parte l'originario valore di attestazione solenne, e sta spesso a sottolineare la stranezza o l'importanza della verità rappresentata o asserita" (Sapegno).
Che truono accoglie d'infiniti guai: non esprime una reale sensazione del Poeta in quel momento, ma è una perifrasi per indicare l'inferno, in una sua qualità permanente. Le grida dei dannati, tuttavia, cominceranno a farsi sentire soltanto a partire dal cerchio dei lussuriosi (ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; Inferno canto V, 25-26).

(La voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla.
"Ora scendiamo quaggiù nel mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai. "
Ed io, che avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio allorché sono preso dal timore, hai paura? "
Ed egli: "La tragica sorte dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu interpreti come un segno di paura.
Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che chiude tutt’intorno il baratro.
Virgilio manifesta profonda pietà per quei dannati di cui egli si trova a dividere le sorti. Il pensiero angoscioso delle pene infernali gli fa troncare il discorso: Andiam, ché la via lunga ne sospigne. Il poeta latino ha perduto la sicurezza e la baldanza dimostrate nella risposta a Caronte e negli incitamenti a Dante del canto precedente. Un'ombra di tristezza vela le sue parole.
Qui, per quel che si poteva arguire dall’udito, non vi era altra manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano fremere l’atmosfera infernale.
Sospiri, che l'aura etterna facevan tremare: questi " sospiri " si contrappongono idealmente all'incomposto bestemmiare delle anime del canto precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca, non più tragica.
Ciò avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di bambini e di donne e di uomini.
D'infanti e di femmine e di viri: oltre ai bambini non battezzati, si trovano qui le anime di coloro che conobbero e praticarono le quattro virtù cardinali, senza aver avuto conoscenza delle tre virtù teologali; l'unica loro colpa è il peccato originale, retaggio comune del genere umano. San Tommaso sostiene che il peccato originale, ove non si accompagni ad altre manifestazioni peccaminose dovute al libero arbitrio, non riceve nell'al di là una punizione in senso proprio, ma soltanto il "danno" derivante dalla privazione della visione di Dio. Gli adulti virtuosi, morti prima della venuta di Cristo o senza che ne siano giunti a conoscenza, vengono definiti generalmente dai teologi ''infedeli negativi". in particolare San Tommaso sostiene che di per sé l'infedeltà negativa non è peccato, ma nega che, ove non soccorra la fede, il peccato originale possa sussistere da solo, senza indurre l'adulto in altri peccati. Soltanto i bambini non battezzati e i patriarchi dell'Antico Testamento sarebbero nella condizione di non avere in sé altro peccato fuorché quello originale. Dante, su questo punto, si allontana dalla tradizione più rigorosa e autorevole, per accogliere nel suo limbo anche gli infedeli negativi adulti, dell'antichità pagana e dello stesso Medioevo, seguaci di altre religioni.
l buon maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che tu sappia, prima di procedere oltre,
che non hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non bastano (a redimerli), perché furono privi del battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui tu credi.
E se vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono uno di loro.
Per tale mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che viviamo nel desiderio (di conseguire la visione beatifica di Dio) destinato a restare inappagato".
I chiarimenti che dà qui Virgilio, prevenendo la domanda del suo discepolo e quasi intuendone lo smarrimento hanno uno sviluppo nobilmente didascalico e si concludono in un verso che sintetizza la condizione degli spiriti privati della visione di Dio. Questo verso, tuttavia, pur nella sua concisione, non ha nulla della tensione drammatica che vibra in altri endecasillabi della Commedia, nei quali la compattezza della forma pare venire sedata dall'urgenza del contenuto. Qui lo svolgimento logico è chiaro, riposato, e il tono sentimentale che ad esso corrisponde è anch'esso sereno, disteso. Se nelle parole di Virgilio c'è nostalgia per il Bene Supremo, dal quale è destinato ad essere per sempre lontano, questa nostalgia non ha nulla di drammatico e si inquadra armoniosamente in quello che deve apparire anzitutto come il discorso di un "saggio". Solo se si considera questo verso a sé, senza tener conto di quelli che precedono, si può vedere in esso "un verso disperato". E' stato detto che le parole di Virgilio si smorzano, nella definizione dello stato delle anime nel limbo, come in un sospiro. "Ma, come la tristezza di quelle anime è in certo modo placata dalla consolante memoria di una vita terrena vissuta senza peccato e dal confronto con i terribili martiri infernali di cui sono esenti, così quel verso, nel discorso e nel punto del discorso in cui si trova, non esprime più che una dolente, ma composta e consapevole rassegnazione." (Chimenz)
Provai un grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della voragine infernale).
La terzina rende esplicito quello che è il sentimento animatore di tutto il canto. Più ancora che di pietà, si tratta di "perplessità della ragione, che al tempo stesso avverte la sua grandezza e la sua insufficienza, allorché non l'assista il lume della Grazia, e alla fine s'arrende, sebbene riluttante, al mistero del dogma" ( Sapegno) . Il dolore del Poeta per la sorte degli " spiriti magni ", qui appena accennato, non è destinato ad assumere neppure in seguito rilievo drammatico. Anzi, nella scena dell'incontro con i poeti, Dante sarà tutto preso da un sentimento opposto e soverchiante: la gioia di potersi trovare in presenza dei grandi che hanno incarnato un ideale di civiltà, da lui giudicato non più raggiungibile.
Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi, signore,
uscì mai di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui, per assurgere poi alla beatitudine?"
Dimmi. maestro mio, dimmi, segnore: modo particolarmente affettuoso in cui c'è come un'eco del gran duol della terzina precedente. "La compassione dello stato di Virgilio sentita da Dante rende ragione di questo doppio titolo, ch'è una lode ' delicata e pietosa." (Tommaseo)
Ed egli, che comprese il significato nascosto delle mie parole, rispose: "Mi trovavo da poco in questa condizione, quando vidi scendere quaggiù un potente (Cristo), circonfuso dello splendore della sua divinità.
Un possente, con segno di vittoria coronato: il Redentore non è mai nominato nell'Inferno, ma la perifrasi, più che trovare la sua spiegazione in un rispetto che resta estraneo alla poesia di questo passo, mira a rendere, velandolo di mistero, un carattere essenziale della divinità: l'onnipotenza, la serenità con cui essa esercita il suo impero anche là dove ostacoli insormontabili si oppongono all'intervento degli uomini. Quanto al segno di vittoria può essere o interpretato in senso generico, come fa ad esempio il Boccaccio ("non mi ricorda d'avere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinità" ), oppure riferito alle rappresentazioni di Cristo trionfante nell'arte figurativa medievale, in cui appare incoronato dell'aureola crocifera", ossia dell'aureola traversata dal segno della croce. Altri ancora ricollegano questo verso a una frase del Vangelo apocrifo di Nicodemo ("e il Signore pose la sua croce, che è segno di vittoria, in mezzo all'inferno" ), e alla iconografia che ad essa si ispira: il Figlio di Dio, visto come "re forte", come un possente... coronato, calpesta le porte schiodate e abbattute dell'inferno tenendo in mano la sua croce.
Portò via di qui l’anima di Adamo, il capostipite del genere umano (primo parente: primo genitore), quelle del figlio di lui Abele e di Noè, quella del legislatore Mosè, sempre sottomesso ai voleri di Dio;
e inoltre portò via il patriarca Abramo e il re Davide, Giacobbe (Israèl) col padre Isacco e i suoi dodici figli e la moglie Rachele, per ottenere la mano della quale tanto si adoperò;
e molti altri ancora, e li rese beati; e voglio che tu sappia che, prima di loro, nessun altro era salito in paradiso" .
L'elenco dei protagonisti della storia del popolo eletto, resi beati, inizia col capostipite Adamo per proseguire col suo secondogenito, col patriarca scampato al diluvio universale e a cui si deve il ripopolamento della terra, col grande condottiero e legislatore, che sul Sinai ebbe da Dio la rivelazione dei principii ai quali il suo popolo avrebbe dovuto attenersi per trionfare sugli avversari e raggiungere la Terra Promessa. Esso continua con la figura del patriarca che non esitò, per obbedire al Signore, a preparare il sacrificio del figlio Isacco, del re guerriero e poeta, autore dei Salmi, che, altrove, nella Divina Commedia è chiamato il cantor dello Spirito Santo (Paradiso XX, 38) e sommo cantor del sommo duce (Paradiso XXV, 72), di Isacco e del figlio Giacobbe, che dopo la lotta con l'angelo (Genesi XXXII, 25-29) fu chiamato Israele ("forte con Dio"), dei dodici capostipiti delle tribù d'Israele, di Rachele, andata sposa a Giacobbe dopo che questi ebbe servito per quattordici anni il padre di lei, Labano (Genesi XXIX, 18-30).
Per il fatto che egli parlasse non interrompevamo il nostro procedere, continuando ad aprirci un varco nella selva, nella selva, intendo, costituita da un numero sterminato di anime vicinissime le une alle altre.
Non avevamo ancora percorso molta strada dal margine più alto del cerchio, quando vidi una sorgente di luce che per mezzo cerchio intorno a sé dissipava le tenebre.
Ch'emisperio di tenebre vincìa: L'espressione risulta figurativamente e poeticamente più persuasiva se si da a vincìa il significato di " vinceva ", invece che di " avvinceva ", " legava", come vogliono taluni interpreti, e si pone quindi, come soggetto, foco invece che emisperio. Questa interpretazione tiene conto del modo di sentire del Poeta, della sua emozione "colma del pathos dell'intelligenza e concorde istintivamente con la vulgata metafora che parla di luce dell'ingegno e di tenebre dell'ignoranza ( fede dunque, nei grandi uomini della scienza e della poesia che appaiono come una luminosa visione, un'accolta capace di dissipare e vincere con la luce della cultura le simboliche tenebre della barbarie)" (Getto).
Ci trovavamo ancora un poco lontani da questa sorgente di luce, non tanto tuttavia, che io non potessi intuire che una schiera di anime degne di onore occupava quel posto.
"O tu che onori scienza e arte, chi sono costoro che hanno tanta dignità, che li distingue dalla condizione degli altri? "
E Virgilio a me: "La fama onorevole di cui godono nel mondo dei vivi, ottiene (per essi) un particolare favore presso Dio che conferisce loro un tale privilegio.
In quell’istante fu da me udita una voce: "Onorate il sublime poeta: la sua anima, che si era allontanata, torna fra noi ",
Onorate l'altissimo poeta: la parola "onore" e quelle da essa derivate ritornano con singolare frequenza in questi versi, quasi a ribadire il carattere di entusiastica, celebrazione che l'incontro coi poeti riveste, Questa è una delle pagine della Commedia ove più compiutamente si esprime la venerazione, quasi religiosa, che Dante aveva per i supremi valori dell'intelligenza, oltre ai quali non è dato all'uomo di alzarsi con le sole sue forze.
Dopo che la voce si arrestò e ci fu silenzio, vidi venire verso di noi quattro ombre maestose: il loro aspetto non era né triste né lieto.
Sembianza avean né trista né lieta: un antico commentatore spiega: "non erano tristi, perché non aveano martirio; né lieti, perché non aveano beatitudine" (Buti). Ma più che a precisare uno stato d'animo, il verso serve a conferire a ciascuna delle quattro grand'ombre l'aspetto tradizionale del saggio, nel suo raccoglimento meditativo e solenne.
Virgilio prese a dire: " Guarda, quello che ha in mano la spada, e precede gli altri tre come un sovrano.
È Omero, il sommo di tutti i poeti; dietro di lui viene Orazio, poeta satirico; Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano.
Il Momigliano ha indicato in questa scena una difformità, sul piano della cultura e del gusto, tra lo spirito umanistico che la pervade e i particolari in cui si traduce, ancora medievali: "questo poeta che esce con una spada in mano da un nobile castello, cerchiato da sette mura per cui si entra da sette porte, è, nel complesso, una figurazione lontana dal gusto antico; e quello che c'è di fantastico nello scenario e quello che in esso è infuso di allegorico, ci trasportano nel Medioevo cavalleresco e simbolico".
Di Omero Dante aveva soltanto notizia indiretta, poiché non conosceva il greco e non erano ancora state tradotte in latino l'Iliade e l'Odissea.
Di Orazio apprezzava probabilmente, secondo il gusto dell'epoca, soprattutto la produzione moraleggiante (Satire ed Epistole); di Ovidio, vissuto a Roma ai tempi di Augusto, come Orazio e Virgilio, dovevano essergli care in particolar modo le Metamorfosi, da cui trasse quasi tutte le sue conoscenze sull'antica mitologia. Anneo Lucano fu poeta epico del periodo argenteo della letteratura latina ed è considerato oggi un minore. Diversa era l'opinione che di lui si aveva nel Medioevo.

Poiché ciascuno si accomuna a me nell’appellativo di poeta pronunciato poco fa da uno di loro (nel nome che sonò la voce sola), mi tributano onore, e fanno bene a tributarmelo ( perché in me onorano la poesia )".
Vidi così adunarsi il bel gruppo guidato dal più eccelso dei poeti epici, la cui poesia si leva come aquila al di sopra di quella degli altri.
Dopo aver parlato a lungo tra loro, si volsero a me con un cenno di saluto; e Virgilio sorrise per questo segno di onore:
e mi onorarono ancora di più, poiché mi accolsero nel loro gruppo, in modo che diventai il sesto tra quei così grandi sapienti,
Procedemmo insieme fino alla zona luminosa, trattando argomenti di cui (ora) è opportuno tacere, non meno di quanto fosse conveniente parlarne nel luogo ove allora mi trovavo.
Giungemmo ai piedi di un maestoso castello, circondato da sette ordini di alte mura, protetto tutt’intorno da un leggiadro corso d’acqua.
Lo attraversammo come se fosse stato di terra solida; penetrai con quei sapienti (nel castello) attraverso sette porte: arrivammo in un prato verde e fresco.
Il castello è stato concepito in funzione chiaramente allegorica. Secondo Pietro di Dante, figlio del Poeta, esso simboleggerebbe la filosofia, intesa genericamente come sapienza; le sette mura corrisponderebbero alle sette discipline in cui la filosofia era fatta consistere: fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica. Secondo altri commentatori antichi le sette mura indicherebbero le sette arti liberali, oppure le quattro virtù cardinali e le tre speculative (intelletto, scienza, sapienza). Di meno agevole interpretazione appare il significato allegorico del bel fiumicello. Forse l'opinione più plausibile è quella del Sapegno, per il quale esso simboleggia gli ostacoli che si oppongono all'acquisto del sapere.
Ivi erano persone dagli sguardi pacati e dignitosi, di grande autorità nel loro aspetto: scambiavano fra loro poche parole, con persuasiva dolcezza.
Allora ci portammo in uno degli angoli, in una radura, luminosa e sovrastante il terreno circostante, in modo che (di qui) era possibile abbracciare con lo sguardo tutti gli spiriti (ivi raccolti).
Là dirimpetto a me, sul verde compatto e brillante dell’erba mi vennero indicati i grandi spiriti, ripensando alla vista dei quali sento ancora il mio animo esultare.
Vidi Elettra con molti dei suoi discendenti, fra i quali riconobbi Ettore ed Enea, Giulio Cesare in armi e con occhi sfavillanti come quelli di un uccello rapace.
Vidi Camilla e Pentesilea; dal lato opposto, vidi il re Latino che sedeva accanto a sua figlia Lavinia.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia: e isolato, in disparte, vidi il Saladino.
Il primo gruppo di " spiriti magni " è costituito in prevalenza da eroi e personaggi storici i cui nomi sono stati tramandati dai grandi scrittori dell'antichità. L'ammirazione che Dante prova per questi ultimi si estende a tutti i personaggi che, per virtù di poesia, grandeggiano nei loro scritti. Osserva in proposito il Getto: "qui si afferma incondizionato il sentimento dell'aristocrazia della cultura e della nobiltà che all'uomo deriva dagli studi e dalla poesia (non solo quando attivamente li coltivi, ma ancora quando divenga oggetto di quegli studi e di quella poesia: tale è infatti la giustificazione della presenza nel nobile castello di personaggi leggendari o politici come Ettore o Bruto)". Elettra fu progenitrice della stirpe troiana e quindi dei Romani; Camilla e l'eroina italica morta nella guerra che seguì all'insediamento dei Troiani nel Lazio, e di cui è già stata fatta menzione alla fine del canto primo (verso 107). Pentesilea è la mitica regina delle Amazzoni uccisa da Achille. È ricordata nell'Eneide (1, 490 sgg.), dove Latino e sua figlia Lavinia (promessa a Turno, re dei Rutuli, sposò poi Enea; questo matrimonio scatenò la guerra fra Troiani e Italici) sono personaggi di primo piano. Il primo personaggio storico dell'elenco è il creatore dell'impero romano, Giulio Cesare, " primo prencipe sommo (Convivio IV, V, 12 ), visto in un verso di straordinario rilievo come il prototipo del guerriero. Accanto a lui sono i due eroi più valorosi dell'antica Troia. Bruto fu il fondatore della Repubblica romana, dopo aver scacciato l'ultimo re, Tarquinio il Superbo, e Lucrezia la donna per vendicare l'onore della quale Bruto, con Collatino, capeggiò la rivolta contro i Tarquini. Giulia fu figlia di Giulio Cesare e moglie di Pompeo, Marzia moglie di Catone Uticense, uccisosi in seguito alla sconfitta del partito pompeiano in Africa ad opera di Cesare, Cornelia madre di Tiberio e Caio Gracco.
La rassegna si conclude, dopo questo elenco di figure del periodo repubblicano, con un verso divenuto celebre non meno di quello che caratterizza Cesare. In esso Salah-ed-Din, sultano d'Egitto dal 1174 al 1193, celebrato dagli scrittori del Medioevo come principe di grande liberalità e giustizia, appare solo e in disparte. Il suo isolamento, dovuto al fatto che è di altra stirpe e di altra religione, conferisce alla sua figura, nel quadro di questa enumerazione, proporzioni eroiche. E' solo un accenno, ma il verso si arricchisce di risonanze segrete, se ripensiamo all'isolamento in cui grandeggiano altre figure eroiche nella Commedia (come Farinata o Sordello).

