Canti purgatorio parafrasi divina commedia

 

 

 

Canti purgatorio parafrasi divina commedia

 

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Canti purgatorio parafrasi divina commedia

 

Parafrasi canto purgatorio

 

Purgatorio – Canto I

La navicella dei mio ingegno, che lascia dietro di sé un mare così tempestoso (l'inferno), si prepara a una materia più serena (il purgatorio);

e canterò del secondo regno (dell'oltretomba) nel quale l'anima umana si purifica e diviene degna di salire al cielo.

Ma qui la poesia, che ha avuto finora per argomento la morte spirituale (dei dannati), riviva (trattando della vita spirituale di coloro che raggiungeranno la beatitudine), o sante Muse, poiché a voi ho consacrato la mia vita; e a questo punto si levi più alta la voce di Calliope (la maggiore delle nove Muse, rìtenuta dagli antichi l'ispiratrice della poesia epica; il nome, etimologicamente, significa « dalla bella voce »),

accompagnando il mio canto con quella melodia della quale le sciagurate figlie di Pierio, poi trasformate in gazze, avvertirono la superiorità a tal punto che disperarono di sottrarsi alla punizione che le attendeva.

Narra Ovidio (Metamorfosi V, versi 300 sgg.) che, avendo le figlie del re Pierio osato sfidare le Muse nel canto, furono sconfitte da Calliope e trasformate in piche. Anche nel Purgatorio Dante fa grande uso dei miti dell'antichità classica. Osserva il D'Ovidio: "nel simbolismo, che permetteva di veder sotto a quei fantasmi una verità leggiadramente velata, egli acquetava la sua coscienza di cristiano; e accarezzava con il immaginazione compiacente le belle favole, alle quali come poeta e come studioso dell'antichità teneva assai".
Nell'esordio del Purgatorio il Raimondi nota che il discorso del Poeta corre su un pìano retorico e su uno morale. " Il mar crudele che ci lasciamo dietro, non è soltanto il mare delle rime aspre e chiocce, il pelago della poesia di cui si parlerà più tardi nel Paradiso; ma è insieme l'acqua perigliosa che s'era intravista attraverso una comparazione nel primo canto dell'Inferno: ossia, come spiega il Convivio, il « mare di questa vita» che ogni cristiano ha da percorrere per giungere al suo «porto ». Ed è poi ancora lo stesso mare a cui pensa il lettore della Bibbia, ogni volta che ricorda la vicenda degli Ebrei fuggiti dall'Egitto: un mare-simbolo, che si converte in certezza di acque migliori, perché prefigura, come mistero della fede, l'idea del battesimo e, a un tempo, quella della vittoria di Cristo sulla morte."
Per quel che riguarda la tonalità di questo proemio, in esso si preannunciano quell'euritmia e quella delicatezza di sfumature che saranno caratteristici del canto. "La stessa proposizione ha un accento riposato e fidente, piuttosto che squillante: né inganni la lieve impennata, piuttosto verbale ed apparente che reale, dell'«alzar le vele», giacché essa sta come espressione asseverativa e non ortativa o iussiva... Non dice: tu, o ingegno, alza le vele, ma semplicemente: la navicella del mio ingegno alza le vele per correre ora acque più pacate e tranquille, quella navicella che lascia dietro di sé il mare crudele dell'inferno. Era mare, ed ora son solo acque; era vasto pelago, ed ora è navigazione per acque più chiuse e quiete." (Sansone)


Un tenero colore di zaffiro orientale (la più pura e splendente fra le varie qualità di zaffiri, secondo quanto attestano i Lapidari medievali), contenuto nella limpida atmosfera, pura fino al cerchio dell'orizzonte,

procurò nuovamente gioia ai miei occhi, appena uscii dall'aria infernale, che aveva rattristato la mia vista e il mio animo.

Per un poeta romantico come il Coleridge il cielo assumeva l'aspetto delI' "interno di un bacino di zaffiro". Dante è assai più preciso nel determinare le sue sensazioni; le sue metafore, pur radicate in un fondo analogico, non sono mai considerate in se stesse, in quanto pure intuizioni, attimi di felice contatto con una realtà più ricca dì quella che il linguaggio comune ci offre, ma si ordinano in una gerarchia razionale di significati. L'immagine del Coleridge può servire "a mostrare per contrasto come in Dante la gioia della scoperta sensitiva sia subito controllata dall'intelligenza: nella terzina, a parte il contrappunto allusivo-simbolico dello sfondo, interviene infatti, quasi a frenare ogni suggestione pittorica, il gusto didascalico della descriptio temporis con i tecnicismi di aspetto del mezzo e primo giro in corrispondenza di aggettivi affettivi come sereno e puro (Raimondi).

Venere, il bel pianeta che predispone all'amore, faceva gioire tutta la parte orientale del cielo, attenuando con la sua luce quella della costellazione dei Pesci, con la quale si trovava in congiunzione.

L'accenno al pianeta Venere, attraverso qualificazioni (bel... rider) che si riferiscono direttamente alla dea della bellezza e dell'amore, ha un significato allegorico, per cui l'amore paganamente celebrato dai poeti dell'antichità classica viene interpretato come una semplice, imperfetta prefigurazione dell'unico amore degno di questo nome: la carità cristiana. Nel Convivio (Il, V, 13) è detto: "...ragionevole è credere che li movitori... [del cielo] di Venere siano li Troni; li quali ... fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno di amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro disposizione".

Mi volsi a destra, e diressi la mia attenzione al polo australe, e vidi quattro stelle che soltanto i primi uomini (Adamo ed Eva) videro.

Il cielo sembrava gioire delle loro luci intensissime: o luogo settentrionale spoglio, dal momento che ti è preclusa la possibilità di vederle!

Le quattro stelle splendenti nel cielo australe e che solo Adamo ed Eva, prima della loro cacciata dal paradiso terrestre (situato, per Dante, sulla sommità del monte del purgatorio) poterono vedere, simboleggiano le quattro virtù cardinali. Questo simbolo deve essere interpretato - secondo quanto scrive, sulla base di alcune osservazioni del Singleton, il Raimondi - nel senso che Dante rimpiange (oh settentrional vedovo sito) "una perdita irrimediabile, iscritta per sempre nella storia dell'uomo, per cui nessuno potrà mai far ritorno al paradiso terrestre con la stessa innocenza e la giustizia onde Dio aveva fatto dono nella persona di Adamo alla natura umana". Questo rimpianto "si colora di tristezza... e reca in sé, al fondo, la mestizia della condizione umana, della nostra umanità postedenica, necessariamente affaticata e corrotta, fuori per sempre della dolcissima felicità dell'innocenza.
Ed è perciò che il simbolo... trapassa in accenti umani che hanno la vibrazione della poesia" (Sansone).


Appena mi fui distolto dal guardarle, volgendomi un poco verso il polo boreale. nel quale l'Orsa Maggiore non era più visibile,

vidi vicino a me, solo, un vecchio, degno nell'aspetto di una riverenza tale, che nessun figlio è tenuto ad una riverenza maggiore verso suo padre.

Portava la barba lunga e brizzolata, simile ai suoi capelli, dei quali due ciocche scendevano sul petto.

A tal punto i raggi delle quattro stelle sante ornavano di luce il suo volto, che io lo vedevo (illuminato) come se davanti a lui ci fosse il sole.

Il veglio, sul cui volto convergono, quasi isolandolo "in una sacra oasi di luce". (Momigliano) i raggi delle quattro stelle che adornano e rendono santo il cielo australe, è Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a. C.), strenuo difensore della libertà e delle istituzioni repubblicane in un periodo in cui, attraverso lotte sanguinose, maturavano in Roma quelle nuove forme di governo, imposte con la forza e basate sull'accentramento di tutti i poteri nelle mani di un singolo, che avrebbero condotto, con Augusto, all'impero. Si oppose in gioventù alla dittatura di Silla, poi, insieme con Cicerone, al tentativo eversore di Catilina; denunciò i pericoli insiti in una forma di governo, quale il primo triumvirato, tendente a sovrapporsi alle magistrature della repubblica. Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo fu seguace di questo ultimo. Dopo la morte di Pompeo comandò un esercito di anticesariani in Africa. Sconfitto ad Utica, si diede la morte per non cadere prigioniero di Cesare e per non sopravvivere al crollo della libertà repubblicana.
Dopo avere, nel Convivio (IV, XXVIII, 15-19) e nella Monarchia (II, V, 15), manifestato la sua ammirazione per Catone, Dante pone questo pagano, suicida ed avversario dell'idea imperiale, quale custode del purgatorio, tra le anime alle quali è assicurata la beatitudine. Osserva l'Auerbach che questo avviene perché la "storia dì Catone è isolata dal suo contesto politico-terreno... ed è diventata figura futurorum [simbolo di cose future]. Catone è una « figura », o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità dì quell'avvenimento figurale. Infattì la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto umbra futurorum: una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire". Nel personaggio di Catone - scrive il De Sanctis - "vi è il savio antico, e qualche altra cosa ancora; il savio cristianizzato, sulla cui fronte il poeta ha versato l'acqua battesimale della nuova religione... Vi è dunque in quell'aspetto iI savio antico, ma qualche altra cosa ancora; vi è il paradiso, la grazia illuminante, le quattro mistiche stelle dei purgatorio, che comunicano splendore e vita alla calma de' suoi lineamenti, e lo fanno parere un sole". 
Già in Lucano, la fonte alla quale Dante ha maggiormente attinto per delineare i tratti fisici e morali del personaggio di Catone, la figura di questo seguace della dottrina stoica appare permeata di un sentire religioso in cui sono come presagiti alcuni dei più sublimi temi del messaggio cristiano. Nel momento in cui decide di prendere parte alla guerra civile, l'eroe di Lucano (Farsaglia II, versi 306-313) esclama: "E così piacesse agli dei del cielo e dell'inferno che sul mio capo si potesser raccogliere tutte le espiazioni. E, nuovo Decio, cadessi trafitto da ambe le schiere, ed io trapassato da tutte le aste stessi in mezzo a ricevere le ferite di tutta la guerra; e questo sangue redimesse i popoli, e questa morte redimesse tutte le corruttele romane" (traduzione del D'Ovidio). E quando il suo luogotenente Labieno lo esorta ad interrogare l'oracolo di Giove Ammone, Catone risponde che Dio non ha scelto le sterìli sabbie del deserto africano "per ricantare il vero a pochi, né lo ha sommerso in questa polvere. C'è forse una sede di Dio, fuorché la terra e il mare e l'aria e il cielo e la virtù ?... Giove è tutto quanto tu vedi, dovunque ti muovi".


«Chi siete voi, che seguendo una direzione opposta a quella del fiume sotterraneo (il ruscelletto di cui al verso 130 dei canto XXXIV dell'Inferno) siete evasi dal carcere eterno (l'inferno)?» disse, muovendo la sua veneranda barba.

« Chi vì ha fatto da guida ? o che cosa vi ha rischiarato il cammino, mentre uscivate dalle tenebre profonde che rendono sempre nera la voragine infernale?

A tal punto sono violate le leggi dell'inferno ? o in cielo é stato fatto un nuovo decreto, per cui, pur essendo dannati, giungete alla montagna da me custodita ? »

Nelle domande che Catone rivolge ai due pellegrini è stata indicata una espressione di sdegno (Scartazzini), di sbigottimento (Grabher), di stupore (Fassò). Il Mattalia scorge in Catone i "trattí psicologici del duro legalitatario, del sospettoso (non vogliamo proprio dir burocratico) custode del Regolamento". Simili caratterizzazioni tuttavia, per eccesso di realismo psicologico, non rendono conto della maestà della figura di Catone, dell'aura di miracolo che la circonda, del sovrannaturale che in essa si incarna. Rileva opportunamente il Sansone che "al fondo del suo domandare c'è il presentimento di qualcosa di provvidenziale che regga il viaggio dei due pellegrini", mentre il Raimondi, analizzando i versi 40-48, osserva: "Sono tutte domande le sue, come di persona sorpresa che voglia sapere e incalzi I'interlocutore; ma la didascalia delle piume oneste, che interrompe il discorso diretto quasi per indicare il tono della scena con un lontano riferimento, forse, alle lanose gote di Caronte, e più ancora le formule numinose e le antitesi gravi che affollano la sua apostrofe (da lucerna a profonda notte, da valle inferna a leggi d'abisso, da novo consiglio a dannati, venite alle mie grotte) rivelano che, interrogando Virgilio, Catone non mira a informarsi, quanto a provocare in chi gli sta davanti una presa di posizione che deve poi valere, in fondo, come una specie di abiura, di decisa rinunzia".

Virgilio allora mi afferrò,e mi fece inginocchiare e abbassare gli occhi in segno di riverenza, incitandomi a ciò con parole e con l'atto delle sue mani e con segni.

Poi gli rispose: « Non sono arrivato di mia iniziativa: scese dal cielo una donna (Beatrice), grazie alle cui preghiere soccorsi costui con la mia compagnia.

Ma poiché è tuo desiderio che la nostra condizione, quale essa è veramente, ti venga maggiormente chiarita, non può essere mio desiderio che questo (chiarimento) ti sia negato.

Costui non vide mai la morte (Sia quella corporale che quella spirituale; non morì cioè e non è dannato); ma a causa dei suoi peccati fu così vicino alla morte spirituale, che pochissimo tempo sarebbe dovuto trascorrere (perché egli la vedesse).

Come ti ho detto, fui inviato da lui per salvarlo; e non era possibile percorrere altra vìa che questa per la quale mi sono incamminato.

Gli ho mostrato tutti i dannati; ed ora intendo mostrargli quelle anime che si purificano sotto la tua giurisdizione.

Lungo sarebbe riferirti come l'ho portato fin qui: dal cielo scende una forza che mi aiuta a guidarlo per vederti e per ascoltarti.

Voglia tu dunque considerare benevolmente il suo arrivo: egli va in cerca della libertà, che è tanto preziosa, come sa colui che per essa rifiuta di vivere.

Tu lo sai, poiché in suo nome (per lei: la libertà) non fu per te dolorosa la morte a Utica, dove lasciasti il tuo corpo che il giorno della risurrezione dei morti risplenderà (con l'anima) di tanta gloria.


Nota finemente il Momigliano che nella terzina 73 "il discorso di Virgilio si accende e si fa, per un momento, inno: e l'inno si corona con la fiammeggiante immagine dì Catone splendente di gloria nel giorno della resurrezione, quando le anime riprendono il loro corpo (la vesta) : bastano a quest'apoteosi due parole: al gran dì, sì chiara".

Le leggi di Dio non sono state violate da noi; poiché costui è vivo, ed io non sono un dannato, assegnato a Minosse (e Minòs me non lega. la giurisdizione di Minosse inizia con il secondo cerchio dell'inferno; cfr. Inferno V, 4-15); ma provengo dal limbo, dove sono gli occhi pudichi

della tua Marzia, che nel sembiante ancora ti prega, o animo venerabile, che tu la consideri tua: per l'amore che ella ti porta accondiscendi dunque alla nostra richiesta.

Marzia, moglie di Catone e poi di Quinto Ortensio, dopo la morte di questi si rimaritò con Catone. Nel Convivio (IV, XXVIII, 13-19) Dante interpreta allegoricamente il ritorno di Marzia al suo primo marito, scorgendo in esso adombrato il ritorno dell'anima a Dio nel periodo della vecchiaia. Improntate a profondo affetto sono le parole che Dante fa rivolgere da Marzia al suo primo marito: "« Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio »; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: « Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua ». E dice Marzia: « Due ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti »".

Lasciaci andare per i sette gironi del tuo dominio (il purgatorio): riferirò a lei, nei tuoi riguardi, cose gradite, se hai piacere di essere nominato laggiù».

Come quello di Catone, anche l'atteggiamento di Virgilio in questo episodio è stato generalmente interpretato su un piano angustamente psicologico, senza tener conto della dimensione allegorico-figurale che in esso si esprime. Il D'Ovidio è giunto addirittura a vedere in esso, con alquanto discutibile gusto, quello di "una buona istitutrice, che guida per mano alla signora incollerita la figlioletta colpevole e penitente". E' più che naturale che, considerando l'episodio da un tale punto di vista, sia sfuggito al critico il carattere religioso e rituale che il colloquio tra Catone e Virgilio riveste. Nel turbamento di Virgilio - osserva il Bigi - "Dante ha voluto significare l'atteggiamento della scienza o ragione umana di fronte alla sopraggiunta consapevolezza della nuova condizione di libertà: un atteggiamento complesso, in cui la sicurezza di possedere l'autorizzazione teologica per poter affrontare l'alto compito che attende l'anima penitente, non esclude il tentativo di ricorrere anche ai nobili ma qui inadeguati mezzi umani della parola ornata e affettuosa. Questo significato di Virgilio (su cui poco o nulla dicono i commentatori moderni) non sfugge ai commentatori antichi: e il Buti, a proposito dell'accenno di Virgilio a Marzia, osserva: "Si può notare che in questo finga l'autore che Virgilio parli a questo modo, per dare ad intendere che la ragione umana non apprende de le cose dell'altra vita se non come pratica in questa de le cose mondane ".

« Marzia mi fu tanto cara (piacque tanto alli occhi miei) mentre fui in vita » disse Catone allora, « che le concessi tutte le cose a lei gradite e da lei desiderate.

Ora che ella risiede al di là dell'Acheronte, non può più influire sul mio volere, in virtù di quella legge (che separa in modo netto gli spiriti dannati da quelli salvati) la quale fu stabilita quando uscii fuori dal limbo (insieme ai patriarchi dell'Antico Testamento; cfr., Inferno IV, versi 53-63).

Ma se una beata ti incita ad andare e ti guida, come tu dici, non occorre che tu mi lusinghi: ti sia sufficiente rivolgermi la tua richiesta in nome suo.

Dunque vai, e fa in modo di cingere costui di un giunco liscio e di lavargli il volto, in modo da cancellare da esso ogni sudiciume;

poiché sarebbe disdicevole, con l'occhio offuscato da qualcosa di torbido, presentarsi davanti al primo esecutore dei decreti di Dio, che è un angelo (di quei di paradiso; si tratta dell'angelo posto a custodia della porta del purgatorio; cfr. Purgatorio canto IX, versi 78 sgg.).

Questa piccola isola, nella sua parte più bassa, sulla spiaggia percossa dalle onde, è coperta tutt'intorno sull'umida sabbia da giunchi:

nessun'altra pianta, di quelle che portano rami con foglie o diventano rigide, può vivervi, poiché non asseconda (flettendosi) i colpi (delle onde).

Il vostro ritorno non avvenga poi da questa parte; il sole, che sta per sorgere, vi indicherà da che parte affrontare più agevolmente la salita del monte. »

Gran parte dei critici hanno veduto in Catone soltanto il guardiano rigoroso ed ìnflessibile, accentuandone indebitamente la severità e la rudezza. Valga per tutti il giudizio del Croce, per il quale Catone è "la figura in cui il Poeta attua uno dei lati del suo ideale etico: la rigida rettitudine, l'adempimento dell'alto dovere, che par che non possa adempiersi, né operare sugli altri affinché a lor volta lo adempiano, senza rivestirsi di una certa asprezza, senza l'abito ritroso e alquanto diffidente di chi vigila sempre su se stesso e sugli altri". Questa interpretazione « laica » del personaggio di Catone non tiene conto del progressivo interiorizzarsi e spiritualizzarsi della sua figura in questo secondo discorso che rivolge ai due pellegrini. Nota il Sansone che nella figura del veglia "la severità e rigidità del filosofo stoico appare attenuata di affettuosità e umana temperanza" e che, per quel che riguarda in particolare la terzina 97, Catone lascia trasparite nelle sue parole "una distanza dalle pure essenze divine, che, quasi Io agguaglia ai suoi due ascoltatori, e che distende ogni tensione e insieme riapre l'atmosfera dell'attesa e del prodigio.
Gli angeli sono quei di paradiso, creature di così alto privilegio che Catone non osa indicarle se non con una perifrasi". Poi, a poco a poco, il suo dire perde ogni residua asprezza: "l'accento è queto e quasi intimo, e la semplicità degli annunzi ribadisce la consuetudine del soprannaturale, nei modi che qui assume la condizione lirica del meraviglioso, cioè non nel rilievo, ma in una sua naturale misura".


Ciò detto si dileguò; ed io mi levai in piedi senza parlare, e mi accostai con tutto il corpo a Virgilio, e rivolsi a lui lo sguardo.

Egli cominciò a parlare: « Segui i miei passi: volgiamoci indietro, poiché da questa parte la pianura scende verso il suo orlo basso (la spiaggia) ».

L'alba trionfava dell'ultima ora della notte (l'ora mattutina è l'ultima delle ore canoniche della notte), la quale le fuggiva dinanzi, in modo che da lontano distinsi il tremolio della luce sul mare.

Più che nelle due altre cantiche, in cui riflette una condizione remota - nell'orrore delle tenebre o nel tripudio di una luce che non tramonta - da quella terrestre, e partecipa, fuori del tempo, di una certa astrazione, il paesaggio del purgatorio appare intimo, vibrante di umana trepidazione, penetrato di spiritualità. Le vicende della luce e del buio, che accompagneranno i due pellegrini nell'ascesa della montagna dell'espiazione, ne interpreteranno gli stati d'animo, ad essi docilmente accordandosi. Qui in particolare il "cielo notturno e sereno che via via si stenebra, è un maestoso e pensoso preludio dell'ascesa purificatrice a cui Dante si prepara" (Momigliano). Nella terzina 115 il gusto prezioso delle personificazioni - per cui l'apparire della luce si configura come una gioiosa vittoria di quest'ultima sulle tenebre debellate e messe in fuga - si risolve sul piano di una impressione direttamente ed intensamente rivissuta dalla memoria: il mare si annuncia di lontano attraverso la mobilità della luce che in esso si specchia. Nel tremolar della marina è la traduzione visiva della fiduciosa trepidazione dei due viandanti, il partecipe, beneaugurante consenso del creato alla speranza che li anima.

Noi avanzavamo nella pianura solitaria come colui che torna alla strada che ha smarrito, il quale ritiene che il suo cammino sia inutile finché non l'abbia ritrovata.

Quando fummo là dove la rugiada resiste, opponendosi, al sole e, per il fatto di essere in una zona dove spira un venticello, evapora poco,

Virgilio posò delicatamente entrambe le mani aperte sulla tenera erba: per cui io, che compresi lo scopo del suo gesto,

gli porsi le guance bagnate di lagrime: su di esse egli fece riapparire interamente quel colore (il mio colorito naturale) che l'inferno aveva occultato (con la sua caligine).

Il combattimento della rugiada col sole ripropone, sul piano di una maggior discrezione, quello trionfale e squillante dell'alba che mette in fuga le tenebre. Qui il calore tarda ad essere vittorioso; la rugiada mantiene intatta la sua freschezza, la sua forza purificatrice, perché Dante possa, con l'aiuto del maestro, detergersi degli orrori della notte trascorsa fra i dannati.

Giungemmo quindi sulla spiaggia deserta, che mai vide solcate le sue acque da qualcuno che sia poi riuscito a tornare indietro (Ulisse infatti, giunto in vista della montagna del purgatorio, naufragò).

Qui mi cinse come Catone aveva voluto: o meraviglia! infatti l'umile giunco ricrebbe tale quale egli l'aveva scelto (cioè schietto, liscio)

immediatamente, nel punto in cui l'aveva strappato.

Il giunco pieghevole e puro simboleggia l'umiltà; il suo istantaneo rinascere la fecondità di questa disposizione dell'animo, per cui un atto d'umiltà non si esaurisce in se stesso, ma dà origine ad altri atti d'umiltà.
Il sovrannaturale, ovunque presente nel canto, e al quale hanno alluso allegorie, simboli, riti, trova, nel miracolo dei giunco che ricresce, la sua conferma esplicita ed inequivocabile.

 

Purgatorio – Canto II

Il sole aveva già toccato l'orizzonte il cui cerchio meridiano sovrasta col suo punto più alto (lo zenit) Gerusalemme;

e la notte, che ruota intorno alla terra agli antipodi del sole, sorgeva dal Gange, nella costellazione della Libra (con le Bilance: durante l'equinozio di primavera, quando il sole è nella costellazione dell'Ariete), che le cade di mano quando (dopo l'equinozio d'autunno: il sole entra allora nella Libra) supera la durata del giorno (entrando nella costellazione dello Scorpione);

in modo che nel purgatorio le gote, prima bianche, poi rosse, della leggiadra Aurora col passare del tempo divenivano gialle.

I due poeti sono emersi sul lido del purgatorio poco prima dell'alba. La prima luce è apparsa loro mentre si avviavano in silenzio verso la spiaggia bagnata dall'onda per compiere i riti prescritti dal veglio: un rito lustrale, inteso a cancellare il passato, il peso del male e dell'errore, e un rito orientato verso il futuro, una promessa di umiltà gioiosa e riconoscente. La descrizione dell'alba (canto I, versi 115-117), animata da una stilizzata contrapposizione della luce alle tenebre, si era risolta in una notazione soggettiva (conobbi), in un grido trionfale, in una panica professione di fede nella bellezza del creato. Il canto Il inizia con una precisazione rigorosa, fondata sulla scienza astronomica, dell'ora nella quale ha inizio, dopo i due riti di purificazione, il cammino dei due pellegrini. Il sole è apparso all'orizzonte del purgatorio, situato agli antipodi dì Gerusalemme. Come nei versi 112-115 del canto XXXIV dell'Inferno, è messa anche qui in rilievo l'esatta opposizione, agli estremi di un segmento che passa per il centro della terra, della montagna sulla cui cima l'uomo visse innocente e peccò, e della città in cui Cristo versò il suo sangue per redimere il genere umano dal peccato. La prima terzina del canto non contiene dunque, come molti critici ritengono, una semplice precisazione erudita, priva di risonanze che oltrepassino il senso letterale, poiché l'astronomia - come del resto ogni branca del sapere - non si può mai considerare in Dante nella sua opaca empiricità, essendo permeata, nella sua stessa geometrica esattezza, di ragioni morali, di significati che trovano nella sfera del divino la loro determinazione ultima.
Nella seconda terzina viene ulteriormente indicata l'ora della gran secca (cfr. Inferno, canto XXXIV, verso 113) che occupa l'emisfero boreale, il quale ha come punti estremi le sorgenti dell'Ebro e la foce del Gange, distanti fra di loro 180 gradi: tramontando, nel momento in cui sorge all'orizzonte del purgatorio, il sole a Gerusalemme, 90 gradi ad oriente di Gerusalemme là dove il Gange sfocia nell'Oceano Indiano, è mezzanotte. Dovendo infatti il sole percorrere l'intera rotazione intorno alla terra (360 gradi, una circonferenza completa) in 24 ore, l'arco di circonferenza di 90 gradi sarà percorso in 6 ore (per cui alla mezzanotte alle foci del Gange corrisponderanno le sei di sera a Gerusalemme) e quello di 180 gradi in un tempo doppio (per cui alle 1 6 pomeridiane di Gerusalemme corrisponderanno lé 6 antimeridiane del purgatorio). Questa seconda terzina è stata giudicata da taluno (Pistelli) superflua, ma a questa osservazione si deve obiettare che ciò che ad una lettura immediata può apparire puro sfoggio di crudizione, evoca, nella poesia di questo passo, il senso dell'ordinato svolgersi delle vicende del cosmo, per cui ad ogni apparizione di astri in un emisfero della volta celeste risponde un'apparizione contraria agli antipodi, in un quadro smisurato in rapporto alle nostre capacità di giudicare e intendere, ma che trova la sua esatta misura nella mente ordinatrice di Dio. Per quello che riguarda i particolari di questa terzina, è arduo non cogliere la sicura energia che si sprigiona da un'espressione pregnante come che opposita a lui cerchia, la quale ha la funzione di conferire, attraverso una determinazione razionale, un più intenso rilievo al miracolo della notte personificata (regge in mano le bilance) che emerge, ai limiti del mondo, dalle acque del mitico Gange.