Dopo aver sollevato un poco gli occhi (il gruppo dei filosofi e degli scienziati si trova più in alto di quello degli uomini d’azione), vidi Aristotile, il maestro dei sapienti, seduto in mezzo ad altri filosofi.
Tutti hanno gli occhi fissi su di lui. tutti gli rendono onore: tra gli altri vidi Socrate e Platone, che, in posizione preminente rispetto agli altri, sono a lui più vicini;
Democrito, che attribuisce al caso la formazione del mondo, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone;
Democrito, filosofo greco del V-IV secolo a. C., sostenne la teoria degli atomi che costituirebbero il mondo. Diogene il Cinico (V-IV secolo a. C.) invece predicò il disprezzo dei beni materiali. Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone furono esponenti del pensiero filosofico presocratito.
e vidi il sagace classificatore delle qualità (delle erbe), intendo dire Dioscoride; e vidi Orfeo, Tullio Cicerone e Lino e Seneca, autore di scritti di morale;
Dioscoride ( I secolo d. C. ) scrisse un trattato sulle qualità delle erbe. Orfeo e Lino sono mitiche figure di poeti greci Seneca è il famoso scrittore romano del I secolo d. C.
Euclide geometra e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Averroè, autore del grande commento.
Euclide (IV-III secolo a. C.) fu ritenuto il più grande geometra dell'antichità. Di fama identica godettero, nel campo dell'astronomia, Tolomeo ( I-II secolo d. C. ), nel campo della medicina, Ippocrate e Galeno. L'arabo Avicenna, morto nel 1036, fu famoso per la sua scienza medica e filosofica. Averroè, morto nel 1198, anch'egli medico e filosofo, fu considerato " il commentatore " per antonomasia, di Aristotile durante tutto il Medioevo, il quale conobbe le opere del grande pensatore greco attraverso le traduzioni arabe e i commenti di Averroè.
Non posso riferire su tutti in modo esauriente, poiché la lunghezza dell’argomento (che devo trattare) mi sollecita a tal punto, che spesso il mio racconto è insufficiente rispetto al grande numero di eventi da narrare.
La schiera dei sei poeti diminuisce dividendosi in due gruppi: la mia saggia guida mi conduce per un cammino diverso, fuori dell’aria immobile (del castello), nell’aria tremante (per i sospiri delle anime);
e giungo in un punto dove, non c’è traccia di luce.

 

Inferno – Canto V

 

Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, che contiene in sé meno spazio (essendo la sua circonferenza più piccola), ma una pena tanto più crudele, che spinge a lamentarsi .
L'inferno dantesco ha la forma di un imbuto: i cerchi sono tanto più stretti quanto più sono vicini al centro della terra, occupato da Lucifero. A mano a mano che il loro diametro decresce, aumenta la gravità dei peccati che in essi vengono puniti.
Ivi si trova Minosse in atteggiamento terrificante, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe (dei peccatori); li giudica e li destina (ai rispettivi luoghi di punizione) a seconda del numero di volte che attorciglia (la coda intorno al proprio corpo).
Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta al suo cospetto, rivela tutto di sé; e quel giudice dei peccati
comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso.
Davanti a lui ve ne sono sempre in gran numero: le une dopo le altre si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano (la sentenza), e poi vengono travolte nell’abisso.
Minòs: mitico re di Creta, che nel sesto libro dell'Eneide (versi 432-433) giudica le anime dei trapassati. La scena delle anime davanti a Minosse ha, nella sua straordinaria concisione, una tragica grandiosità. Il Momigliano ha visto, in questa figura di belva giudicante, "una stupenda fusione di maestà e di grottesco", rilevando, tra l'altro, nella contaminazione, che si ritrova in tutti i guardiani infernali, di elementi desunti dalla mitologia classica con elementi cristiani, una solidità di figurazione che "toglie ogni impressione anacronistica, come l'unità della composizione impedisce di vedere una stonatura nei vestiti o negli sfondi architettonici moderni dei quadri sacri o classici del Rinascimento". Da notare, anche, come l'incalzante rapidità del giudizio di Minosse si concreti in una particolare struttura del verso ( il verbo in posizione privilegiata: stavvi... giudica... vede... cignesi... vanno... dicono). Ma tutte queste osservazioni rischiano di essere inutili se non ci aiutano a cogliere il significato più profondo di queste terzine, che è quello di una brutale, spasmodica, insensata messa in scena. Il vero giudizio è già avvenuto in cielo. Qui non ne è possibile se non una sorta di grottesca contraffazione.
"O tu che giungi alla dimora del dolore", disse Minosse a me quando si accorse della mia presenza, interrompendo l’esercizio della sua così alta funzione,
"considera attentamente il modo in cui stai per entrare (se hai cioè i meriti necessari per compiere incolume il viaggio nell’inferno) e colui in cui riponi la tua fiducia (Virgilio non è un’anima redenta): non lasciarti trarre in inganno dalla larghezza dell’ingresso!" E Virgilio di rimando: " Perché ti affatichi a gridare ?
Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro".
Virgilio ripete a Minosse la formula già usata nel canto III, versi 95-96.
A questo punto cominciano a farsi sentire le voci del dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti colpiscono il mio udito.
Giunsi in un posto privo d’ogni chiarore, che rumoreggia come un mare in tempesta, sotto la furia di venti contrari.
La tempesta di questo cerchio dell’inferno, destinata a non avere mai tregua, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare (in tutti i sensi) e facendole cozzare (fra loro ).
Quando giungono davanti alla rupe franata, qui prorompono in grida, in pianto unanime, in lamenti; bestemmiano qui la potenza di Dio.
Quando giungon davanti alla ruina: il termine ruina indica lo scoscendimento attraverso il quale le anime, dopo la sentenza di Minosse, cadono, precipitando dall'alto, nel cerchio.
Compresi che a una siffatta pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione.
Il Poeta stesso ci avverte di aver intuito il significato che si adombra nel contrappasso della bufera. Tale precisazione non è affatto superflua a questo punto del canto, dal momento che "il nodo drammatico che dà vita a tutto l'episodio, ossia lo stretto legame che allaccia tra loro indissolubilmente la passione carnale, il peccato e l'eterno tormento della bufera, è messo in luce, per la prima volta, proprio attraverso questa inequivocabile denuncia, da parte del Poeta, della sostanza violenta e sovvertitrice di quella passione, dell'arbitrio, cristianamente inammissibile, che l'istinto esercita per essa sull'intelletto" ( Caretti ) .
Enno dannati i peeeator carnali: San Gregorio Magno aveva considerato i peccati "carnali" (lussuria, gola, avarizia, ira, accidia) meno gravi di quelli "spirituali". San Tommaso aveva dato a questa valutazione un fondamento teorico. Anche nell'inferno dantesco i peccati "carnali", dovuti a semplice incontinenza, precedono, in rapporto alla loro gravità e al posto in cui sono puniti (i primi quattro cerchi dopo il limbo), quelli " spirituali ", dovuti a consapevole malizia.
E come le ali portano nella stagione invernale gli stornelli, che si dispongono in gruppi ora diradati ora compatti, così da quel vento le anime perverse
sono trascinate di qua, di là, in basso, in alto; mai nessuna speranza, non solo di una cessazione temporanea, ma nemmeno di un castigo alleviato, è loro di conforto.
E come le gru sono solite intonare i loro lamenti, quando solcano l’aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti,
le anime portate dal turbine sopra menzionato: per questo dissi: " Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce? "
La similitudine degli stornelli e quella delle gru hanno una singolare analogia d'impianto, pur differendo l'una dall'altra per la funzione che esplicano. "Come nella prima similitudine, infatti, l'elemento comune, che avvicina, agli occhi del Poeta, gli stornai agli spiriti mali, non è tanto l'andare, gli uni e gli altri, in schiera larga e piena, quanto piuttosto il particolare modo con cui improvvisamente s'impennano nel volo; così nella seconda l'elemento che accomuna le gru alle ombre non è tanto quel procedere nell'aria "faccenda di sì lunga riga ", quanto piuttosto l'identico lamento, la stessa eco lacrimosa che uccelli e spiriti lasciano dietro di sé, nella loro scia." ( Caretti )
"La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia" mi rispose allora Virgilio, "regnò su molti popoli di lingua diversa.
Fu a tal punto dedita alla lussuria, che dichiarò, sotto le sue leggi, permesso ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare la riprovazione in cui era incorsa.
E’ Semiramide, di cui le storie narrano che fu sposa di Nino, cui succedette (sul trono): fu sovrana della regione che attualmente il sultano governa,
Semiramide, regina degli Assiri nel XIV o Xlll secolo a. C., è citata da tutti gli storiografi medievali come esempio di assoluta immoralità. Il Sultano era, ai tempi di Dante, sovrano dell'Egitto. Il Poeta scambia qui probabilmente la Babilonia assira con quella egiziana (l'attuale il Cairo ) .
L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al marito morto, Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra.
Narra Virgilio nei quarto libro dell'Eneide che Didone, innamoratasi di Enea, infranse il giuramento di fedeltà fatto sulla tomba del marito, e che, in seguito all'abbandono da parte dell'eroe troiano, si uccise.
Cleopatra, regina d'Egitto, riuscì a fare innamorare di se Giulio Cesare e, dopo la morte di questi, il tribuno Marco Antonio.

Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni luttuosi, e guarda il famoso Achille, che alla fine ebbe per avversario amore.
Per Elena, moglie di Menelao, fuggita a Troia con Paride, si scatenò la guerra, durata dieci anni, tra Greci e Troiani. Secondo una leggenda, ella sarebbe stata uccisa da una donna, che, in tal modo, avrebbe inteso vendicare la morte del marito avvenuta in battaglia. Un'altra leggenda narra che Achille, preso da amore per Polissena, figlia di Priamo, re dei Troiani, e recatosi a celebrare le nozze con lei, fu ucciso in un'imboscata da Paride.
Guarda Paride, Tristano "; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che amore strappò alla vita.
Vedi Paris, Tristano: il rapitore di Elena morì per mano di Filottete, un guerriero greco; Tristano, cavaliere della Tavola Rotonda, innamoratosi di Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia, fu da costui ucciso. La rassegna degli eroi morti per amore non rappresenta una digressione rispetto a quello che sarà il tema dominante dell'ultima parte del canto, anzi lo prepara e gli dà un naturalissimo avvio.
Dopo aver ascoltato il mio maestro in quella lunga rassegna di donne ed eroi dell’antichità, fui colto da compassione, e fui sul punto di perdere i sensi.
Pietà mi giunse: sul valore da attribuire a pietà (una delle due " parole-tema " dell'episodio che sta per cominciare; l'altra è amore) hanno scritto a lungo i critici. Per il Foscolo e il De Sanctis il termine sarebbe qui usato nella sua accezione più consueta. Esso designerebbe la "compassione" di Dante per i peccatori e quindi anche, implicitamente, la sua "comprensione" per le ragioni che li hanno indotti a peccare. Il Sapegno, in ciò più attento alla ispirazione etico-religiosa del poema, interpreta la pietà di Dante come "turbamento, che nasce dalla considerazione delle terribili conseguenze del peccato"; esso "non importa comunque mai da parte di Dante un atteggiamento di adesione e di compartecipazione e non attenua in nessun modo la recisa condanna morale".
I dannati del secondo cerchio sono tutti, per usare un'espressione dello stesso Dante, gente di molto valore, anime nobili. E' questo un particolare che può aiutarci ad intendere, nella loro origine contraddittoria e sfumata, i motivi dello " smarrimento " del Poeta.

Presi a dire: "Poeta, desidererei parlare con quei due che procedono uniti, e che sembrano opporre così debole resistenza al vento".
Quei due che 'nsieme vanno: sono Francesca, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e Paolo Malatesta. Poco dopo il 1275 Francesca sposò, con un matrimonio dettato da ragioni soltanto politiche, Gianciotto Malatesta, signore di Rimini e uomo rozzo e deforme. Si innamorò poi del giovane e avvenente Paolo, fratello del marito, e ne fu ricambiata. Allorché Gianciotto li sorprese, li uccise entrambi. L'eco della tragedia, avvenuta fra il 1283 e il 1285, doveva essere ancora viva quando Dante fu generosamente accolto a Ravenna, negli ultimi anni della sua vita, da Guido Novello, nipote di Guido il Vecchio da Polenta.
E paion sì al vento esser leggieri: sul significato da attribuire alla minor resistenza che Paolo e Francesca oppongono alla bufera infernale, i pareri sono discordi. Alcuni vedono in questo particolare un alleggerimento della pena, altri un aggravamento di essa, perché i due sarebbero con più violenza trascinati dal turbine. Il quesito è di quelli che rischiano di rimanere insoluti. Ma se, anziché considerare in astratto il castigo dei due cognati, volgiamo la nostra attenzione ai modi in cui il Poeta ce lo rappresenta, a quella "leggerezza di toni e poi di sentimenti, un poco stilizzata com'è della poesia giovanile di Dante e del suo stilnovismo" (Gallardo), allora le interpretazioni "romantiche" (alleggerimento della pena) sembrano più legittime di quelle strettamente "dottrinali".
E Virgilio: " Farai attenzione al momento in cui ci saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’amore che li conduce, ed essi verranno.
Non appena il vento li volse verso di noi, dissi: "O anime tormentate, venite a parlarci, se qualcuno (Dio) non lo vieta ! "
Come le colombe, ubbidendo all’impulso amoroso, si dirigono nel cielo verso l’amato nido, planando con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio,
così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo verso noi attraverso l’aria infernale, tanto efficace era stata la mia ardente preghiera.
Quali colombe, dal disio chiamate: la similitudine ne ricorda due di Virgilio (Eneide canto V, versi 213-217; canto VI, versi 190-192), ma mentre nel poeta latino le colombe non sono che "graziose colombe", qui esse paiono invece " animate da una volontà quasi umana"( Parodi ).
"O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a trovare noi che (morendo) macchiammo il mondo col nostro sangue.
se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti serenità, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento.
Sulle prime parole di Francesca, cosi gentili e accorate, scrive il Momigliano, " pesa stancamente tutto il dolore di quella tragedia" e aggiunge che il verso 90 "solleva questo che fu, a quei tempi, un fatto di cronaca, all'altezza d'un esemplare eterno di sciagura".
La "preghiera condizionata" (De Sanctis) dei versi 91-93, in cui alla delicatezza dell'espressione Francesca indissolubilmente unisce la consapevolezza di essere esclusa da ogni forma di speranza (Dio, rifugio e sostegno per chi soffre, non dà ascolto ai reprobi), ha ispirato una delle più belle pagine del saggio dedicato a questo episodio dal Parodi: "Francesca, laggiù nell'inferno, dove la preghiera è vana e si tramuta in bestemmia, ad un tratto, alla voce di questo vivo che ha compassione del suo affanno, ripensa alle preghiere di quando era buona e pia, e si duole di non potergli con esse impetrare da Dio, - che cosa? - quello che a lei è negato per sempre e che implora con disperato lamento, la pace! Ma che sa ella se Dante abbia bisogno di pace? Eppure, mentre l'anima di lei è sconvolta da una bufera più violenta di quella che le rugge d'intorno, come potrebbero gli uomini tutti e le fiere e tutta intera la natura non struggersi della medesima angoscia?"

Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera, come fa (adesso), attenuerà la sua violenza,
La città dove nacqui si stende sul litorale verso il quale discende il Po per trovare, coi suoi affluenti, quiete.
Nota il De Sanctis, a proposito del modo in cui Francesca sa animare della sua rassegnata e dolente femminilità anche i particolari di minor rilievo (come potrebbe essere, se la volgessimo nel linguaggio utilitario da noi usato quotidianamente, la precisazione topografica di questi versi), che ella "anche dicendo cose indifferenti, ci mette non so che [di] molle e soave, che rivela animo nobile e delicato". Il Parodi precisa il senso dell'immagine: "Anche il Po, che discende alla marina di Ravenna, e i "suoi seguaci", i fiumi che vanno con lui, pare a Francesca che anelino al momento d'aver pace, di scomparire, di dimenticarsi nel mare".
Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza di cui fui privata (quando venni uccisa); e l’intensità di questo amore fu tale, che ancora ne sono sopraffatta.
Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi sospinse con tanta forza a innamorarmi della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere (dal fatto che siamo uniti), ancora mi lega a lui.
Amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nel cerchio dei traditori (la Caina è la zona del nono cerchio destinata ai traditori dei parenti)." Queste parole ci vennero rivolte da loro.
Nella prima parte del discorso di Francesca a Dante non c'è neppure un accenno alla sua personale vicenda: protagonisti del dramma non furono due fragili esseri in preda alla passione, ma questa passione stessa, che li soggiogò fino al punto di privarli di ogni difesa, di ogni capacità di reagire. Osserva il Sapegno che Francesca si sforza di spiegare e giustificare la sua colpa, "sottraendo l'impulso primo del peccato ad una precisa responsabilità individuale, per trasferirlo sul piano di una forza trascendente e irresistibile: Amore".
E' strano che il Momigliano abbia tacciato queste parole di eccessiva enfasi, mentre il Vossler si è, al contrario, meravigliato che una donna possa esprimere la propria passione in cadenze così nette e decise, oltre che in accenni di indubbia crudezza. In realtà questa prima parte del discorso di Francesca ha una funzione essenziale nell'episodio: sia perché in essa le illusioni del tempo felice, in cui la vita pareva destinata a scorrere come "letteratura", non meno raffinata che ignara delle esigenze del dovere, sono messe continuamente a raffronto con la realtà che da esse è scaturita, sia perché è proprio questa apologia di Amore che pone Dante di fronte alla necessità di valutare, sul piano delle loro conseguenze, le teorie di cui si era fatto in gioventù il propugnatore.
Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: "A cosa pensi? "
Quando risposi, cominciai: "Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto reciproco desiderio condusse costoro a peccare (al doloroso passo)! "
Al doloroso passo: "al passo dall'amore onesto al disonesto, e dalla fama all'infamia, e dalla vita alla morte" (Buti). La risposta di Dante è come il proseguimento della sua assorta meditazione e sembra essere rivolta non tanto a Virgilio quanto a se stesso. "Gli occupa l'anima uno sgomento attonito per il mistero della vita morale degli uomini, liberi di giudizio e di volontà, eppur destinati nell'arcano consiglio della Provvidenza, altri alle vittorie della volontà buona, altri alle disfatte della ragione consigliera impotente, altri alla redenzione del pentimento e altri alle cadute irreparabili. Il senso del mistero tanto più acuto e tormentoso si accoglie nel poeta credente, quanto più viva e la pietà per ciò che al corto vedere umano sembra ineluttabile. " (Rossi-Frascino)
Nel canto quinto Dante entra, per cosi dire, in uno stato di crisi, di perplessità, di lotta con se stesso. Completo, incontrastato era stato il suo disprezzo per gli ignavi, altrettanto netta la sua simpatia per i grandi spiriti del limbo. Ma la colpa dei due cognati non era di quelle che ripugnavano al suo senso dei valori. Tutta una lunga tradizione (la Cavalleria, i trovatori, la poesia dotta siciliana fiorita alla corte di Palermo sotto gli Svevi) aveva idealizzato l'amore. Dante medesimo aveva fatto parte della scuola poetica del dolce stil novo, per la quale la donna amata era un riflesso in terra della perfezione divina e un mezzo per ascendere al Bene Supremo, a Dio. Le tre terzine in cui Francesca proclama la ineluttabile forza di Amore, riecheggiano, nel pensiero e nello stile, i principii di questa scuola poetica. Ma qui, nell'episodio di Paolo e Francesca, il cor gentil e la donna angelicata da strumenti di elevazione si convertono in strumenti di peccato. Scrive il Croce: "I due non sono aiutati a resistere, ma anzi preparati a cedere, dal cor gentile, dai dolci pensieri, dai dolci sospiri, dalle sentenze della dottrina d'amore, ch'a nullo amato amar perdona; da tutto l'idealizzamento che dell'amore avevano fatto la poesia occitanica e quella dello stil novo, e dai ricordi e dall'esempio degli appassionati e nobili eroi ed eroine dei romanzi. E' questa l'insidia che li porta all'orto del baratro e ve li spinge dentro".
Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso fino alle lagrime.
Però dimmi: quando la vostra passione si manifestava soltanto attraverso dolci sospiri, con quale indizio e in che modo Amore permise che l’uno conoscesse i sentimenti dell’altra, fino allora incerti d’essere corrisposti ? "
Non è oziosa curiosità quella che ha spinto Dante a formulare questa domanda. Egli vuole chiarire, a sé e agli altri, il rapporto che corre tra nobiltà d'animo, delicatezza di sentimenti e peccato. L'uomo nuovo, da poco ridestatosi in lui, si erge a giudice dei giovanili entusiasmi che lo avevano portato ad identificare bellezza e bontà, finezza di animo e di modi e vita morale.
E Francesca "Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro.
Ma se un così affettuoso interesse ti spinge a interrogarmi sul modo in cui si manifestò per la prima volta il nostro amore, farò come chi parla tra le lagrime.
Tu hai cotanto affetto: il De Sanctis rileva come qui la parola affetto non possa essere interpretata soltanto come sinonimo di "desiderio", secondo una spiegazione scolasticamente insensibile ai valori della poesia: "Quando Francesca, sforzando la grammatica, dice affetto, non è già il desiderio che Dante abbia di conoscere la sua storia che le si presenta immediatamente innanzi, ma l'affetto col quale esprime il suo desiderio... "
Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui: eravamo soli e non avevamo nulla da temere.
Lancillotto del Lago è l'eroe di uno dei più celebri romanzi francesi del ciclo brettone, che Dante ben conosceva. Nel romanzo si raccontano non solo le imprese militari di Lancillotto, ma anche il suo amore per Ginevra, moglie di re Artù.
Soli eravamo e sanza alcun sospetto: osserva il De Sanctis: "Chi mai fa quest'osservazione se non l'amore colpevole? Leggono una storia d'amore e non osano di guardarsi e temono che i loro sguardi tradiscano quello che l'uno sa dell'altro e l'uno nasconde all'altro; e quando in alcuni punti della lettura veggono un'allusione al loro stato... gli occhi immemori s'incontrano, né già osano di sostenerli e li riabbassano, e la coscienza di essersi traditi e il fremito della carne si rivela nel volto che si scolara".
Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ebbe ragione di ogni nostra resistenza.
Quando leggemmo come la bocca desiderata ( di Ginevra ) fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me,
mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura".
Nel romanzo brettone il siniscalco Galehaut esorta i due innamorati a rivelarsi il loro amore, spingendo Ginevra a baciare Lancillotto. Il libro, dunque, svolge per Paolo e Francesca il ruolo che nella vicenda narrata è assegnato a Galehaut.
Che mai da me non fia diviso: sempre il De Sanctis ha saputo stupendamente cogliere il senso disperato di questo inciso in tutta la sua tragica bellezza: "tra l'amante e il peccato si gitta in mezzo l'inferno, e il tempo felice si congiunge con la miseria, e quel momento d'oblio,` il peccato, non si cancella più, diviene l'eternità".
Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra (Paolo) piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi non altrimenti che per morte:
e caddi come cade un corpo inanimato.

 

Inferno – Canto VI

Quando riprendo la conoscenza, che era rimasta in me offuscata  alla vista del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi aveva, per la tristezza, completamente sconvolto,
vedo intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo.
Mi trovo nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai non cambia il suo ritmo  ne la materia  di cui è fatta.
La monotona insistenza della piova etterna sembra ripercuotersi anche nella struttura sintattica e nel ritmo dei primi versi del canto. Da terzina a terzina non c'è quasi svolgimento: ognuna appare come chiusa in sé, ognuna ostinatamente ribadisce l'incubo paralizzante del tetro paesaggio infernale.
Grossi chicchi di grandine, acqua sudicia  e neve cadono con violenza attraverso l’aria buia; la terra che accoglie tutto questo emana un fetido odore.
La legge del contrappasso ha qui, per i dannati del terzo cerchio - i golosi - un'applicazione evidente: "Questa sozzura ("fastidio" dice uno degli antichi commentatori) in forma di pioggia è appropriato castigo, quasi fetente reciticcio di crapula, agl'ingordi gustatori d'ogni più raffinata squisitezza di cibi e di bevande" (Del Lungo).
Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo sulle turbe che in quest’acqua impura  sono immerse.
Ha gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le anime dei peccatori, le scuoia e le squarta.
Sul piano allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli occhi... vermigli stanno a significare l'avidità rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole rapace.
Anche Cerbero, come Caronte e Minosse, è figura desunta dalla mitologia classica. Tuttavia, mentre in Virgilio e in Ovidio il cane dal trifauce latrato è posto a guardia del regno dei morti, nell'Inferno esso assolve la funzione di tormentatore dei dannati del terzo cerchio. Il Cerbero dantesco appare, inoltre, in confronto a quello degli antichi, assai più complesso e inquietante, sia per l'intrecciarsi in lui degli elementi ferini e umani ( rappresentati questi ultimi dalla barba, dalle mani, dalle facce) sia per la vitalità che si sprigiona da ogni suo atto: "vitalità immediata o animale", annota il Croce, tutta tesa a soddisfare il più elementare degli impulsi: la fame. E' "il laceratore - scrive il Del Lungo - il consumatore, a graffi a morsi a bocconi, dei già divoratori brutali e sfrenati, ora in ben altra condizione che di gozzoviglia, e fra ben altro tumulto che quello sconciamente giocondo dell'orgia".
La pioggia li spinge a lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi proteggono  l’altro; gli infelici peccatori continuano a rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al tormento).
Volgonsi spesso i miseri profani: il termine profani può suggerire genericamente l'empietà di chi pecca, o anche  riferirsi in senso più specifico ai golosi: "profani", in quanto adoratori del ventre, "perché il loro dio è il ventre", come dice San Paolo (Epistola ai Filippesi III, 19).
Quando Cerbero, l’orribile mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti; un fremito di rabbia lo agitava tutto.
Non avea membro che tenesse fermo: questo verso condensa come in una definizione quanto c'è di parossistico e inane nel furore di questo, non meno che degli altri mostri infernali, alla vista di Dante.
Virgilio tese le mani aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la gettò nelle tre bramose gole.
Virgilio ripete il gesto della Sibilla di fronte a Cerbero (Eneide V, I, 419-421).
Come quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo, poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo,
tale divenne il sozzo aspetto del triplice volto  del diavolo Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a tal punto, da far loro desiderare la sordità.
(Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha l’apparenza di un corpo umano.
Dopo la mossa e vibrante raffigurazione di Cerbero questa terzina ci ripropone il tema, improntato a pesante tristezza, dell'uggioso paesaggio infernale. Qui la tristezza è accresciuta dal fatto che i due poeti sono costretti, per poter procedere nel loro cammino, a calpestare le ombre dei golosi; la perifrasi sopra lor ` vanità che par persona, dandoci quasi la trascrizione in chiave morale dell'inconsistenza di questi spettri, conferisce allo stato d'animo di Dante una straordinaria profondità di risonanze.
Erano tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle  davanti.
Bene osserva il Del Lungo come la terzina precedente prepari, insieme al primo verso di questa, la subitanea apparizione dell'ombra che rivolgerà la parola a Dante: "quella serie d'imperfetti passavam, ponevam, giacean, inchiude e quasi strascica qualche cosa come di preparazione e d'attesa di novità, la quale, poi, al verso fuor chiana ch'a seder si levò, scatta baldanzosa di suoni, di sintassi, d'imagine, che secondano mirabilmente l'atto dell'ignoto dannato". L'ombra che si leva a sedere al passaggio dei due poeti è quella di Ciacco, un fiorentino in cui qualcuno ha voluto ravvisare il poeta Ciacco dell'Anguillaia. Secondo altri, Ciacco (nel significato di " porco ") sarebbe soltanto un soprannome dato a questo goloso. Di questo fiorentino ci ha lasciato un vivo ritratto il Boccaccio "Era morditore di parole, e le sue usanze erano sempre co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali, se chiamato era a mangiare, v'andava e similmente, se invitato non era, esso medesimo s'invitava".
“O tu che sei condotto per questo inferno”, parlò, “vedi se sei in grado  di riconoscermi: tu nascesti  prima che io morissi.”
Ciacco, dolorosamente consapevole di essere sfigurato nei suoi lineamenti dal dolore che lo tormenta, propone a Dante l'enigma della sua identità: riconoscimi, se sai "E, per dire che Dante è nato prima ch'egli morisse, usa un apparente bisticcio, che serve invece a porre più forte la tremenda antitesi, anche verbale, di due decisivi momenti della vita umana, il " farsi " e il " disfarsi " la nascita e la morte; dalla quale - e ne risalta la potenza distruttrice - fu disfatto." (Grabher)
L'alterarsi delle fattezze umane nei dannati è uno dei motivi sui quali la fantasia del Poeta torna con maggior insistenza e con effetti di notevole efficacia sul piano della poesia, quasi a ribadire il carattere di semplice apparenza che il nostro corpo riveste, agli occhi di Dio, di contro alla indistruttibile sostanza che è l'anima.

E io: “La pena  che ti tormenta forse ti allontana dalla mia memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto.
Ma dimmi chi sei, anima collocata in un posto così doloroso ed assegnata ad un tale tormento, che, se pur ve ne sono di più grandi, nessuno è altrettanto fastidioso”.
Ed egli “Firenze, che a tal punto è colma di odio  da non poterne più contenere, mi ebbe fra i suoi abitanti  quando vivevo sulla terra.
Il piacevole motteggiatore di un tempo è qui serio, pensoso, amaro: quanta malinconia in quell'attributo serena, che qualifica la vita sulla terra idealmente contrapponendola alla dura condizione dei dannati! La morte conferisce, nel poema di Dante, un tragico rilievo anche a figure che, considerate in se stesse, non avrebbero nessuna delle qualità che caratterizzano l'eroe tragico.
Voi  concittadini mi chiamaste Ciacco: per il peccato rovinoso della gola, come vedi, mi struggo sotto la pioggia.
Né io (qui) sono il solo spirito infelice, poiché tutti questi altri sono soggetti ai medesimi tormenti  per la medesima colpa”. E più non pronunciò  parola.
Gli risposi: “Ciacco, il tuo dolore  mi affligge tanto, da indurmi  a piangere; ma dimmi, se lo sai, a quali estremi si ridurranno
gli abitanti della città divisa in fazioni; se in essa si trova qualcuno che sia giusto; e dimmi anche il motivo per cui tanta discordia ha cominciato a travagliarla”.
Le parole riguardose con cui il Poeta manifesta a Ciacco la sua simpatia riecheggiano quelle indirizzate a Francesca. Dante è benevolo con coloro che hanno peccato per incontinenza. Assai più aspra sarà la sua reazione alla vista delle pene che tormentano i peccatori che hanno fatto il male per fredda malizia.
Ed egli: “Dopo una lunga contesa si arriverà a un fatto di sangue, e il partito degli uomini del contado (la parte selvaggia: quella dei Cerchi, i Bianchi) manderà in esilio gli esponenti del partito avversario (quello dei Donati, i Neri) danneggiandoli gravemente.
In seguito è destino  che il partito dei Bianchi  soccomba prima che siano trascorsi tre anni, e che il partito dei Neri abbia il sopravvento  con l’aiuto di qualcuno  che attualmente si barcamena (fra le due opposte fazioni).
Le due fazioni, in cui si era divisa la guelfa Firenze sul finire del XIII secolo, erano capeggiate dalla famiglia dei Cerchi e da quella dei Donati. Un primo scontro fra cerchieschi e donateschi, soprannominati in seguito rispettivamente Bianchi e Neri, si ebbe nel 1300 in occasione delle feste di Calendimaggio. Le due parti vennero al sangue, come dice Dante, e ci furono alcuni feriti. Per ristabilire l'ordine i Priori, tra i quali era anche Dante ne esiliarono gli esponenti più in vista, che però riuscirono ben presto a tornare in Firenze. Un anno dopo lo scontro di Calendimaggio, nel giugno 1301, i Bianchi (la parte selvaggia) espulsero dalla città i capi di parte nera, per esserne a loro volta cacciati, al rientro in Firenze di questi, nel 1302 (infra tre soli: cioè prima di tre rivoluzioni solari a partire dal 1300, data dell'immaginario viaggio di Dante nell'oltretomba ) . La riscossa del partito dei Donati avvenne con l'appoggio di Bonifacio VIII (con la forza di tal che testé piaggia). Questo papa, che in un primo tempo pareva deciso a mantenere un atteggiamento neutrale fra le due fazioni in lotta per il predominio in Firenze, optò alla fine per i Neri, che si mostravano propensi ad accettare le sue richieste.
Il partito dei Neri spadroneggerà a lungo. tenendo sottomessa la fazione avversa con provvedimenti iniqui, per quanto questa si lamenti e si sdegni.
I cittadini giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto: la superbia, l’invidia e la brama di guadagni sono le tre scintille che hanno appiccato il fuoco agli animi (aizzando i Fiorentini gli uni contro gli altri)”.
Giusti son due: già i primi commentatori mostrano di non sapere a quali personaggi della vita pubblica fiorentina Dante intendesse fare riferimento con questa espressione. Ma può anche darsi come sostiene il Del Lungo - che il Poeta abbia solamente inteso "senza allusioni personali, significare che in si grande cittadinanza il numero dei giusti era piccolissimo, e quasi nullo; e quei pochissimi, non ascoltati".
A questo punto pose termine al suo discorso doloroso; e io: “Vorrei avere da te ancora altri schiarimenti, e vorrei che tu mi facessi la grazia di continuare a parlare.
Farinata e Tegghiaio, che furono così degni di onore, Jacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca e gli altri cittadini che si adoperarono per il bene di Firenze,
dimmi dove si trovano e fa in modo che io apprenda qualcosa di loro; perché grande è il desiderio che ho  di sapere se il paradiso dà loro dolcezza, o l’inferno li amareggia”.
Dante chiede al suo concittadino notizie di alcuni uomini politici del tempo passato. Di questi, troveremo Farinata degli Uberti, capo ghibellino e vincitore dei Guelfi a Montaperti, tra gli eretici; Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari e Jacopo Rusticucci, guelfi entrambi, tra i violenti contro natura; Mosca dei Lamberti, considerato il primo responsabile del divampare in Firenze delle lotte tra Guelfi e Ghibellini, fra i seminatori di discordia. Arrigo sarebbe  un membro della famiglia dei Fifanti, il quale partecipò nel 1215 alla uccisione di Buondelmonte: da questo delitto gli storici del tempo fecero dipendere la divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini. Non e più menzionato nel poema.
E Ciacco: “Si trovano tra i dannati più colpevoli: peccati diversi (da quello punito in questo cerchio) pesano su di loro in modo da tenerli nella parte bassa dell’inferno: se scenderai fin laggiù, potrai vederli.
Ma quando sarai tornato tra i vivi, ti prego di richiamare il mio nome alla loro memoria: più non parlerò né ti risponderò”.
Il ricordo accorato della vita serena, con cui già si era iniziato il discorso di Ciacco, colora di mestizia anche il commiato di quest'ombra da Dante "e s'accompagna a un disperato bisogno, così vivo nei dannati: quello di essere ancora avvinti a questo mondo delle loro passioni e del loro peccato che vivrà sempre in essi; e ciò mediante l'unica illusoria forma di sopravvivenza che salvi di loro qualche cosa: la fama presso le creature della terra" (Grabher).
Allora stravolse gli occhi  che fino allora avevano guardato diritti davanti a se; per un attimo ancora mi guardò, e poi abbassò la testa: piombò giù con essa allo stesso livello degli altri dannati (ciechi: in quanto privi della luce dell’intelletto).
Cadde con essa a par delli altri ciechi: il termine "ciechi" ha qui un significato morale, e in questa accezione ricorre nel linguaggio dei mistici.
Il Del Lungo cita, a questo proposito, il passo di un dottore della Chiesa: ""il non vedere" è, in questa vita mondana, la pena inavvertita dei peccatori; il  "non poter vedere", cioè la cecità, è, nell'altro mondo, la pena sentita dai dannati". Tuttavia l'espressione ciechi, in questo quadro che - come ha notato il Momigliano - "ha del macabro, quasi come una scena di decapitazione, si colora, per suggestione della rima, anche di "un sinistro riflesso pittorico singolarmente armonizzato con li diritti occhi torse allora in biechi".
Sempre del Momigliano è l'osservazione che questa terzina suggerisce "il primo esempio di uno dei motivi poetici più frequenti del poema: la rappresentazione della figura e della fisionomia dei dannati, stravolta dal tormento e oscurata dalla depravazione: la pittura di un'umanità imbestiata in cui la bestialità rende più miserando quel tanto di umano che ciascuno dei dannati conserva, e l'umanità fa sembrare più ripugnante quel tanto di bestiale che ciascuno dei dannati ha portato con sé dalla mala vita della terra e acquistato nella proterva o disperata sopportazione della pena".