Neppure la terzina che trae le conseguenze (sì che ... ) dalle premesse poste nelle due precedenti, ha generalmente incontrato il favore dei critici. Il trasformarsi delle guance dell'Aurora da bianche e vermiglie in rance è, sempre per il Pistelli, "mutamento non bello e non desiderabile", poiché "l'oro scintillante del sole non può farci in nessun modo pensare a un viso ingiallito per vecchiezza mentre è tutt'insieme e immagine e causa e fonte di forza, di vita piena e vigorosa. In realtà questa immagine (le guance della bella Aurora) che riproduce modi della tradizione letteraria classica, filtrati attraverso l'esperienza stilnovistica ed adeguati all'andamento intellettualmente robusto, aderente alle determinazioni del reale (per troppa etate) proprio della poesia della Commedia, è valida in virtù della semplicità del disegno, della stringatezza delle sue determinazioni dell'ordine logico in cui queste risultano disposte.

Ci trovavamo ancora lungo la riva del mare, come coloro che meditano sul cammino da percorrere, i quali con l'animo camminano e col corpo stanno fermi.

Nella sua struttura questa terzina riecheggia la musica stanca dei versi 118-120 del I canto. I due pellegrini sono soli, lungo la riva di quel mare sul quale videro compiersi - dopo la lunga, interminabile notte infernale -il rinnovato, prodigio dell'alba. Pensano al cammino da percorrere, che sarà duro anch'esso ed aspro, per quanto illuminato da una Grazia ormai benigna, ed evidente nel suo fulgore.
Virgilio, il savio gentil, che tutto seppe, non è più qui la guida autorevole che è stato nell'inferno, perché "se nell'inferno la sapienza dell'antica poesia poteva dire tutto, poiché all'inferno è sufficiente la sola natura umana, ora Virgilio stesso è di fronte a un mondo totalmente nuovo non più colmato dalla ragione umana: nel canto XI dell'Inferno la ragione di Virgilio comprende in sé e domina perfettamente la struttura infernale. Ora qui no: il paesaggio stesso è, fin dal primo canto, espressione di un vuoto che non può essere colmato dalla natura umana, ma invoca un aiuto superiore che' elevi la natura a una profondità metafisica più intensa, alla vita di Dio stesso" (Montanari).


Ed ecco, allo stesso modo in cui mentre si abbassa, tramontando, sulla superficie del mare, il pianeta Marte colora di rosso all'avvicinarsi del mattino, a causa dei densi vapori che lo avvolgono,

si palesó ai miei occhi, e tale possa io vederla, nuovamente (allorché, morto, mi troverò ancora una volta sul lido del purgatorio), una luce (il volto dell'angelo nocchiero) avanzante sul mare con tanta celerità, che nessun volo uguaglia il suo movimento.

Dopo avere per poco distolto lo sguardo da essa per chiedere schiarimenti a Virgilio, la rividi divenuta più luminosa e più grande.

Poi mi apparve ai due lati di essa un bianco di cui non riuscivo a precisare la forma, e sotto, questo bianco (sono le ali dell'angelo) un altro bianco si rese gradatamente manifesto (è la veste dell'angelo).

I versi 10-12 hanno segnato come una battuta d'arresto nella esposizione oggettiva dei fatti, una pausa nello svolgersi della narrazione, un meditativo ripiegamento dell'anima, ancora trepidante dopo la dolorosa prova infernale, ancora incerta sui modi della propria redenzione, e come soverchiata dall'atmosfera di miracolo nella quale si trova immersa (le terzine iniziali del canto hanno ribadito il trionfo della luce come vittoria implacabile, necessaria - irriducibile alle sfumature, ai cedimenti, che caratterizzano la nostra soggettività - legata ad un ritmo che, per vastità di tempi e spazi, e per rigore, di sviluppi, paurosamente ci sovrasta). A partire dal verso 13 la narrazione riprende, la trepidazione si muta in aspettazione colma di fiducia, il paesaggio, carico sin qui di presentimenti ma immobile, accoglie in sé un movimento velocissimo. E' una semplice luce, che determinata per analogico richiamo all'intonazione «Scientifica» dell'esordio, in termini astronomici appare dapprima . corrusca, minacciosa (l'accenno a Marte, la pesantezza dei vapori che lo avvolgono, l'energia espressa da rossieggia collocato in fine di verso sembrano per un attimo suscitare un clima di minaccia analogo a quello in cui venne celebrata, nella dignitá profetíca dell'ultimo discorso di Varmi Fucci a Dante, la travolgente vittoria di Moroello Malaspina), per poi spogliarsi di ogni terrestre opacità nel lume del verso 17, e successivamente cingersi, da tre lati, di un ancora informe candore. Il realismo, in virtù del quale Dante identificava immediatamente nella prima cantica l'aspetto essenziale di una forma del mondo sensibile, di un atteggiamento umano, di un carattere, cede il posto nel Purgatorio ad una rappresentazione graduale della realtà, poiché la realtà del purgatorio non si configura nella definitività di una sentenza già applicata e pertanto nella stasi, che un solo colpo d'occhio è in grado di rilevare plasticamente, ma in quanto itinerario verso la perfezione, in quanto espletamento di atti simbolici che hanno luogo nel tempo si rivela progressivamente all'anima che si è resa degna di percepirla. Questa, gradualità nella manifestazione del reale - in cui artisticamente si concreta il processo di graduale conquista del Bene da parte delle anime purganti - è alla base dello stile della seconda cantica, che alcuni critici hanno definito "pittorico", in contrapposizione a quello più rilevato, caratterizzato come "scultoreo", dell'Inferno.

Virgilio si trattenne dal parlare, finché i bianchi apparsi ai lati della luce rosseggiante apparvero essere ali: ma nel momento in cui fu certo di riconoscere il nocchiero,

gridò: « Fa in modo di inginocchiarti: ecco l'angelo di Dio: congiungi le mani: da ora in poi vedrai simili ministri di Dio.

L'enfasi con cui Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, non interrompe il processo attraverso il quale si è progressivamente definita - dal paragone iniziale con Marte alla individuazione delle ali nell'indistinto candore che si affiancava ai due lati del lume - la figura del noccbiero delle anime, ma ne rappresenta il coronamento naturale e armonico. Osserva il Montanari che il grido deI poeta latino, più che esprimere stupore, è grido "di esultanza e quasi di trionfo poiché Virgilio constata, di aver condotto il suo discepolo nel sicuro porto della Grazia: perciò ...è più lieve ed agile che non il corrispondente comportamento di fronte a Catone, (canto I, versi 49 sgg.); là dopo il primo, emergere dalla profondità della terra qualche cosa c'era ancora disticamente duro e quasi forzato (mi dié di piglio); qui invece dal silenzio pieno d'aspettativa sboccia un punto luminoso, e dall'ingrandirsi di questo fino a figura d'angelo, nasce il grido esultante di Virgilio, alto eppur libero e lieve, esultante, nella libertà ormai della grazía".

Vedi che non si serve di strumenti umani, in modo da rifiutare i remi e le vele che non siano le sue ali per percorrere il tragitto tra spiagge così lontane (dalla foce del Tevere, come sarà spiegato nei versi 100-105, al lido del purgatorio).

Vedi come le tiene alte verso il cielo, penetrando nell'aria con le penne eterne, le quali non sono sottoposte al cambiamento che il pelo (o le penne) degli esseri destinati a morire subisce ».

Poi, nell'avvicinarsi a noi, il santo uccello appariva sempre più luminoso, per cui, da vicino, lo sguardo non ne sostenne lo splendore,

ma fui costretto ad abbassarlo; e quello approdò con una navicella rapida e priva di peso, tanto che di essa l'acqua non sommergeva alcuna parte.

Il celeste nocchiero stava a poppa, tale che sembrava portare scritta in tutto il suo aspetto la beatitudine; e più di cento anime sedevano nella navicella.

La figura dell'angelo nocchiero ricorda, per certi tratti, quella del messo celeste che apre ai due pellegrini le porte della città di Dite (vedi che sdegna li argomenti umani esprime lo stesso potere sovrannaturale che, nell'episodio del IX canto dell'Inferno, è reso da passava Stige con le piante asciutte o da con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno), distinguendosi tuttavia da quella per un aspetto meno maestoso, meno imperatorio, e plasticamente saliente, rria in compenso più spiritualizzato. Il linguaggio, pur esprimendo, come nel canto IX deII'Inferno, il potere, da Dio trasmesso ai suoi officiali, di vincere le leggi della, natura (che l'ali sue tra liti sì lontani... che non si mutan come mortal pelo), non mira ad imporre questo potere ad una ostinazione ad esso estranea (Inferno, canto IX, Versi 76-81 e 91-99), ma a risolverlo piuttosto nel principio, da cui promana, avvicinandosi in tal modo, nonostante la struttura razionale che lo sostiene, al linguaggio infuocato dei mistici, come risulta da una definizione quale l'uccel divino, inconcepibile nello stile della morta poesia infernale.

Tutti insieme, concordi, cantavano « Quando uscì Israele dall'Egitto » (è l'inizio del Salrno CXIII) con quello che, in quel salmo, segue.

In un passo del Convivio (Il, I, 7) nel quale sono elencati i quattro sensi che può avere un componimento di stile "alto" (o "tragico"), ad esemplificare il quarto di questi sensi (I' "anagogico") è citato il Salmo CXIII, a proposito del quale viene espressa l'opinione che, per quanto siano veri i fatti in esso narrati (l'uscita dei popolo d'Israele dall'Egitto e la libertà da esso riacquistata), "non meno è vera quello che spiritualmente (in questo salmo) s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate".

Poi fece, rivolto a loro, il segno della santa croce; essi allora si precipitarono tutti sul lido: ed egli se ne andò con la stessa velocità con la quale era venuto.

La moltitudine rìmasta sulla riva sembrava ignara del luogo, e guardava intorno come colui che sperimenta cose nuove.

Il sole, che aveva messo in fuga con le sue frecce precise (saette conte: presso gli antichi, Apollo, dio dei sole, era arciere infallibile) dal punto più alto del cielo la costellazione dei Capricorno (che, distando 90 gradi da quella dell'Ariete, si trovava allo zenit del meridiano mentre il sole stava sorgendo), scagliava la sua luce in tutte le direzioni,

allorché la gente allora arrivata sollevò lo sguardo verso di noi, dicendoci: « Se la conoscete, indicateci la via per raggiungere il monte (del purgatorio) ».

Osserva, in un passo della sua penetrante analisi di questo canto il Montanari, che, a partire dal verso 13, il "primo tempo deI motivo proprio di questo canto: è terminato: dalla attesa quasi spaurita, alla rivelazione serenatrice. Ora comincia il secondo tempo, riprendendo in altro tono il tema dell'attesa: la turba che rimase lì, selvaggia... L'attesa non è più sottolineata dall'alba, ora, bensì dalla piena luce del sole; e le prime parole della nova gente allargano ulteriormente il senso dell'attesa: queste anime non sanno nulla della via da compiere: Dante e Virgilio, che attendevano chi li indirizzasse, sanno ora che neppure le anime li possono indirizzare (52-60). Lo smarrimento, ora, sarebbe perció più forte se la luce non fosse più intensa e sicura; ma siamo nella luce, e il vuoto dell'attesa è un vuoto sereno". Occorre tuttavia rilevare che la determinazione di questa luce "più intensa e sicura" è ottenuta anche qui, come nei versi dell'esordio, attraverso una, rigorosa determinazione della posizione del sole, (con effetto analogo a quello dei versi 1-12), e il ritmo impassibile del cosmo soverchia dì tanto le capacità dell'umano sentire ed intendere da accentuare lo sbigottimento dei pellegrini all'inizio del loro viaggio. A ciò contribuisce l'impeto guerriero impresso all'avvicendarsi degli astri sulla volta celeste dalla trasposizione in chiave mitologica, per cui l'ascesa del sole assume il ritmo incalzante di una caccia (ove il Capricorno è la selvaggina stanata ed inseguita).

E Virgilio rispose: «Voi immaginate forse che conosciamo questo luogo; ma noi siamo forestieri al pari dì voi.

Siamo giunti poco prima di voi, attraverso un altro cammino, il quale fu così arduo da percorrere e duro, che la ascesa del monte ci sembrerà da ora innanzi cosa piacevole».

Le anime che 'si resero conto, per il fatto che respiravo, che ero ancora in vita, impallidirono per lo stupore.

E come la gente accorre verso un messaggero apportatore di liete notizie per esserne messa a conoscenza, e nessuno rifugge dal far ressa intorno a lui,

così tutte quante quelle anime fortunate fissarono il loro sguardo su di me, quasi dimenticando di andare a purificarsi dei loro peccati.

Il motivo della meraviglia delle anime messe in presenza di un vivo, accennato sporadicamente nella prima cantica, è tra quelli destinati a ritornare con maggiore frequenza nel Purgatorio.
Qui la condizione delle anime è la più vicina a quella di Dante: come il Poeta, non sono sottratte al tempo, ma peregrinanti, in un tempo che, se non e più quello umano, è pur sempre segnato dall'alternarsi di giorni e notti, di luci e ombre sulle cose e negli animi. Il tema, della meraviglia dei penitenti rappresenta, l'avvio al colloquio tra i morti e il vivo, che insieme ad essi percorre lo stesso cammino, è mosso dalla stessa fede, ne condivide le ansie. Esso non costituisce, come nell'Inferno, una barriera al di qua e al di là della quale il vivo e i morti si trincerano polemicamente nei limiti delle loro soggettività, ma l'avvio ad una concordia destinata a perfezionarsi a mano a mano che gli ostacoli del monte renderanno più fruttuosi gli atti di penitenza, più luminosamente fervido lo spirito di carità.


Io vidi una di esse uscire dalla schiera per abbracciarmi, con affetto così grande, che mi indusse a fare altrettanto.

O ombre inconsistenti, tranne che nell'appírenza! Tre volte congiunsi le mani circondandola, e altrettante volte tornai con esse al mio petto.

L’anima che si fa avanti per abbracciare Dante è quella di Casella, del quale l’Anonimo Fiorentino scrive: “ Fue Casella, da Pistoia grandissimo musico e massimamente nell’arte dello ‘ntonare; e fu molto dimestico dell’autore, però che in sua giovinezza fece Dante molte canzone e ballate che questi intonò; e a Dante dilettò forte l’udirle da lui e massimamente al tempo ch’era innamorato di Beatrice”. Altri antichi commentatori ne parlano come di un musicista fiorentino.
Il motivo del triplice, vano abbraccio all’ombra di un defunto, è stato ispirato al Poeta da un passo dell’Eneide (VI, versi 700~702): Enea tenta vanamente di abbracciare l’ombra del padre Anchise, ma questa sfugge al suo abbraccio. Dante condensa, precisandolo, il motivo virgiliano, e lo rende più concitato e drammatico, privandolo delle similitudini che conferivano all’incontro di Enea con Anchise un tono di mesta elegia, Se infatti per un pagano la vita dell’al di là rappresentava una dIminuzione, una pallida eco della pienezza della vita terrena, per un cristiano è la vita terrena che appare monca, incompleta, rispetto a quella dell’oltretomba. Per questo il tema del triplice abbraccio, desolato e patetico in Virgilio ha in Dante unicamente la funzione di far risaltare l’affetto che sopravvive alla morte, l’amicizia di due spiriti che trova il suo compimento nel mondo della vita eterna.


Nel mio aspetto, credo, si manifestò lo stupore; per questo l'anima sorrise e si trasse indietro, ed io, seguendola, mi spinsi avanti.

Con dolcezza mi esortò a fermarmi: riconobbi allora chi era, e la pregai di fermarsi un poco per parlare con me.

Mi rispose: « Così come ti volli bene mentre era chiusa nel corpo destinato a morire, così ti voglio bene ora che dal corpo sono libera: perciò mi fermo; ma tu perché percorri (essendo vivo) questo cammino ? »

Casella ci appare remoto da ogni assillo che rende combattuta, problematica, irreale la ricerca della felicità sulla terra (soavemente disse ch'io posasse), ma, al tempo stesso, legato a quanto, sulla terra, è apparso come un'anticipazione del modo di sentire che è proprio delle anime del purgatorio: la spiritualità degli affetti, una, mansuetudine. una dolcezza, che esprimono un'ardente carità. Il suo affetto per il Poeta "ora il concreta nel desiderio di sapere come mai Dante è lì, con le sue spoglie mortali nel regno delle.anime e «va», come vanno loro che sono ormai sciolte dal corpo mortale. Non dice dove va; avvolge invece la meta di suggestiva indeterminatezza, adattissima al luogo, che è lontananza estrema ed assoluta da ogni determinatezza terrena" (Chiari).

« Casella mio, percorro questo itinerario per essere degno di tornare un'altra volta (dopo la morte) nel punto in cui adesso mi trovo» dissi; « ma perché tanto tempo è stato sottratto alla tua espiazione (perché, essendo morto da tempo, giungi soltanto adesso alla spiaggia del purgatorio) ? »

Alla domanda di Casella ma tu perché vai? fa riscontro quella di Dante ma a te com’è tanta ora tolta? Osserva in merito il Pistelli: “Nulla potrebbe esprimere l’interessamento scambievole dei due amici meglio di questo e due domande rotte, rapide, quasi affannose.
Dove i ma interpongono un altro discorso incominciato e significano ambedue le volte: ma lasciamo quel che riguarda me: parlami di te, ché questo solo mi preme”.


Ed egli: « Non mi viene fatto nessun torto, se colui (l'angelo nocchiero) che imbarca le anime che ritiene giusto imbarcare, e lo fa nel Momento da lui ritenuto giusto, mi ha più volte
negato questo tragitto,

poiché la sua volontà procede da una volontà giusta (quella di Dio): tuttavia da tre mesi a questa parte (cioè dalla promulgazione del giubileo ad opera di Bonifacio VIII, avvenuta nel Natale 1299, alla cui indulgenza poterono partecipare anche le anime in attesa di essere traghettate nell'isola del purgatorio) egli ha imbarcato chiunque ha voluto entrare (nella navicella), senza fare opposizione.

Perciò io, che allora volgevo lo sguardo al mare nel quale l'acqua del Tevere (che in esso sfocia) diventa salina, fui da lui benevolmente accolto (nella navicella).

Ora egli ha alzato le ali verso quella foce, poiché là si raccolgono sempre tutte le anime non destínate all'inferno».

Casella non spiega il motivo della lunga attesa alla quale è stato costretto, alle foci dei Tevere, prima di essere accolto nel vasello dell'angelo. Per il Montanari è "inutile, forse, cercare quello che Dante non ha detto: ma non è, forse, del tutto arbitrario vedere nel ritardo una espressione della ancora imperfetta volontà di Casella, ancora pauroso d'incominciare, dalle foci dei Tevere, il viaggio verso l'ignoto creduto, ma non sperimentalmente conosciuto. Così interpretato, anche questo passo si legherebbe al tema generale del viaggio verso l'ignoto", che, per il critico, caratterizza il canto. Il Chiari, dal canto suo, ritiene che il Poeta, lasciando "indeterminata e misteriosa - ma d'altra parte indicandola come giustissima - la ragione del ritardo, rende in qualche modo l'idea della impenetrabilità delle cose spirituali, di questa specie di ineffabilità dell'indefinito e indefinibile mistero dei rapporti tra l'anima e Dio".

Ed io: « Se una prescrizione propria del purgatorio non ti priva del ricordo dei canti d'amore che solevano placare tutte le mie inquietudini, o della facoltà di intonarli,

L'espressione amoroso canto indica, secondo i più, il canto di poesie d'amore; ma amoroso può significare anche « dolce », « caro », tanto più che la canzone intonata da Casella esalta in forma allegorica la filosofia.

voglia tu in tal modo confortare un poco la mia anima, la quale, insieme al mio corpo, è tanto stanca per il cammino sin qui percorso (attraverso l'inferno)! »

« Amor che ne la mente mi ragiona » cominciò egli allora a cantare così dolcemente, che la dolcezza di questo canto echeggia ancora nel mio animo.

« Amor che ne la mente mi ragiona » e il verso con cui inizia la canzone commentata nel III libro del Convivio. Dante interpreta questa canzone allegoricamente, cercando di dimostrare che le lodi della donna amata sono lodi rivolte alla filosofia e conclude il suo commento esortando gli uomini a seguire gli insegnamenti dei filosofi. Ma, prescindendo da questa interpretazione dottrinale, il componimento, che in più luoghi si risolve in melodia purissima, riecheggia motivi e forme di alcuni fra quelli inclusi nella Vita Nova. E' - nota il Chiari - la canzone del gaudioso rapimento d'amore, così smemorante che l'intelletto sovr'esso disvia... ed è la canzone dell'assoluta impossibilità di esprimere a parole quel che l'anima sente". Per quanto riguarda il senso dell'intero episodio di Casella risultano di grande interesse le seguenti osservazioni del Montanari: "Il mito virgiliano dell'incontro di Enea con il padre defunto significava l'illusione del ricordo che ti fa presente per un attimo lo scomparso, con lo stesso senso che ne avevi nella presenza viva, e poi d'un tratto nell'attimo stesso ti abbandona, rendendo più desolato il sentimento dell'irrimediabile assenza. Di tale umana esperienza non è certo ignaro Dante: ma al mito dell'illusione subito delusa si aggiunge qui un soprassenso, senza distruggere il primo: l'amicizia più alta ed eterna... non si appaga più dei sensi corporei: e pure, nello sbalzo dal temporale all'eterno, dal corporeo allo spirituale, soffre un distacco dolente... L'antico tema della consolazione dell'amicizia, rivissuto prima nell'atmosfera dell'amore cortese, rivissuto poi nel clima della solenne lode della filosofia sentita come suprema vetta della grandezza umana, risuona ora come umana consolazione in cui sono fuse insieme musica, amicizia, filosofia..."

Virgilio e io e le anime che erano insieme con lui apparivamo così felici, come se a nessuno di noi un altro pensiero occupasse la mente.

Noi tenevamo tutti lo sguardo fisso su di lui e la nostra attenzione era interamente rivolta al suo canto; ed ecco apparire il venerando vecchio (Catone), il quale gridò: « Cosa significa questo, anime pigre ?

che senso ha questa negligenza, questo indugio? Affrettatevi verso il monte per liberarvi della scorza peccaminosa che non consente che Dio vi appaia ».

Alla stasi delle anime, ancora avvinte, attraverso lo spirituale legame della musica, a quanto di parzialmente puro e felice in loro riaffiora del passato, si contrappone drammaticamente l'imperativo di Catone. Essendo lo stato contemplativo prerogativa dei beati (ai quali soltanto Dio è manifesto in tutto il suo splendore), occorre che esse rinuncino a guardare nel passato le oasi di bene in cui credettero di intravedere prefigurata la felicità eterna. Il loro sguardo deve tendersi invece verso il futuro, non sfuggire al ricordo delle colpe, ma superarlo espiandole (correte al monte). "Casella e Catone sono come i due temi fondamentali del canto Il del Purgatorio: quello dello stupefatto smarrimento, dell'incertezza un po' lenta e nebbiosa, e l'altro della indiscutibile ed assoluta sicurezza, della certezza salda ed infallibile. E se non temessimo di cadere in un simbolismo alquanto meccanico e di effetto, non esiteremmo ad aggiungere che Casella e Catone rappresentano ora i due aspetti fondamentali dello stato d'animo di Dante pellegrino nel nuovo regno: la certezza di realizzare in sé presto l'assoluta libertà, e lo smarrimento stupefatto e meravigliato che gliel'appanna e gliel'annebbia." (Marti)

Con la stessa rapidità con la quale i colombi, adunati per il pasto, tranquilli, senza ostentare la solita baldanza (a causa della quale, impettiti, gonfiano il collo), mentre sono intenti a beccare la biada o il loglio,

se appare alcunché di cui abbiano timore, all'improvviso si distolgono dal cibo, perché sono sotto l'assillo di una preoccupazione più grande,

vidi quella schiera da poco arrivata distogliere l'attenzione dal canto (di Casella), ed avviarsi verso il pendio (del monte), come chi si avvia senza sapere dove vada a finire

né la nostra partenza fu meno veloce.

Osserva finemente il Chiari che, nonostante il brusco richiamo di Catone alla realtà, il paragone dei colombi "ci riporta alla quiete offerta dalla amorosa pastura del canto di Casella, e bene armonizza con tutta l'immagine di dolce mitezza con la quale è entrata nell'animo nostro questa prima delle molte schiere di anime che incontreremo lungo la montagna del purgatorio; ed è immagine del nuovo mondo, ove deve sparire del tutto ogni turbamento del mondo terreno". A questa la prima delle similitudini che illustrano la condizione delle anime dei purgatorio, caratterizzata, come ha ben veduto il De Sanctis, dall'obliarsi della coscienza individuale "in uno stesso spirito di carità e d'amore. Nell'Inferno vi sono grandi individualità, ma non vi sono cori; l'odio è solitario: nel Purgatorio non ci ha grandi individualità, ma invece vi son cori: l'amore è simpatia, dualità, un'anima che cerca un'altra anima". Per questo numerose similitudini della seconda cantica riguardano gruppi di anime, anziché anime singole, propongono alla nostra meditazione il tema dell'umiltà e dell'armonia, anziché quello dell'affermazione orgogliosa di sé che introduce nell'universo il seme della ribellione e del disordine.