E Virgilio mi disse:  “Più non si alzerà prima  del suono delle trombe degli angeli, quando verrà il giudice  nemico del reprobi (Cristo):
ogni dannato rivedrà ( allora ) il suo triste sepolcro, assumerà nuovamente il corpo e l’aspetto che aveva da vivo, ascolterà la sentenza che deciderà la sua sorte per l’eternità”.
Più non si desta: nota il Del Lungo che questo presente storico "dice un futuro che si distende per secoli".
La solennità di questa rappresentazione del Giudizio Universale non trova riscontro che in alcuni dei più grandi capolavori delle arti figurative.
Cosi, razionando  un poco  intorno alla vita d’oltretomba, camminammo lentamente attraverso l’immondo miscuglio fatto di ombre di peccatori e di acqua;
e pertanto mi rivolsi a Virgilio: “ Maestro, queste pene aumenteranno o diminuiranno d’intensità dopo Il Giudizio Universale, o saranno dolorose come adesso? ”
E Virgilio: “Ripensa alla tua dottrina, secondo la quale, quanto più una cosa è perfetta, tanto più intensamente sente il piacere  non meno del dolore.
Benché  i dannati  non possano mai conseguire la vera perfezione (che si ha solo quando l’uomo e vicino a Dio), attendono di essere perfetti  dopo il Giudizio più che non prima”.
Il pensiero aristotelico-tomista, accettato da Dante, afferma che nella misura in cui una realtà è perfetta essa avverte con maggiore intensità la gioia o il dolore. Ora la vera perfezion dell'uomo, secondo la definizione della Scolastica, è nell'unione dell'anima e del corpo, che, scissa con la morte, si ricostituirà solo nel giorno del Giudizio Universale.
Percorremmo il cerchio secondo la sua circonferenza, discorrendo assai di più di quanto io non abbia qui riferito; giungemmo nel punto ove da questo cerchio si scende nel successivo:
ivi ci imbattemmo in Pluto, l’orribile diavolo.
Pluto: è il diavolo posto a guardia del cerchio degli avari e dei prodighi. Nella mitologia greca Pluto, figlio di Iasone e di Demetra, era considerato dio della ricchezza.

 

Inferno – Canto VII

“Papé Satàn, papé Satàn aleppe!” prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina,
Papé Satàn, papé Satàn aleppe: discordi sono le interpretazioni che i commentatori hanno dato a questo verso. Per alcuni esso non avrebbe alcun significato riferibile ad una lingua umana; le parole poste in bocca a Pluto sarebbero un esempio del linguaggio dei diavoli, incomprensibile per noi, se non addirittura suono privo di qualsiasi significato, espressione di una mente confusa e abbrutita. Il Momigliano, ad esempio. ritiene che esse vogliano essere un segno dell'imbecillità a cui riduce l'avidità della ricchezza".  E' più probabile, tuttavia, che esse significhino qualcosa come: "O Satana, o Satana, Dio! " oppure: " O Satana, O Satana, ahimè!" Infatti papae in latino è una interiezione di meraviglia e aleph è la prima lettera dell'alfabeto ebraico, che può essere quindi letta come se volesse dire " primo principio" ( e quindi Dio), oppure, con riferimento alle Lamentazioni attribuite a Geremia che si aprono appunto con questa parola, come una interiezione di dolore.
per rincuorarmi così mi parlò: “Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà  di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo.
Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: “Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia.
Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’orgogliosa ribellione  (di Lucifero e dei suoi seguaci)”.
Fe' la vendetta del superbo strepo: più che derivare dal latino medievale stropas (gregge), per cui starebbe ad indicare la schiera degli angeli ribelli a Dio, strupo sembra essere metatesi di "stupro", violenza dovuta a desiderio smodato. Giova qui ricordare che nelle pagine di un teologo del Medioevo, Scoto Eriugena, il peccato degli angeli che si ribellarono a Dio e definito "lussuria". Scrive lo Scoto che, per quanto la lussuria propriamente detta riguardi soltanto gli atti carnali, "tuttavia ogni brama smodata di qualcosa' di piacevole, in quanto piacevole, può essere chiamata lussuria", a meno che oggetto della brama non sia il bene, il che non può dirsi certo sia avvenuto nel caso della ribellione degli angeli: il loro desiderio di una maggiore beatitudine si opponeva infatti ai voleri di Dio.
Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio.
La figura di Pluto suscita in chi legge l'impressione di una massa enorme e amorfa e, sul piano morale, quella di un furore ottuso e impotente. Essa non ci viene infatti presentata dal Poeta attraverso questo o quel particolare del suo aspetto esteriore, come avviene per Caronte, ad esempio, e per Minosse. Il carattere rissoso del traghettatore dell'Acheronte è già tutto contenuto in una determinazione come quella degli occhi di bragie, mentre l'enigmatico conoscitor delle peccata del secondo cerchio resta indissolubilmente legato nella nostra memoria - all'atto bestiale - di avvolgere la coda, per significare un giudizio dettato dalla più pura razionalità. Scrive il Torraca, a proposito di Pluto: "Enfiata labbia suggerisce, si, l'imagine di un gran faccione, ma vanamente. Ma ecco le vele gonfiate dal vento e l'albero della nave portar in questa indeterminatezza qualche cosa di enorme, di gigantesco..." Per quanto riguarda il significato morale di questa inaspettata similitudine, un altro acuto lettore del settimo canto, il Vallone, osserva come essa racchiuda in sé l'intera vicenda di questo guardiano infernale "protervo, bestemmiatore, superbo e poi schiacciato umiliato e vinto'', e aggiunge un'osservazione generale sull'umiliazione cui, nell'inferno dantesco, le potenze del male soggiaciono di fronte all'affermarsi della razionalità chiarificatrice ( Virgilio ): "Forse il destino dei diavoli è più inesorabilmente crudele di quello delle anime malvagie che essi custodiscono. Queste, almeno, di tanto in tanto, possono reagire, a loro modo e nella loro misura, contro un potere ch'è a tutti superiore... i diavoli, vinti che siano e sempre son vinti, si degradano a " poveri diavoli ", arnesi di idiota materia...
Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo.
Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa  tanti inimmaginabili  supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia ?
Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino.
Scrive il Marti, a proposito di questa grandiosa similitudine, che Dante con essa ci suggerisce non già un "urto di persone, di individui, ma urto di gente, di masse informi: anonime superfici in movimento che si infrangono reciprocamente l'una contro l'altra; vaste chiazze brulicanti e semoventi, che tristemente spumeggiano a quel loro pendolare scontrarsi. Nessuno stacco fra le anime e i massi che esse voltano... la figurazione è risolta in movimento ritmico, eterno e sempre uguale, ma anche meccanico ed insensato, di superfici e di colore"
Così convien che qui la gente riddi: il richiamo alla ridda, ballo circolare dal ritmo molto veloce, che in altra circostanza evocherebbe una scena lieta, è qui sarcastico e sferzante.
Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto  ed emettendo alti lamenti.
(Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: “Perché conservi? ” e “Perché sperperi ? ”
La pena degli avari e dei prodighi ricorda quella di Sisifo, oppure quella delle anime che nel Tartaro Enea vede intente a rotolare enormi macigni (Eneide VI, 616-617). I pesi che essi spingono stanno a significare probabilmente i mucchi di denaro che in vita passarono per le loro mani.
In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni  fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso;
poi, una volta qui arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il suo semicerchio fino allo scontro successivo. E io, che mi sentivo quasi turbato,
dissi: “Maestro, spiegami ora quale moltitudine è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici ”.
Ed egli: “Tutti quanti ebbero la mente così ottenebrata  durante la vita in terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero  alcuna spesa misuratamente.
Le loro parole lo dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li separano.
Assai la voce lor chiaro l'abbaia: il verbo "abbaiare", riferito alla voce di quei dannati, aggiunge una caratteristica disarmonica, scostante, alla descrizione, così esatta e impietosa, della loro inumana fatica. Un antico commentatore, il Lana, spiega l'uso di questo termine con il disprezzo che il Poeta intenderebbe qui manifestare nei confronti degli avari e dei prodighi, trattandoli come se fossero cani. Tra i moderni, il Grabher mette in rilievo "la sintetica potenza di abbaia costruito transitivamente con l'accusativo lo e piegato a riferirsi a voce umana.  E' voce d'uomini che abbaia parole; trasfigurata in qualcosa di non più umano e quasi di bestiale".
Questi, che portano la tonsura, furono ecclesiastici, e papi e cardinali, nei quali l’avarizia si manifestò in modo eccessivo”.
E io: “Fra costoro, maestro, dovrei certo riconoscere qualcuno che si macchiò di queste colpe”.
E Virgilio: “Accogli nella tua mente un pensiero assurdo: la dissennata vita che li rese turpi, li rende ora oscuri  ad ogni tentativo di riconoscerli.
Come gli ignavi, così anche coloro che posero lo scopo della loro vita nel denaro sono destinati a rimanere anonimi nell'inferno di Dante. Il Poeta che ha vivo l'interesse per le forti personalità e che non si stanca mai di frugare, con curiosità insaziata, nell'animo umano, non considera nemmeno degni di attenzione coloro che tutto hanno sacrificato ad una divinità così impersonale e vile qual è il denaro. Virgilio enuncia in questa terzina una sorta di contrappasso morale: l'anonimato si aggiunge, infatti, come una condanna supplementare, ai tormenti corporali che affliggono questi peccatori.
Per l’eternità accorreranno ai due punti per scontrarsi: gli uni risorgeranno dalla tomba coi pugni chiusi, gli altri con i capelli recisi.
Come già nel cerchio dei golosi, anche qui, in un immagine allucinante e sinistra, il giorno del Giudizio Universale si impone alla fantasia del Poeta: il pugno chiuso degli avari denuncerà, alla fine dei tempi, il loro interesse rivolto al solo possesso dei beni materiali, mentre lo sperpero, che in vita li privò di tutto, sarà simboleggiato nei prodighi dai loro capelli recisi: come se il loro peccato li avesse privati anche di quelli.
Lo spendere e il risparmiare in misura smodata li ha privati del paradiso, e condannati a questa mischia: per farti capire di qual genere essa sia, non c’è bisogno che io l’adorni di belle parole.
Già nel Convivio (X-XIII) Dante aveva polemicamente preso posizione contro coloro che attribuivano alle ricchezze un valore formativo nella vita dell'uomo e, opponendosi ad un parere espresso dall'imperatore Federico II, aveva sostenuto che la vera nobiltà è una qualità dell'animo, sulla quale non può in alcun modo influire il possesso dei beni materiali, per loro natura caduchi e incerti. Nella canzone "Doglia mi reca ne lo core ardire", raccolta tra le sue Rime, viene drammaticamente prospettata dal Poeta all'avaro l'assurdità del suo cieco affannarsi: di fronte alla morte tutte le sue fatiche sono inutili ("dimmi, che hai tu fatto, cieco avaro disfatto? Rispondimi, se puoi altro che nulla").
Puoi ora vedere, figlio, quanto sia breve l’inganno dei beni che sono affidati  alla Fortuna, per i quali il genere umano si accapiglia;
poiché tutte le ricchezze che sono e furono sulla terra, non potrebbero dar pace neppure a una sola di queste anime affaticate ”.
Nel presentare il tema della ricchezza perturbatrice dell'animo umano Dante si è ispirato al De consolazione philosophiae di Severino Boezio. In una pagina del Convivio (IV, Xll, 7) e citato, nella traduzione in volgare, il seguente passo del filosofo latino: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza largisca, l'umana generazione non cesserà di piangere". Il Momigliano richiama, nel suo commento, l'attenzione sulla funzione di pausa che hanno questi versi, tra la parte del canto che descrive il duro tormento degli avari e dei prodighi e quella in cui viene evocata, in un'aura di estatico silenzio, la paradisiaca figura della Fortuna. Essi infatti "suggellano il senso di eternità ineluttabile che spira qua e là nella rappresentazione della travagliosa giostra; e, non più duri, ma ispirati da una pateticità solenne, lasciano nel lettore, nel momento che il cerchio si allontana dal suo sguardo, un'immagine pensosa che sfuma l'asprezza dello spettacolo".
“ Maestro ”, dissi a Virgilio, “ spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra? ”
E Virgilio: “O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga  la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ).
Nella digressione che a questo punto interrompe la tesa atmosfera del canto, e a proposito della quale più di un critico si è richiamato alle serene atmosfere del Paradiso, Dante espone, per bocca della sua guida nel viaggio oltremondano, una sua personale concezione di quella che gli antichi avevano immaginato come "la dea bendata", modificando altresì il punto di vista già manifestato nel Convivio, in un passo del quale la distribuzione delle ricchezze era definita ingiusta: "Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio effetto d'imperfezione" (IV, Xl, 6).
Qui invece la Fortuna, pur non identificandosi con la Provvidenza di Dio, di cui è soltanto ministra, svolge una funzione provvidenziale. La concezione di Dante è nuova e profonda.