 

Purgatorio – Canto III

Sebbene l'improvvisa fuga sparpagliasse quelle anime per la pianura, verso il monte dove la giustizia divina ci tormenta (per purificarci),

io mi accostai alla fedele compagnia: e come avrei potuto allontanarmi senza di lui? chi mi avrebbe guidato su per il monte?

Egli mi sembrava tormentato dalla sua stessa coscienza: o spirito retto e puro, come un piccolo errore è per te causa di crudele dolore!

Queste terzine, mentre costituiscono un elemento di collegamento con il canto precedente (si nota spesso nel Purgatorio la tendenza ad eliminare ogni soluzione di continuità per evidenziare anche da un punto di vista compositivo la compatta struttura spirituale del mondo della purificazione), impostano il tema fondamentale del nuovo canto, il cui svolgimento complesso ma graduale ci porterà da questa apertura drammatica e ansiosa ai toni elegiaci ed idillici della parte centrale, alle distensioni intime e pensose di quella finale. Il paesaggio silenzioso e grandioso della campagna in cui le anime rimproverate da Catone si disperdono, isola l'intenso turbamento di Dante e Virgilio, l'improvviso stagliarsi del monte accentua il loro smarrimento, denunciando la prima delle costanti tematiche che il Caccia bene mette in rilievo: "l'accusa precisa dei limiti della ragione umana, di quella ragione che persino in un grande come Virgilio commette errori, o perde la propria dignità nello smarrimento di un istante", ma è anche la ragione stessa che "invita le anime a correre verso il sacro monte: e solo il momentaneo oblio al canto di Casella può averle distolte dal loro cammino. Virgilio è da se stesso rimorso".

Quando i passi di Virgilio non procedettero più con la fretta. che toglie decoro ad ogni azione, la mia mente, che prima era raccolta (in un solo pensiero),

allargò la sua attenzione, come desiderosa di altre cose, e alzai gli occhi in direzione del monte che più alto (di tutti gli altri) si erge dalle acque verso il cielo.

Il sole, che rosso ardeva alle nostre spalle, era interrotto davanti al mio corpo, che faceva da impedimento ai suoi raggi.

Mi girai di fianco temendo d'essere abbandonato, quando scorsi che la terra era scura solo davanti a me;

e Virgilio: « Perché dubiti ancora ?» prese a dirmi volgendosi interamente verso di me: «non credi che io sia, con te e che ti guidi?

E' già l'ora del vespro là dove è sepolto il mio corpo col quale facevo ombra: si trova a Napoli, e fu trasportato da Brindisi.

Virgilio morì a Brindisi nel 19 a. C. e il suo corpo, per ordine di Augusto, fu trasportato a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Poiché il sole è da poco sorto nel purgatorio, e quindi è da poco tramontato a Gerusalemme, a Napoli (secondo i calcoli di Dante l'Italia meridionale è a 45 gradi di longitudine da Gerusalemme) è l'ora del vespro. In questo momento la vita del personaggio Virgilio viene approfondita al di là di ogni altra sua precedente individuazione e condotta al centro più intimo del suo significato umano, storico, religioso (tutto il canto è ricco di echi virgiliani: nella poesia della terra, nella contemplazione del cielo, nel tema dei sepolcri e in quello dei corpi insepolti), mentre "si sviluppa il primo movimento elegiaco: nella indicazione del corpo lontano, e quindi della assenza dell'ombra di Virgilio, vibra più intimamente il compianto della sepoltura terrena e lontana e tutte le determinazioni geografiche e storiche... sensibilizzano il motivo poetico della separazione, della lontananza, della nostalgia e vespro ed ombra inducono indirettamente la coerente suggestione di una luce attenuata e malinconica, come le indicazioni sepolcrali... la lentezza pensosa del ritmo collaborano ad una musica funebre ed elegiaca, alla creazione di un epicedio affettuoso e dolente che anticipa quello più scoperto e diretto di Manfredi" (Binni).

Adesso, se davanti a me non si forma alcuna ombra, ciò non deve stupirti più del fatto che i cieli non impediscono che i raggi passino dall'uno all'altro.

Per sopportare pene, caldo e freddo, Dio onnipotente crea tali corpi, ma come faccia ciò, non vuole che sia rivelato agli uomini.

Stolto è colui il quale spera che la ragione umana possa percorrere la via infinita che Dio, uno nella sostanza e trino nelle persone, segue.

Limitatevi a considerare, o uomini, le cose come sono: giacché se aveste potuto capire tutte le cose, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse;

e vedeste bramare invano uomini siffatti che (meglio di altri) avrebbero potuto soddisfare (se fosse stato possibile con la sola ragione umana) la loro ansia di conoscenza, mentre invece (tale desiderio) è motivo per loro di pena etema:

parlo di Aristotile e di Platone e di molti altri ». E qui chinò il capo, e non aggiunse parola, e ristette turbato.


Una lettura che si fermi solo al valore didascalico dei versi 34-39, considerandoli come la parte centrale del discorso di Virgilio, corre il pericolo di non comprendere la profonda poesia che, attraverso le ombre ancora legate alla materia (versi 21-26), si libera nella trasparenza dei corpi dei trapassati (verso 28), si identifica con la luce rassicurante dei cieli (versi 29-30), si adagia infine nella Virtù che tutto dispone, enunciando le imperscrutabili disposizioni divine. Le affermazioni della filosofia scolastica che sostengono qui il pensiero di Dante si arricchiscono di vibrazioni liriche proprio perché sono pronunciate da chi, non avendo mai avuto esperienza della fede e del Dio cristiano, vede ora questa esperienza tramutarsi in nostalgia per un bene perduto, in eterna esclusione da un mondo ora intensamente desiderato, in condanna per sé e per la civiltà alla quale appartenne (versi 40-44). Quella che poteva essere una breve digressione per colpire la follia di chi pone ogni speranza nella sola ragione, diventa motivo teologico centrale di tutto il canto, che è quello, secondo la specificazione del Binni, della esclusione e della comunione delle anime: esclusione perpetua di chi disiar vedeste sanza frutto e ritrovata comunione "degli scomunicati redenti dal loro pentimento in punto di morte e vivi nell'esperienza letificante della ritrovata comunione, e nel ricordo dolente dell'esclusione passata".

Giungemmo frattanto alla base del monte: qui trovammo la roccia talmente ripida, che invano le gambe lì sarebbero volonterose di salire.

Tra Lerici (un castello sulla riviera ligure, alla foce del fiume Magra) e Turbia (un borgo nizzardo) la roccia più inaccessibile e impraticabile è, al confronto di quella, una scala comoda e ampia.

Il paesaggio dei primi due canti del Purgatorio viveva in un prorompere continuo di luce, si profilava come una immensità oceanica davanti ai due pellegrini, fino allora costretti nella voragine infernale: ora gli occhi di Dante e Virgilio si sono abituati alla luce, e nel paesaggio prima senza forme possono ora, distinguere meglio il poggio che 'nverso il cíel più alto si dislaga, le ombre si precisano, le pareti appaiono rocciose, erte, le notazioni si fanno realistiche, attente, e Dante, che prima aveva fatto riferimento alle costellazioni, al corso del sole, ai movimenti dei cieli, ritorna con animo quasi angosciato al mondo che conosce, alla terra, per trovare in essa qualche termine di paragone. Sarà lo stesso paesaggio che con una muta sgomenta elegia, ritmata quasi sul tono di una funebre marcia, fa da sfondo alla cupa avventura del cadavere di Manfredi" (Caccia).

« Adesso chissà da quale parte la costa è meno ripida » disse, il mio maestro arrestandosi, « in modo da consentire la salita anche a chi non ha ali? »

E mentre egli, con gli occhi rivolti a terra, rifletteva sul cammino da tenere, e io guardavo in alto tutt’intorno alla roccia,

da sinistra vidi comparire una schiera di anime, che procedevano verso dì noi, e quasi non sembrava che ciò avvenisse, tanto lentamente si avvicinavano.

« Alza, o maestro », dissi, « il tuo sguardo: ecco da questa parte chi ci darà consiglio, se tu non riesci a trovarlo in te stesso. »

Allora guardò, e con viso rasserenato, rispose: « Avviciniamoci a loro, poiché essi avanzano lentamente; e tu, figlio caro, rafforza la tua speranza ».

Quella schiera era ancora così lontana, dico dopo aver noi fatto un migliaio di passi, quanta può essere la distanza cui un buon lanciatore scaglierebbe una pietra,

quando tutti si addossarono alle dure rocce dell'alta costa, e stettero fermi e raccolti come, chi va, si ferma a guardare quando è colto da un dubbio.

La critica è concorde nel considerare il canto III uno dei più rappresentativi deIl'atmosfera corale del Purgatorio, "dove tutto è folla e gruppo, unici e monocordi" (Mattalia).
Cessate le violente apparizioni dell'inferno, le anime avanzano a schiera, cantando in un accordo profondo di atteggiamenti e di gesti, "come processioni di penitenti tutti raccolti interiormente e gravati da un ignoto peso dell'anima" (Grabber).
In Dante e Virgilio ogni residuo del turbamento iniziale si dissolve davanti a questa gente d'anime, a questo popol "il cui procedere lentissimo, agevola e sottolinea... il prevalere di un ritmo costante e distensivo che prepara il nuovo culmine poetico di un altissimo idillio, di una «pastorale» purissima ai cui margini pur vibra, in forme sempre più attenuate di stupore e di trepidazione, l'eco di quel movimento di incertezza... e che qui mai si dissocia completamente dal fondamentale sentimento letificante di concordia e di salvezza in comune delle anime degli scomunicati pentiti e avviati alla loro totale liberazione" (Binni). L'avanzare deciso dei due pellegrini (con libero piglio) contrasta con quello lentissimo delle anime che, di fronte a un'apparizione così lontana ormai dal loro mondo, arretrano e si addossano al monte "con un risultato figurativo di mobile bassorilievo" (Binni), che, accostato alla similitudine successiva delle pecorelle sembra richiamare i bassorilievi paleocristiani, o certi mosaici ravennati o alcuni affreschi romanici.


« O voi che siete morti in grazia di Dio, o spiriti già destinati alla salvezza eterna », prese a dire Virgilio, « in nome di quella pace che io credo sia attesa da voi tutti,

diteci in qual punto la montagna è più agevole, sì da poterla salire, perché perder tempo dispiace a chi ne conosce il valore. »

Come le pecore escono dal recinto da sole, o a gruppi di due e di tre, e le altre sostano timide abbassando il muso e lo sguardo,

e quello che fa la prima, fanno anche le altre, raggruppandosi dietro a lei, se si ferma, obbedienti e mansuete, senza conoscerne il motivo,

così io vidi allora avvicinarsi le prime anime di quella felice moltitudine, umile nei volti e dignitosa nel procedere,

Questa similitudine di mirabile evidenza, le cui componenti, semplicità e mansuetudine, richiamano quella dei colombi (canto Il, versi 124-129), è la sintesi visiva di tutti gli elementi elegiaci del canto: l'animo del Poeta sembra abbandonarsi al nuovo sentimento di pace che avverte in sé e attorno a sé, alla comunione con le anime purganti, vuole vivere di quella umiltà alla quale è stato consacrato sulla spiaggia del purgatorio. Anche se la tradizione letteraria bucolica, di Virgilio in particolare, il ricordo evangelico (le anime presentate attraverso l'immagine degli agnelli e delle pecorelle) e un passo del Convivio (I, XI, 9-10) lo sorreggono, questo quadro - pur essendo "uno dei più nitidi studi dal vero di tutto il poema, uno di quelli in cui Dante ha trovato più genialmente la parola pittrice" (Momigliano) - non è che l'estremo sviluppo del tema centrale dell'umiltà delle anime che si abbandonano alla volontà divina, che sono contente del quia. Infatti l'osservazione dei movimento lento ma sicuro (a una, a due, a tre), dell'atteggiamento (atterrando l'occhio e 'l muso), della concordia (e ciò che la la prima, e l'altre fanno), l'uso dei diminutivi (pecorelle, timidette), la scelta degli aggettivi (semplici, quete), preparano le ultime parole della similitudine: e lo 'mperché non sanno. Se il turbamento genera incertezza - nota il Caccia - "incertezza genera umiltà, e tutto il canto si ispira a questo motivo della umiltà, che è poi la virtù opposta all'antica colpa". Così è umile Virgilio, che esorta ad accontentarsi della realtà contingente e riconosce di aver bisogno egli stesso di consiglio, umili sono queste anime, umiIe sarà Dante di fronte a Manfredi, ma umile sarà soprattutto lo stesso Manfredi la cui alta personalità si china alle universali leggi divine e che, pur conservando ancora per istinto e per abitudine tutta la sua aristocraticità regale, si fa riconoscere non per una corona ma per due ferite". Il primo incontro di Dante con le anime del purgatorio avviene con coloro che più sono lontani dalla salvezza, cioè con gli scomunicati, "coloro la cui ribellione alla legge divina non fu solo individuale ma sociale, coloro che rifiutarono obbedienza alla Chiesa". Secondo la legge del contrappasso essi che in vita furono superbi, orgogliosi, ribelli. dovranno ora essere umili, mansueti, docili al destino e all'altrui volontà: "anzi, sono fra le anime più timide del purgatorio, non solo perché la loro personalità ribelle ebbe esemplare annullamento nel disonore della scomunica... ma perché fra tutte le anime... queste hanno pur tutta l'incertezza e il tremore di chi si trova ancora assai prossimo alla piaggia cui si giunge affannati e smarriti" (Caccia).

Non appena quelle anime videro in terra, alla mia destra, la luce interrotta, poiché la mia ombra stava fra me e la roccia,

si arrestarono, e indietreggiarono un poco, e tutte le altre che venivano dietro, pur non conoscendone il motivo, fecero altrettanto.

« Senza attendere che voi me lo domandiate, vi dichiaro che questo che voi vedete è un corpo umano, per questo la luce del sole è, in terra, interrotta.

Non stupitevi; ma credete che non è senza l'aiuto del cielo che io cerco di superare questa roccia. »

Così parlò Virgilio; e quegli spiriti eletti. «Tornate indietro e camminate dunque davanti a noi», dissero, facendoci segno col dorso delle mani.

E uno di loro prese a dire: « Chiunque tu sia, mentre cammini volgi gli occhi: cerca di ricordare se in terra tu mi abbia mai veduto ».

Parla Manfredi, figlio naturale di Federico II che appena diciottenne, nel 1250, alla morte del padre, governò il regno di Napoli e Sicilia per il fratello Corrado IV, dopo la morte del quale si fece incoronare re a Palermo (1258). Guidò il partito ghibellino in Italia, lottando duramente contro la Chiesa che lo scomunicò, finché il pontefice Clemente IV chiamò in Italia Carlo I d'Angiò, che sconfisse a Benevento nel 1266 Manfredi, il quale morì in battaglia. I cronisti del tempo lo giudicarono in modo opposto: quelli ghibellini lo esaltarono entusiastìcamente, quelli guelfi lo accusarono di ogni nefandezza. Tuttavia il Villani (Cronaca VI, 46), benché guelfo, afferma: "Fu bello del corpo e, come il padre e più, dissoluto in ogni lussuria; sonatore e cantatore era;... molto fu largo e cortese e di buon aire, sicché egli era molto amato e grazioso; ma tutta sua vita fu epicuria, non curando quasi né Iddìo né Santi". Dante in un passo del De Vulgari Eloquentia (I, XII, 4), tesse grandi lodi per l'opera politica e culturale di Federico Il e di Manfredi, tralasciando ogni giudizio morale. E, se pone Federico Il fra gli epicurei nell'inferno, salva Manfredi in virtù di un pentimento poco prima della morte.

Io mi girai verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e di nobile aspetto, ma aveva un sopracciglio diviso in due da una ferita.

Quand'ebbi con cortesia negato d'averlo mai conosciuto, egli dìsse: « Adesso guarda»; e mi mostrò una ferita vicino al cuore.

Poi aggiunse sorridendo: « Sono Manfredi, nipote dell'imperatrice Costanza; perciò ti prego, quando ritornerai in terra,

di andare dalla mia bella figlia, madre di coloro che sono i sovrani di Sicilia e d'Aragona, per dirle la verità su di me, se si raccontano altre cose.

Costanza imperadrice è Costanza d'Altavilla, sposa dell'imperatore Arrigo VI e madre di Federico II.
La figlia di Manfredi è Costanza che sposò Pietro III d'Aragona ed ebbe come figli Federico II, re di Sicilia, e Giacomo Il, re d'Aragona.


Quand'ebbi il corpo trafitto da due colpi mortali, io mi rivolsi, piangendo (per il pentimento dei peccati), a Colui che è sempre pronto a concedere il suo perdono.

I miei peccati furono orribili; ma la infinita misericordia ha braccia tanto ampie da accogliere tutti coloro che a Lei si rivolgono.

Se il Purgatorio è la cantica delle idealità e degli affetti, l'animo di Dante è pur sempre impegnato con la cronaca e con la storia, con il dramma e la tragedia dei suoi tempi; il Poeta muta solo il tono, osserva in lontananza, acquista un senso di distacco. "Manfredi prende tutto il suo rilievo non solo sullo sfondo di quel paesaggio e di quelle anime scorate che lo accompagnano, ma anche sullo sfondo di quei profondi ideali, di quella epica lotta, di quelle sue stesse amare vicende innalzate alla pietà che vince l'orrore, alla sofferenza che redime, alla bontà che perdona." (Caccia) Solo rilevando con forza il netto contrasto fra gli orribil... peccati miei e la bontà infinita, l'episodio acquista valore e funzione di exemplum, di "lezione profonda di umiltà" (Sapegno) .
Nella figura del re svevo si attua appieno il processo di spiritualizzazione proprio di tutta la seconda cantica: il sorriso con cui si rivolge a Dante quasi per attenuare l'orrore delle ferite, segna il distacco fra la tragedia della sua vita terrena e la raggiunta serenità, che ha liberato Manfredi dei suoi peccati, ma gli mantiene la regalità di un tempo, trasumanandola anzi in santa regalità, dopo averla liberata da ogni superbia. pon mente se di là mi vedesti unque... io son Manfredi... ond'io ti priego.
Infatti alto e distaccato è il tono delle sue parole, quasi solenne l'accenno a Costanza ímperadrice, alla figlia genitrice dell'onor di Cicilia e d'Aragona, Il regale è il suo discorrere ampio e la sua sintassi latineggiante (ondio ti priego che quando tu riedi ... ); regale è quel suo ricordare, di tanto odio, solo quel suo cadavere gettato oltre i confini del regno: persino l'immagine stessa della bontà divina (la bontà divina ha sì gran braccia) acquista in lui una latitudine regale... Quel sorriso, come quel suo volto bello e gentile, sono ora le sue vere insegne di re" (Caccia). Avvertiamo la nobiltà del suo animo proprio nell'umile confessione della sua miseria umana (io mi rendei, piangendo), nel riconoscimento di un potere superiore che si manifesta come amore (la bontà infinita), verso il quale la sua anima vibra e si slancia stanca delle lotte della vita.


Se il vescovo di Cosenza, che da papa Clemente fu indotto allora a perseguitarmi, avesse potuto penetrare questo aspetto di Dio,

le mie ossa sarebbero ancora in capo a un ponte vicìno a Benevento, custodite da un mucchio di pietre.

Adesso la pioggia le bagna e il vento le agita; fuori del regno (di Napoli e di Sicilia), quasi sul Garigliano, dove egli le trasportò a ceri spenti (come si usava per i cadaveri degli scomunicati e degli eretici).

Il pastor di Cosenza è l'arcivescovo Bartolomeo Pignatelli; che rappresentava Clemente IV presso Carlo d'Angiò. Il Villani (Cronaca, VII, 9) narra che il cadavere di Manfredi, ritrovato sul campo di battaglia dopo tre giorni, fu sepolto dagli stessi nemici sotto una "grande mora di sassi" e che invece secondo altri il vescovo di Cosenza fece dissotterrare il corpo e trasportarlo fuori del regno dì Napoli, "ch'era terra di Chiesa", per abbandonarlo lungo le rive del Garigliano, che segnava il confine fra il regno meridionale e lo stato della Chiesa.
Nelle parole di Manfredi tutto diventa rappresentazione ed immagine: l'ostilità dei pastor di Cosenza si trasforma in.movimento di caccia selvaggia e le feroce, le fasi della battaglia si riassumono nel pesante tumulo di sassi che la pietà dei nemici ha eretto sopra il suo corpo, l'odio dei suoi persecutori appare nel trascinarsi di quelle povere ossa battute dalla pioggia e dal vento: eppure non c'è dura polemica contro alcuno, ma solo, l'amara constatazione, di vedere altri uomini peccare come tante volte ha peccato lui stesso.


In seguito alle loro scomuniche (maladizion: la scomunica infatti non comporta di necessità la dannazione spirituale) la grazia di Dio non si perde a tal punto che non si possa recuperare, finché la speranza non è del tutto inaridita.

Tuttavia chi muore scomunicato, anche se si pente in punto di morte, deve restare fuori di questo monte,

per un periodo di tempo trenta volte più lungo di quello che da vivo ha nella sua ostinazione orgogliosa, a meno che tale decreto non venga abbreviato dalle preghiere dei buoni.

Vedi dunque se puoi farmi contento, rivelando, alla mia buona Costanza dove e in che modo mi hai visto, e anche questo divieto,

poiché noi molto progrediamo nella purificazione grazie, ai suffragi dei vivi ».

L'elegia che aveva raggiunto, il suo tono più cupo nei versi 130-132 e si era tramutata.in uno slancio di fede e di speranza (versi 134-135). si conclude ristabilendo "quell'armonia tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti che il drammatico racconto sembrerebbe aver spezzato" e chiude l'episodío proprio in questo tono di umiltà familiare, nel sigillo di quello spirito comunitario che... anima il corale respiro lirico del canto" (Caccia).

 

Purgatorio – Canto IV

Quando per un'impressione di piacere o di dolore, che una qualche potenza della nostra anima riceve in sé, l'anima si concentra tutta in quella facoltà,

sembra allora che essa non presti più attenzione a nessun'altra sua facoltà; e questo fatto é una prova contro quella dottrina errata la quale ritiene che in noi si formino più anime una accanto all'altra.

Dante sostiene, secondo il principio scolastico, una sola essenza dell'anima, che "ha tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare" (Convivio III, Il, 11), e quando essa è intensamente occupata in un'operazione, non può impegnarsi in altre. Viene così confutata la teoria platonica della formazione e dell'esistenza di tre anime, la vegetativa, la sensitiva, l'intellettiva.

E perciò. quando si ascolta o si vede qualcosa che attiri a sé fortemente l'anima, il tempo trascorre senza che uno se ne accorga,

poiché una è la facoltà che percepisce il passare del tempo (che l'ascolta: la facoltà intellettiva), e una altra (la facoltà sensitiva) è quella che concentra in sé l'anima intera: questa è come legata (alle impressioni che percepisce), quella invece è sciolta da ogni ufficio (perché l'attenzione dell'anima è rivolta altrove).

L'esordio solenne rivestito dei moduli espressivi della Scolastica pare chiudere il canto IV in una di quelle zone che il Croce definisce, nell'esclusione di ogni forma di scienza dalla poesia, non poetiche e che il D'Ovidio censura affermando che "se Dante ebbe il proposito di riposar l'animo dei lettori dall'ammirazione dei tre canti che precedono" e dargli lena ad ammirare la bellezza del successivo e la sublimità dei tre appresso, riposarlo dallo stupore con la fatica, non si può negare che v'è riuscito!" In realtà, pur essendo innegabile il peso degli elementi didascalici (il massimo sviluppo si avrà nei versi 61-96), da Dante ritenuti necessari al fine di spiegare la disposizione cosmografica del secondo regno, è necessario rilevare che nel pensiero medievale la scienza costituisce elemento di elevazione e modo di purificazione, portando l'uomo. attraverso la meditazione, a considerare ogni vicenda, ed esteriore ed interiore, della sua vita in una prospettiva universale, trovando in quella vicenda lo stesso ritmo di leggi e principii generali. Tale posizione garantisce la validità strutturale di questo inizio, ma assicura anche la liricitá, polarizzando l'interesse sulla nuova situazione spirituale di Dante. Finora ogni suo gesto e ogni suo passo implicanti una conquista purificatoria erano stati guidati, o addirittura voluti attraverso duri rimproveri, da Catone e da Virgilio, quasi il Poeta fosse ancora troppo impedito dai legami terreni. Ora, "fisso e attento alle parole di Manfredi con la medesima fissità e attenzione che ebbe di fronte al canto di Casella, Dante ha ... saputo superare il pericolo della lentezza e della negligenza - l'accusa di Catone ~ intendendo appieno verso quali oggetti debba convergere il suo spirito nella via del purgatorio. Qui Dante giustifica filosoficamente la necessità della rampogna di Catone. La scienza filosofica lo illumina sul pericolo della contentezza provata durante il canto dell'amico musico" (Romagnoli). Dante, al quale ormai basta un semplice cenno delle anime (verso 18) per riscuotersi, entra dunque nella legge morale del purgatorio, preannunziando "la sua prima vittoria conseguita nella vicenda della dura e vincolante dialettica, dei rapporti anima-corpo, intelletto-senso" (Mattalia)

Di questo fatto io ebbi personale esperienza, ascoltando e guardando intensamente Manfredi; infatti di oltre cinquanta gradi era salito

il sole (esso percorre quindici gradi ogni ora: perciò sono trascorse più di tre ore dal levarsi del sole e dall'apparizione dell'angelo nocchiero), ed io non me ne ero accorto, quando giungemmo in un punto in cui quelle anime ci gridarono tutte insieme: « Questo è il luogo di cui ci avete domandato ».

Il contadino quando l'uva incomincia a maturare (imbruna; bisogna perciò difenderla dai ladri) spesso con una piccola forcata di spine chiude con questi pruni un'apertura della siepe più larga

di quello che non fosse il sentiero lungo il quale salimmo Virgilio, ed io dietro di lui, soli, dopo che la schiera delle anime si era congedata da noi.

Se l'apertura di questa similitudine dà la misura di un'attenzione concretissima alla terra, qui osservata nell'animato ritmo di una scena campestre, è tuttavia il verso 23 - con il suo stile duro, spezzato da continue pause, che si raccolgono tutte in un'unica, lunga sospensione nell'aggettivo soli - che apre un tema maestro, facendo del IV canto "uno dei più importanti dall'angolo visuale del contenuto " (Jenni) : i due pellegrini iniziano l'ascesa dei monte, che finora avevano osservato solo dalla spiaggia e del quale avevano già guardato con preoccupazione la ripidità (canto III, versi 46-51). Le due similitudini realistiche (maggiore aperta... vassi in Sanleo... ) poste in successione immediata, "come una ripresa, una movenza stilistica di constatazione vagamente esclamativa" (Jenni), sono per il Poeta necessarie al fine di mettere subito in rilievo il carattere eccezionale della salita, contemporaneamente introducendoci nell'atmosfera di silenzio e di solitudine, che, secondo il Momigliano, è il motivo lirico del canto, accanto alla "presenza solenne e muta della montagna, che nel Purgatorio è protagonista della poesia ben più che l'abisso nell'Inferno".

E' possibile arrivare a Sanleo (borgo del ducato d'Urbino, posto su un ripido colle che si raggiungeva con un sentiero scavato nella roccia) e scendere a Noli (cittadina della riviera ligure di ponente, alla quale si accedeva scendendo lungo pareti a picco sul mare), salire sul Bismantova (alto monte dell'Appennino nel territorio di Reggio Emilia) fin sulla vetta solamente coi piedi; ma qui è necessario che si voli;

dico con le ali veloci e con le piume del grande desiderio, seguendo quella guida che mi dava speranza e mi faceva luce.

I mezzi necessari per salire il monte del purgatorio - la cui ripidità supera ogni confronto umano - sono quelli spirituali: "colla fede e colla speranza che sono l'ali che portano i virtuosi e fedeli" (Anonimo Fiorentino).

Salivamo per un sentiero scavato nella roccia, e (era tanto angusto che) le sue sponde ci stringevano a destra e a sinistra, e il suolo sottostante costringeva ad aiutarsi con i piedi e con le mani.

Dopo essere giunti al termine dell'alta parete (alta ripa; essa costituisce la base del monte), su uno spiazzo aperto (non incassato nella roccia), dissi: « Maestro, che via seguiremo? »

Ed egli mi rispose: « Il tuo passo non pieghi né a destra né a sinistra: avanza sempre verso l'alto seguendo me finché ci appaia qualche guida esperta del cammino ».

La vetta del monte era così alta che superava ogni possibilità della nostra vista, e il pendio era assai più ripido di una linea condotta dal punto mediano di un quadrante al centro del cerchio (poiché il quadrante di un cerchio corrisponde ad un angolo al centro di 90 gradi, la linea ha un'inclinazione di 45 gradi: la costa perciò è quasi perpendicolare al monte).

Ero stanco, quando dissi: « O dolce padre, volgiti, e guarda che rimango indietro, solo, se non ti fermì ad' aspettarmi ».

« Figliolo, cerca di trascinarti fin qui » disse, indicandomi un ripiano poco più in alto, che cingeva tutto il monte dalla, parte a noi visibile».

Le sue parole mi spronarono a tal punto, che riunii tutti i miei sforzi, procedendo a carponi dietro di lui, finché raggiunsi quella sporgenza.

L'ascensione di Dante e Virgilio - pur resa con una rappresentazione molto mossa, in cui il dialogo tra i due poeti è ricco di una familiarità sostenuta dalla comune fatica dell'ascesa ed espressa nel rapporto padre-figlio, che ora ha sostituito quello maestro-discepolo - ha il significato allegorico-morale di purificazione raggiunta via via attraverso la fatica del superamento. "Ci troviamo di fronte a uno di quei luoghi del poema dove l'allegoria si aggruma" (Jenni) in un'ascesa ambivalente, accostata da alcuni critici moderni a quella del Petrarca sul monte Ventoux, descritta; nell'epistola datata Malaucène 26 aprile 1336. Anche il Petrarca conferisce ad ogni gesto suo e del fratello Gherardo che l'accompagna, una significazione morale, ma mentre in lui il senso letterale e quello allegorico restano sempre distinti, in Dante essi sono fusi a un grado così avanzata", che nei migliori momenti non sí danneggiano. Noi possiamo leggere questo primo episodio d'una scalata con una partecipazione viva come per un'impresa di montagna... E quando Virgilio dà al suo protetto il mezzo ordine e mezzo consiglio di non fare nemmeno un passo in giù, si tratta d'un ammonimento morale che però vale alla perfezione già per la sola fatica fisica. Senza contare che sempre, nei luoghi danteschi di allegoria più ricca, restano dei particolari il cui senso non oltrepassa quello letterale: come, qui, l'ultimo « carpare » di Dante per giungere al cìnghio" (Jenni).

Lì ci sedemmo entrambi rivolti verso oriente, da dove eravamo saliti, poiché guardare il cammino già fatto suole apportare conforto e gioia agli uomini.

Dapprima volsi lo sguardo verso la spiaggia; poi lo alzai verso il sole, e mi accorsi con stupore che i suoi raggi ci colpivano provenendo da sinistra.

Molti critici moderni vedono nel volgersi di Dante verso oriente un significato mistico, dal momento che, prima ancora della letteratura medievale, già quella patristica avvertiva del valore della preghiera fatta verso oriente, da dove era venuto Cristo. Ma poiché i più antichi commentatori non hanno rilevato nei versi 53~54 tale significato, il Sapegno ritiene giustamente che "Dante non guarda all'oriente in quanto tale, bensì alla parte da cui è salito".
Benché il gran disio sospinga verso l'alto. il cammino resta pur sempre aspro per il corpo e lo spirito, crea un affanno fisico e un affanno morale (che via faremo?; rimira com'io rimango sol, se non restai) in Dante, motivando uno stato di perplessità smarrita che era già stato presente nei canti precedenti, ma che ora viene superato in virtù della vicinanza della meta (additandomi un balzo poco in sue). E' il "momento - afferma il Romagnoli - più schietto e fresco della gioia di Dante: e non possiamo non partecipare a questo silenzioso trionfo della vista sua... e non possiamo non assentire a quel gesto di alzare gli occhi al sole, di muovere la propria vista nella libertà degli spazi infiniti... Il canto sembra giunto al suo culmine, sembra sciogliere tutti gli elementi del dramma umano di Dante per liberarli nell'infinitezza del cielo", ma è una pausa contemplativa breve, anche se molto intensa, perché è subito interrotta dallo stupore (versi 56-57). "Il fatto è che Dante non può indugiare sugli elementi contemplativi... in un canto tutto incentrato sullo slancio morale della conquista, sull'acquisto di scienza certa", che può essergli data solo da Virgilio, la ragione, che, dominando l'apparente mistero del fenomeno fisico, ricompone "in filosofica quiete lo spirito dianzi stupefatto." (Romagnoli)


Virgilio si accorse facilmente che io guardavo tutto stupefatto il sole, là dove entrava nel suo cammino fra noi e il settentrione.

Per questo egli mi disse: « Se la costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce) fosse in compagnia del sole che rischiara alternativamente l'emisfero settentrionale e quello meridionale,

tu vedresti la parte rosseggiante dello Zodiaco (la via percorsa dal sole) ruotare ancora più vicina alla costellazione delle Orse (cioè al polo artico, essendo la costellazione dei Gemelli più a nord di quella dell'Ariete con la quale il sole era allora in congiunzione), a meno che il sole non deviasse dal suo cammino abituale.

Se vuoi sapere come ciò avvenga, pensa, raccogliendoti in te stesso che Gerusalemme e il monte del purgatorio si trovano sulla terra

in modo tale che tutti e due hanno lo stesso orizzonte astronomico e giacciono in diversi emisferi; per questo la strada (cioè la eclittica) che male Fetonte (cfr. Inferno XVII 107-108) seppe percorrere col carro del sole,

vedrai come è necessario che corra, rispetto al monte del purgatorio, da un lato (cioè da destra a sinistra) e, rispetto a Gerusalemme, da un altro (cioè da sinistra a destra), se la tua mente bene discerne».

« Di certo, maestro mio » dissi « non ho mai compreso così chiaramente alcuna cosa davanti alla quale il mio ingegno appariva insufficiente, come ora comprendo

che il cerchio mediano della rotazione celeste, che in astronomia si chiama Equatore, e che rimane sempre tra il sole e l'inverno, (perché quando in un emisfero è inverno, nell'altro è estate e viceversa),

per il motivo che tu dici (cioè che il purgatorio è agli antipodi di Gerusalemme), da questo monte si allontana verso settentrione, mentre gli Ebrei (quando abitavano la Palestina) lo vedevano allontanarsi verso il sud.

Ma se tu vuoi, volentieri desidererei sapere quanto cammino resta da percorrere, perché il monte si innalza più di quanto possa salire il mio sguardo. »

Ed egli: « Questo monte è tale, che la ascesa è sempre ardua per chi l'inizia dal basso; ma quanto più si sale tanto meno essa appare faticosa.

Perciò, quando essa ti sembrerà dolce a tal punto, che il salire diventerà per te facile come procedere su una nave seguendo la corrente,

allora sarai giunto alla fine di questo cammino: qui soltanto potrai riposarti dell'affanno della salita. Non ti rispondo oltre, e questo so come cosa certa ».

"Il monte della virtù è tanto alto e tanto si profonda, che occhio suo né d'altrui non vede la sua sommità, cioè la sua profondità." (Anonimo Fiorentino) L'immagine del monte della virtù è di frequente uso scritturistico e liturgico ed è unita, quasi sempre, al concetto dì ascensione, di rinuncia, dì progressiva conquista della Grazia attraverso la liberazione dal male, perché il passaggio dalla fatica dell'esercizio ascetico alla beatitudine della contemplazione è l'itinerario consueto della mistica cristiana.

E non appena egli ebbe finito di parlare, risuonò vicina una voce: « Forse avrai bisogno di ríposarti prima dì giungere lassù! »

E’ la voce di Belacqua che, secondo l'Anonimo Fiorentino, "fu uno cittadino di Firenze, artefice, e facea cotai colli di liuti e di chitarre, e era il più pigro uomo che fosse mai. E si dice di lui ch'egli venia la mattina a bottega, e ponevasi a sedere, e mai non si levava se non quando egli voleva ire a desinare e a dormire. Ora l'autore fu forte suo dimestico: molto il ríprendea di questa sua nigligenzia".
Questa voce interviene dando l'impressione di continuare il tono del discorso di Virgilio, ed è invece, secondo l'acuta analisi del Sapegno, la proiezione che Dante fa di un suo sentimento contrastante con le nobili parole di Virgilio, per "esprimere le esigenze e i bisogni realistici della sua carne fragile", oggettivando il conflitto che si svolge nel suo intimo. "Lo slancio dello spirito deve pur fare in ogni momento i conti con la fragilità della carne", e deve moderare la sua baldanza di fronte alle difficoltà che attendono di essere superate, abbandonandosi più pazientemente e docilmente alla volontà divina. Proprio in questo apparente contrasto, tra il senso di fatica e di ascesi sottolineato dallo spirito del Poeta e il senso di abbandono e di passività di Belacqua (esprimente la staticità del corpo), la poesia autentica del canto: la quale è fondata nella prospettiva di equilibrio e di unità tra la debolezza dell'uomo e la forza della Grazia; equilibrio che sostiene l'umanesimo cristiano di Dante e di tutta la Commedia.
Perciò questo episodio non deve essere letto, come molte volte è stato fatto dalla critica, in chiave comica, ma, pur tenendo conto della sua venatura scherzosa, permessa anche dallo spunto autobiografico che riporta ad un ambiente fiorentino fresco e vero, deve essere visto come un serio richiamo ad una maggiore purificazione. Per l'Apollonio "l'orgoglio razionale di Virgilio e Dante, usciti appena dalla scansione eroica che ha misurato, dopo l'ascesa della balza, il cammino delle stelle" a Belacqua "pare, ed è, cosa dappoco; e mentre Dante, orgoglioso ancora, si permette di canzonarlo con aperte parole, e preziose (colui che mostra sé ... ) egli si contenta di staccarlo da sé: va tu su..."


Al suono di questa voce entrambi ci volgemmo, e scorgemmo a sinistra un grosso macigno, del quale né io né Virgilio ci eravamo prima accorti.

Lo raggiungemmo con fatica; e lì c'era un gruppo di anime che giacevano all'ombra di questa rupe nell'atteggiamento che suole indicare pigrizia.

Sono le anime di coloro che, per negligenza e pigrizia, aspettarono a pentirsi alla fine della vita e che devono rimanere nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero.

E una di loro, che mi sembrava stanca, sedeva abbracciando le ginocchia, e abbandonando il viso tra esse.

« O mia dolce guida » dissi « osserva quello che appare più negligente degli altri, come se la pigrizia fosse una sua sorella. »

Allora quello si volse verso di noi, e guardò, muovendo solo gli occhi lungo la coscia (senza alzare il viso), e disse: « Sali tu ora, dal momento che sei così bravo! »

Riconobbi allora chi era, e l'affanno che rendeva ancora un poco affrettato il mio respiro, non mi impedì di accostarmi a lui; e dopo

che gli giunsi accanto, sollevò un poco la testa, dicendo: « Hai capito bene come il sole manda i suoi raggi dalla parte sinistra? »

La derisione di Belacqua sottolinea, ironizzandola, l'eccessiva attenzione di Dante alla spiegazione astronomica di Virgilio e contrappone, a quell'impegno di conoscenza, la propria indolente saggezza, che supera quelle questioni perché non se le pone, quasi sentisse la sua pigrizia come una fatalità. Alcuni tuttavia intendono l'ironia di Belacqua rivolta non all'attenzione di Dante, ma alla lentezza della sua capacità di intendere una spiegazione così semplice. Gli atti... pigri e le corte parole muoveranno il riso di Dante. "La prima volta ch'e' rida - nota il Tommaseo - l'altra sarà alle parole di Stazio: l'uno sorriso di sdegno, ma amico, l'altro d'affetto, ma riverente; le due aie di Dante."

I suoi atti pigri e le sue parole brevi mossero un poco le mie labbra al sorriso; poi dissi: « Belacqua, io non sono più in ansia

per te ormai (sapendoti salvo); ma dimmi: perché te ne stai seduto appunto qui? aspetti forse una guida, oppure sei stato ripreso dalla pigrizia abituale?»

E quello; « Fratello, che giova il salire? infatti l'angelo di Dio che custodisce la porta del purgatorio non mi lascerebbe affrontare le pene dell'espiazione.

Belacqua non solo ha un atteggiamento passivo, ma sembra giustificare la sua stessa indolenza: o frate, l'andar su che porta? Infatti l'angelo gli impedirebbe di salire anche se egli lo volesse. Questa giustificazione della pigrizia è sembrata ad alcuni discordante dallo spirito di tutta la cantica, la quale è liberazione progressiva dal terrestre e, comunque, sempre tensione verso la beatitudine, mentre a quello spirito si ricollega appieno. Il Pietrobono così nota a proposito: "Se l'angelo portiere non gli permette d'entrare, e Dio agli accidiosi ha negato il conforto e il beneficio della preghiera, e lì nell'antipurgatorio le anime non sono soggette a pene fisiche, che dovrebbe fare Belacqua? Altro non può se non aspettare il tempo stabilito e, per sua vergogna, in un'attitudine che gli ricorda di continuo la colpa. In fondo gli spiriti dei pigri, come tanti altri, patiscono del male che hanno commesso".

E' necessario che prima il cielo giri intorno a me fuori di quella porta, per tutto il tempo che mi girò intorno in vita, poiché rimandai fino all'estremo il pentimento,

se non mi aiuta prima la preghiera che sgorga da un cuore in grazia di Dio: che vale l'altra (quella del peccatore), che non è esaudita in cielo? »

L'apparente scontrosa ironia di Belacqua, unico spiraglio in quella sua compatta staticità, si scioglie dinanzi alla invocazione - pur contenuta - di preghiere: "Belacqua si trasforma, come doveva inevitabilmente avvenire, in un personaggio di gentilezza, perfettamente circoscritto nella luce morale che vela di malinconia, di trepida attesa le anime della seconda cantica"(Romagnoli).

E già Virgilio, saliva precedendomi, e dicendomi, « Vieni ormai: vedi che il sole è al meridiano (è tocco meridian dal sole: è cioè mezzogiorno) mentre (nell'emisfero boreale) sulla riva dell'Oceano

la notte già si distende fino al Marocco (Morrocco: esso costituiva l'estrema parte occidentale della terra abitata) ».

 

Purgatorio – Canto V

Io mi ero ormai allontanato da quelle ombre (le anime dei negligenti), e seguivo le orme della mia guida, quando alle mie spalle, indicandomi,

una di esse gridò: « Osserva che il raggio del sole non si vede rilucere alla sinistra (Dante e Virgilio, mentre salgono, volgono le spalle a levante e il Sole, perciò, li colpisce a destra) di quello che sta sotto (Dante infatti segue Virgilio), e come sembra si comporti come un vivente!»

Quando udii queste parole volsi lo sguardo, e vidi le anime guardare con stupore me, solo me, e i raggi dei sole che erano interrotti (dal mio corpo).

Quella che ad una prima lettura può apparire come una zona poetica di passaggio o tutt'al più come un motivo preparatorio dell'intervento didascalico di Virgilio (versi 10-18), si arricchisce di risonanze profonde se consideriamo che nota caratteristica (poeticamente validissima) della seconda cantica è l'attenzione precisa con la quale il Poeta dispone già all'inizio la tonalità dominante del canto. Deciso è il movimento di Dante (e il già posto nel primo verso segna uno stacco quasi violento dal gruppo dei negligenti), ma altrettanto scattanti sono quel dito e quella voce che grida, colpita dalla vita presente nell'atteggiamento di Dante (e come vivo par che si conduca!), sul quale si ripercuote questa agitazione (li occhi rivolsi): è una breve rappresentazione drammatica che - ampliata dall'intervento di Virgilio e dalla corsa delle due anime (versi 28-29) che si trasforma in una corsa collettiva di tutte le altre (verso 42) - fa da prologo a quella ben più vasta e grave della seconda parte del canto.

« Perché, il tuo animo si lascia distrarre a tal punto » disse il maestro, « che rallenti i tuoi passi? che importanza può avere per te ciò che queste anime mormorano?

Vieni dietro a me, e lascia parlare la gente: comportati come una torre solida, la cui cima non si muove mai per quanto i venti possano soffiare;

poiché accade sempre che l'uomo nel quale continuamente un pensiero germoglia dall'altro, allontana da sé il raggiungimento della meta, in quanto l'impeto del nuovo pensiero indebolisce l'altro. »

Che cosa potevo rispondere, se non « Io vengo »? Così infatti risposi, un poco soffuso di quel rossore che talvolta (quando la vergogna non induce all'ira per essere stato colto in errore e quando la colpa non è troppo grave) rende l'uomo degno di essere perdonato.

Il rimprovero di Virgilio è apparso, ad alcuni critici, eccessivo ("ramanzina" alla quale Dante reagisce con il rossore di chi si accorge di essere bersaglio di un biasimo eccessivo, secondo il Mattalia, "rimprovero... sproporzionato a così lieve colpa", secondo il Momigliano), troppo pedagogico, laddove il richiamo morale (che si congiunge in una stessa significazione con quello di Catone nel canto II e con, quello di Virgilio stesso nel canto III) è il motivo lirico nel quale si trasforma il concetto teologico della fragilità dell'anima e della necessità che la ragione (in questo caso Virgilio) sostenga la paziente attesa della Grazia. L'intensità con la quale Dante avverte questa verità è rivelata dalla potenza dell'immagine della torre, la cui cima sa opporsi anche ai venti più violenti, immagine di urto e di resistenza, mentre la espressione lascia dir le genti pare suggerire la fierezza dell'esule di fronte a quanto il mondo pispiglia.

Frattanto lungo la costa (del monte) in direzione trasversale (rispetto ai due poeti) avanzava un gruppo di anime che ci precedevano di poco, cantando il salmo « Miserere » a versetti alternati.

Quando si accorsero che non lasciavo passare attraverso il mio corpo i raggi del sole, il loro canto si trasformò in un « Oh! » lungo e fioco;

e due di loro, in qualità di messaggeri, corsero incontro a noi e ci chiesero: « Informateci della vostra condizione ».

Quelle che avanzano cantando il Salmo L, uno dei sette salmi penitenziali, sono le anime di coloro che perirono di morte violenta e che, pentitisi solo in punto di morte, devono restare nell'antipurgatorio probabilmente (Dante infatti non lo specifica) tanto tempo quanto vissero. La processione avanza lentissima, quasi i passi fossero scanditi dai tristi versetti del salmo, che sembrano ritmare anche lo stato d'animo di questi penitenti, quella cupa malinconia che dalle parole del canto si prolunga nell' « Oh! » lungo e roco. Dopo essersi ripercossa nella magica lentezza della terzina 22, troverà la tensione più acuta e nello stesso tempo più sconsolata nell'espressione noi . fummo tutti già per forza morti, con la quale le anime iniziano a rievocare la loro drammatica vicenda terrena. La stasi che sembrava stringere queste anime di perseguitati al monte, creando una raffigurazione da bassorilievo vicina a quella delle anime degli scomunicati (canto III, versi 70-72 e 91-93), è subito spezzata dall'ansiosa corsa di due di loro verso quel corpo che non dava loco... al trapassar de' raggi, e che pareva riportare in mezzo a loro la terra lontana e proprio attraverso quella realtà, il corpo, che in essi era stata colpita e umiliata.

E il mio maestro: «Voi potete ritornare e riferire a coloro che vi hanno mandato che il corpo di costui è ancora vivo.

Se essi si sono fermati perché hanno visto la sua ombra, come penso, hanno avuto una sufficiente spiegazione: lo accolgano con gentilezza, perché potrà essere prezioso per loro (chiedendo preghiere ai vivi, dopo essere ritornato nel mondo) ».

Lo Hatzfeld, commentando attentamente questo canto, trova che "la risposta di Virgilio in « stile sublime » è un capolavoro di solennità e di accorta disposizione. Vi è solennità perché Virgilio imita le parole che Cristo rivolge ai messaggeri di San Giovanni in un caso analogo (Matteo XI, 4: "Andate e riferite a Giovanni"), usa il verbo elevato ritrarre per « riferire », termine che all'epoca di Dante era riservato alle ambascerie, usa espressioni comuni nelle discussioni eucaristiche degli Scolastici (verso 33) ... L'accorta disposizione consiste nel rimandare fino all'ultimo dei sei versi ciò che è il fatto più importante per i messi, l'annunzio che Dante può aiutare i pellegrini, e ciò a sua volta viene comunicato con una velata circonlocuzione: esser può lor caro".

Non vidi mai stelle cadenti fendere il cielo sereno all'inizio della notte, né, al tramonto del sole, (vidi mai) lampi fendere le nuvole d'agosto tanto rapidamente,

Vapori accesi: poiché la scienza medievale riteneva che le stelle cadenti e i lampi avessero origine da una stessa causa, l'accensione dei vapori, essa li indicava con uno stesso termine.

che quelli non tornassero in minor tempo alla loro schiera; e, dopo esservi giunti, tornarono indietro con gli altri verso di noi come una schiera che si lancia in una corsa sfrenata.

« Queste anime che si accalcano intorno a noi sono numerose, e vengono per pregarti » disse Virgilio: « tuttavia tu continua a procedere e mentre cammini ascolta. »

« O anima che compi questo viaggio per purificarti con quel corpo al quale fosti legata fin dalla nascita » gridavano, « arresta un poco i tuoi passi.

Guarda se mai hai visto qualcuno di noi, in modo da riportare notizie di lui sulla terra: perché cammini? perché non ti fermi?

Noi un tempo fummo tutti uccisi con la violenza, e fummo peccatori fino all'ultirno istante della notra vìta: in punto di morte la grazia divina ci rese consapevoli dei nostri peccati,

in modo che, pentendoci (dei nostri peccati) e perdonando (i nostri nemici), morimmo riconciliati con Dio, che ci consuma col grande desiderio di vederLo. »

Il guizzare dei vapori accesi aveva evocato la pura visione di una notte stellata e di un sole al tramonto, ma lungi dall'allontanare, l'attenzione del lettore dalla scena, ve la immerge totalmente, perché essa non può non seguire quella schiera tumultuosa e disordinata - dove prima c'era la compattezza e l'ordine di una processione che si accalca intorno a Dante (anche per lui non c'è respiro ìn questo canto: deve continuare quasi ansioso, quasi affannato di fronte a quell'ammonitore pur va del suo maestro). "L'ansia delle anime che si esprime con tanta vivacità nei loro movimenti nell'intonazione della loro supplica, la quale è « gridata » (venian gridandi), non detta, e ha un ritmo inesistente e affannoso (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?), nasce naturalmente dal desiderio di essere ricordate nel mondo e aiutate con le preghiere ad affrettare l'espiazione, sicché più presto possano soddisfare a quella sete dì veder Dìo che le consuma (versi 56-57: Dio... che del disio di sé veder n'accora)." (Puppo) Tuttavia l'ispirazione profonda di questo canto, è da cercarsi nel tema poetìco del « corpo » che, introdotto nei versi 25-26 e ripreso da Virgilio (verso 33), è svolto dalle anime nei versi 46-47, dove affiora la nostalgia del corpo dal quale furono staccate con la violenza. Il dramma della separazione violenta dell'anima dal corpo, già svolto da Dante neIl'Inferno nel canto dei suicidi, dove si :trasformava nell'angoscia eterna degli uomini divenuti sterpi, percorre, naturalmente con una diversa tonalità, anche questo canto nel "sentimento vivo del destino del « corpo », del corpo involontariamente .abbandonato in una solitudine indifesa, esposto alle forze avverse della natura e del demonio" (Puppo). Questo motivo, che sembrerebbe legare in modo quasi carnale i penitenti al mondo (il Sapegno osserva che la tragedia di sangue, che concluse la loro esistenza agitata e peccaminosa e coincise con l'istante della loro conversione, crea, fra essi e il mondo, dei vivi un rapporto più stretto e doloroso", concorrendovi anche I'immagine di un dramma sempre presente alla memoria e il sentimento di non aver lasciato dietro di sé nessuno che li ami e preghi per loro"), è anche quello che li libera e li purifica: la loro vita, che fu peccaminosa, si riduce all'istante supremo della morte quando l'orrore del sangue - un orrore così straziante da ricordarlo ancora - portò con sé il desiderio struggente della pace e la forza del perdono. L'emblematica triade peccato-violenza-sangue, secondo la definizione del Mattalia, ci riporta al canto V dell'Inferno, ad altre anime che affermano: noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ma "la tragica serie consequenziale peccato-morte-dannazione, nell'attimo stesso di affondare nella tenebra infernale s'incurva, improvvisamente, prodigiosamente, verso l'alto: peccato-morte-salvazione.