Dio, la cui sapienza oltrepassa  ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida  in modo che ogni gerarchia angelica  trasmette la luce  al suo cielo,
distribuendola equamente: allo stesso modo prepose  a tutte le glorie del mondo  una guida  che le amministrasse tutte
e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi;
per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba.
Il senso di queste terzine si chiarisce se teniamo presente che, nella cosmologia di Dante, ad ognuno dei nove cieli mobili è assegnata da Dio, perché ne regoli il moto, una gerarchia angelica ( intelligenza motrice ) . La Fortuna è anch'essa un'intelligenza, ministra della volontà di Dio ma, invece di presiedere ai movimenti di un cielo, governa quelli dei ben vani della terra.
L’accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro.
L'uso della parola dei per indicare le pure intelligenze (sprovviste quindi di attributi sensibili ) motrici dei cieli, si spiega con la funzione nobilitante che il Poeta attribuisce di solito al vocabolo di origine latina. L'impasto linguistico della Commedia, in cui il termine comune è accostato di continuo a quello aulico o dotto, traduce, sul piano dello stile, la dialettica del temporale e dell'eterno, che rappresenta il fondamentale motivo animatore dell'epos dantesco.
I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio  l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato.
Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano;
ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto  della sua sfera  e gode della sua beatitudine.
Ma è tempo di scendere ormai verso un dolore più grande; già ogni stella che, quando venni in tuo aiuto, saliva in cielo, tramonta e non ci è concesso un lungo indugio ”.
Il Momigliano avverte acutamente la grande solennità dell'accenno al cielo stellato che Virgilio fa qui, per la prima volta, da quando i due poeti sono entrati nella voragine infernale. Il Getto, dal canto suo, nota come Dante sappia cogliere,"in quel declinare di stelle, in quella inesorabile vicenda di astri che è la vicenda del tempo'', il "solenne ritmo universale, e l'assorto respiro... che ad esso si accompagna".
Attraversammo  il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e si riversa in un fossato che da essa deriva.
L’acqua era più nera che livida; e noi, insieme alle onde torbide, scendemmo nel cerchio quinto  attraverso un cammino malagevole.
Questo triste ruscello sfocia  nella palude chiamata Stige, dopo essere sceso fino alla base  dei crudeli e foschi dirupi.
Nel quinto cerchio il paesaggio e la atmosfera appaiono profondamente diversi rispetto a quelli del cerchio precedente; lo stile stesso della terzina dantesca ne risente e non abbiamo più una sensazione di asperità, ma di diffusa tristezza. A questa sensazione contribuiscono le note coloristiche (buia.., bige... grige ).
Ed io, che ero intento a guardare, vidi in quella palude moltitudini imbrattate di fango, tutte nude, con l’espressione crucciata.
Questi peccatori si colpivano l’un l’altro non solo con le mani, ma con la testa e col petto e coi piedi, e si dilaniavano a pezzo a pezzo  coi denti.
Virgilio disse: “Figlio, puoi ora vedere gli spiriti di coloro che furono sopraffatti dall’ira; e voglio che tu inoltre  sappia
che sotto il pelo dell’acqua vi sono dannati che sospirano, e fanno gorgogliare quest’acqua alla superficie, come puoi vedere, da qualunque parte tu guardi.
Immersi nella fanghiglia, dicono: “Fummo malinconici nell’aria dolce allietata dal sole, portando nel nostro animo la caligine dell’accidia:
ora ci addoloriamo nella nera melma”.  Si gorgogliano questo lamento (inno: qui in senso ironico) in gola, perché non lo possono pronunciare con parole chiare e complete”.
Secondo Pietro Alighieri nella palude stigia si troverebbero gli iracondi e i superbi e, sotto di essi, immersi interamente nel fango, gli accidiosi e gli invidiosi. Questo parere non sembra tuttavia suffragato da alcun richiamo al testo. Più plausibile è l'opinione che alla superficie della palude si trovino gli " iracondi acuti " ( la cui collera suole cioè prorompere con impetuosa violenza), mentre immersi in essa sarebbero gli accidiosi, che corrisponderebbero, in questa partizione dantesca, agli "iracondi amari" di Aristotile e San Tommaso. L'accidioso fummo starebbe quindi ad indicare l'ira a lungo repressa. Il contrappasso risulta evidente nel caso degli iracondi acuti: il loro sbranarsi a vicenda esemplifica in modo inequivocabile la passione dell'animo che li indusse a compiere il male. Per gli iracondi amari la corrispondenza tra pena e peccato potrebbe essere la seguente: come in vita hanno soffocato dentro di se l'ira, pur continuando ad alimentarla segretamente, così ora sono soffocati dalla melma.
Quest'inno si gorgoglian nella strozza: nota il Grabber come questa ardita immagine (vicina, per vigore espressivo all'abbaia del verso 43) "fonde in un tutto la voce umana e quella dell'acqua, che ne la strozza soffoca le parole umane per trasformarle nel gorgogliare dell'acqua stessa".
Costeggiammo così per lungo tratto la sozza palude, tenendoci tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango:
giungemmo alla fine  alla base d’una torre.

 

Inferno – Canto VIII

Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità
attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla.
In questo canto, uno dei più ricchi di movimento di tutto il poema, anche il paesaggio si anima, quasi ad incarnare visibilmente lo stato di attesa e la trepidazione del Poeta.
I segnali luminosi che, accendendosi nella notte infernale, sembrano preannunciare un evento insolito e misterioso, sono uguali a quelli che, in terra, servivano a trasmettere informazioni militari. I diavoli che difendono le mura della strana città, alla quale i due viandanti si stanno avvicinando, sono organizzati militarmente: diversamente che nei guardiani dei cerchi superiori, in essi il male è guidato da una intelligenza viva.

Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: “ Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa ? ”
E Virgilio di rimando: “ Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi ”.
Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità  paragonabile a quella della piccola imbarcazione
che vidi in quell’istante  dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: “ Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio! ”
La similitudine è già in Virgilio: "fugge sulle onde, più rapida di un dardo e di una saetta che uguaglia i venti" (Eneide X, 247-248). Dante la ricrea conferendole maggiore essenzialità e vigore, e imprimendo alle parole "un movimento rapido e incalzante, in cui viene a culminare il senso di tensione e di attesa delle terzine che precedono e si preannunzia il movimento drammatico, violento e concitato, dell'episodio che seguirà" (Sapegno).
Da notare anche la sapiente scelta delle parole e la suggestione che queste esercitano anche al di là del loro significato più immediato. Come nota il Venturi, nel primo verso corda non pinse mai da sé saetta, "i suoni esprimono il sibilar della freccia; nel verso successivo il celere volo".

“ Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi ” ribatte il mio maestro, “a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa.”
Flegiàs, figlio di Marte, per avere incendiato, accecato dall'ira, il tempio di Apollo a Delfi, fu punito nell'Averno (cfr. Virgilio, Eneide VI, 618-620). E questo un altro dei personaggi tratti dalla mitologia e ricreati da Dante in forme nuove, meglio rispondenti alla sostanza profondamente religiosa e morale del suo poema. La figura di Flegiàs è "drammatizzata nella sua qualità essenziale: l'ardore dell'ira: per cui diventa uno scorcio appena balenante ma tempestoso: scolpito proprio nel secco rilievo della sua violenta irruzione e del furioso gridare (versi 13-18) e poi ( verso 24 ) nel torbido silenzio dell'ira accolta" (Grabher).
La risposta di Virgilio a Flegias non ha la calma solenne delle risposte da lui date ai guardiani dei cerchi superiori. Una impazienza irosa sembra trasmettersi alle sue parole. Il peccato punito in questo cerchio - l'ira - "si propaga all'intorno, nello scenario, in Virgilio, in Dante, che proprio qui dà il primo e più continuato segno del suo aspro spirito combattivo" (Momigliano).

Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse.
Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui;  soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso).
Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere  l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime.
Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: “Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte ) ? ”
In questa terzina, alla stagnante immobilità dello Stige, si contrappone l'aspra repentinità dell'apostrofe del dannato che, nella maligna domanda rivolta a Dante, rivela il suo godimento per le sofferenze altrui. Il suo apparire improvviso può ricordarci quello di Ciacco nel cerchio dei golosi, ma il dialogo con Dante è improntato qui a tutt'altro spirito.
Nell'episodio del canto sesto il Poeta era preso da un sentimento di compassione e quasi di riverente rispetto per il concittadino che aveva conosciuto di persona i grandi uomini politici della passata generazione; qui invece reagisce violentemente contro il suo interlocutore e, come vedremo fra poco, gode del suo strazio. Possiamo restare meravigliati per tale atteggiamento di Dante, in cui il Momigliano ha ravvisato addirittura "qualcosa di satanico", ma non dobbiamo dimenticare che l'iracondo nei riguardi del quale egli manifesta tale spirito vendicativo, come osserva il Grabher, "non è che lo spunto realistico, cui Dante sempre attinge, per passare dal contingente all'eterno, dal particolare all'universale; per colpire quanti si tengono or là su gran regi e tuffarli tutti, idealmente, come porci in brago".
Il dannato è il fiorentino Filippo dei Cavicciuli ( un ramo degli Adimari )',

Ed io: “ Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?” Rispose: “Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ”.
Il motivo che spinge Filippo Argenti a celare il suo nome è il desiderio, comune anche agli altri dannati, di non avere cattiva fama tra i vivi. Egli cerca di reagire al disprezzo manifestatogli dal Poeta ostentando la propria infelice condizione (un che piango). Ma le sue parole tradiscono un'insofferenza sprezzante e amara. Il loro senso è: lo vedi da te che sono un dannato; che bisogno c'è di farmi questa domanda?
Ed io: “ Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ”.
Il tono della replica di Dante, in cui egli riprende le parole del suo interlucatore per ritorcerle contro di lui  (chi se' tu che vieni... s'i' degno, non rimango...; un che piango... con piangere e con lutto), è dettato da un'ira repressa, che finirà col manifestarsi esplicitamente nella soddisfazione con cui il Poeta assisterà al tormento del peccatore.
Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: “ Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! ”
Poi mi abbraccio: mi baciò in viso, e disse: “Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo!
Quello fu in vita  un prepotente; nessuna azione buona  abbellisce il ricordo che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in preda al furore.
Quanti che si considerano adesso nel mondo  persone di grande importanza, qui staranno come porci nel fango, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli ! ”
L'intervento di Virgilio conclude l'incontro del suo discepolo col dannato e conferisce a questo episodio una dignità esemplare. Ma la figura del saggio, che il poeta latino di solito incarna, ci appare qui singolarmente animata. Egli non è soltanto il commentatore distaccato dell'episodio al quale ha assistito, ma ne diventa uno dei protagonisti. Il personaggio di Virgilio perde in tal modo ogni schematicità inerente alla sua funzione di simbolo, per riflettere in sé l'animo appassionato del discepolo ed inserirsi, con polemica asprezza, in quello che è uno dei temi etici dell'Inferno: la condanna della superbia che boriosamente ostenta la propria autosufficienza.
Ed io: “Maestro, sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma”.
E Virgilio:  “Prima che tu possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio” .  
Poco dopo vidi gli iracondi  fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio.
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio: Dante gioisce dello spettacolo offerto dai dannati che puniscono Filippo Argenti, sia per motivi di carattere contingente, come potrebbe essere la sua inimicizia determinata da motivi politici nei confronti della oltracotata schiatta (Paradiso XVI, 115) degli Adimari, sia perché questo spettacolo è una dimostrazione inoppugnabile della giustizia di Dio, vendicatore delle offese e riparatore dei torti. Ciò non toglie che la scena, considerata in sé, sia manifestazione, da parte dei dannati che vi partecipano, di uno spirito ottuso e brutale: i seviziatori appaiono, non meno della loro vittima, lontani dalla ragione e da Dio.
Tutti insieme gridavano: “ Addosso a Filippo Argenti! ”; e il rabbioso dannato fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti.
Lo abbandonammo a questo punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando attentamente davanti a me.
In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di movimento drammatico; il presente storico sbarro sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il Poeta avverte.
Virgilio mi disse: “ Ormai, figlio, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti oppressi dal dolore, col grande esercito  (dei diavoli)”.
Dite, o Plutone, era per gli antichi il sovrano del regno dei morti, Dante lo identifica con Lucifero. La città che da lui prende nome è l'insieme dei cerchi infernali dal sesto al nono, che costituiscono il basso inferno, di contro all'alto che racchiude i primi cinque cerchi. In essa sono punite due categorie di peccati: quelli di violenza e quelli di malizia.
Ed io: “ Maestro, distinguo già chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri, rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco ”.
Già le sue meschite... : secondo il Boccaccio le torri fortificate poste a difesa della città di Dite sono chiamate meschite (moschee, dall'arabo masghid "siccome edifici composti ad onor del demonio, e non di Dio".
Il paesaggio squallido e geometrico nel cerchio degli avari e prodighi, intriso di tristezza e umor nero in quello degli iracondi, assume qui un rilievo allucinato, che trascende ogni possibilità di riferimenti umani. Intorno alla città di Dite, nota il Grabher,"il Poeta... crea un senso di ermetico isolamento e di grandiosità desolata". Già in Virgilio (Eneide Vl, 548 sgg.) la città del Tartaro era difesa da torri di ferro rovente. Ma, nell'abbondanza dei particolari, l'aspetto sinistro delle fortificazioni infernali non spiccava come nei pochi cenni che vi dedica Dante.

E Virgilio mi disse: “Il fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa apparire  rosse, come puoi vedere in questa parte bassa dell’inferno ”.  
Arrivammo infine  dentro i profondi fossati che difendono quella città desolata: mi sembrava che le mura fossero di ferro.
Non senza aver prima fatto un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero gridò ad alta voce: “ Uscite da qui (dalla barca): ecco la porta (della città di Dite) ”.
Vidi più di mille diavoli  a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: “ Chi e costui che ancora in vita
visita il regno dei morti?”.  E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte.
A proposito dell'immagine da ciel piovuti, il Romagnoli rileva in essa una certa ambiguità: "collocate così le parole, pare che si tratti di gente piovuta allora allora". In realtà, leggendo questi versi, è difficile soffermarsi sul valore logico che in essi le parole assumono, tanto vigorosa è la capacità del Poeta di infondere vita e concretezza alle creazioni della sua fantasia. Giustamente osserva il Bosco: "con quella semplice parola, piovuti, Dante riesce a trasformare il concetto del loro gran numero, in un'immagine: una pioggia di angeli; tutta l'aria piena di angeli precipitanti".
Allora frenarono  un poco la loro grande ira, e dissero: “Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire e penetrato in questo regno.
Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida  in un paese così buio, resterai qui ”.  
Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo  nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi.
Come nei cerchi superiori, anche all'ingresso del sesto il cammino dei due poeti è ostacolato dalle potenze infernali. Ma i difensori della città di Dite sono - come abbiamo già detto dotati di intelligenza oltre che malvagi. Assai più difficile sarà averne ragione. Mentre Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, simboli di cieco furore, si trovavano disarmati e impotenti di fronte all'intelligenza, simboleggiata da Virgilio, i demoni posti a custodia dei cerchi inferiori del regno di Lucifero sono in grado di opporre ragione a ragione,  intelligenza a intelligenza: il male non si configura in loro nelle sue forme più vistose e brutali, come disordinato imperversare degli istinti, ma si nasconde insidiosamente dietro le apparenze di un vivere disciplinato. Qui appunto è il grande pericolo che Dante e Virgilio devono fronteggiare: a sbarrare il cammino loro prescritto in cielo trovano non la natura deforme, ma una città. L'intelligenza al servizio del male ha nelle mura di Dite la sua prima, indimenticabile espressione visiva. La scena drammatica che qui comincia e si svilupperà per buona parte del canto seguente ha un significato allegorico ( la ragione che vuole il bene non può trionfare su quella indirizzata al male senza il soccorso della Grazia ), ma, come ha rilevato il Croce,  "ne ha uno altresì effettivo e poetico, che tutta l'informa e la rende per se comprensibile e chiarissima".
Questo significato fa "tutt'una cosa con lo svolgimento stesso della scena: è la tensione che si prova tra le difficoltà e gli ostacoli, la fiducia che si avvicenda con la sfiducia e pur la vince, nella lotta del giusto contro l'ingiusto, della virtù contro l'iniquità, del diritto contro la forza".
 
“ Mia amata guida, che innumerevoli  volte mi hai ridato coraggio  e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro,
non mi abbandonare ” dissi “ in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito  insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui). ”
E Virgilio, che mi aveva condotto li, mi disse: “Non aver paura; perché  nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto.
Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con lasperanza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno (nel mondo basso)”.
Così dicendo  il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza.
Dante è in ansia per l'esito del colloquio di Virgilio coi diavoli, anzi ha già cominciato a disperare: è la prima volta che i ministri di Satana osano ribattere alle parole del suo maestro; e ribattono con una proposta terribile, in tutto degna della loro natura: Virgilio resti prigioniero nelle loro mani e Dante sia pur libero di tornarsene indietro, ammesso che ne sia capace. Virgilio lo rincuora, ma Dante continua a dubitare della potenza della sua guida, pur sentendo che in essa sono riposte tutte le sue speranze di salvezza. Da ciò quella ricchezza di espressioni affettuose verso il maestro, in cui e tutto il suo timore e il desiderio insieme di confidente abbandono.
Non potei  udire quello che disse loro: ma egli non si trattenne a lungo  là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura.
Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti.
Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando:  “Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore! ”.
Anche in questo suo mesto ritorno dal colloquio con i guardiani della città del male Virgilio è, non meno che nell'episodio di Filippo Argenti, personaggio vivo e umanissimo. Egli non è il maestro che impartisce la verità dall'alto, ma partecipa all'azione e si getta allo sbaraglio per trarre in salvo il suo discepolo. Le qualità del suo animo non sono didascalicamente enunciate, ma risultano da tutti i suoi atti.
E rivolto a me: “Anche se io  mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi  per vietarci l’ingresso.
Questa loro presunzione non è nuova: perché  già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata.
In questa terzina è evidente l'allusione alla discesa di Cristo nel regno dei dannati: il Redentore, dopo la sua morte, liberò dal limbo le anime dei Patriarchi dell'Antico Testamento, scardinando la porta dell'inferno, esterna (men secreta) rispetto a quella di Dite.
Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione,
colui ad opera del quale  la città  ci sarà aperta”.