Ed io « Per quanto vi osservi attentamente, non riconosco alcuno di voi; ma se voi desiderate qualcosa che io possa fare, o spiriti destinati alla salvezza,

ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che debbo cercare attraverso i regni dell'oltretomba seguendo questa guida »

Ed uno di quegli spiriti cominciò a parlare: «Ciascuno di noi si fida del tuo servigio senza bisogno di giuramenti, a meno, che una impossibilItà indipendente impedisca dì realizzare il tuo proposito.

Perciò io, che parlo da solo davanti agli altri, ti prego, se mai tu possa vedere la Marca Anconetana (quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo: posto a sud della Romagna e a nord del regno di Napoli, governato nel 1300 da Carlo Il d'Angìò),

di essere generoso nelle tue richieste per me nella città, di Fano, cosicché per me si preghi da persone in grazia di Dio affinché possa espiare le mie gravi colpe.

Il penitente è Jacopo di Uguccione del Cassero, che nacque a Fano da nobile famiglia. Partecipò nelle truppe guelfe alla battaglia dì Campaldino (1289); fu podestà di Bologna nel 1296-1297 e difese energicamente il Comune di fronte ai tentativi di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara. Nel 1298 fu nominato podestà di Milano e, per evitare il territorio estense, raggiunse per mare Venezia, e attraverso il territorio di Padova si diresse verso Milano, ma fu raggiunto dai sicari di Azzo VIII nei pressi del castello, di Oriago sul Brenta e ucciso.

Nacqui in questa città, ma le ferite mortali dalle quali sgorgò il sangue nel quale risiedeva la mia anima (in sul quale io sedea: era pensiero comune, ai tempi di Dante, che il sangue fosse la sede dell'anima), mi furono prodotte nel territorio di Padova (in grembo alli Antenori: Antenore fu il troiano fondatore di Padova, secondo Virgilio - Eneide I, versi 247 sgg.).

là dove, io ritenevo di essere più sicuro (essendo fuori del territorio estense): fui ucciso per volere di Azzo VIII, che mi aveva in odio assai più di quello che fosse giusto.

Ma se io fossi fuggito verso Mira (borgo tra Padova e Oriago), quando fui raggiunto (dai sicari) nelle vicinanze di Oriago, sarei ancora nel mondo dei vivi.

Invece corsi verso una palude, e le canne palustri e il fango mi avvilupparono a tal punto, che caddi; e in quel luogo vidi il mio sangue formare in terra un lago »,

Il dramma della morte violenta si precisa in un trittico che assume man mano sfumature diverse e nel quale le "anime stesse, quanto più pure e sole, si allontanano da quel gorgo di sangue"(Apollonio). Jacopo è ancora preso dai ricordi terreni, la sua dignità di un tempo è ancora presente (io, che solo innanzi alli altri parlo), il suo linguaggio elaborato è quello del dignitario, tuttavia la sua terra è già sfumata in lontananza: basta un semplice aggettivo quel, per allontanare visivamente e sentimentalmente il paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, laddove in Francesca l'espressione siede la terra dove nata fui (Inferno canto V, verso 97) costituisce come intensamente presente una lontananza di spazio e di tempo. La fisionomia del personaggio si precisa meglio a partire dal verso 73, perché in lui, come in Bonconte e in Pia, il punto vitale è "il modo della morte o il sentimento con cui essi la ripensano" (Momigliano). A un'impressione fortemente fisica quella che Jacopo ancora avverte, lo strazio della carne (li profondi fori), la corsa fino alla palude, l'urto contro le canne, il peso del fango che pare voglia attirarlo a sé, la caduta, infine il rosso del sangue intorno, e tuttavia non c'è nessun accento d'odio verso il suo assassino (verso 77). La pace conquistata in punto di morte, che ha prima esaltato insieme con le altre anime, fa sì che contempli quel lago di sangue come "qualche cosa di estraneo, di staccato, quasi di materiale, che si adegua alla terra, mentre prima proprio in esso risiedeva quell'io che ora lo contempla distinto da sé" (Puppo).

Poi parlò un altro spirito: « Possa realizzarsi quel desiderio (il ricongiungimento a Dio) che ti porta verso l'alto monte del purgatorio, (in nome di questo augurio) cerca di aiutare il mio (che è identico al tuo) con preghiere efficaci !

Appartenni alla casata dei Montefeltro, sono Bonconte: Giovanna (vedova di Bonconte) o altri miei parenti non si preoccupano di me; per questo cammino fra costoro a fronte bassa ».

Bonconte da Montefeltro fu figlio di Guido, da Dante posto nell'inferno fra i consiglieri fraudolenti (canto XXVII, versi 19 sgg.), e come il padre fu acceso ghibellino. Ebbe molta parte nella cacciata dei Guelfi da Arezzo (1287) e nella sconfitta che gli Aretini inflissero ai Senesi alla Pieve del Toppo (1288). Comandò i Ghibellini di Arezzo nella guerra contro Firenze, che culminò nella battaglia di Campaldino (1289), nella quale Bonconte morì; il suo corpo non fu più ritrovato.

E io gli risposi: « Quale forza (umana o divina) o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non si conobbe mai la tua sepoltura? »

Dante combatté nella battaglia di Campaldino fra i "feditori" a cavallo, ma nella parte guelfa. Di fronte al nemico di un tempo, una sola è la sua preoccupazione: sapere come Bonconte morì e quale fu la sua sepoltura. Mentre ci riportano al tema fondamentale del canto, quello della morte, le sue parole sono la logica conseguenza di quelle con cui il suo nemico si è presentato (io fui da Montefeltro, io son Bonconte), scandendo "il distacco dal mondo terreno con le sue effimere determinazioni di luoghi, di titoli, di potenza"(Grabher), perché "ora gli resta solo quel che veramente non muore e cioè la sua interiore persona legata ancora al suo nome: io son Bonconte"; anche gli affetti terreni sono persi, ed egli si isola dagli altri in una solitudine che non è quella orgogliosa di un Farinata, ma quella dolente di chi medita intorno alla brevità dei beni mondani. Commentando questo incontro, il Puppo rileva che "al livello del purgatorio, dove entrambi si trovano nel faticoso cammino della perfezione, le antitesi politiche hanno perduto qualsiasi significato, come l'hanno perduto tutte le dignità e le distinzioni terrene... Fra Dante e Farinata poteva accendersi il duello delle affilate parole; non fra Dante e Bonconte".

« Oh! » rispose, « ai piedi dei monti del Casentino scorre nella valle un torrente chiamato Archiano, che nasce sull'Appennino sopra l'eremo di Camaldoli.

Arrivai, ferito alla gola, nel punto in cui esso perde il suo nome ('l vocabol suo diventa vano: perché si getta nell'Arno), fuggendo a piedi e insanguinando la terra.

Qui i miei occhi si velarono, e la mia voce si spense pronunciando il nome di Maria, e qui caddi e il mio corpo rimase inanimato.

La grandiosità della figura di Bonconte nasce non dallo scontro delle potenze infernali con quelle angeliche per il possesso della sua anima, ma dallo sfondo paesistico sul quale si distende non più la piccola palude di Jacopo, ma la lunga catena dei monti del Casentino, mentre lontano domina, nella sua superba solitudine, quasi simbolo ammonitore di una pace ottenuta solo nel distacco dal mondo, l'eremo di Camaldoli. La corsa affannosa di Bonconte, nel vano tentativo di salvarsi dall'odio dei nemici, non è nascosta subito dal fango, ma campeggia in tutto il piano, diventando qualcosa di epico: il suo sangue è "una striscia che riga la pianura con straziante evidenza" (Puppo), in contrapposto al lento allargarsi della pozza di sangue di Jacopo. Il paesaggio, prima così nitido e preciso, osservato quasi con gli occhi di un capo militare, ancora padrone di sé, si vela improvvisamente davanti a lui, mentre appare il lume del ciel, finché anche per lui "il cadere e il morire è tutt'uno. Non rimane che il peso inerte della carne; sola perché senz'anima; sola anche materialmente, un piccolo mucchio nella vasta campagna. I due versi precedenti costituiscono un'unità ritmica che si arresta sul caddi: poi, il rimanente del verso terzo ha suono martellato e solenne" (Bosco), segnando in tal modo "tre gradi della morte: il velarsi della vista, lo spegnersi sulle labbra della parola, il cadere".

Ti racconterò cose vere e tu le riferirai nel mondo dei vivi: l'angelo di Dio prese la mia anima, mentre il diavolo gridava: "Perché mi privi di quest'anima peccatrice, tu che sei un angelo del cielo?

Porti via con te l'anima di costui per una lagrimuccia che me la sottrae; ma userò per il corpo (dell'altro) un trattamento ben diverso!"

L'episodio di Bonconte s'inoltra nella parte più propriamente fantastica, dove il Poeta risolve in termini inventivi quella che era l'ipotesi comune intorno alla scomparsa di Bonconte, e di molti altri, dopo la battaglia di Campaldino: che i loro corpi fossero stati travolti dalle acque dell'Arno in piena.
La critica, concordemente accosta questo contrasto fra l'angelo e il diavolo (uno dei tanti "contrasti" della tradizione letteraria e figurativa del Medioevo) a quello fra San Francesco e il diavolo per l'anima del padre di Bonconte, Guido, nel canto XXVII dell'Inferno. Poiché la ricerca di simmetria ha un suo profondo valore in Dante, nella convergenza o divergenza di significati, occorre rilevare - d'accordo col Sapegno - che mentre quel primo contrasto voleva indicare l'inutilità di un lungo periodo di penitenza, se esso è interrotto da un peccato senza pentimento, questo sottolinea come un solo attimo di penitenza basta a salvare un'anima, essendo il giudizio di Dio indipendente dalla opinione umana.


Tu sai con chiarezza come nell'aria si raccoglie il vapore acqueo che si trasforma di nuovo in acqua, non appena sale nella regione fredda del cielo.

Sopraggiunse il diavolo che desidera soltanto il male con il suo intelletto, e provocò il vapore acqueo e il vento con quel potere che gli proviene dalla sua natura.

Poi, non appena giunse la notte, coperse di nebbia la valle (di Campaldino) dal monte Pratomagno alla Giogaia di Camaldoli; e provocò nel cielo un così grande ammasso di vapori,

che l'aria satura di nubi si convertì in acqua: cadde la pioggia e quella parte di essa che la terra non riuscì ad assorbire si raccolse nei fossi;

e quando raggiunse i torrenti, si convogliò verso l'Arno (fiume real: secondo l'espressione usata nel Medioevo per indicare i fiumi che sfociano in mare) con tanta velocità, che nessun ostacolo potè trattenerla. 

L'Archiano in piena trovò il mio cadavere alla sua foce, e lo spinse nell'Arno, e sciolse dal mio petto la croce 

che avevo fatto delle mie braccia quando mi aveva sopraffatto il dolore del pentimento: mi voltò lungo le rive e sul fondo; poi mi coperse e mi nascose con i suoi detriti. »

Poiché é la voce di Bonconte che racconta, la lunga inserzione scientifica, se pare diminuire momentaneamente il grado di tensione, testimonia il distacco con cui il penitente osserva l'ultimo giorno della sua. vita. La salma diventa ara "il punto, prospettico di convergenza del fantastico e grandioso quadro della bufera ..." (Mattalia); contro di essa si getterà il movimento che, iniziato con ritmo. dapprima lento, (mosse il fummo e 'l vento), assumerà man mano, nelle diverse fasi, un impeto travolgente (si converse.. cadde... venne... si convenne si, ruinò ... ), finché troverà la sua preda. C'è un accanimento al quale hanno concorso le forze naturali e quelle savrannaturali, laddove contro Manfredi (al cui episodio ci riporta la scena della tempesta e dell'oltraggio fatto al corpo) era soprattutto il cieco odio di una povera umanità che ignorava la misericordia divina. Dapprima l'anima distingue separato da sé il suo corpo gelato, chiuso nella maestà della morte, ma, quando l'acqua lo ghermisce trascinandolo con sé, "improvvisamente essa si identifica con questo, dice voltommi; dice mi coperse e cinse. Torna dunque alla fine esplicito l'accoramento di Bonconte per fl misero corpo: accoramento per la cieca crudeltà degli uomini" (Bosco).

« Quando sarai tornato nel mondo, e ti sarai riposato del lungo cammino », disse un altro spirito dopo il secondo,

«ricordati di Pia: Siena mi diede i natali; la Maremma mi diede la morte; (come morii) lo sa colui che prima mi aveva dato l'anello nuziale

prendendomi in moglie. »

Nei versi 135-136 Dante allude a una sola cerimonia: la promessa dì prendere in moglie e la consegna dell'anello, mentre le nozze vere e proprie erano celebrate più tardi in casa dello sposo. Parla Pia, una senese appartenente forse alla famiglia dei Tolomei. Sposò Nello d'Inghiramo dei Pannocchíeschi, signore del castello della Pietra in Maremma. Secondo alcuni antichi commentatori sarebbe stata uccisa dal marito che voleva sposarsi con Margherita Aldobrandeschi, secondo altri sarebbe stata uccisa per una sua infedeltà, secondo altri ancora per sospetto di infedeltà.
Se tuttavia la critica romantica ha creato il mito dì una Pia vittima innocente, contrapposta alla peccatrice Francesca, non è inutile ricordare che Dante la pone fra coloro che furono peccatori infino all'ultima ora.
L'apparizione di questa figura, nella quale la preghiera sicura di sé di Jacopo e quella più incerta e sofferente di Bonconte, si purifica nella dolce preoccupazione per Dante (quando tu sarai... riposato della lunga via), avviene dopo che il crescendo ritmico della bufera si era placato in uno di quei versi (verso 129) che il Bosco definisce "definitivi" e che "così caratteristicamente suggellano in Dante un motivo drammatico", segnando nella "sinfonia lo stacco tra il terzo tempo, così mosso e drammatico, e il quarto, un pianissimo elegiaco". Ma anche se, sempre secondo l'analisi del Bosco, la poesia dei due episodi precedenti è « fatto », perché è soprattutto costituita dal paesaggio, dal gesto, dal colore, è "un visibile parlare e soffrire", non si possono dissolvere le parole di Pia in una semplice suggestione musicale, come tende a fare anche il Momigliano. Il verso 134 ha una sua forza interiore che ripropone ancora una volta il tema del distacco (disfecemi) innaturale dell'anima dal corpo, anche se il movimento drammatico dei due episodi precedenti "si contrae e si smorza nell'ultimo, che da questa smorzatura musicale acquista il suo fascino poetico" (Puppo), anche se Pia, più ancora che Jacopo e Bonconte, vela la sua vita e la sua morte, e, nell'accenno a colui che fu causa della sua fine, accanto al perdono, fa vibrare pur sempre un sentimento di amore.

 

Purgatorio – Canto VI

Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato, tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca di imparare (a far meglio per il futuro)

mentre tutti g li spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco:

ma il vincitore non si ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa.

Il Poeta allude a un gioco di dadi diffusissimo. benché vietato dagli statuti comunali, nel secolo XIV in tutta Italia (e in molte parti d'Europa), consistente nell'indovinare in anticipo i numeri che risultavano dalla combinazione di tre dadì gettati su un tavoliere, mentre intorno ai giocatori si affollavano i curiosi: una scena alla quale Dante avrà tante volfe assistito sulla piazza del Mercato Vecchio di Firenze. Questa osservazione dal vero spiega il realismo dal ritmo vivace e incalzante di questa similitudine, staccando decisamente l'esordio del canto VI dal tono mestamente elegiaco con il quale terminava il canto precedente, La differenza tonale ha fatto osservare al Gentile che "la tragedia scende fino alla farsa", e al Momigliano che "I'immagine è lavorata come un pezzo a sé, con una scarsa aderenza al contesto". Tuttavia se la mescolanza di stili (tante volte osservata nell'Inferno) si giustifica con la libertà di cui il Poeta deve disporre per realizzare di volta in volta la sua ispirazione, la sua presenza anche nel Purgatorio non può essere motivo di stupore, anche perché "in Dante la preoccupazione della sintonia che diremo interna, qualitativa, delle comparazioni non è costante né preminente" (Mattalia). Inoltre, considerando l'importanza che il Poeta conferisce sempre.agli esordi dei canti, non si può non vedere nella similitudine della zara il contrappunto alla solennità dell'episodio di Sordello e nello stesso tempo il richiamo al tema fondamentale della seconda cantica, la richiesta di preghiere: richiamo tanto più importante in quanto proviene da coloro che furono vittime della malvagità del mondo e che ora sono uniti al mondo solo dal sacro legame della preghiera.

Così mi trovavo io in mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo.

Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici.

Dante inizia la rassegna delle anime dei morti violentemente con la figura di Benincasa da Laterina (nel territorio di Arezzo), famoso giureconsulto del XIII secolo. Mentre era vicario del podestà di Siena, condannò a morte uno zio e un fratello di Ghino di Tacco, un senese divenuto famoso "per la sua fierezza e per le sue ruberie" (Boccaccio - Decamerone X, II, 5), il quale si vendicò uccidendo Benincasa in una sala dei tribunale a Roma.
L'attro ch'annegò correndo in caccia è Guccio dei Tarlati da Pietramala, appartenente a una famiglia ghibellina di Arezzo, vissuto nella seconda metà dei '200; mori annegando nell'Arno, mentre combatteva contro i fuorusciti guelfi della famiglia dei Bostoli.


Qui pregava con le mani tese Federigo Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza d'anímo.

Federigo Novello dei conti Guidi fu ucciso nel 1289 o nel 1291 presso Bibbiena da uno dei Bostoli.
Quel da Pisa fu, secondo gli antichi commentatori, Farinata, figlio di Marzucco degli Scornigiani, e venne assassinato da un pisano suo concittadino; secondo gli ultimi studi si tratterebbe invece di Gano, un altro figlio di Marzucco, che fu fatto uccidere dal conte Ugolino nel 1287. Marzucco era entrato l'anno prima nell'ordine francescano, e dimostrò la sua forza d'animo sia nell'accettazione serena di quel dolore, sia nella decisione con la quale si oppose ad ogni tentativo di vendetta da parte dei suoi consorti: "e così ordinò poi che si fece la pace, ed elli volse baciare quella mano che avea morto lo suo figliuolo" (Buti).

Vidi il conte Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per colpa commessa;

voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male commesso), onde per questo non vada a far parte di una moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima bolgia).

Orso degli Alberti, figlio del conte Napoleone, fu ucciso nel 1286 dal cugino Alberto, figlio del conte Alessandro. Continuava in tal modo la catena di odi e di vendette sanguinose che era iniziata con i padri di Orso e Alberto, che Dante ha posto nella Caina (Inferno XXXII , 41 sgg.).
Pierre de la Brosse, nato da umile famiglia, divenne medico alla corte di Francia al tempo di Luigi IX e di Filippo III l'Ardito, dal quale fu nominato gran ciambellano. Allorché nel 1276 morì misteriosamente il primogenito di Filippo, Luigi, egli accusò Maria di Brabante, seconda moglie del re, di esserne responsabile per potere, in tal modo, assicurare il trono al proprio figlio Filippo il Bello. Attiratosi l'odio della regina, due anni dopo, durante la guerra tra la Francia e Alfonso X di Castiglia, fu accusato di tradimento e condannato a morte. Secondo alcuni antichi commentatori, invece, la regìna lo avrebbe accusato di avere tentato di sedurla. Dante lo considera innocente e vittima, come Pier delle Vigne, dell'invidia, morte comune, delle corti vizio (Inferno XIII, 60).


Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in modo da affrettare la loro purificazione,

io dissi a Virgilio: « Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un decreto divino;

e queste anime soltanto per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo? »

Ed egli mi rispose, « La mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è fallace, se si medita bene con la mente sgombra da erronee opinioni;

poiché la sublime altezza del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora;

e in quel passo dove feci questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era da Dio (essendo fatta da pagani).

Dante ricorda la risposta che la Sibilla diede a Palinuro, il quale la pregava di essere traghettato oltre l'Acheronte pur non avendone diritto, in quanto era insepolto: "cessa di sperare che i decreti divini possano essere piegati con la preghiera" (Eneide canto VI, verso 376). Questa affermazione gli pare in contrasto con l'atteggiamento delle anime invocanti preghiere che possano modificare la legge divina, mentre Virgilio chiarisce il dubbio: la preghiera nel mondo pagano non era indirizzata al vero Dio, perciò essa non poteva offrire alcun aiuto, né sopperire ad alcuna mancanza (nel caso di Palinuro la mancanza di sepoltura), mentre la preghiera cristiana soddisfa quanto richiede la sentenza divina, la quale resta immutabile, ma permette, con la sua misericordia, che venga completato, attraverso questo foco d'amor, il riscatto che è dovuto dall'anima del peccatore. Digressione oziosa secondo alcuni critici (Momigliano), secondo altri invece (Mattalia), è un interessante documento storico-culturale: esso infatti testimonia la lettura in chiave allegorica che veniva fatta delle opere classiche nel Medioevo, allorché gli interpreti, con squisite sottigliezze, cercavano "il punto d'incontro e di sutura tra la « favola » e la lettera del testo interpretato, e le verità «cristiane» che dall'una e dall'altro s'intendeva ricavare". Tuttavia questi versi costituiscono un'opaca pausa meditativa condotta secondo uno stanco modulo didascalico (el par che tu mi nieghi... la mia scrittura è piana) che il Poeta tenta faticosamente di risollevare con la preziosità espressiva del verso 37, nella ricercata contrapposizione di cima a s'avvalla, riuscendo forse meglio a determinare il suo pensiero nell'improvviso lampeggiare di quel foco damor che dalla terra sembra innalzarsi per muovere chi qui si stalla.

Tuttavia non devi fermare il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto:

non so se mi comprendi; io intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice».

E io gli dissi: « Sìgnore, camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra ».

Egli rispose: « Continueremo ormai a salire finché dura il giorno, quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che tu giudichi.

Virgilio, che aveva terminato la sua spiegazione esortando il discepolo a completare la chiarificazione offertagli dalla ragione con quella che farà Beatrice, quale simbolo della teologia, anticipa quasi una visione paradisiaca (versi 47-48), davanti alla quale Dante assume un atteggiamento "così schietto e ingenuo che ha qualche cosa dell'infantile", compiendo "lui le parti che di solito fa Virgilio, stimolando alla fretta... affermando anche di non sentir più la fatica di prima, il che non è vero o è un effetto tutto psicologico dell'idea di veder Beatrice" (Porena). Con questo tratto umanissimo il Poeta dissipa la durezza narrativa dei versi precedenti, incentrando nella sua figura quello slancio d'ascesa che si manifesterà come desiderio di ordine morale e come forza di missione profetica nell'episodio di Sordello. Questa particolare prospettiva giustifica la dimensione strutturale e poetica della rassegna delle anime (versi 13-24), che, ben lontana dal voler "glorificare talune illustri casate toscane", come invece ritiene il Novati, profilava "a poco a poco l'immagine di una società profondamente corrotta, in cui è venuto meno ogni senso di ordine e di giustizia: prepotenza di tiranni e di briganti, guerre di comuni e di partiti, smania di dominio e di ricchezza che acquisce fino al delitto le rivalità familiari, invidie e calunnie cortigiane" (Sapegno), spingendo il Poeta "a riprendere in esame le cause profonde di questa ingiustizia e di questo disordine sociale".

Prima che tu giunga sulla vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra).

Ma vedi là quell'anima che sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di noi: essa ci mostrerà la via più breve ».

Quella che appare è l'anima di Sordello da Goito (nel Mantovano), nato da una famiglia di nobìltà campagnola all'inizio del '200. Fu il più famoso fra i trovatori italiani e Dante nel De Vulgari Eloquentia (I, XV, 2) loda grandemente la sua poesia. Dapprima visse alla corte di Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona, la cui moglie, Cunizza da Romano, celebrò nei suoi versi. Tra il 1224-1226 rapì o favorì la fuga di Cunizza dalla casa del marito, e fu costretto a riparare nella Marca Trivigiana; ma dovette ben presto, in seguito, ad altre non chiare vicende, rifugiarsi alla corte di Raimondo Berlinghieri, in Provenza. Passò poi al servizio di Carlo d'Angiò, seguendolo nella spedizione in Italia contro Manfredi e ricevendo in feudo alcune località dell'Abruzzo. Morì intorno al 1270.
Uno dei motivi principali per cui Dante lo ha scelto come protagonista dell'episodio che si apre, è da vedersi in due componimenti poetici di Sordello, il Compianto per la morte di ser Blacatz, in cui sottopone a severo e spregiudicato giudizio i re e i principi del suo tempo, e il poemetto Ensenhamen d'onor, nel quale rimprovera quei ricchi e quei potenti che si sono allontanati dalle leggi di cortesia e di virtù proprie del mondo cavalleresco. A buon diritto perciò, isolata dalle altre anime della "valletta fiorita", la sua figura in questo canto può offrire l'occasione di criticare il disordine politico del mondo e nel canto successivo la sua voce può indicare e giudicare i potenti della terra.


Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi!

Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa.

Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa,

si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro.

Tutta la critica romantica ha visto in Sordello la figura stessa dell'Alighieri, ardente di amor di patria, cercando nell'atteggiamento e nel gesto del trovatore mantovano l'atteggiamento e il gesto del Poeta fiorentino. Ma se grande fu la simpatia "che Dante, poeta ed esule, errabondo di corte in corte, dovette sentire per questo poeta, protagonista di una fortunosa vicenda biografica, uomo di corte e pur ardito giudice di re e principi" (Mattalia), evidenziare i punti di contatto non significa dimenticare la sapientissima costruzione poetica della sua figura. La solitudine e il silenzio del paesaggio al tramonto - secondo l'osservazione del Momigliano - si legano con la solitudine e il silenzio di Sordello, accrescendone la solennità, avvertendo che la vita del personaggio procede tutta da una concentrazione spirituale, da una tensione (o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa), la quale, chiude nell'intimo questa immagine statuaria "più sbozzata forse che accuratamente scolpita" (Novati) e che rivelerà la sua violenza nel gesto improvviso, animando esteriormente il suo dramma. Il Croce ha definito Sordello il Farinata del Purgatorio, puntualizzando la stessa imponenza fisica e la stessa grandezza morale e politica, ma "in Farinata non c'è raccoglimento bensì un imporsi per mezzo di sentimenti umani violenti, e un proceder per spigoli del discorso e un intervallar frequente di pause... qui è una solennità pacata che irradia una luce la quale ha in sé una forza nascosta d'attrazione; la poesia di Sordello si scioglie in un impeto di calore affettivo, il quale è il termine di quella sua chiusa interiorità che l'ha fatta maestosa. Per questo il moto espressivo ha una caratteristica apertura, ed entro questo tono il canto si sviluppa nell'invettiva all'Italia, che è oratoria retta da sostenutezza sentimentale ed espressiva" (Malagoli).

Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine!

Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra;

mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro.

Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace.

Termini pregnanti di significato politico o giuridico e metafore di larga analogia, espressioni di pacata dolcezza e immagini di aspra violenza contraddistinguono la prima parte dell'invettiva, che secondo il Gentile si svolge in quattro motivi: "apostrofe all'Italia lacerata dalle fazioni, dimentica delle sacre leggi pacificatrici dell'Impero (versi 76-96); apostrofe all'imperatore tedesco distratto, immemore, negligente del suo divino mandato (versi 97-117); invocazione di Dio, che solo conosce le ragioni e i fini del disordine politico e sociale che permette (versi 118-126); invettiva ferocemente sarcastica contro Firenze: la grande inferma (versi 127-151)".
L'aggettivo serva richiama molteplici passi della Monarchia, dove il concetto di servitù, nel campo morale, è legato al peccato, nel campo politico, alla mancanza di leggi, essendo veramente libero solo chi vive secondo la legge morale e politica. Già nel Convivio (IV, IV, 5) la nave è figura della comunità, dello Stato, in cui un potere supremo unifica le funzioni e le suddivisioni dei singoli, mentre in una glossa del COrpus luris Civilis (la famosa raccolta di leggi fatta fare da Giustiniano) l'Italia viene chiamata "non provincia sed dornina provinciarum, non semplice provincia, ma prima fra tutte le province. Dopo il primo furore biblico, lo sguardo del Poeta ritorna al gruppo di Virgilio e di Sordello, uniti dal vincolo dell'amor di patria anche nell'oltretomba, mentre in Italia ogni comunità civile si è sfaldata, effetto ultimo e più grave del disordine politico che dilaga nella penisola. Balza evidente da questa requisitoria "la idea e il sentimento di patria, come elemento primo e assoluto di fusione o di conciliazione o di caldi incontri, al di sopra di ogni distinzione e considerazione. A Farinata Dante, per il convegno di Empoli, ha perdonato in parte Montaperti, pesando sulla giusta bilancia il bene e il male, ma non ha forse dimenticato di esserne stato accolto col moto sopraccillare di nobilesco disdegno proprio di chi ama segnare, socialmente e politicamente, le distanze. Si può osservare che l'esempio offerto da Virgilio e Sordello è di amor patrio regionale o municipale, non nazionale, come amarono vedere gli interpreti dell'Ottocento: la requisitoria di Dante, in effetti, che per questo riprende e inquadra in una prospettiva più ampia il motivo politico del VI canto dell'Inferno, (dramma di Firenze), corre sul binario-motivo del disordine generale dovuto alla carenza dell'autorità imperiale, estesosi fino ad alterare e dissociare le fibre delle collettività comunali, E dall'indicazione delle cause generali (carenza dell'autorità imperiale degradazione, apportatrice di confusione, del magistero spirituale della Chiesa) la spietata e dura diagnosi procede, esemplificando, fino a concludersi con l'amaro-sardonico elogio dì Firenze, esempio quintessenziale di feroce lacerazione e di instabilità politica. Altro e diretto punto di raccordo col VI dell'Inferno" (Mattalia).


A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia).

Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto,

osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia.

La missione che Dante si è proposto è una missione di salvezza spirituale e insieme di salvezza terrena, essendo la prima, nel suo pensiero, legata alla seconda, cioè alla efficiente ricostituzione dell'impero, che, solo, può garantire all'umanità la pace e la giustizia di cui essa ha bisogno al fine di conseguire la felicità temporale: questa, eliminando ogni odio e divisione e aiutando l'uomo ad esplicare le sue virtù, crea le premesse della felicità eterna. Giustiniano (imperatore d'Oriente dal 527 al 565), riordinando il diritto romano nel suo Corpus Iuris (base di tutta la dottrina giuridica del medioevo), e costituendolo fondamento di ogni vivere civile, aveva voluto essere "lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!" (Convivio IV, IX, 10). Quello, però, che ha concorso grandemente alla rovina dell'autorità imperiale è stato l'intervento in campo temporale della Chiesa, che ha violato l'ordine esplicito di Cristo (Matteo XXII, 21; Giovanni XVIII, 36).

O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni,

scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore!

Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata.

Alberto I d'Asburgo fu imperatore dal 1298 al 1308 e assorbito, come un tempo il padre Rodolfo I, dalle preoccupazioni del regno tedesco, trascurò la situazione politica italiana, sempre più complessa e caotica. Su di loro il Poeta invoca la vendetta divina che, nell'interpretazione della maggior parte dei commentatori, si sarebbe abbattuta con la morte precoce di Rodolfo, figlio primogenito di Alberto (giugno 1307) e con la morte dello stesso Alberto (ucciso nel giugno 1308), il cui successore fu Arrigo VII.

Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore!

Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla!

Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? ».

Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse).

Dante presenta in sintesi la situazione di colei che dovrebbe essere, in quanto culla della civiltà romana e sede della cattedra di Pietro, il giardin dell'Europa. Non si sa se il Poeta indichi in questi versi famiglie della stessa città in lotta fra loro o famiglie ghibelline di città diverse. Secondo le ultime ricerche storiche, tuttavia, il nome di Montecchi e di Cappelletti indicava nel '300 non le due famiglie veronesi nemiche, ma il partito imperiale e quello ante imperiale, il primo già battuto, il secondo ormai incapace di dominare i signori delle diverse città. Mentre questa è la situazione nell'Italia settentrionale, nell'Italia centrale, a Orvieto, ferve la lotta fra i Monaldi guelfi e i Filippeschi ghibellini, ormai prossimi alla rovina, che ha già fatto scomparire, di fronte all'incalzare dei Comuni. tutte le famiglie che reggevano feudi imperiali (versi 109-110), fra le quali anche gli Aldobrandeschi, signori di Santafiora, nella zona di Monte Amiata.
La degradazione dell'Italia è totale e trascina con sé anche, Roma, la città imperiale,, la cui immagine di desolazione e di abbandono richiama un versetto delle Lamentazioni di Geremia (I, 1) sulla distruzione di Gerusalemme.


O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove?

Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto?

Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare).

Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene.

All'indignazione e al pathos sottentrano nuovamente l'ironia e il sarcasmo; come se, toccando di Firenze e accostandosi alla ragione più intima e segreta della sua pena, il Poeta si sforzasse di allontanare da sé ogni impulso di compassione e dì giustificazione; ma alla fine la pietà, lungamente trattenuta, prevale e l'invettiva torna a risolversi in elegia." (Sapegno)

Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra.

Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!»

Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo.

Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo

in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre.

Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini!

E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume,

e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.

 

Purgatorio – Canto VII

Dopo che le accoglienze cortesi e gioiose furono ripetute più volte, Sordello si tirò indietro, e chiese: « Ma voi, chi siete? »

« Prima che le anime degne della salvezza (di salire a Dio: in quanto riscattate dalla morte di Cristo) fossero avviate a questo monte, io morii e fui sepolto per ordine di Ottaviano.

Sono Virgilio; e per nessun'altra colpa fui escluso dal cielo che per non aver avuto la fede in Cristo. » In questo modo rispose allora la mia guida.

Come colui che vede improvvisamente dinanzi a sé una cosa che desta in lui stupore, e non sa se credervi o no e dice: « E'... non è... »,

così parve Sordello; quindi abbassò gli occhi, e tornò in atteggiamento umile verso Virgilio, e l'abbracciò là dove l'inferiore abbraccia chi gli è superiore ("dal petto in giù", secondo l'Anonimo Fiorentino).

La concitazione che aveva fatto vibrare nei toni dell'apostrofe e del sarcasmo la seconda parte del canto sesto si smorza improvvisamente, allorché lo sguardo del Poeta torna a posarsi sul fraterno gruppo di Sordello e Virgilio, mentre il ritmo del verso, non più sostenuto dal movimento passionale dell'invettiva, riacquista una pacatezza di accenti, velata di commozione, che preannunzia i tre momenti successivi, la dolente spiegazione di Virgilio (versi 22-36), la descrizione, secondo i motivi stilnovistìci, della "valletta fiorita" (versi 73-81), la rassegna dei principi (versi 88-136). L'atteggiamento di Sordello, in queste prime terzine, è ancora ricco di quello slancio di affetto che, interrompendo la sua immobilità, lo ha spinto verso il suo concittadino (canto VI, versi 73-75), anche se subentra un momento di riflessione (si trasse, e disse: « Voi, chi siete? »), durante il quale però mai rivolge attenzione a Dante, non accorgendosi, per il momento, che è ancora vivo, tutto preso ancora da quel sentimento di amore patrio, che percorrerà, sia pure in forme più moderate, anche il canto VII.

Disse: « O gloria di tutti gli Italiani per mezzo del quale la nostra lingua (nostra perché ancora usata come strumento culturale) mostrò tutta la sua potenza espressiva, o pregio eterno della regione mantovana dov'io nacqui,

quale merito mio o quale grazia divina permette che io ti possa vedere? Se io sono degno di udire le tùe parole, dimmi se vieni dall'inferno, e da quale cerchio ».

Tessuta di eloquenza e vagamente retorica appare l'espressione con la quale Sordello si rivolge a Virgilio, ma in accordo con la dignità e alterezza che ne avevano caratterizzato l'apparizione e che ne sorreggeranno la figura, allorché si assumerà il compito di indicare e giudicare i principi. Ad una lettura attenta a cogliere il significato di cui Dante arricchisce le zone di passaggio fra momenti poetici particolarmente importanti, non sfugge l'ampliarsi di dimensioni della figura di Virgilio, attraverso le parole di Sordello che poetò in provenzale (o gloria de' Latin... per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra): "Dove a chi ripensi a quanto Dante aveva già scritto nel Convivio sulla dignità del volgare come lingua capace di esprimere qualsiasi più alto concetto, il «potere» della lingua latina, in Virgilio non è certo un « potere » soltanto retorico, bensì sapienziale: tutto ciò che poteva essere espresso dal latino precristiano, cioè dalla lingua che Dante ritiene, nell'ordine naturale, relativamente perfetta, fu da Virgilio espresso. Il « tutto » evidentemente non si riferisce alla estensione quantitativa, bensì alla intensità qualitativa: Virgilio ha detto le cose più alte che era possibile dire nell'ordine naturale(Montanari). Giusta glorificazione nel momento in cui Virgilio affida se stesso e il suo discepolo alla guida di Sordello.

Virgilio gli rispose: « Passando attraverso tutti i cerchi del mondo della dannazione sono giunto in purgatorio: una forza celeste mi ha mosso, e vengo assistito da questa.

Non per aver commesso qualche colpa, ma per non aver avuto la vera fede ho perduto la possibilità di vedere Dio che tu desideri contemplare e che da me fu conosciuto troppo tardi (dopo la morte).

Nell'inferno vi è un luogo non rattristato da tormenti veri e propri, ma solo dalle tenebre, dove i lamenti delle anime non risuonano con acute grida, ma solo con sospiri.

Là io sono confinato insieme ai bambini innocenti sorpresi dalla morte prima d'essere lavati (che fosser... essenti: con il battesimo) dalla macchia del peccato originale (dall'umana colpa);

là mi trovo con coloro che non si rivestirono delle tre sante virtù (quelle teologali), ma conobbero e praticarono tutte le altre (le virtù cardinali), senza commettere alcuna colpa vera e propria.

Ma se tu conosci il cammino e ti è permesso indicarlo, donaci qualche spiegazione per cui possiamo più celermente giungere là dove ha veramente inizio il purgatorio ».

Virgilio ripete intorno al limbo, quanto aveva già detto a Dante nell'Inferno (canto IV, 33-42): la lunga digressione non è giustificata da alcun motivo didascalico, né era richiesta dalla breve domanda di Sordello (dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra). Tuttavia essa si sviluppa in profonda unità con le parole pronunciate dal poeta latino nel terzo canto (versi 40-44), a chiusura di un momento di profondo turbamento, che, nato dalla mesta meditazione intorno al corpo lontano, si era trasformato nel rimpianto per l'eterna condanna di tutto il suo mondo, e si era chiuso nella visione della nobile e dolorosa comunione degli « spiriti magni » esclusa dalla superiore comunione della rivelazione cristiana. E' un richiamo continuo di motivi in uno svolgimento per gradi e con vario intreccio che dimostra la validità di questo giudizio del Momigliano: nel Purgatorio "la costruzione non è più soltanto sorretta da motivi geometrici, logici, concettuali [come nell'Inferno], ma anche da motivi di sentimento e da un'insolita continuità di azioni. Le quali sono costituite dalle scene dell'antipurgatorio, da quelle del purgatorio e da quelle del paradiso terrestre, diverse fra di loro per scenario e per stati d'animo", essendo esso "concepito prevalentemente per ambienti, per stati d'animo".
Nella misura in cui il discepolo avanza nella purificazione e diminuiscono le possibilità di guida da parte di Virgilio, bisognoso anch'egli di consiglio in un mondo che non conosce, la figura del poeta latino, al quale Dante consacrerà la seconda esaltazione nell'incontro con Stazio, si chiude in una dolente elegia fatta di insistenti richiami al castello degli spiriti grandi.


Rispose: « Non ci è imposto di stare in un luogo fisso; mi è permesso salire e girare intorno al monte; finché potrò salire, ti accompagnerò per farti da guida.

Le parole di Sordello, loco certo non c'è posto, che riecheggiano quelle pronunziate da un personaggio virgiliano nei campi Elisi (Eneide canto VI, verso 673), indicano probabilmente che tutte le anime dell'antipurgatorio possono salire lungo le prime balze del monte senza, naturalmente, oltrepassare la porta del vero purgatorio. Dante pone Sordello fra coloro che si pentirono solo alla fine della vita, presentandolo lontano dal gruppo dei negligenti e altrettanto isolato rispetto alle anime della "valletta fiorita". Determinare a quale schiera egli appartenga, non è problema di facile soluzione, anche se deve essere scartata la posizione di alcuni critici che, accettando la notizia di un antico commentatore, Benvenuto da Imola, secondo la quale Sordello fu fatto uccidere da Ezzelino da Romano, a causa della sua relazione con Cunizza, sorella di Ezzelino, pongono il trovatore mantovano fra i morti violentemente.
Secondo il D'Ancona Dante isola Sordello intendendo in tal modo "separare e distinguere il fiero mantovano dai suoi consorti, facendolo poi rientrare nella valletta, come in sua propria dimora, protagonista dell'episodio che segue, o perché principe anch'esso... o almeno quale frequentatore di corti, come ci è ricordato dalla storia, o meglio, qual giudice, anche in vita, di azioni e costumi principeschi".


Però vedi come già il giorno declina, e non è possibile salire di notte; perciò è opportuno pensare a trovare un luogo piacevole (bel soggiorno, dove trascorrere il tempo notturno).

Da questa parte a destra vi sono delle anime appartate: se non ti dispiace, io ti condurrò presso di esse, e con gioia le conoscerai ».

Virgilio rispose chiedendo: « Com'è questa legge? Colui che volesse salire di notte, sarebbe impedito da qualche forza esterna, oppure non salirebbe per il fatto di non aver in sé la forza necessaria ? »

E il nobile Sordello tracciò col dito una linea in terra, dicendo: « Vedi? neppure questa linea varcheresti dopo il tramonto del sole;

non perché al salire sia d'impedimento nessun'altra cosa se non la tenebra notturna: questa togliendo la possibilità impaccia la volontà.

Certamente durante la notte, finché l'orizzonte chiude sotto di sé la luce del giorno, si potrebbe scendere in basso e vagare camminando intorno alla costa del monte ».

Significato totalmente allegorico riveste il divieto di salire il monte dopo il tramonto del sole: senza la luce della grazia divina (il sole), non è possibile progredire nella via della purificazione. E' la ripetizione di un insegnamento evangelico: "Camminate mentre avete luce ... ; perché chi cammina nel buio, non sa dove va" (Giovanni XII, 35), ma, essendo le immagini della luce e della tenebra continuamente ricorrenti nella liturgia, la terzina costituisce anche un richiamo al tema liturgico che il Poeta approfondirà nel canto della « Salve, Regina » (verso 82), la preghiera che i fedeli innalzano a Maria dopo i vespri ad invocare il suo aiuto nei dolori della vita, per diventare degni di vedere Cristo. La Chiesa penitente compie la sua purificazione seguendo gli stessi riti, innalzando le stesse preghiere della Chiesa militante, continuando lo stesso movimento d'ascesa iniziato sulla terra come Chiesa militante.

A questo punto la mia guida, con l'aspetto di uno che si meraviglia, disse: « Guidaci dunque al luogo ove affermi che possiamo trovare una dimora piacevole ».

Ci eravamo di poco allontanati di lì, quand'io mi accorsi che il monte era incavato, allo stesso modo che i valloni incavano i fianchi dei monti sulla terra.

Sordello disse: « Andremo là dove la costa si avvalla; ed ivi attenderemo l'alba del nuovo giorno ».

C'era un sentiero obliquo né ripido né piano, che ci condusse alla parete laterale dell'avvallamento, in un punto dove il suo orlo si abbassa di più della metà (dell'altezza che esso ha nella parte superiore).

Il colore dell'oro e dell'argento puro, il rosso della porpora e il bianco della biacca, il turchino dell'indaco, il riflesso del legno levigato e terso, e il verde vivo dello smeraldo nel momento in cui si spezza,

collocati in quella valletta sarebbero stati vinti nella purezza del colore da quell'erba e da quei fiori, come il meno è vinto dal più.

La natura colà non solo aveva sparso i suoi colori, ma vi diffondeva un profumo sconosciuto e ineffabile composto di mille soavi odori.

Descrivendo il luogo in cui si trovano i principi che, troppo occupati da interessi terreni, si ricordarono tardi della loro salvezza, il Poeta opera un'improvvisa apertura - nel paesaggio aspro e difficile delle falde del monte - su una natura dolcestilnovistica, nella quale la raffinatezza fastosa dei colori ("nell'aria della sera incipiente, il fondo della valletta appariva smaltato di colori di un'intensità vivissima, vergine, quasi primeva, com'è dei colori fondamentali o dei metalli o pietre o legni che, di un colore, danno il maximum", secondo il Mattalia), se viene presentata attraverso una precisa enumerazione, che sembra limitare rigidamente quella visione, si stempera infine, unita alla soavità di mille odori, in qualcosa di incognito e indistinto, nel quale l'anima sembra smarrirsi. Con questo sentimento ricco e luminoso della natura Dante giunge alla "rappresentazione del soprannaturale attraverso la dilatazione della rappresentazione degli elementi umani; la terra è trasportata in cielo; ma in questo far uscire il divino dal terreno in una poesia splendida Dante è guidato da un senso di misura che modera i colori, anche quando pare che li accentui" (Malagoli).
Il Poeta, nel creare la "valletta fiorita", ha presente il passo virgiliano in cui si descrive nel mondo dell'oltretomha l'Eliso (Eneide canto VI, versi 679 sgg.), ma egli le conferisce anche un significato allegorico. che un antico commentatore, il Landino, cosi spiega: "né è sanza cagione che tal valle sia vestita di verdissime erbe e di fiori bellissimi all'aspetto e suavissimi all'odore, perché gli onori, le dignità, gli stati e le signorie sono simili all'erbe e ai fiori, imperò che, come quegli dilettono el senso, ma presto appassono e secconsi, così tale stato arreca gran dilettazione agli uomini ne' quali può più la sensualità che la ragione, ma presto passa".

Dante isola dalle altre le anime dei re e dei principi della terra in omaggio al concetto medievale di autorità, che vedeva il potere di quei re e di quei principi provenire direttamente da Dio, considerandoli anzi ministri della divina potenza. La "valletta fiorita" è la trasposizione nel purgatorio, su un piano di maggiore spiritualizzazione, del castello degli « spiriti magni » del limbo (non a caso Dante lo ha ricordato poco prima attraverso le parole di Virgilio), come esaltazione dell'umana virtù intensamente spiegata nel mondo, ma mancante, nell'un caso e nell'altro, della coscienza del limite ad essa posto. Quanto più alto, infatti, era il compito di questi potenti in terra, tanto più gravemente erano impegnate tutte le virtù e tutta la forza del loro animo per conseguire la giustizia e la pace; per questo "i tiranni son posti a bollire nel lago di bollor vermiglio, e molti che si tengono, nel loro orgoglio, gran regi staranno poi nell'inferno come porci in brago. Ma l'ufficio ad essi commesso, quando fosse, in tutto o in parte, rettamente esercitato, bastava nel giudizio di Dante a sollevarli sopra il volgo degli uomini, sicché nella seconda vita, di purgazione o di gloria, splende ancora sul loro capo un raggio di sovrana dignità. Anche nella luce del paradiso... lo spirito della gran Gostanza imperatrice, si accende di tutto il lume della prima sfera; e sopra quello di Giustiniano si addua un doppio lume, della gloria terrena nel diritto e nelle armi, e della celeste: e così pure nella spera del sole, la luce più bella è quella del re Salomone. Più su, nell'empireo, v'ha una sedia trionfale, una sola, vuota ma aspettante chi l'occupi: un gran seggio, ov'è su posta la corona imperiale, e che è riserbato all'alto Arrigo. Medesimamente, qui nel purgatorio, l'uguaglianza fra i nudi spiriti è violata e rotta in favore dei reggitori d'uomini e di terre, segregati dagli altri negligenti in una insenatura della costa: privilegio che è insieme ossequio ed ammonimento, dacché Arrigo d'Inghilterra potrebbe stare dove abbiam visto Belacqua, e il re di Boemia non lungi dal Buonconte" (D'Ancona). Mentre però le anime degli altri negligenti sono ormai libere da ogni tentazione, quelle della "valletta fiorita" devono ancora lottare contro di essa (canto VIII, versi 22 sgg.), che continua, anche nel mondo penitenziaIe, a sottoporli alle lusinghe della vita: "Il previlegio di esser posti in disparte dal volgo, è temperato dal sottostare, essi soli, alle rinnovate insidie del nemico, che gli altri invece ormai non paventano"(D'Ancona).
La prospettiva in cui va considerata la "valletta", la quale racchiude, nascondendoli alla vista, i principi, che Sordello stando sul balzo sottopone al suo severo giudizio, non può prescindere perciò dal sentimento d'umiltà (il canto stesso della « Salve, Regina » è il canto dell'esilio, che sottolinea la vanità del mondo, contrapponendo ai beni terreni la visione dei futuri beni celesti) : ne è anzi l'elogio più determinato, provenendo da anime che - isolate dalle altre in omaggio ad un costume di pensiero e di vita terreno - nella solitudine e nel raccoglimento acquistano una consapevolezza più intensa del male commesso, che ha coinvolto non solo la loro persona, ma la vita di interi popoli. In loro, più che nelle altre anime dell'antipurgatorio, la terra ha una presenza continua nel rimorso di una missione universale non compiuta.


Sul verde e sui fiori da lì vidi anime che sedevano cantando « Salve, Regina », le quali a causa dell'avvallamento non apparivano dal di fuori.

« Prima che tramonti ormai il poco sole rimasto, non vogliate che io vi porti in mezzo a costoro » cominciò il mantovano Sordello che ci aveva condotti fin là.

« Da questo balzo voi potrete osservare l'atteggiamento e l'aspetto di tutti questi spiriti, meglio che giù nella valle mescolandovi a loro.

La rassegna dei principi, che non è "esaltazione, ma atto di giustizia, severo e, in qualche punto, pungente bilancio del bene e del male" (Mattalia), presenta, secondo il D'Ancona, una "gran pagina di storia del mondo contemporaneo o di poco anteriore", e benché sia evidente nel Poeta lo sforzo di conservare il tono solenne, profeticamente impegnato, dell'invettiva all'Italia, si avverte una diminuita, tensione, che da alcuni critici è stata considerata uno scadimento nella cronaca, che, in quanto direttamente legata alla realtà, non può diventare oggetto di trasfigurazione nella fantasia del Poeta. Tuttavia, il valore significante di questo episodio è nella sua spiritualità profonda, per cui, anche se l'imperatore Rodolfo conserva la sua dignità su tutti e Guglielmo chiude la rassegna perché inferiore a tutti gli altri per potenza, "tutti s'accordano nel severo senso della propria missione e sono congiunti da una fraternità spirituale che - nel canto religioso (verso 82) e negli occhi volti verso il Cielo - si manifesta pure come elevazione verso Dio: in una fusione di sentimenti in cui il Poeta sembra vagheggiare quell'armonia di principi, che invano sognava di veder attuata in terra sotto il segno dell'Impero... Tra non poche e talora complesse allusioni storiche, notiamo tuttavia qualche tocco che illumina qua e là un tratto fisico o spirituale - si ricordi soprattutto il dolente atteggiamento del padre e del suocero di Filippo il Bello (versi 103 sgg.) - e notiamo osservazioni piene di verità umana (versi 121 sgg.), nonché l'alto clima morale in cui è sentita la missione dei principi e sono guardati i mali derivanti dalla loro negligenza o inettitudine... Povera di rilievo nei singoli particolari, questa rassegna ha tuttavia una sua vita per la suggestiva cornice della valletta, per l'aura pensosa che aleggia su tante ombre fraternamente assorte tra gravi cure della terra e desiderio del Cielo: in un clima di passioni che, mentre in parte riecheggiano quelle dell'apostrofe all'Italia (canto VI, versi 76 sgg.), si smorzano sullo sfondo di una religiosa elevazione balenante come un mistico contrappunto a tutta la scena" (Grabher).