 

Inferno – Canto IX

Quel colore smorto che la paura aveva diffuso sul mio volto, quando avevo veduto Virgilio tornare indietro, fece sparire  più presto il pallore che da poco era apparso sul suo.
Si arrestò attento come chi cerca di percepire un suono; lo sguardo, infatti, non poteva portarlo a distinguere lontano attraverso l’aria buia e la densa caligine.
“Eppure dovremo vincere questa battaglia” prese a dire, “a meno che... (ma no, non è possibile). Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno! ”
Virgilio, respinto dai difensori della città di Dite, è preso per un attimo dal dubbio, ma poi riacquista fiducia: ecco il senso generale, sul quale sono tutti d'accordo, del breve soliloquio contenuto in questa terzina, Quanto al significato più preciso adombrato nell'espressione se non, varie ipotesi sono state avanzate. Ad esempio Virgilio può aver pensato per un momento di non aver ben capito il discorso fattogli da Beatrice nel limbo, oppure addirittura che il procedere oltre fosse ormai del tutto impossibile. Ma per penetrare il valore poetico di questa apertura di canto, che, come rileva lo Zannoni, "prende l'avvio proprio dal giuoco psicologico dei due personaggi, Dante e Virgilio, dai loro silenzi e dalle loro parole, dalle ansie e dalle speranze loro, sullo sfondo di quella fantastica e fiammeggiante città infernale", non occorre andar oltre le intenzioni del Poeta e voler chiarire termini che traggono forza suggestiva proprio dall'essere circondati da un alone di mistero.
Mi accorsi facilmente come Virgilio cancellasse il senso delle prime parole  con quelle aggiunte in seguito, diverse dalle  prime;
ciò nonostante il suo discorso mi diede timore, poiché io attribuivo alla frase non conclusa un significato forse peggiore di quello che aveva.
La peggior sentenzia che Dante attribuisce alle parole del suo maestro, completando nella sua mente la frase dubitativa da questi lasciata interrotta (se non...), é probabilmente questa: " a meno che l'opposizione dei diavoli non ci costringa a tornarcene indietro ". La domanda che egli sta per rivolgere al suo maestro, esprime appunto questo stato d'animo angosciato del discepolo che vede ad un tratto la sua guida, il mar di tutto 'l senno, fin qui apparsa infallibile, umiliata e schernita dalle forze del male.
“Nel fondo della dolorosa voragine infernale avviene mai che discenda qualcuno del primo cerchio (il limbo), dove le anime hanno come sola punizione la speranza (di vedere Dio) destinata a non realizzarsi mai ?”
Feci questa domanda; e Virgilio mi rispose: “Raramente avviene che qualcuno di noi faccia la strada che io sto percorrendo.
E’ bensì vero che già un’altra volta fui quaggiù, richiamato dagli scongiuri  di quella crudele Eritone che faceva tornare le anime nei loro corpi,
Virgilio aveva nel Medioevo fama di mago. Nessuna tuttavia delle leggende che si erano formate intorno alla sua figura accenna a questa discesa agli Inferi. E' probabile quindi che Dante abbia tenuto presente, nell'immaginare questo primo viaggio di Virgilio fin dentro il cerchio più profondo della voragione infernale ( il nono, dove sono puniti i traditori), un passo della Farsaglia di Lucano, in cui è detto che la maga Eritone fece ritornare nel corpo l'anima di un soldato morto, per predire a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo (VI, 507 sgg.).
Da poco tempo il mio corpo  era privo  dell’anima, allorché costei mi fece entrare nella città di Dite, per fare uscire un’anima del cerchio dove e dannato Giuda.
Quello è il posto più basso e più buio, e più lontano dal cielo che imprime il movimento all’universo: conosco bene il cammino; perciò rassicurati.
Nella cosmologia della Commedia, il ciel che tutto gira è, rispetto alla terra, l'ultimo dei nove cieli fisici. E' chiamato Primo Mobile, perché da esso si trasmette il movimento a tutto il creato.
L’acquitrino da cui emana il grande fetore circonda tutt’intorno la città dei dannati, nella quale non possiamo ormai entrare senza lotta.
Le informazioni che Virgilio fornisce in questo discorso al suo discepolo, sono state considerate da molti come una digressione oziosa, la quale interromperebbe la tesa atmosfera drammatica che Dante aveva saputo creare, con un crescendo di effetti, sin dal canto precedente. Cosi, ad esempio, il Porena ha l'impressione che, soprattutto nella parte finale del suo discorso, Virgilio parli al discepolo solo per "occuparlo e distrarlo in qualche modo".
Assai difficile riesce, tuttavia, aderire a simili opinioni, che risolvono, in modo troppo semplicistico e ovvio, i non sempre facili problemi che pone l'interpretazione di questo e di altri passi della Commedia. In particolare, per quel che si riferisce all'episodio di Eritone, in esso, scrive lo Zannoni, "il mondo mitologico dona alla suggestiva vicenda del pellegrino medievale uno sfondo remoto di più solenne, di più oscuro, di più alto mistero" e, possiamo aggiungere, preannuncia l'apparizione delle figure mitologiche destinate a svolgere un ruolo così importante nel canto.  Inoltre il tono pacato e didascalico con il quale il poeta latino fornisce a Dante ragguagli sulla palude che'l gran pazzo spira, serve a mettere maggiormente in rilievo la drammaticissima sostanza delle terzine successive.

E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata,
dove all’improvviso  si erano levate tutte nel medesimo istante  tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamentodi donna,
e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua  d’intenso color verde; per capelli  avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste,
Le Furie o Erinni, figlie di Acheronte e della Notte, erano, nella mitologia, le dee della vendetta e del rimorso. Esse perseguitavano il colpevole fino a fargli perdere il lume della ragione. La loro rappresentazione, in questi versi dell'Inferno, è di una potenza mai raggiunta dai poeti dell'antichità. Ciò è dovuto proprio al fatto che in queste, come nelle altre figure della mitologia, Dante sa infondere un significato morale nuovo, derivante dalla sua profonda fede. Qui, ad esempio, le Furie non sono vedute soltanto nel loro aspetto negativo, come emblemi cioè di un male dal quale non ci si riscatta, ma anche nel loro aspetto positivo: esse sono sì ostacoli a quell'itinerarium mentis in Deum, che il viaggio nell'al di là dei due poeti simboleggia, ma ostacoli concepiti anzitutto come strumenti di perfezionamento morale. Tale è il senso più profondo di questa allegoria del male, al di là di ogni interpretazione troppo particolare di essa. I critici hanno concordemente sottolineato la perfetta riuscita fantastica ed espressiva di questa creazione dell'arte di Dante, rilevando il carattere convulso e irreale di questa visione d'incubo.
E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: “ Ecco le implacabili Erinni.
Dalla parte  sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone”;  ciò detto, tacque.  
Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte  e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio.
“Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra” dicevano tutte quante guardando verso il basso: “fu male non punire nella persona di Teseo  l’assalto (portato al regno dell’oltretomba). ”
Medusa, altra figura mitologica, era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco; fu uccisa e decapitata da Perseo. La sua testa trasformava in pietra chi la guardava.
Un'antica leggenda greca narrava della discesa nel regno dei morti dell'eroe Teseo, il quale vi era penetrato per rapire Proserpina, regina del mondo sotterraneo. Fatto prigioniero dalle potenze delle tenebre, era stato in seguito liberato da Ercole (Virgilio- Eneide Vl, 392 sgg.).

“Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra. ”
Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue.  
O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento  che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.
L'insegnamento morale cui Dante esplicitamente allude in questa terzina ha dato luogo alle più disparate interpretazioni. Tra le opinioni degli antichi commentatori le più interessanti sono quelle del Lana, che vede simboleggiata in Medusa l'eresia, che "fa diventare 1'uomo pietra, perché lo eretico vuole più credere alle sensualitadi che alla Sacra Scrittura'' e di uno dei figli del Poeta, Pietro, per il quale Medusa è una raffigurazione allegorica del terrore.
Le Furie, simbolo dei rimorsi, invocando Medusa, cercano, secondo Pietro di Dante, di paralizzare col terrore l'animo e la mente del Poeta, per impedirgli l'accesso al basso inferno.
Fra i moderni lo Scartazzini ha visto nelle Erinni il simbolo della mala coscienza e in Medusa quello del dubbio, "che ha la virtù di rendere l'uomo insensibile come pietra". Una spiegazione assai convincente di tutta la scena delle Erinni ci è data dallo Steiner: "Le Furie, i rimorsi, condurrebbero Dante a guardare la testa della Medusa, cioè a impietrarsi nello stato della disperazione: Virgilio, la ragione corretta dalla fede, vuole che Dante guardi le Erinni, cioè che ascolti la voce del rimorso, ma non guardi la Gorgone, cioè non vuole che cada per questo nella indifferenza del disperato, che poi ricade nuovamente, secondo la sentenza di San Paolo, nella vita sensuale, senza riscattarsi mai più".

E già si stava avvicinando sulla superficie fangosa della palude un rumore fragoroso e terrificante, che faceva tremare sia l’una che l’altra riva dello Stige,
non diverso da quello di un vento reso violento dal calore delle masse d’aria  (che trova sul suo cammino), il quale colpisce  la foresta e senza che nulla possa trattenerlo
spezza i rami, li scaglia a terra e li trascina fuori (della selva); avanza imponente, in una nuvola di polvere, e causa la fuga dei greggi e dei pastori.
Dante, con gli occhi ancora coperti dalle mani di Virgilio, ode approssimarsi come un uragano; in tal modo, con questa impressione di maestosa ed inarrestabile potenza, si preannuncia al pellegrino smarrito l'arrivo dell'angelo che aprirà le porte della città di Dite e che, sul piano dell'allegoria, simboleggia l'intervento della Grazia nel punto in cui la ragione (Virgilio) non riesce ad impedire che l'anima disperi. La similitudine del vento impetuoso è già negli autori dell'antichità (Virgilio, Stazio, Lucano) più cari al Poeta, ma egli la ricrea interamente, arricchendola di tratti realistici, che testimoniano un appassionato spirito di osservazione della natura.
Nota giustamente il Gallardo, a questo proposito, che in Dante, diversamente da quanto avveniva nella poesia classica, spesso "I'immagine poetica non si basa solo sull'osservazione del fenomeno e dei suoi effetti", ma anche su quella delle cause. Qui, ad esempio, Dante non si contenta di caratterizzare il vento attraverso quella che appare la sua qualità più rilevante (l'impeto), ma specifica anche il motivo del determinarsi di questa qualità (li avversi ardori). Questo spirito di osservazione e l'insaziato interesse per tutti gli aspetti del mondo visibile, tipici di Dante, fanno sì che, anche ove lo spunto iniziale di una sua immagine è libresco, egli riesca sempre a dare a questa immagine la freschezza di una cosa viva e reale. Tra i critici che si sono più attentamente soffermati su questa similitudine, il Momigliano ha osservato come fin dall'inizio (e già...) essa sia colma di religiosa aspettazione, rilevando altresì nel verso dinanzi polveroso va superbo "una delle più stupefacenti sintesi poetiche di Dante".
Sempre a proposito di questo verso il Sapegno ha indicato in esso, e particolarmente nell'attributo superbo, il trasferirsi sul piano psicologico di un dato della realtà esteriore, con il quale "l'attenzione del lettore è riportata dal paragone alla cosa paragonata, dal vento al messaggero in cui s'incarna il volere dell'Onnipotente". Anche qui, come altrove nel poema, la natura è profondamente penetrata di ragioni umane, senza con ciò perdere nulla della sua concretezza; anche qui stato d'animo e mondo visibile sono così perfettamente fusi da apparire inscindibili.

Virgilio mi liberò gli occhi (che erano coperti dalle sue mani) e disse: “Dirigi adesso la forza del tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, verso quella parte  dove la nebbia è più molesta”.
Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra,
così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi.
Anche la similitudine con le rane, già presente in Ovidio (Metamorfosi VI, 370-381), rivive in Dante con tanta concretezza di determinazioni, da risultare cosa nuova e del tutto originale. La fuga delle rane all'avvicinarsi della biscia, oltre a costituire un quadro a se, serve, come ha osservato il Sapegno, "a portare ancor più sul piano della realtà" la figura sovrannaturale dell'inviato dal cielo, senza per questo privarla della sua grandezza.
Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione.
Il gesto con cui l'angelo allontana da sé la densa caligine infernale esprime assai più il carattere del personaggio, un essere sceso dal mondo della perfezione e della luce in quello della irrimediabile disarmonia e del buio  di quanto non farà l'aspro rimprovero che rivolgerà fra poco agli angeli ribelli, Pochi tratti bastano a Dante per dar vita ai suoi personaggi: la sua è soprattutto un'arte di concentrazione e di sintesi.
Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui.
Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo.
Con una verghetta: il diminutivo mette in risalto l'estrema facilità con cui l'angelo riesce ad avere ragione dell'impedimento opposto dalle forze del male al proseguimento del viaggio dei due poeti. Egli non tocca la porta della città di Dite con le proprie mani (anche questo particolare contribuisce a farcelo apparire distaccato da tutto l'orrore che lo circonda), ma con un piccolo scettro, quasi a riaffermare su di essa il potere assoluto di Colui che lo ha inviato.
“O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata”, prese a dire sullo spaventoso limitare, “ da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi ?
Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore?  
A che serve opporsi ai decreti divini ?  Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo. ”
Secondo il racconto di Virgilio (Eneide VI, 395-396 ), Ercole, sceso nell'Ade, vinse e incatenò Cerbero. I critici sono concordi nel giudicare il rimprovero dell'angelo ai custodi della città di Dite assai meno efficace dei versi che solo indirettamente ne suggerivano la figura. Precisandosi, questa viene a perdere quell'aura di mistero con cui si era preannunciata da lontano alla fantasia del Poeta. Il ministro della volontà di Dio qui indulge forse ad una polemica troppo umana.
Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa
da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.  
Entrammo in essa senza incontrare opposizioni; e io, che desideravo osservare lo stato delle cose contenute dentro quelle mura fortificate,
non appena entrato, mi guardai d’attorno; e vidi da ogni parte una grande pianura  colma di dolore e di supplizi crudeli.
Il paesaggio sinistro delle mura della città di Dite, davanti alla quale si è svolto il dramma dell'anima tentata dalla disperazione, cede il posto, una volta che i due viandanti sono entrati in questa città, a una natura diversa, di uno squallore desolato, in cui predominano le linee orizzontali. "La grande campagna - osserva il Momigliano - è piena di lamenti: ma non si vede un'anima; di qui un'impressione sospesa, che è tanto più sensibile dopo la scena affollata e mossa di prima."
Come ad Arles, dove la corrente del Rodano (sfociando nel mare) si arresta, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini,
le tombe rendono tutto il terreno vario, così facevano qui in qualsiasi punto, solo che la forma della sepoltura era più angosciosa;
poichè fra i sepolcri erano sparse fiamme, a causa delle quali erano tanto roventi, che nessun’arte (di fabbro) chiede che il ferro lo sia di più.
Ad Arles, in Provenza, e a Pola, erano ben visibili nel Medioevo i ruderi di vaste necropoli romane. Si diceva che quella di Arles fosse sorta miracolosamente nel corso di una sola notte per consentire a Carlo Magno di seppellire i suoi soldati morti in uno scontro con gli infedeli.
Il richiamo a questi cimiteri abbandonati precisa da vicino la visione che si offre agli occhi di Dante e le conferisce al tempo stesso una sua mesta solennità.

Le pietre tombali erano tutte sollevate, e uscivano dai sepolcri lamenti così disperati, che parevano davvero (lamenti) di infelici e di suppliziati.
E io: “Maestro, quali sono quelle turbe che sepolte dentro quelle tombe, si fanno udire attraverso i loro dolorosi gemiti ? ”
E Virgilio: “Qui si trovano i capi di eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e i sepolcri sono molto più pieni di quanto tu creda.
Collocati fra i cerchi degli incontinenti e quelli del basso inferno, gli eresiarchi costituiscono una categoria a sé.
Il fuoco che li tormenta negli avelli arroventati può forse essere messo in relazione con quello dei roghi a cui venivano condannati sulla terra, o meglio, in base ad un più sottile contrappasso, con le " fiammelle sotto la cui forma discese agli Apostoli lo Spirito Santo, infondendo in essi l'ardore della vera fede: di che tutti questi dannati furono privi" (Chimenz).
Un nesso profondo unisce, come osserva il Bozzetti, il significato del posto assegnato a queste anime con quello del grande dramma allegorico che si è concluso con l'entrata dei due poeti nella città di Dite: "Il controllo della ragione (Virgilio) non è stato sufficiente alla vittoria e ha dovuto intervenire la Grazia. Orbene, qui, negli eretici delle arche infuocate, sulla linea di confine fra i peccatori per incontinenza e i peccatori per malizia, sono puniti gli esseri che non offesero Dio altro che per essersi privati volontariamente della sua Grazia".
 
I seguaci di una stessa eresia sono sepolti insieme, e i monumenti sepolcrali sono ora più ora meno caldi”. E dopo essersi volto a destra,
ci incamminammo fra il luogo dei supplizi e le alte mura.
Poiché i due pellegrini, nello scendere da un cerchio al successivo, girano sempre alla loro sinistra, si è voluto vedere anche in questo particolare un significato simbolico. Solo qui, e quando si dirigono verso il gruppo degli usurai (canto XVII, 31), Dante e Virgilio girano a destra. Lo Scartazzini, a questo proposito, osserva che "l'andare a man destra si prende per segno o simbolo di dirittura, lealtà, sincerità, schiettezza".

 

Inferno – Canto X

Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo.
“O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi” presi a dire,  “parla ed esaudisci il mio desiderio.
Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia. ”
La scenografia dei primi cerchi infernali si ispira ai grandi fenomeni naturali della terra: l'unico elemento che distingue la bufera che mai non resta dei lussuriosi o la pioggia maledetta del terzo cerchio da una bufera o da una pioggia reali, è la loro durata infinita. Dio si manifesta appunto attraverso questo carattere di eternità impresso a forme e movimenti altrimenti pienamente verosimili, in virtù della loro naturalezza, anche agli occhi di chi non riesca a vedere nella natura nulla che la trascenda. La stessa osservazione può ripetersi per la giostra degli avari e prodighi, che viene espressamente riallacciata dal Poeta a un particolare, l'urto delle onde di due mari nello stretto di Messina, e che, indipendentemente da questo accostamento, ha, del fenomeno naturale, la rigorosa periodicità e monotonia.
Ad accrescere l'orrore di questi spettacoli - orrore immediato e quasi fisico, non ancora pervaso nel profondo da quella problematica religiosa e morale che troverà le sue soluzioni più ricche soltanto in un secondo tempo - contribuisce il commento di grida e invocazioni con cui i dannati manifestano la sopravvivenza in loro di un barlume di libertà spirituale: la libertà del dolore, del rifiuto, della bestemmia.
Ma nel quinto cerchio la sofferenza delle fangose genti è muta: gli iracondi si troncano a brano a brano senza che Dante accenni ad un solo lamento da loro emesso. Il dramma allegorico, che prelude all'arrivo del messo celeste e che non è già più traducibile in termini "naturali" con la stessa facilità con cui lo erano gli spettacoli dei cerchi superiori, si svolge anch'esso in uno spazio che, per essere vuoto di suoni, si arricchisce di risonanze spirituali e parla direttamente all'anima. Il paesaggio del cerchio degli eretici, desolato nella sua quasi assoluta orizzontalità e cosparso di avelli aperti, sembra esso pure immerso nel silenzio, nonostante il cenno ai duri lamenti di questi peccatori (Inferno IX, 122 ).
Ma anche qui il silenzio non è se non la condizione in cui meglio si ascolta la voce di Dio. La campagna cosparsa di tombe evoca uno scenario da Giudizio Universale. Anche il particolare, solo in apparenza secondario, del sentiero angusto che egli deve percorrere dietro la sua guida, accentua il senso di solitudine e lo sbigottimento del Poeta. Da tale stato d'animo nascono gli appellativi, ora solenni ora affettuosi, con cui Dante si rivolge in quest'apertura di canto a Virgilio, e tutto il tono sospeso delle sue parole.

E Virgilio: “Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra.
In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono  che l’anima muoia insieme al corpo.
Il filosofo greco Epicuro (341-270 a. C.) aveva negato la sopravvivenza dell'anima al corpo, opinione questa, come scrisse Dante nel Convivio ( Il, VIII, 8), "intra tutte le bestialitadi... stoltissima, vilissima e dannosissima". Le sue teorie erano conosciute nel Medioevo soltanto indirettamente, attraverso gli scrittori latini, e in modo incompleto; per tale motivo poterono essere qualificati "epicurei" tutti coloro che si mostravano indifferenti in materia religiosa. In particolare i Ghibellini vennero spesso designati come epicurei.
Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi ”.
E io: “Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto  a ciò non soltanto ora”.
“O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui.
Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno.”
Il dannato che rivolge queste parole a Dante è Manente, detto Farinata, degli Uberti. Nato a Firenze all'inizio del secolo XIII, fu dal 1239 capo del partito ghibellino e come tale ebbe un ruolo di primo piano nel determinare la cacciata dei Guelfi dalla città nel 1248. Tornati questi nel 1251, dovette, a sua volta, allontanarsi da Firenze insieme ai suoi seguaci. Trovò rifugio a Siena, dove preparò la controffensiva contro il partito avverso. I Guelfi fiorentini subirono nel 1260 una sanguinosa disfatta a Montaperti ad opera dei fuorusciti ghibellini e dei Senesi comandati appunto da Farinata, Rientrato in patria, vi mori nel 1264. Dopo la sua morte, e in seguito alla definitiva disfatta del partito ghibellino in Italia, gli Uberti furono messi al bando da Firenze e le loro case rase al suolo. Farinata, dopo la sua morte, fu processato per eresia.
Nel Farinata dantesco i romantici videro soprattutto l'eroe tutto d'un pezzo, il prodotto di un'epoca ancora barbarica, quasi un "superuomo" del Medioevo. In realtà il suo carattere è assai più sfumato, contraddittorio e umano; proprio in questa umanità è la sua grandezza. Bene osserva il Romani, a proposito di queste prime parole rivolte a Dante: "Nel violento impulso di affetto verso la sua patria, e nel subitaneo crescere e innalzarsi dell'immagine di lei, Farinata intravede, forse per la prima volta, di non averla in vita amata abbastanza, anzi di averle indegnamente recato offesa; e, in quell'impeto d'amore, l'anima s'apre alla sincerità, e confessa nobilmente la sua colpa".

Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri;  mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio.
Ed egli mi disse: “Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ”.
Dalla cintola in su tutto 'I vedrai: il De Sanctis interpretava questo verso in senso morale, come un equivalente di:  "lo vedrai in tutta la sua grandezza".
Il Barbi ha voluto invalidare questa esegesi, mostrando come espressioni del tipo  "dalla cintola in su" e "dalla cintola in giù", accompagnate a volte anche dalla specificazione "tutto", fossero comuni ai tempi di Dante, per designare "la parte superiore o inferiore del corpo". Ma uno dei pregi più rilevanti dell'arte del Poeta sta appunto nel saper conferire un significato nuovo, più ricco e profondo, ad espressioni che in nulla sembrano scostarsi dal parlare comune.

Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto  con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo.
La rappresentazione di Farinata che si erge solitario e immobile in mezzo alla pianura del dolore, ha ispirato le più suggestive pagine del saggio del De Sanctis; questi, peraltro, non si è soffermato abbastanza su quanto di complesso e di tormentato c'è nella figura di questo eroe, vincitore in terra, ma definitivamente perdente agli occhi di Chi lo ha giudicato per l'eternità. Scrive il De Sanctis, a proposito dell'"ergersi" di Farinata, che questo verbo "è sublime non per il suo significato diretto, ma come segno ed espressione d'una grandezza tanto maggiore quanto meno misurabile, dell'ergersi, dell'innalzarsi dell'anima di Farinata sopra tutto l'inferno..."  
E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso quel dannato, con questa esortazione: “Le tue parole siano misurate”.
Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi sprezzante, mi chiese: “Chi furono i tuoi antenati ? ”
C'è un grande divario fra il tono appassionato, affabile e nobilmente ornato della preghiera che Farinata ha poc'anzi rivolto a Dante e il tono brusco e imperioso con cui gli pone la domanda circa i suoi antenati. Ma, come ha giustamente notato il Sansone, "lì Farinata parlava a quell'ignoto concittadino, a colui che gli rimenava alla memoria la sua terra, nell'inferno, li dov'è una distanza immensa ed implacabile da ogni cosa terrena. Qui si rivolge a un solo determinato Fiorentino, e sta guardingo come se preavvertisse il nemico".
Io, che desideravo obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai; per cui egli sollevò un poco le ciglia,  
poi disse: “Furono acerrimi nemici miei e dei miei avi  e del mio partito, tanto che per due volte li debellai”.
Farinata bandi due volte da Firenze i Guelfi (nel 1248 e nel 1260), ma dispersi suggerisce l'idea di una sconfitta  in battaglia (il che, se può essere vero per la cacciata dei Guelfi nel 1260, in seguito allo scontro di Montaperti, non lo è certo per quella del 1248). Scrive il Romani, sempre in merito al tono che assume questo termine guerresco nelle parole del Ghibellino: "Farinata non dice: In conseguenza della loro inimicizia li combattei; ma semplicemente li dispersi: per lui il combattere i suoi nemici e il disperderli sono una cosa sola; egli non conosce battaglia senza vittoria".
“ Se furono mandati in esilio, tornarono da ogni luogo” gli risposi “sia la prima che la seconda volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del ritornare”.
Dante rettifica l'espressione con cui Farinata ha accennato alla messa al bando degli Alighieri: essi non furono dispersi, ma soltanto cacciati, mandati in esilio. Poi, da vero uomo di parte che si trova a dover difendere l'onore politico della propria famiglia e l'integrità delle tradizioni domestiche, "gli ritorna quel plurale [due fiate] distinto in due singolari [l'una e l'altra fata]; due colpi, l'uno appresso all'altro; e niente pareggia il sarcasmo dell'ultimo verso [ma i vostri non appreser ben quell'arte] " ( De Sanctis).
A questo punto si levò dall’apertura  scoperchiata un’ombra accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su: penso si fosse alzata sulle ginocchia.
L'ombra che interrompe, nel punto della sua più alta tensione, il dialogo tra Farinata e Dante è quella di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, il migliore amico di Dante, che gli dedicò la sua opera giovanile, la Vita Nova. Cavalcante ebbe in vita fama di miscredente: in particolare, non avrebbe creduto all'immortalità dell'anima. Guelfo, dette il suo consenso al fidanzamento del figlio Guido con Beatrice, figlia di Farinata, allorché nel 1267 le due opposte fazioni tentarono una riconciliazione.
La figura di Cavalcante è l'antitesi di quella di Farinata. La grandezza del capo ghibellino  deriva, infatti, dalla forza con cui egli riesce a dominare il dolore per la definitiva sconfitta dei suoi, la pena segreta del suo fallimento umano (identificando patria e partito, ha creduto di agire per il bene della patria, mentre non ha fatto altro che opporsi ad essa in nome di una fazione), e tale forza si riflette nel suo atteggiamento statuario. Cavalcante, di fronte a questa statua, è un'ombra, e delle ombre ha la fuggevole inconsistenza. Come ha notato l'Agliana: "La figura di Cavalcante sembra dominata dal dubbio sin dal suo primo apparire. Una condizione d'incertezza è nella sua positura fisica, nello sguardo che egli rivolge intorno, nella domanda che pone a Dante".

Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun altro; e dopo che ebbe finito di dubitare,
tra le lagrime disse: “Se il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con te? ”.
L'ateo Cavalcante crede bastino, per visitare il regno dei morti, le sole forze umane (altezza d'ingegno); ignora la dimensione della Grazia. Perché suo figlio Guido, anch'egli, come l'amico Dante, cultore di studi filosofici, non è con lui in questo viaggio? Guido Cavalcanti, più giovane di qualche anno di Dante, fu con l'Alighieri il più cospicuo rappresentante della scuola poetica del dolce stil novo. Come studioso di filosofia egli si interessò soprattutto al pensiero dell'arabo Averroè. Guelfo bianco, fu esiliato dai Priori, tra i quali era anche Dante, nel giugno del 1300, a Sarzana. Mori due mesi dopo.  
Ed io: “Non giungo per mio merito: Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice, simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in dispregio”.
Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno: è uno degli endecasillabi più controversi dell'intero poema. L opinione oggi prevalente è che in esso Dante contrapponga, al proprio interesse per la teologia (simboleggiata nella Commedia da Beatrice), il disprezzo manifestato per questi studi dall'eretico ( e forse ateo) Guido, seguace in ciò del padre. Ecco dunque la ragione per la quale il figlio di Cavalcante non ha potuto intraprendere anche lui il viaggio nel regno dei morti; questo viaggio non è opera di una volontà e di una intelligenza umane; esso è stato voluto in cielo; chi lo compie ha la fede.
Le sue parole e la qualità del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente.
Alzatosi di scatto in piedi gridò: “Come hai detto? egli ebbe? non vive più? la dolce luce non colpisce più i suoi occhi? ”
Quando si avvide di un certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde nuovamente indietro e non si mostrò più fuori.
E' bastato un verbo riferito al passato piuttosto che al presente (ebbe invece di " ha ") perché il padre angosciato subito pensasse alla morte del suo Guido.
Le tre domande che rivolge a Dante per ottenere un chiarimento al suo dubbio non trovano risposta immediata. Non occorre altro perché Cavalcante, sopraffatto dal dolore, cada come fulminato nella tomba. Egli ha creduto che il silenzio di Dante significasse:  " Tuo figlio non è più tra i vivi ", mentre il Poeta in realtà, come spiegherà poi a Farinata, era tutto preso da un altro pensiero:  "se Cavalcante ignora che Guido è ancora in vita, vuol dire che questi dannati non conoscono il presente, pur conoscendo l'avvenire. Come può la profezia di Ciacco accordarsi con questa cecità di Cavalcante nei riguardi degli eventi contemporanei? "

Ma il magnanimo Farinata, a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco;  
e proseguendo il discorso di prima, disse:  “ Se hanno male imparato l’arte del ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto non faccia la tomba in cui sto a giacere.
Farinata rimane insensibile allo strazio di Cavalcante perché - come osserva il De Sanctis - "egli non vede e non ode, perché le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio senza andare sino all'anima, perché la sua anima è tutta in un pensiero unico, rimastole infisso come uno strale, l'arte... male appresa, e tutto quello che avviene fuori di sé, è come non avvenuto per lei". Ma nell'intermezzo, in cui è racchiuso tutto il dramma umanissimo di questo morto che, soggetto ai supplizi infernali, ad altro non pensa che alla sorte del figlio rimasto sulla terra, l'atteggiamento di Farinata si è approfondito, si è fatto più intimo e raccolto: abbiamo lasciato l'uomo di parte per ritrovare solo l'uomo. Un nuovo dolore si è aggiunto a quelle pene infernali che egli ostentava poco fa di tenere in nessun conto: il dolore per l'arte... male appresa. Il superbo Farinata non ha riguardo adesso di confessare la sua sofferenza "con un verso fatto sublime dalla terribile antitesi di due strazi ugualmente sconfinati: ciò mi tormenta più che questo letto" (Parodi).
Ma il volto della donna che qui governa  non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare in patria.
L'esilio che qui Farinata predice a Dante è menzionato indirettamente, nello stile oscuro delle profezie. Richiamandosi alla mitologia, il Poeta definisce la luna signora dell'inferno: essa infatti veniva spesso identificata dagli antichi con Proserpina, moglie di Plutone, re dell'Ade. Il senso delle parole di Farinata è questo:  " non trascorreranno nemmeno cinquanta mesi lunari da ora fino al momento in cui dovrai rassegnarti alla tua condizione di esule " (dall'aprile 1300, anno in cui avviene l'immaginario viaggio, al giugno 1304, quando Dante si staccò dai Bianchi, insieme ai quali aveva fino allora tentato di rientrare in Firenze).
Ancora il Parodi analizza con grande finezza, in rapporto alla profezia contenuta in questa terzina, il progressivo umanizzarsi della figura di Farinata: "mentre nell'annunziare a Dante la sua prossima sventura dovrebbe provare una soddisfazione o quasi un sollievo, è costretto a riconoscere che il dolore purtroppo non risparmia nessuno, onde il colloquio viene ad assumere un tono sempre più pacato".

E voglia il cielo che tu possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è così spietato  in ogni sua legge contro quelli della mia famiglia? ”  
Gli risposi: “ La crudelissima strage  che tinse del colore del sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni  nelle nostre assemblee ”.
L'Arbia è il fiume che scorre presso Montaperti. In uno scritto dell'epoca è detto che nel giorno della battaglia, tutte le strade, e poggi e ogni rigo d'acqua pareva un grosso fiume di sangue.
Tali orazion la lar nel nostro tempio: non è da credere che nelle chiese di Firenze, come hanno sostenuto alcuni, si tenessero suppliche di deprecazione contro i discendenti di Farinata. Tutta l'espressione ha un senso traslato, che tuttavia  "aggiunge qualcosa al nudo senso letterale, trasfigurandolo: dà la rappresentazione concreta dell'avversione generale diffusa nel popolo contro gli Uberti" (Malagoli).
Dopo aver sospirato e scosso la testa, disse:  “ Non fui io solo a provocare questa strage  né certamente senza un motivo mi sarei mosso insieme agli altri esuli.
Ma fui io solo, là dove fu da tutti tollerato  che Firenze venisse rasa al suolo, colui che la difesi apertamente ”
Come tutti i dannati, anche Farinata, inappellabilmente giudicato agli occhi di Dio. cerca di addurre ragioni umane per giustificare il proprio operato di fronte a Dante (a ciò non fu' io sol... né certe sanza cagion ... ). Ma tutte queste giustìficazioni passano in seconda linea di fronte a quello che costituisce il maggior titolo di Farinata alla riconoscenza dei posteri: l'aver perorato senza infingimenti la causa della sua città allorché, nel convegno di Empoli, subito dopo la vittoria di Montaperti, tutti i Ghibeilini toscani ne decretarono la distruzione. Fu proprio per l'opposizione di Farinata che questo spietato provvedimento fu alla fine respinto. Anche uno storico guelfo come Giovanni Villani ha parole di elogio per l'atteggiamento preso in quell'occasione da Farinata. che non esita a paragonare al "buonoantico Cammillo di Roma" (VI, 81).
“Deh, possa  aver pace un giorno la vostra discendenza ” lo pregai, “scioglietemi (in nome di questo augurio) quel dubbio  che in questo cerchio ha confuso le mie idee.
Sembra  che voi prevediate , se intendo bene, quello che il tempo porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate in una condizione diversa. ”
“ Noi vediamo ”  disse  “ come colui che ha la vista difettosa, le cose che sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio.  
Quando esse si avvicinano o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non sappiamo nulla del vostro stato sulla terra.
Quale differenza tra il Farinata che pareva avere l'inferno in gran dispitto e il Farinata che adesso, consapevole della sua condizione di dannato, parla con tanta reverenza di Dio! Questa ultima parte del canto è stata generalmente giudicata impoetica dai critici, ma a torto: l'umiltà di Farinata di fronte al sommo duce è il punto d'approdo necessario di quel processo di interiore approfondimento, di meditazione sul dolore, che, lungi dal diminuirne la figura, la completa, dando un significato etico e religioso alla monumentalità un po' schematica della sua presentazione iniziale. Anche il superbo Farinata testimonia la grandezza di Dio. Il Poeta, che lo ha innalzato su un piedistallo di gloria, lo ha portato a riconoscere la vanità della sua come di tutte le glorie umane, ove non siano illuminate dai valori che trascendono l'umano metro di giudizio.
Puoi pertanto  capire come la nostra conoscenza sarà del tutto offuscata  dal momento in cui (dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si chiuderà. ”
Un sottile contrappasso è adombrato nella pena morale che si aggiunge ai tormenti che straziano gli epicurei nelle loro arche infuocate: essi, che in vita non hanno prestato fede che alle cose visibili, presenti davanti ai loro occhi, ora non possono percepire che il futuro, gli eventi che infallibilmente si preparano nella prescienza di Dio.
Allora, come punto dal rimorso per una colpa da me compiuta, parlai:  “ Ora direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro) che suo figlio  è ancora unito ai vivi;
e riferitele  che, se poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché già stavo pensando al dubbio  che mi avete chiarito ”.
Ormai Virgilio mi stava richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di pena.
Mi disse:  “ In questa parte del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei rimanenti ”.
Su Federico Il di Svevia, vissuto e morto in fama di eretico (anche Dante, che pur mostra di stimarlo, avvalla nel Convivio questa opinione), uno storico dell'epoca scrisse che era epicureo e che poneva ogni sforzo nel cercare di dimostrare, servendosi di passi della Sacra Scrittura, che l'anima è mortale.
Il Cardinale è il vescovo ghibellino di Bologna, Ottaviano degli Ubaldini, morto nel 1273.
Gli antichi commentatori sottolineano concordi la sua miscredenza. A proposito dell'anima sosteneva, riferisce il Lana , che, seppure esiste, egli l'aveva perduta per essersi fatto ghibellino.