Colui che siede sovrastando gli altri principi e mostra nel suo atteggiamento d'aver trascurato il proprio dovere (di scendere in Italia), e che non partecipa al canto come gli altri,

fu l'imperatore Rodolfo, il quale poteva sanare le piaghe che hanno distrutto l'Italia, cosicché troppo tardi per opera di un altro si tenterà di farla risorgere.

Rodolfo d'Asburgo, che Dante ha già colpito col suo biasimo nel canto precedente (versi 103-105) insieme al figlio Alberto, fu imperatore dal 1273 al 1291; di lui il Villani dice: "questo re Ridolfo fu di grande affare e magnanimo e pro' in arme e bene avventuroso in battaglie" (Cronaca VII, 55). La sua trascuratezza di fronte alla situazione italiana renderà vano ogni sforzo dei suoi successori per risanarla. E' nel giusto il Sapegno, il quale ritiene che il verso 96 alluda in modo indeterminato ai successori, mentre la maggior parte dei critici vi vede un riferimento alla discesa in Italia di Arrìgo VII, concludendo che questi versi sono stati scritti dopo il fallimento della sua impresa. cioè dopo il 1310, mentre il Poeta vi fa riferimento con fiducia e con speranza nel canto XXXIII del Purgatorio, versi 37-51.

Quell'altro, che nell'aspetto mostra di confortarlo, fu re nella terra (la Boemia) dove nascono le acque che la Moldava porta all'Elba, e l'Elba al mare:

si chiamò Ottocaro, e fin da bambino superò di gran lunga suo figlio Venceslao che ora, nell'età virile, vive completamente immerso nella lussuria e nell'ozio.

Ottocaro Il, eletto re di Boemia nel 1253, mori nel 1278 combattendo contro Rodolfo, di cui fu acerrimo nemico, mentre ora ne conforta l'austero dolore. Il figlio Venceslao IV regnò fino al 1305 e fu "dappoco uomo, vile e rimesso" (Anonimo Fiorentino).

E quello dal piccolissimo naso, che sembra in segreto colloquio con quell'altro che ha un aspetto così mite, morì fuggendo e facendo sfiorire nel disonore il giglio (insegna della casa reale di Francia erano, infatti, tre gigli d'oro in campo azzurro).

osservate là come si batte il petto! Guardate invece l'altro che ha appoggiato la guancia sulla palma della mano, sospirando malinconicamente.

Sono il padre e il suocero del disonore di Francia (Filippo il Bello) : conoscono la sua vita piena di vizi e vergognosa, e da qui nasce il dolore che così profondamente li trafigge.

Quel Nasetto è Filippo III l'Ardito, che fu re di Francia dal 1270 al 1285 (quando morì a Perpignano) e fu "nasello, imperò che ebbe piccolo naso"(Buti). Combatté contro Pietro III di
Aragona per il possesso della Sicilia, e, dopo la sconfitta della sua flotta ad opera dell'ammiraglio Ruggero di Lauria, "sbigottito, quasi come rotto si partì, e venendo per quelle montagne di Raona, per dolore e per affanno morì"(Anonimo Fiorentino).
L'altro vedete è Enrico il Grasso, che regnò sulla Navarra dal 1270 al 1274.
Il primo fu padre, il secondo suocero di Filippo IV il Bello, che Dante già colpì nell'Inferno (canto XIX, verso 87) e sul quale altre volte si abbatterà il suo biasimo (Purgatorio XX, 85 sgg.; XXXII, 151 sgg.; Paradiso XIX, 118 sgg.).


Quello che appare così nerboruto e che canta in perfetto accordo con l'altro dal gran naso, fu rivestito e ornato da ogni virtù;

e se gli fosse successo nel regno il giovinetto che qui siede dietro a lui, il retaggio della virtù si sarebbe egregiamente trasmesso di padre in figlio,

mentre questo non si può affermare degli altri eredi: Giacomo e Federigo hanno ora i regni; ma nessuno dei due ha preso il meglio dell'eredità paterna (del retaggio miglior, cioè la virtù).

Quel che par sì membruto è Pietro III d'Aragona, re dal 1276 al 1285, "Io quale lo bello e membruto de soa persona, e savio e virtuoso" (Lana). Combatté a causa della Sicilia contro Carlo I d'Angiò, con il quale ora s'accorda, cantando, entrambi dimentichi, in questo luogo di penitenza, delle discordie del mondo.
Carlo I d'Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, fu re di Napoli dopo il 1266. Morì nel 1285, e nonostante Dante condanni la sua politica (Paradiso VIII, 73-75) e lo accusi dell'uccisione di Corradino di Svevia e del supposto assassinio di San Tommaso (Purgatorio XX, 67-69), lo salva perché morì cristianamente (cfr. il Villani nella sua Cronaca VII, 95).
Lo giovanetto sarebbe secondo alcuni Alfonso III, che successe al padre nel 1285 nel regno d'Aragona, ma più giustamente altri commentatori ritengono che qui Dante alluda a Pietro, ultimogenito di Pietro III, il quale morì giovanissimo prima del padre, mentre Alfonso divenne effettivamente re, lasciando una triste fama. Ora invece l'eredità di Pietro è in mano al figlio Giacomo Il, re di Sicilia dal 1286 e, dopo la morte di Alfonso, re di Aragona dal 1291, e all'altro figlio Federigo Il, che divenne re di Sicilia nel 1296.


Raramente la virtù dei padri ricompare nei figli; e questo è voluto da Dio che la dà, affinché la si riconosca derivata da Lui (da lui: e non ricevuta per eredità).

Anche a Carlo d'Angiò, il Nasuto, sono dirette le mie parole, non meno che all'altro che canta con lui, Pietro, per la quale degenerazione la Puglia e la Provenza già si dolgono.

La pianta (cioè il figlio Carlo II) è tanto inferiore al suo seme (cioè al padre Carlo I), quanto Costanza (vedova di Pietro III d'Aragona) ha motivo di vantarsi ancora di suo marito più di quanto abbiano motivo di vantarsi del loro Beatrice di Provenza e Margherita di Borgogna (prima e seconda moglie di Carlo I d'Angiò).

Dante vuole rivolgere le sue parole in torno ai discendenti degeneri non solo a Pietro III, ma anche a Carlo d'Angiò, perché la Puglia (il regno di Napoli) e la Provenza si dolgono per il malgoverno del figlio Carlo II, detto lo Zoppo, che è inferiore al padre, quanto questo, per meriti, lo è nei confronti di Pietro d'Aragona.

Osservate invece là come siede appartato il re dalla vita semplice, Enrico d'Inghilterra: egli ha nei suoi discendenti un esito migliore.

Arrigo III, re d'Inghilterra, morto nel 1272, fu figlio di Giovanni Senzaterra. Uomo "semplice... e di buona fè e di poco valore" secondo il Villani (Cronaca V, 4), fu da Sordello accusato di viltà nel Compianto. Dante lo definisce re della semplice vita, dove semplice può significare « sciocca » oppure « modesta», come ritenevano gli antichi commentatori: il suo isolamento non sarebbe altro che un riflesso di quella sua semplice vita. Tuttavia fu più fortunato nei suoi discendenti, perché il figlio Edoardo I (re d'Inghilterra dal 1272 al 1307) fu "buono e valente re" (Villani - Cronaca VIII, 90).

Quello fra loro che sta seduto più in basso, con lo sguardo rivolta verso il cielo, è il marchese Guglielmo, a causa del quale Alessandria e la sua guerra

portano desolazione e pianto nel Monferrato e nel Canavese. »

Guglielmo VII, detto Spadalunga, marchese di Monferrato dal 1254 al 1292, fu vicario imperiale e come capo dei Ghibellini combatté contro i Comuni guelfi. Nel 1290 i cittadini di Alessandría, istigati da quelli di Asti, si ribellarono e lo fecero prigioniero, chiudendolo in una gabbia di ferro, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1292. Il figlio Giovanni I, per vendicarlo, assalì la città di Alessandria, scatenando una lunga guerra che sparse la desolazione nelle regioni del Monferrato e del Canavese.

 

Purgatorio – Canto XIII

 

Eravamo giunti al termine della scala (che porta al secondo girone), dove viene tagliato per la seconda volta il monte che purifica dal male chi lo ascende 

lì una (seconda) cornice cinge tutt'intorno il monte, così come la prima; salvo che la sua curvatura (poiché la montagna si restringe man mano verso l'alto) è più stretta.

Qui non appaiono anime né figurazioni scolpite; si mostrano la parete e il piano nudo e liscio col colore livido della pietra.

Il sorriso di Virgilio, con cui si era chiuso il canto XII, pare continuare durante il percorso dal primo al secondo girone, assecondando la raggiunta serenità del suo discepolo (canto XII, versi 115-120), mentre lo sguardo si distende tranquillo sulla cornice che lega dintorno il poggio: è un inizio lento e solenne, con un calcolato richiamo all'apertura del canto precedente, che doveva anticipare anch'essa il senso di misteriosi eventi. In un secondo tempo, poiché ombra non li è né segno che si paia, nei poeti ritorna il tremore della solitudine che avevamo avvertito nel lito diserto, e i loro occhi, abituati al bianco fulgore del marmo della cornice precedente e al movimento, per quanto lento, dei superbi, vengono quasi legati al livido color della petraia, che grava ossessionante su un paesaggio rozzo, uniforme, desolato, che si oppone con il suo squallore allo stato d'animo gioioso dei due pellegrini. Il Poeta, in queste tre terzine, ha già tradotto l'atmosfera spirituale e poetica del canto, che si definirà in una concreta individuazione di particolari - nella descrizione della natura, nella ricerca delle similitudini, nella raffigurazione degli invidiosi, nel ricordo di avvenimenti storico-politici - e in uno scoperto desiderio di trascendere quegli umani particolari: un gioco dialettico di due momenti in una sapiente alternanza, che continuerà anche nell'unico personaggio del canto, in Sapia, rendendolo "uno dei più complessi e delicati impasti di ritratto della Divina Commedia" (Momigliano).

« Se qui aspettiamo le anime per chiedere informazioni » osservava Virgilio, « io temo che forse la nostra scelta della via tarderà troppo. »

Poi rivolse intento lo sguardo verso il sole; (per volgersi a destra dove si trovava il sole, essendo già passato mezzogiorno) fece perno sul suo fianco destro, e fece girare il fianco sinistro.

« O dolce luce nella quale fidando io procedo nella nuova strada, guidaci » diceva Virgilio « come è necessario guidare in questo girone.

Tu riscaldi il mondo, tu risplendi sopra di esso: se un altro motivo non spinge a seguire una via contraria, i tuoi raggi devono essere sempre di guida.»

La preghiera che Virgilio innalza al sole è un'invocazione della Grazia divina, secondo molti commentatori antichi, è una preghiera rivolta alla ragione naturale, che è la guida abituale dell'uomo finché non interviene la sovrannaturalità della Grazia, secondo quasi tutti i commentatori moderni. Tuttavia chi legge ricorda con sforzo il sottinteso allegorico, essendo la sua attenzione tutta presa da quell'«inno al sole» trasferito dal mondo pagano a quello cristiano, da quell'immagine vastissima di luce sospesa sopra il inondo che "scalda" e "illumina", la quale, più che ricordare il dolce color d'oriental zaffiro, dove l'animo si abbandonava a un puro godimento estetico, è impregnata dello stesso sentimento di profondo amore verso il creato che regge nel Cantico delle Creature di San Francesco l'inno di lode al sole: "Laudato sie, mi signore, cum tucte le tue creature spetialmente messor lo frate sole, lo quale iorna, et allumini per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore; de te, altissimo, porta significatione".

Avevamo già percorso nel girone tanto spazio, quanto nel mondo si calcola per un miglio, in breve tempo, grazie al nostro ardente desiderio,

quando si sentirono volare verso di noi, ma non si videro, degli spiriti che pronunciavano cortesi inviti alla carità.

Il fortissimo sentimento narrativo che costruiva in rilievo e in sviluppo le sculture dei primo girone, nulla tralasciando per una loro migliore determinazione, viene sostituito da una tecnica « di suggerimento », che nel momento stesso in cui accenna al fatto, lo trasforma in un'eco misteriosa, la quale è percepita dai penitenti, chiusi nella loro cecità, proprio grazie alla sua forza suggestiva: la meditazione in loro è più immediata che nei superbi, dove si deve svolgere prima attraverso una via visiva, mentre, osserva il Grabher, queste voci "si prolungano, come in una scia, dalle une alle altre, nell'anima", cosicché "avanti che la prima si sia spenta per il fatto di essersi allontanata.... balza nell'aria la seconda che dilegua anch'essa.... mentre la terza irrompe lasciando a Dante appena il tempo (e com'io... ecco ... ) di rivolgere la brevissima domanda: padre, che voci son queste?" Sarà un « crescendo » musicale e spirituale che dall'appello a compiere un dono sale al sacrificio della vita per salvare l'amico, per invitare infine all'eroismo cristiano totale.

La prima voce che passò volando pronunciò in tono alto « Non hanno vino », e passando oltre noi continuò a ripetere quelle parole.

Nel secondo girone voci misteriose gridano esempi di carità, il primo dei quali si riferisce a un passo del vangelo di San Giovanni (Il, 1-10), in cui è descritto il primo miracolo di Cristo, alle nozze di Cana, dopo l'amoroso e sollecito intervento della Vergine in favore degli ospiti rimasti senza vino.

E prima che non si udisse più per il fatto che si allontanava, un'altra voce passò gridando « Io sono Oreste », e anche questa non si arrestò.

Il secondo esempio ricorda l'amore fraterno che legava Oreste, figlio di Agamennone, a Pilade. Il primo, che voleva vendicare la morte del padre, uccidendone l'assassino Egisto, venne scoperto e arrestato insieme con Pilade. Iniziò fra i due una commovente gara, poiché entrambi gridavano "Io sono Oreste", volendo Pilade sostituirsi all'amico, per evitargli la morte, e opponendosi Oreste al suo sacrificio.

« Oh! » dissi, « padre mio, che voci sono queste? » E non appena ebbi fatto questa domanda, ecco la terza voce che diceva: « Amate coloro dai quali avete ricevuto il male ».

L'esempio supremo di carità è nel precetto dato da Cristo nel discorso della montagna: "Amate i vostri nemici" (Matteo V, 44; Luca VI, 27).

E il valente maestro: « Questo girone punisce il peccato d'invidia, e perciò le corde di cui è fatta la sferza che punisce (le corde della ferza: cioè gli esempi) sono vibrate dall'amore.

Il freno (cioè l'esempio per non cadere nel peccato) deve essere di contenuto opposto al peccato: a mio giudizio, penso che udrai questo esempio prima di giungere alla scala che porta al terzo girone (al passo del perdono: dove sarà perdonato il peccato d'invidia).

Ma ficca lo sguardo con attenzione attraverso l'aria, e vedrai un gruppo di anime sedere davanti a noi, e ciascuna è appoggiata alla roccia».

Allora osservai con maggior attenzione; guardai davanti a me, e vidi anime ricoperte di manti dello stesso colore della pietra.

E quando ci fummo portati un poco più avanti, udii gridare: « Maria, prega per noi! »; udii gridare « Michele » e « Pietro », e « Tutti i santi ».

Gli invidiosi recitano le litanie dei santi, nelle quali all'inizio è invocata per tre volte la Vergine, nella parte centrale gli angeli (tra cui Michele) e gli apostoli (tra cui Pietro) , mentre alla fine l'invocazione si estende a tutti i santi.

Non credo che nel mondo esista oggi un uomo tanto duro, da non essere mosso a compassione da quanto io vidi in seguito,

poiché, quando giunsi così vicino ad essi, che la loro persona mi appariva distinta, dagli occhi uscì
con le lagrime il dolore che mi gravava l'animo.

(I penitenti) mi sembravano coperti di una povera veste dura e pungente, e uno sosteneva l'altro con la spalla, e tutti erano sostenuti dalla parete:

nello stesso atteggiamento i ciechi, a cui manca il necessario, se ne stanno davanti alle chiese durante le feste in cui si concedono indulgenze per chiedere l'elemosina, e l'uno abbandona il capo sulla spalla dell'altro,

affinché la pietà penetri subito nel cuore della gente, non solo per il suono lamentoso delle parole, ma anche per l'aspetto che chiede pietà non meno (delle parole).

E come ai ciechi il sole non giova, così qui la luce del cielo non vuole concedersi alle anime, di cui ora sto parlando,

perché un filo di ferro trapassa e cuce le palpebre a tutti i penitenti nello stesso modo in cui si cuciono agli sparvieri selvatici, quando non rimangono tranquilli.

La pena della cecità colpisce gli invidiosi in base a una dura legge del contrappasso, perché i loro occhi, che in vita godettero nell'osservare il dolore altrui, sono ora chiusi alla luce del ciel: una cecità flsica che dipende da quella cecità morale per cui essi capovolsero la visione del mondo e delle cose, sostituendo all'amore verso il prossimo il desiderio del suo male. Per sottolineare la durezza del castigo Dante ricorda, nei versi 71-72, un'operazione consueta che nel Medioevo subivano gli sparvieri non ancora addomesticati e irrequieti, ai quali venivano cucite le palpebre affinché potessero essere più facilmente ammaestrati. "Il pellegrino, che coi superbi andava di paro, aggiogato ad una stessa penitenza, qui, senza accecarsi, s'investe dell'atmosfera psicologica della cornice: piange in silenzio, accenna a Virgilio quando vorrebbe parlare, intona una allocuzione solennemente retorica, sulla metafora della luce e sulla metafora del fiume, subito ridiscende alle prime parole accorte di Sapia, che accortamente lo corregge, e parla da vicino e dimesso" (Apollonio), ed è in questo tono dimesso, sommessamente intento, che si dispone la raffigurazione degli invidiosi. L'elemento essenziale - la staticità è di immediata determinazione nella natura, ridotta ad un solo, immobilizzato termine, la rípa, a sua volta chiuso nell'aspetto negativo, il livido color, anche se tale natura appare priva di ogni travolgimento, di ogni deformazione infernale, essendo riferibile, in ogni momento, ad una misura umana (come... per salire al monte... così s'allenta la ripa; canto XII, versi 100-108). Le ombre con manti al color della pietra non diversi partecipano di questa stessa immobilità, non scossa neppure dall'immagine dei mendicanti ciechi abbandonati davanti alle chiese, creando un bassorilievo uniforme, privo di qualsiasi movimento esteriore che non sia quello delle lagrime (versi 83-84). fino a dare l'impressione, ad una prima lettura, di una esasperazione figurativa simile a quelle dell'Inferno. Ma le due similitudini che si susseguono rivelano la preoccupazione di riportare su un piano di contenuto realismo, di preciso disegno quanto a quel piano sembrava volersi sottrarre, perché la scena dei mendicanti e l'immagine dei falconi dalle palpebre cucite appartengono al mondo di normali esperienze del Poeta. Inoltre queste similitudini ribadiscono tutta la struttura realistica del canto, insieme con l'immagine della ferza (versi 37-39). con quella del mento levato in alto a guisa d'orbo (verso 102) e con lo svolgimento di tutto il discorso di Sapìa, per fornire il contrappunto alla misteriosa musicalità e lievità degli esempi di carità.

Mi sembrava, mentre camminavo. di compiere un atto scortese, perché io vedevo gli altri, ma non ero da loro visto: perciò mi rivolsi al mio saggio consigliere.

Egli già sapeva che cosa volevo dire io che tacevo; e per questo non aspettò la mia domanda, ma disse: « Parla, e cerca di essere breve e chiaro».

Virgilio rispetto a me procedeva dalla parte esterna della cornice, poiché questa non è munita di nessuna sponda;

dall'altra parte (cioè a sinistra) avevo le anime penitenti, le quali premevano con tale forza attraverso l'orribile cucitura, che bagnavano (di lagrime) le guance.

Mi rivolsi a loro e incominciai a dire: « O anime sicure di vedere la divina luce che è l'unico oggetto del vostro desiderio,

possa la Grazia disperdere presto le tracce impure della vostra coscienza, così che attraverso essa il fiume dei ricordi possa scendere in tutta la sua purezza (chiaro: cioè non intorbidato da nessuna memoria della colpa),

ditemi (in nome di questo augurio), dal momento che mi sarà gradito e caro, se tra di voi c'è qualche anima italiana; e forse (potendo io procurarle suffragi) le sarà utile se io lo saprò ».

« Fratello, ciascuna di noi è cittadina della città di Dio; ma tu vuoi sapere di qualcuna che lontana dalla vera patria sia vissuta in Italia. »

Nel Medioevo la distinzione fra la città terrena (o Gerusalemme terrena) per indicare il mondo, e la città celeste (o Gerusalemme celeste) per indicare il paradiso, era di uso comune, e risaliva ad espressioni bibliche, diventate poi patrimonio di tutta la letteratura patristica. Poiché lo spirito che parla pensa di avere davanti un suo compagno di pena, spiega che la vera patria di ogni anima è il paradiso, mentre la vita non è che un breve pellegrinaggio, un momentaneo esilio, che è attesa e preparazione della vera città: concetto centrale del pensiero cristiano e avvertito con particolarissima intensità dal mondo medievale.

Mi parve di udire come risposta queste parole un poco più oltre il posto in cui mi trovavo, per cui io (avanzando) mi feci sentire ancora più in là.

Tra le altre vidi un'anima che nel suo atteggiamento pareva aspettare; e se qualcuno mi domandasse "Come (lo mostrava)?", (risponderei che) sollevava il mento come fa un cieco (quando aspetta).

« O anima » dissi « che ti sottometti alla pena per poter salire, se tu sei quella che mi hai risposto, fatti conoscere o attraverso la patria o attraverso il nome.»

« lo fui senese » rispose, « e con queste altre anime purifico qui la mia vita peccaminosa, supplicando in lagrime Dio affinché ci conceda di vederLo.

Non fui saggia, sebbene il mio nome fosse Sapia, e provai maggior gioia del male altrui che del mio bene (lui delli altrui danni più lieta assai che di ventura mia).

Sapìa fu una nobildonna senese, moglie di Guinibaldo Saracini, signore di Castiglione presso Montereggioni e zia di Provenzano Salvani (cfr. canto XI, versi 109 sgg.). Gli ultimi studi intorno alla sua figura storica hanno rivelato qualcosa di più dell'odio fierissimo che portava ai suoi concittadini ghibellini, secondo quanto afferma Dante. Sappiamo che protesse attivamente l'ospizio per pellegrini fondato dal marito nei pressi di Castiglione, che si trovava sulla strada più breve per andare da Roma in Francia, e che negli ultimi anni della sua vita cedette i suoi possedimenti a Siena. Morì nel 1275.
Nel verso 109 Sapìa allude al fatto che il suo nome ha la stessa radice etimologica di savia e sappiamo che per influsso della Scolastica si diffuse in tutto il Medioevo la concezione secondo la quale i nomi hanno uno stretto rapporto con la sostanza di una cosa o con le qualità di una persona; Dante stesso vi accenna a proposito del nome di Beatrice nel capitolo XIII della Vita Nova.


E affinché tu non creda che io t'inganni, ascolta se non sono stata, come ti dico, folle, mentre l'arco della mia vita stava già declinando (e avrei dovuto essere saggia).

I miei concittadini presso Colle erano venuti a battaglia con i loro nemici, ed io pregavo Dio che fossero sconfitti (di quel ch'e' volle: di quello che egli volle, perché furono realmente vinti).

Qui furono sconfitti e conobbero l'amarezza della fuga; e vedendo l'inseguimento fatto dai nemici, ne derivai una gioia non paragonabile a nessun'altra,

tanto che levai verso il cielo il volto con folle audacia, gridando a Dio: "Ormai non ti temo più (avendo ricevuto soddisfazione)!", come fa il merlo quando vede un po' di sereno.

Nel giugno 1269 i ghibellini senesi e i loro alleati furono sconfitti dai guelfi fiorentini a Colle di Valdelsa: 'La città di Siena... ricevette maggiore danno de' suoi cittadini in questa sconfitta, che non fece Firenze a quella di Montaperti" (Villani - Cronaca VII, 31). Le parole di Sapìa nel verso 123 riecheggiano una favola molto diffusa nel Medioevo: un merlo, alla fine di gennaio, vedendo un po' di bel tempo, incomincia a cantare credendo che l'inverno sia già passato, facendosi beffa di tutti gli altri uccelli ed esclamando: "Domine, più non ti temo".

Mi riconciliai con Dio alla fine della mia vita; e il mio debito verso di Lui non sarebbe ancora risarcito per mezzo della penitenza,

se non fosse avvenuto questo, che mi ricordò nelle sue sante preghiere Pier Pettinaio, il quale per carità ebbe pietà di me.

Pier Pettinaio, nato forse alla fine del secolo XII, visse a Siena, dove tenne una bottega di pettini (donde il soprannome); fu terziario francescano e morì nel 1289 in fama di santità.
Sapìa è uno di quei personaggi danteschi intorno ai quali l'esame critico ha offerto i risultati più diversi, perché il contrasto è insito nella sua stessa figura, oscillante fra il polo del terreno e quello del divino, fra la presenza nettissima del peccato e la presenza, altrettanto certa, del rimorso. Il Mattalia ritiene di trovarsi di fronte ad "una acida e altezzosa malalinqua", nella quale l'abito dell'invidia è ancora operante, ad un "personaggio nient'affatto caro e dolce", che chiude alla fine la sua apparizione con una velenosa battuta a carico dei Senesi, mentre per il Grabher ella ritrae il suo antico carattere peccaminoso per trascenderlo in una spietata analisi di sé, fino all'amarezza grottesca del paragone col merlo, dove si infligge la massima umiliazione, per poi placarsi nell'abbandono alla pace di Dio e alle preghiere di un umile "pettinaio". Per il critico anche l'ironia finale intorno ai Senesi è pacata e soffusa di tristezza, senza alcun ritorno alla malignità terrena, che sarebbe fuori di posto nella serietà del Purgatorio. Ma l'ispirazione del Poeta è libera di rivelare, nell'austerità della struttura penitenziale, i tratti salienti del carattere terreno dei suoi personaggi, di conservare parte della loro natura e delle loro tendenze (Belacqua è ancora un pigro, Omberto Aldobrandeschi assume ancora un atteggiamento superbo). A maggior ragione poi il Poeta vorrà mettere in rilievo in Sapìa quel tono di mordace ironia, di aperta maldicenza, di pronta litigiosità, che è proprio dell'animo toscano e che costituisce una parte dello stesso carattere dantesco. Sapìa, dunque, non è "la più notevole personificazione od allegoria dell'invidia, che mai sia stata immaginata", come vorrebbe lo Zenatti, ma un carattere forte tanto nella colpa quanto nell'espiazione, pronto e intensamente mordace, ma anche risoluto nel pentimento e nel riconoscimento degli altrui meriti; una donna, giudica il Biondolillo, che, pur conservando la sua delicata femminilità (o frate mio), fa intravedere risolutezza di sentimenti e mal celati impeti di durezza, come anche slanci di fraternità e di carità. Corregge con forza l'espressione di Dante (versi 95-96), con durezza si duole della sua vita ria, l'intensità del suo pentimento la spinge a "Iagrimare" per vedere Dio, ride con profonda amarezza di sé, che non fu savia sebbene si chiamasse Sapìa. Giudica folle l'invida contro i suoi concittadini ghibellini, ma la memoria della loro sconfitta è incancellabile nella sua mente, come incancellabile è il ricordo del suo compiacimento di fronte a quella disfatta, del suo gesto orgoglioso di fronte a Dio, gesto che ora fa diventare ironicamente quello del merlo. Solo in su lo stremo si pentì, ma "volle" fare pace con Dio da pari a pari, finché la sua fierezza e il suo orgoglio si abbattono di fronte alle sante orazioni di Pier Pettinaio, in un fervore di carità che si manifesterà in seguito nel riconoscimento del gran segno dell'amore divino per Dante, per essere poi superato dall'antica, maligna ironia che la spinge a deridere la gente vana.