Poi si nascose (nel sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile.
Egli s’incamminò; e poi, mentre procedevamo, mi chìese: “ Perché sei così turbato? ” E io risposi alla sua domanda.  
“La tua memoria serbi ciò che di ostile ti è stato predetto ” mi ingiunse Virgilio. “Ed ora fa attenzione a queste parole ” ed alzò l’indice:
“ quando ti troverai in presenza della  soave luce che si sprigiona da colei (Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il corso della tua vita. ”
Poi si diresse verso sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso la parte centrale del cerchio  seguendo un sentiero che terminava in un baratro
il quale faceva giungere fin lassù il suo puzzo nauseabondo.

 

Inferno – Canto XI

Sull’orlo di un alto pendio, formato da grandi macigni spaccati disposti circolarmente, giungemmo al di sopra di una folla sottoposta a più dolorosi tormenti;
e qui per lo spaventoso insopportabile  fetore che esala il basso inferno, cercammo riparo dietro il coperchio
di una grande tomba, sul quale vidi la seguente iscrizione:  “ Custodisco papa Anastasio, che Fotino allontanò  dalla giusta strada ”.
Secondo una tradizione diffusa nel  Medioevo, Anastasio II, pontefice dal 496 al 498, sarebbe incorso nell'ira di Dio per aver aderito all'eresia monofisita (secondo la quale la persona del Cristo aveva accolto in sé una sola natura, quella umana) in seguito ai suggerimenti di Fotino, diacono di Tessalonica.
“Occorre che la nostra discesa sia ritardata, in modo che prima il nostro olfatto si abitui un poco alla pestifera esalazione; dopo non dovremo più prendere, riguardo ad essa, alcuna precauzione.”
Così parlò Virgilio; e io gli dissi: “Trova un compenso (alla nostra sosta), in modo che il tempo non scorra inutilmente ”. E Virgilio: “ E’ proprio ciò a cui sto pensando ”.
La richiesta che qui Dante rivolge al maestro non si ispira al concetto che occorre in un modo qualsiasi riempire il tempo per sfuggire alla noia, ma alla  profonda concezione morale secondo la quale siamo responsabili di fronte alla nostra coscienza del tempo da noi speso male o nell'ozio. Il tempo è prezioso per colui che concepisce la vita anzitutto come dovere: perder tempo a chi più sa più spiace dirà Virgilio al discepolo durante l'ascesa del purgatorio (canto III, verso 78).
“ Figliolo, all’interno di questa riva pietrosa ” prese poi a dire “ si trovano tre cerchi piccoli, (rispetto ai precedenti), digradanti  come quelli dai quali sei uscito.
Sono tutti pieni di anime dannate; ma perché poi ti sia sufficiente soltanto vederle (senza più bisogno di spiegazioni), odi in che modo e per quale motivo si trovano in essi stipate.
Lo scopo di ogni cattiva azione, che suscita ira in cielo, è la violazione di un diritto, ed ogni scopo di questo genere (ogni ingiuria) offende qualcuno o con la violenza o con la frode.
Tre sono le fonti principali da cui Dante attinge i criteri che presiedono alla struttura morale e topografica del basso inferno: Aristotile, il diritto romano e il pensiero scolastico nella formulazione di San Tommaso. Qui in particolare i termini malizia e ingiuria sono usati in un'accezione specificamente giuridica: la " malizia " è quella disposizione al male, il cui fine, deliberatamente voluto e perseguito, è l'infrazione (iniuria: violazione di un diritto) di una legge fissata da Dio. La ingiuria può essere perseguita e per mezzo della violenza e per mezzo della frode: questa distinzione, fondamentale nel dìritto romano, si trova enunciata nel De Offlciis di Cicerone.
Ma poiché la frode è malvagità propria dell’uomo, essa spiace maggiormente a Dio; perciò i fraudolenti stanno in basso e sono sottoposti a tormenti maggiori.
La violenza è comune sia agli uomini che agli animali; non così la frode, il raggiro, l'inganno premeditato, che si fondano sulla ragione e designano colpe specificamente umane. L'uomo si addentra tanto più nel male quanto più consapevolmente e freddamente lo compie. Già Aristotile aveva indicato, nella consapevole partecipazione del raziocinio all'atto moralmente negativo, il criterio per distinguere le colpe in base alla loro gravità.
Il primo dei tre cerchi è interamente occupato dai violenti; ma poiché si compie violenza contro tre specie di persone, esso è stato costruito e suddiviso in tre zone concentriche.
Si può  usar violenza contro Dio, se stessi, il prossimo, e precisamente tanto contro loro personalmente quanto contro le cose che loro appartengono, come ti sarà spiegato attraverso un ragionamento più chiaro.
La gravità dell'azione violenta cresce in misura proporzionale all'amore che il peccatore avrebbe dovuto avere per la persona da lui offesa. L'amore per il prossimo è naturalmente meno forte di quello per se stessi; perciò suicidi e scialacquatori si trovano in un girone più basso - il secondo  - di coloro che hanno attentato all'integrità fisica e alle ricchezze altrui. Ma i più gravi peccati di violenza sono quelli compiuti contro Dio; infatti l'amore che la creatura deve al suo Creatore è più grande di quello che deve a se stessa o agli altri. Nel terzo girone, il più basso, è quindi punita la violenza che offende Dio nella sua persona (bestemmiatori).
Al prossimo si possono infliggere morte  violenta  e dolorose ferite, e ai suoi beni distruzioni, incendi ed estorsioni dannose;  
perciò il primo girone punisce, divisi in gruppi (per diverse schiere), tutti quanti gli omicidi e chiunque colpevolmente ferisce, i saccheggiatori e i ladroni.
Si può usar violenza contro se stessi  e contro i propri averi; e perciò è giusto che nel secondo girone si penta inutilmente
chiunque priva se stesso della vita, dilapida al gioco e sperpera le sue ricchezze, e (quindi) piange là dove avrebbe dovuto essere lieto.
Dell'ultimo verso di questa terzina si danno due interpretazioni, a seconda del senso che si attribuisce alla determinazione locale là; per alcuni, gli scialacquatori piangerebbero in terra dopo aver dato fondo a tutte le loro sostanze; per altri, invece - e questa sembra l'esegesi più aderente allo spirito del passo - il pianto di questi violenti sarebbe la conseguenza della loro dannazione che li ha privati nell'al di là della felicità eterna.
Si può usare violenza contro Dio, rinnegandolo in cuore e apertamente bestemmiandolo, e recando oltraggio alla sua bontà nella natura;
perciò il girone più piccolo segna del suo marchio  sia Sodoma sia Cahors, sia colui che parla disprezzando Dio nel suo animo (il bestemmiatore).
I sodomiti (violenti contro natura) e gli usurai (violenti contro l'arte, intesa, in senso lato, come lavoro, operosità) sono designati indirettamente in questa terzina attraverso i nomi delle due città che, nell'antichità e nel Medioevo, dovettero la loro celebrità a quei vizi. Nella Genesi (XIX, 24-25) è narrata la distruzione di Sodoma ad opera del fuoco celeste: i suoi abitanti si erano macchiati infatti del peccato contro natura. La città francese di Cahors godeva fama, ai tempi di Dante, di essere un covo di usurai.
Significativa in proposito è la seguente frase del Boccaccio: "Come l'uomo dice  dì alcuno - egli è Caorsino - come s'intende ch'egli sia usuraio".

La frode, che offende ogni coscienza, può essere usata tanto contro colui che si fida quanto contro colui che non ha  fiducia.
Questo secondo tipo di frode sembra distruggere soltanto il vincolo  d’amore creato (tra gli uomini) dalla natura; perciò nel secondo cerchio (della città di Dite, ottavo di tutto l’inferno) sono raccolti
i peccati di ipocrisia, adulazione e magia, falsificazione, latrocinio e simonia, seduzione, baratteria e colpe ugualmente immonde.
L’altro tipo di frode fa dimenticare sia il vincolo dell’amore naturale, sia quello chead esso si aggiunge in seguito, dal quale nasce  la fiducia  specifica;
perciò,nel cerchio più piccolo, dove si trova il punto dell’universo occupato da Lucifero (Dite), chiunque tradisce è dilaniato  da tormenti eterni. ”
Anche la gravità della frode è in rapporto alla persona che essa colpisce Meno grave appare quindi l'inganno esercitato contro chi non ha particolari motivi per fidarsi, più grave quello che si configura come tradimento. Il vincolo che dovrebbe legare tutti gli uomini tra loro è l'amore naturale, poiché, come Dante scrive nel Convivio (I, I, 8), Per natura "ciascun uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico". Ma al vincolo comune dell'amore naturale si aggiungono vincoli più specifici, come la parentela, la patria, l'ospitalità, il beneficio ricevuto, l'amicizia. I fraudolenti contro chi non si fida infrangono il solo vincolo dell'amore naturale, quelli contro chi si fida (i traditori) distruggono anche i vincoli umani che ad esso si aggiungono e dovrebbero consolidarlo.
Nell'inferno di Dante i traditori, imprigionati nel ghiaccio dello stagno Cocito, occupano l'ultìmo dei nove cerchi.

Ed io:  “ Maestro, il tuo ragionamento si svolge con grande chiarezza, e descrive assai bene questo abisso e le genti in esso contenute.  
Ma spiegami: quelli della palude melmosa, quelli travolti dal vento, e quelli che la pioggia percuote, e quegli altri che, incontrandosi, così aspramente si insultano,
perché non sono puniti dentro la città arroventata, se Dio li ha in odio? e se non li ha, perché si trovano in tali condizioni  ? ”
Tra i peccatori elencati da Virgilio non hanno trovato posto gli iracondi (quei della palude pingue), i lussuriosi (che mena il vento), i golosi (che batte la pioggia), gli avari e prodighi (che s'incontran con sì aspre lingue). Da ciò Dante, nella falsa opinione che tutti i peccati siano riconducibili alla malizia, è tratto ad argomentare: se essi sono peccatori, dovrebbero trovarsi dentro la cinta di mura che delimita il basso inferno; se invece non lo sono, perché sono in quel modo puniti?
Il Poeta, che vuole rappresentare tutta l'umanità, sembra prevedere i dubbi, le domande del lettore, anche se talvolta, come in questo caso, la sua preoccupazione di offrire una risposta conferisce un tono eccessivamente didascalico alla poesia.

E Virgilio:  “ Perché la tua mente esce  tanto dal solco che è solita seguire? o in quale altra direzione è volto il tuo pensiero?
Il Boccaccio sottolinea che  "delirare" significa "uscire dal solco": è l'affettuoso rimprovero della ragione a Dante, il quale sembra dimenticare in questo momento quei principi filosofici che Virgilio subito gli richiamerà alla memoria.
Non ti ricordi delle parole con le quali I’Etica, libro a te familiare, tratta a fondo le tre inclinazioni  che Dio disapprova,
l’incontinenza, la malizia e la sfrenata bestialità? e di come l’incontinenza offenda meno Dio, e attiri su di sé una condanna minore?
Se tu riesamini attentamente questa affermazione, e ricordi  chi sono coloro che vengono puniti  nella parte alta dell’inferno, fuori della città di Dite,
Il pensiero di Aristotile era molto studiato nel Medioevo. Si riteneva che il grande filosofo greco avesse trovato le risposte più persuasive ed esaurienti a tutti i problemi che l'uomo può risolvere servendosi della sola ragione.
Nell'Etica Nicomachea Aristotile classifica il male in base alla maggiore o minore partecipazione della volontà cosciente al suo compimento. Virgilio, richiamando alla memoria del discepolo il capitolo primo del libro VII, intende sottolineare la razionalità del criterio secondo cui sono distribuite le pene infernali. Dio ci giudica, infatti, tenendo conto di quel lume naturale che è in ciascuno di noi e che ci mette in grado di distinguere con chiarezza il bene dal male e di agire conseguentemente.

comprenderai perché si trovino separati da questi malvagi, e perché la giustizia di Dio li colpisca  meno adirata ”.
Virgilio ricorda al suo discepolo che nell'Etica Nicomachea di Aristotile gli atti peccaminosi non sono tutti riconducibili alla malizia: il filosofo greco aveva infatti considerato non una, ma tre disposizioni moralmente negative, l'incontinenza, la malizia e la bestialità. Ora, nei cerchi superiori dell'inferno sono puniti i peccati d'incontinenza. Questa rappresenta una disposizione al male in quanto l'incontinente è portato a ricercare al di là del lecito cose che, di per se stesse, entro i limiti loro assegnati nell'economia della creazione, sono un bene. Il peccato d'incontinenza è quindi un peccato di dismisura. Per questo esso si distingue radicalmente da quello di malizia, deliberatamente volto al male, ed è punito al di fuori della città di Dite. Poiché in questa sono presenti solo i peccati dovuti a malizia (divisi a loro volta, come è stato chiarito da Virgilio nella prima parte del canto, in violenza e frode), i commentatori si sono chiesti in quale parte dell'inferno sia punita la matta bestialitade. Alcuni hanno voluto identificarla nella violenza dei settimo cerchio, altri nell'eresia del sesto. Ma, come ha dimostrato il Nardi, l'Etica di Aristotile è menzionata da Virgilio a questo punto non tanto al fine di convalidare con l'autorità del maestro di color che sanno l'intero ordinamento dell'inferno, quanto per dimostrare soltanto che l'incontinenza non può essere accomunata alla malizia, essendo peccato assai meno grave.
Nella partizione del peccati Dante ha fatto uso di due delle categorie stabilite da Aristotile, tralasciando la terza (la bestialità).  

“O luce che come sole liberi la vista (dell’intelletto) da ogni offuscamento, mi riempi di tanta gioia quando sciogli i miei dubbi, che il dubitare non mi è meno gradito del sapere.
Le parole di Dante, che a prima vista possono apparire improntate a una certa retorica, esprimono invece la gioia profonda dell'uomo che comprende, con il suo intelletto, la razionalità del creato e che ha la sicurezza che ogni altro dubbio potrà essere sciolto.
Torna  ancora un po’ indietro ” dissi, “ nel punto in cui dici che l’usura oltraggia la bontà di Dio, e chiarisci questa difficoltà. ”
“A colui che sa capirla ” disse “ la filosofia dimostra e non in un solo punto, come la natura prende origine
dalla mente e dall’opera  di Dio; e se tu leggi attentamente la Fisica (di Aristotile), a te ben familiare, troverai, dopo non molte pagine,
che l’operato umano imita, per quanto può, la natura, come l’alunno  imita il maestro; tanto che il vostro operare è quasi nipote di Dio.
Il pensiero medievale sosteneva, d'accordo in ciò con la speculazione degli antichi, che i prodotti del lavoro umano (arte) avevano il loro fondamento nei prodotti della mente divina, nelle opere cioè della creazione (natura). L'uomo doveva quindi tendere, al fine di conferire valore sempre più alto alle proprie opere, ad imitare la natura, concepita appunto come il veicolo del Verbo divino, il suo ricettacolo in terra. Essendo quindi l'arte una riproduzione della natura, ed essendo quest'ultima opera diretta di Dio, anche l'arte, l'umana operosità, ha in Dio la sua origine e la sua legittimazione; perciò se metaforicamente la natura può essere chiamata figlia di Dio, l'arte può apparirne come la nepote. Con questa spiegazione Virgilio intende chiarire al suo discepolo la sostanziale affinità che lega il peccato contro la natura a quello contro l'arte: entrambi infatti, attraverso la natura e l'arte, offendono, per analoghe ragioni, Dio.
Se tu richiami alla tua memoria  l’inizio del libro della Genesi, vedrai che è dalla natura e dall’arte  che gli uomini devono trarre i mezzi per vivere  e migliorare le proprie condizioni;
e poiché l’usuraio segue un altro cammino, offende la natura in se stessa e nella sua imitatrice, affidando ad altro la sua speranza.
Ma è tempo ormai che tu mi venga dietro, poiché ritengo che dobbiamo incamminarci; la costellazione dei Pesci (che precede di tre ore l’apparizione dell’alba), infatti, sale scintillando sopra l’orizzonte e quella dell’Orsa Maggiore si trova esattamente nella direzione del vento Cauro,
e si discende  il dirupo assai più in là.”
Alla fine di questo canto dottrinale la poesia torna ad affermarsi in una precisazione cronologica (in terra sta per spuntare il sole; un nuovo giorno comincerà tra poco; è tempo di riprendere il cammino) che fa balenare per un attimo, sulla desolazione dello scenario infernale, la solenne maestà del cielo stellato.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/vasciarellipc/sezione_scuola.htm

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Canti inferno divina commedia analisi e sintesi tipo file : doc

 

 

 

Letteratura italiana e straniera biografie giornalismo argomenti in ordine alfabetico

 

Nel nostro portale puoi trovare appunti, riassunti brevi , parafrasi, ricerche scolastiche, tesine, testi decisamente utili per studenti delle scuole medie , scuole superiori e università.

 

Appunti, riassunti brevi , ricerche scolastiche, tesine, analisi testi decisamente utili per studenti delle scuole medie , scuole superiori e università.

 

 

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Canti inferno divina commedia analisi e sintesi

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

 

Canti inferno divina commedia analisi e sintesi