Ma chi sei tu che vai interrogandoci sulla nostra condizione, e porti gli occhi non cuciti, così come penso (Sapìa si è accorta che Dante è riuscito ad individuarla), e parli come un vivo?»

« Gli occhi » dissi « mi saranno anche qui tolti, ma per breve tempo, perché poca è l'offesa che essi hanno fatta (a Dio) per essersi volti a guardare con invidia (il prossimo).

Maggiore è il timore che tiene sospesa la mia anima a causa della pena del girone precedente (di sotto: dove si espia il peccato della superbia), tanto che già sento gravarmi addosso il peso di quei massi. »

Nel canto degli invidiosi è la confessione della superbia di Dante, superbia di stirpe e superbia di ingegno, che egli ricorderà in altri passi del suo poema e che i suoi più antichi biografi misero concordemente in luce: "fu il nostro poeta di animo alto e disdegnoso molto... Molto, simigliantemente, presunse di sé... Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto" (Boccaccio - Vita di Dante).

Ed ella mi rispose: « Chi ti ha dunque guidato qua su tra noi, se ritieni di dover ritornare tra i superbi? » Ed io: « Questo che è con me, ma non parla.

E sono ancora vivo; e perciò chiedimi pure, o anima destinata alla salvezza, se desideri che in terra mi adoperi (mova... ancor li mortai piedi) per procurarti suffragi (per te) ».

« Oh, questa è una cosa così insolita ad udirsi » rispose, « che è una grande manifestazione dell'amore di Dio verso di te; perciò cerca di aiutarmi qualche volta con le tue preghiere.

E ti chiedo, in nome di quello che tu più desideri (cioè: in nome della salvezza), che, se mai ti avvenga di passare per la Toscana, riabiliti la mia fama presso i miei parenti.

Tu li troverai fra quella gente sciocca che spera in Talamone, e vi perderà più illusioni che non a cercare di trovare la Diana;

ma più speranze ancora vi perderanno i comandanti di nave. »

Siena nel 1303 acquistò a caro prezzo la località di Talamone sperando dì farne un buon porto per un suo sbocco sul Tirreno; ma il luogo malsano, la cattiva posizione e l'eccessiva lontananza da Siena impedirono ogni concreta realizzazione. Altro esempio, secondo Sapìa, della stoltezza dei Senesi, fu la ricerca, lunga e dispendiosa, ma senza risultato, di un fiume chiamato Diana, che si diceva scorresse sotto la città.
Il termine ammiragli è da alcuni interpretato come "appaltatori" addetti ai lavori di ricerca della Diana o a quelli del porto di Talamone, dalla maggior parte come "capitani di navi", per indicare coloro che si illudevano di poter disporre, dopo la costruzione del porto di Talamone, di una flotta.

 

Purgatorio – Canto IX

Già (sulla terra) l'Aurora, moglie dell'invecchiato Titone, lontana dalle braccia del suo dolce amico, stava sorgendo (al balco d'oriente: come se fosse affacciata al balcone dell'oriente) facendosi bella;

L'Aurora rapì e sposò Titone (figlio di Laomedonte e fratello di Priamo), ottenendo per lui da Giove l'immortalità. ma non l'eterna giovinezza.

la sua fronte era lucente per le stelle, disposte a formare la costellazione dello Scorpione (freddo animale: secondo la zoologia medievale era considerato di sangue freddo) che ferisce la gente con la sua coda;

e in purgatorio, dove eravamo, la notte aveva percorso due passi (erano passate due ore) di quelli mediante i quali essa compie il suo itinerario nel cielo, mentre il terzo passo (la terza ora) stava terminando il suo volo,

La notte è personificata nell'immagine di una donna che cammina con passi alati, intendendo per passi le ore, sei ascendenti fino a mezzanotte, e sei discendenti. Avendo essa ormai compiuto quasi tre dei passi con che sale, sono circa le ventuno nel purgatorio, mentre agli antipodi, in Italia. sta sorgendo l'alba. Alla metafora dei passi se ne aggiunge una seconda, ispirata dall'immagine mitologica delle ore alate: 'l terzo già chinava in giuso l'ale.

quand'io, che sentivo il peso della mia carne, vinto dal sonno, mi coricai sull'erba là dove stavamo seduti già tutti e cinque (Dante, Virgilio, Nino Visconti, Corrado Malaspina, Sordello).

A la seconda aurora da Dante descritta nel Purgatorio. La prima aveva tutto il colore delle cose immaginate, in quel dolce color d'oriental zaffiro, questa, invece, è più preziosa nella scelta degli elementi astronomici, che ne rendono anche difficile l'interpretazione. Ma se l'attenzione si rivolge all'immagine visiva e poetica, subito le difficoltà spariscono, e si comprende che, aprendo il canto con la figura di una giovane donna che si fa bella, Dante ha voluto suggerire la gioia delle nuove verità e bellezze di cui sta per godere: è quasi un nuovo rinascere, in cui prevale il senso della dolcezza, il sovrastare della giovinezza sulla vecchiaia, la lucentezza splendente delle stelle che sembrano gemme.
Dante ci prepara a guardare, al di là degli oggetti che ci presenta (il canto si articola dapprima intorno alla figura dell'aurora, poi a quella dell'aquila, infine all'entrata nel purgatorio vero e proprio), a quella verità che essi celano, al significato mistico della loro presenza, che meglio sarà rilevato quando egli chiamerà i particolari dei graditi e dell'angelo ad indicare i momenti di un processo sacramentale, sotto le vesti di una simbologia liturgica.
Tuttavia la nostra fantasia è più portata a seguire l'immagine iniziale della giovane donna, di immediata freschezza, quasi sensibile, mentre nei simboli sacramentali annota un maggior descrittivismo intellettuale nello sforzo di non tralasciare nessuno dei molteplici significati che possono esserci consegnati.


Nell'ora in cui vicino al mattino la rondinella comincia i suoi dolrosi lamenti, forse ricordando le sue antiche sventure,

Dante, ispirandosi ad Ovidio (Metamorfosi VI, versi 412 sgg.), ricorda il mito di Filomela e di Progne, due sorelle che gli dei trasformarono, rispettivamente, in usignolo e in rondine (Dante tuttavia attribuisce a Progne la metamorfosi di Filomela e viceversa, seguendo un'altra versione della leggenda), in seguito al banchetto imbandito da Progne al marito Tereo con la carne dei figli, per vendicarsi del tradimento di lui con Filomela.

quando la nostra mente, più libera dal peso della carne e meno presa dalle preoccupazioni, è quasi indovina del vero nei suoi sogni,

Secondo la concezione medievale, quando la mente umana è libera dalle preoccupazioni materiali ed è meno presa dalla vita intellettiva, assecondando il cammino stravagante del sogno, ha spesso modo di divinare il futuro con una certa rispondenza alla verità.

mi pareva in sogno di vedere un'aquila con le penne dorate librata nel cielo con le ali aperte e pronta a calarsi;

e mi pareva di essere là (sul monte Ida) dove da Ganimede furono abbandonati i suoi (compagni di caccia), quando fu portato nel concilio degli dei.

Ganimede, figlio di Troo, re di Troia, mentre si trovava a caccia sul monte Ida nella Troade, fu rapito da Giove, che si era trasformato in aquila, e fu portato in cielo dove divenne coppiere nei banchetti degli dei (Ovidio - Metamorfosi XI, verso 756).
Diverse sono le interpretazioni a proposito dell'aquila. Alcuni critici la considerano rappresentazione dell'Impero, richiamando il fatto che anche l'aquila di Giustiniano muove il suo volo dai monti vicino a Troia (Paradiso canto VI, verso 6), che l'aguglia discende come fulmine allo stesso modo nel quale Dante la raffigura nella Epistola ai principi e popoli d'Italia perché accolgano Arrigo VII e in quella ai Fiorentini che si oppongono allo stesso imperatore, e che l'imperatore Traiano in paradiso si trova là dove le anime si dispongono a formare la figura dell'aquila (Paradiso canti XVII1-XX).
In questo caso l'aquila significherà, secondo il Porena, che l'Impero è in certo modo strumento anch'esso della divina grazia nella funzione di avviare Dante alla rivelazione divina, e l'aver Dante finora parlato con Sordello sulle lotte politiche, nonché l'essersi trovato nella valletta dei principi pacificati tra loro e fraternamente uniti, avvalora tale tesi. Ma ciò non esclude che l'aquila sia una prefigurazione di Lucia, sicché mentre l'uccello rapisce Dante verso la sfera del fuoco, che sta tra la terra e il cielo della luna, la donna lo porta di fatto alle soglie del purgatorio.
Il Mattalia osserva che le azioni dell'aquila e di Lucia sono "sincrone e parallele, ma l'una in rapporto con l'altra; identica la direzione (verso l'alto) : evidente allegoria, ci pare, della funzione complementare dei due magisteri: temporale (Impero) e spirituale (Chiesa) ". Alla salvazione finale l'uomo arriva aiutato - attraverso le leggi - dal magistero dell'autorità imperiale: perciò il Poeta accosta l'aquila a Lucia per significare che Chiesa e Impero debbono agire concomitanti, anche se poi sotto, linea che il suggello finale non può che venire dalla Chiesa: infatti se l'aquila e Lucia compiono lo stesso gesto, la prima anticipa soltanto in sogno quello che la donna attua poi nella realtà, portando Dante all'entrata del purgatorio.


Pensavo dentro di me: « Forse l'aquila si cala a ferire sempre in questo luogo per abitudine, e forse non si degna di portar su la preda con gli artigli da nessun altro luogo »..

Poi mi sembrava che, compiuti ampi giri nel cielo, si calasse giù terribile come un fulmine, e mi rapisse in alto fino alla sfera del fuoco.

Giunti qui sembrava che ci incendiassimo; e a tal punto l'incendio, che pur era solo un sogno, mi bruciò, che fu necessario interrompere il sonno.

Non diversamente Achille si risvegliò, volgendo in giro gli occhi ormai aperti senza sapere dove si trovasse,

quando la madre (Teti) lo portò via di nascosto tra le sue braccia, mentre egli dormiva, sottraendolo a Chirone e portandolo a Sciro, da dove i Greci poi lo allontanarono (per Troia),

Secondo quanto narra Stazio (Achilleide I, versi 104 sgg.), Teti, sapendo che il figlio Achille sarebbe morto alla guerra di Troia, mentre dormiva lo trasportò dalla Tessaglia. dove era affidato al centauro Chirone, nell'isola di Sciro. Qui Achille visse travestito da donna fra le figlie del re Licomede, finché con un'astuzia Ulisse e Diomede non lo costrinsero a partecipare alla guerra di Troia.

da come mi rìsvegliai io, alIorché il sonno si allontanò dal mio volto, e impallidii, come fa un uomo quando, per uno spavento, si sente rabbrividire.

Dante sembra sottolineare soprattutto lo stupore dell'eroe greco, onde mettere in evidenza la propria meraviglia, e suggerire così l'immagine di sé come di un nuovo Achille, di un eroe moderno e cristiano (secondo il Momigliano mai prima d'ora Dante è stato tanto grande) disposto all'eroismo di gravi e tormentose prove. Dove però le imprese di Achille furono compiute con le armi materiali, egli opererà invece con quelle spirituali, e soprattutto con l'umiltà; tuttavia è necessario ricordare che il Poeta è trasportato in alto, come prima Ganimede da parte di Giove, da un messo celeste, cioè, come annota il Lesca, in ambedue i casi è la stessa divinità che innalza gli animi degli uomini alla contemplazione di sé. Così il mito di Ganimede e l'eroismo di Achille servono di preannuncio al trasumanare del nuovo eroe, Dante, che però rivendica anzitutto a Dio la gratuità della vocazione a tale più alta chiamata. Il fuoco del sogno, mirabilmente fuso con l'idea della Grazia che purifica, richiama la stessa immagine di un salire al cielo e di un consumarsi nel fuoco (ugualmente accaduto in sogno) che è all'inizio dell'opera giovanile di Dante, nella quale egli esalta il suo amore per Beatrice, la Vita Nova (III): essa è dunque qui esplicitamente richiamata, poiché anche in questo caso s'intende iniziare l'esperimentazione di una nuova realtà interiore, quella dell'azione della Grazia in noi, come una volta lo era stata quella dell'amore umano.

Di fianco stava solo Virgilio, ed il sole era da più di due ore già alto sull'orizzonte (erano cioè passate le otto), e il mio sguardo era rivolto verso il mare.

La mia guida disse: «Non aver paura, sta sicuro, perché noi siamo giunti ad un buon punto del nostro viaggio: non devi indebolire, ma rinvigorire le tue forze.

Tu sei ormai giunto al purgatorio: vedi là il pendio praticabile che lo circonda tutto attorno; osserva l'entrata dove il pendio sembra quasi interrotto.

Poco fa, durante l'alba che viene prima del giorno, quando la tua anima era insensibile alla realtà del mondo, sopra i fiori di cui quella valletta è tutta ornata,

venne una donna, e disse: "Io sono Lucia: lasciatemi prendere questo uomo che dorme, così lo aiuterò nel suo cammino".

E' la seconda volta che Santa Lucia interviene a favore di Dante (cfr. Interno canto Il, versi 100 sgg.), sempre quale simbolo della grazia illuminante.

Rimasero lì Sordello e le altre nobili anime; Lucia ti prese, e quando si fece giorno, íncominciò a salire; e io seguii i suoi passi.

Ti posò in questo luogo, ma prima i suoi begli occhi mi indicarono la fessura aperta nella roccia; poi Lucia se ne andò via assieme al tuo sonno ».

Allo stesso modo in cui un uomo, prima dubbioso, si rassicura, e cambia la sua paura in fiduciosa attesa, una volta che gli è stata mostrata la verità (su ciò di cui dubitava),

così io mi mutai; e quando il mio maestro vide che io ero senza alcuna preoccupazione, si mosse su per il pendio, ed io lo seguii verso l'alto.

Analizzando la resa poetica della prima parte del canto, si nota dapprima la prevalenza di un tono forte - in una visione solenne, che ben rende lo stupore, e più l'entusiasmo, di Dante di fronte alla grandiosità di quanto sta per accadere - di un senso di sacralità magica che si distende nella figura dell'aquila protesa nell'ampiezza dei cieli. Con l'apparizione di Lucia il tono si fa più persuasivo, più delicato, in una gioia interiore che nasce dal grato ricordo dell'istante di quell'avvenimento solenne, ricordo che si tramuta in dolcezza di parole, in freschezza di immagini: è l'aprirsi di un auroraIe mondo in quell'anima che dentro dormìa. Per Dante sono infatti molte le ragioni della meraviglia allorché, svegliandosi, ha vicino ormai solo Virgilio, mentre il sole è già alto nel cielo ed il suo sguardo è rivolto verso il mare, sicché lo stesso paesaggio, come annota il Mattalia, ha veramente una "vastità di visuale in forte contrasto con la ristrettezza della valletta in cui si era addormentato".

Lettore, tu t'accorgi che io tratto ora un argomento più solenne, e perciò non meravigliarti se io lo avvaloro con procedimenti artistici più raffinati.

"Avvisa il lettore... dicendogli ch'egli innalza la materia sua... a trattare di cose autorevoli. e poi la rincalza, cioè l'addorna e vela con belle finzioni poetiche," (Anonimo Fiorentino) Questi inviti di Dante (cfr. anche il canto VIII, versi 19-21) segnano come le tappe di un suo crescere poetico, sicché egli annota con orgoglio questa ulteriore scelta di una tematica più ardimentosa, secondo un procedimento che avvalora il proprio linguaggio attraverso l'uso di scene figurative, di invenzioni allegoriche, di suggerimenti dottrinali, di reminiscenze scritturali, per esprimere le sue progressive conquiste spirituali.

Noi ci avvicinammo (alla fessura), ed eravamo già ad un punto, per cui là dove prima mi appariva solo una fessura, proprio come un varco che divide le parti di un unico muro,

mi fu possibile vedere una porta, e salire fino ad essa per tre gradini sotto, diversi tra loro quanto al colore, e un custode (un angelo) che ancora non parlava.

L'angelo portinaio non parla, sia perché la sua missione non è umana, sia perché attende che sia il peccatore, di propria spontanea volontà, ad avvicinarsi. Egli sta sul più alto dei gradini perché subito risulti evidente l'autorità di cui è investito da Dio, ed il suo volto è chiaro come devono esserlo il suo animo e la sapienza da lui posseduta.

E quando il mio occhio si fissò sempre più attento su di lui, vidi che sedeva sul gradino più alto, e che era talmente splendente nel volto che io non sopportai tanta luce;

e aveva in mano una spada snudata, che rifletteva verso di noi i raggi del sole, così che io spesso indirizzavo invano i miei occhi verso di lui.

La spada, simbolo solitamente del potere, qui rappresenta la giustizia, che deve essere nuda, cioè schietta, senza dubbi, e lucente, perché deve risplendere come la verità. Per questo Dante, che non vi è ancora abituato, ha difficoltà nel rivolgere gli occhi alla verità divina, che dalla spada traluce, e dalla quale egli resta abbagliato.

Egli cominciò a dire: « Dal luogo dove siete dite: che cosa volete? e dov'è colui che vi accompagna? badate che il vostro salire non vi torni a danno ».

L'angelo, come sacerdote, deve accertarsi che il peccatore affidi la propria redenzione non solo alla sua buona volontà, ma anche alla componente divina di ogni sacramento, in questo caso rappresentata da Lucia come donna del ciel.

Il mio maestro gli rispose: « Una donna del cielo (Lucia), esperta di queste cose, or non è molto ci disse: "Recatevi (andate) là: ivi è la porta"».

L'angelo cortese ricominciò a parlare: « Ed ella vi faccia progredire nel cammino del bene: venite dunque fino a questi gradini ».

Li raggiungemmo; ed il primo gradino era fatto di marmo bianco, così pulito e lucente, che io potei specchiarmi in esso proprio come appaio.

Il secondo era più che scuro, addirittura nero, composto di una pietra non levigata ed arida, attraversata da fessure nella sua lunghezza e larghezza.

Il terzo gradino, che si sovrappone con la massa del suo peso agli altri, mi sembrava di porfido dal color rosso fuoco, come fosse stato sangue sgorgante da una vena.

Il primo gradino indica il primo momento della confessione, l'esame di coscienza, attraverso il quale l'anima si guarda come in uno specchio ed appare com'è in realtà.
Il secondo rappresenta la confessione verbale, durante la quale il penitente riconosce i suoi peccati nella loro gravità; ma quelle fessure, che formano una croce, indicano che tale bruttura dell'anima può essere spezzata dalla croce, cioè dai meriti di Cristo.
Il terzo gradino spiega il terzo momento, che segue gli altri perché è l'atto più solenne della confessione: è la soddisfazione, che consiste in un movimento d'amore, da parte del peccatore, verso Dio, e nell'applicazione dei meriti del sangue, cioè del sacrificio di Cristo, che completa il gesto d'amore, sempre limitato, del peccatore pentito.
Altri commentatori invece, pur essendo d'accordo nel considerare rappresentati in questi versi i tre momenti del rito della confessione, vedono simboleggiata nel primo gradino la confessione orale e nel secondo la contrizione.


Sopra quest'ultimo gradino stava saldamente appoggiato l'angelo di Dio, sedendo sulla soglia, che mi sembrava di diamante.

L'angelo, simbolo dell'autorità della Chiesa che sanziona l'atto dei penitente, tiene i piedi sull'ultimo gradino, cioè sulla soddisfazione data dal peccatore, e ad un tempo sta seduto sopra la soglia di diamante, simbolo della costanza nell'uso dell'autorità da parte del sacerdote, che deve svolgere il proprio ministero con rigida giustizia, senza lasciarsi fuorviare da simpatia, da violenza, da speranza di ricompensa. A sua volta, il diamante, nella sua purezza, è simbolo del solido fondamento su cui è basata la Chiesa, dispensatrice dell'assoluzione dei peccati.

La mia guida accompagnò me, ben disposto in questo, su per i tre gradini, dicendomi: « Con umiltà chiedi che si apra la serratura ».

Mi gettai devotamente ai santi piedi dell'angelo: gli chiesi la grazia che mi aprisse, ma prima mi battei tre volte il petto.

Tutta la confessione deve essere manifestazione di una volontà ben precisa e di un'umiltà convinta. Per questo Dante deve chiedere che l'angelo apra, deve cioè volerlo lui, e poi battersi il petto in segno di umiltà: "la prima volta è per li peccati commessi nel pensiero, la seconda per li peccati prodotti con la lingua, la terza per li peccati conseguiti con le operazioni"(Ottimo).

L'angelo mi disegnò cor la punta della spada sulla fronte sette P, e aggiunse: «Quando sarai dentro (il vero purgatorio), cerca di cancellare questi segni».

Rimessi i peccati ed ottenuta la salvezza dalla dannazione eterna, rimane nell'animo la disposizione al male, ed il debito da soddisfare nei confronti di Dio, salvezza e debito qui rappresentati dai sette P, corrispondenti a ciascuno dei sette peccati capitali puniti nei sette gironi in cui si articola il purgatorio. L'incisione dei P si rifà a passi biblici e ad usanze dei tempi di Dante. Se il Sarolli ricorda infatti che gli angeli dell'Apocalisse portano i sette segni e che secondo Ezechiele (IX, 3-6) i giusti di Gerusalemme, per potere uscire salvi dalla città, dovettero avere sulla fronte una Thau (T greca), nei documenti fiorentini raccolti dal D'Ovidio e dal Medin, è detto che i ladri erano costretti a portare una mitria cartacea con l'iniziale di furto, cioè P.

La cenere o la terra secca che sia stata appena estratta dalla cava sarebbe dello stesso colore della veste dell'angelo; e da sotto di questa egli trasse fuori due chiavi.

Una era d'oro e l'altra d'argento: prima con la chiave d'argento e poi con quella d'oro l'angelo fece sì, che io rimanessi contento (al veder aperta la porta).

Il colore della veste dell'angelo è simbolo del ministero della penitenza da lui esercitato, oppure, secondo altri, dell'umiltà necessaria per esercitarlo. La chiave d'oro indica l'autorità di Dio, senza la quale l'assoluzione è nulla, e quella d'argento la conoscenza della teologia morale e l'intuizione psicologica, cioè la sapienza umana necessaria al confessore per capire e giudicare il peccatore.

Egli ci disse: «Ogni volta che una di queste chiavi fallisce nel suo compito, così da non poter girare nella serratura, questa porta non si apre.

L'una è più preziosa (cara: cioè quella dell'autorità divina); ma l'altra (quella d'argento) esige molta sapienza ed intuizione prima di riuscire ad aprire, perché essa (la chiave argentea) è proprio quella che scioglie il nodo del peccato.

Io le ho ricevute in consegna da San Pietro; ed egli mi disse di sbagliare nell'aprire (con indulgenza) piuttosto che nel tener chiusa la porta (per eccesso di rigore), alla condizione che la gente si getti ai miei piedi (a richieder ciò con umiltà».

Il passo evangelico (Matteo XVIII, 21-22), nel quale Cristo raccomanda a Pietro di peccare piuttosto in generosità che in rigore, una volta riscontrata la buona volontà dell'uomo, è suggerito forse alla fantasia di Dante anche dallo spettacolo del giubileo del 1300, con l'ampiezza delle sue indulgenze e del suo perdono.

Poi spinse l'uscio di quella sacra porta, dicendo: « Entrate; ma vi avviso che torna fuori colui che si volge a guardare indietro ».

Dante ricorda in questi versi l'episodio biblico della moglie di Lot (Genesi XIX, 26), che disubbidì all'ordine degli angeli volgendosi a guardare la città di Sodoma, per cui fu trasformata in una statua di sale, e il mito di Orfeo e di Euridice. Dopo la morte della moglie, Orfeo, disceso agli inferi, ottenne da Proserpina di poterla riportare sulla terra, purché durante il cammino egli non si volgesse ad osservarla; non avendo ubbidito al comando. Euridice gli fu tolta per sempre.

E quando gli spigoli di quella sacra porta, che sono di metallo, forti e sonori, furono volti sui cardini.

non procurò un così stridente rumore e non si mostrò così dura ad aprirsi neppure la rupe Tarpea, quando (da Cesare) ne fu allontanato il custode, il buon Metello (per sottrarre il denaro del pubblico erario ivi custodito), per cui in seguito rimase priva (del tesoro custodito).

Io prestai orecchio attento a quel primo rumore, e mi parve di udire « Te Deum laudamus » (l'inno ambrosiano del ringraziamento) con un canto misto a quel dolce suono.

Ciò che udivo mi procurava esattamente l'impressione che si prova solitamente quando si canta in coro,

quando le parole ora si capiscono ed ora No.

L'espressione cantar con organi è da intendersi come « composizione di più voci umane», perché l'organo, come strumento, non ebbe mai il compito di accompagnare le voci fino al 1500. Tale termine ha dunque senso vocale, secondo il Casimiri, cioè "voleva significare unione di due o più voci in consonanza". Ma al di là di questa dotta disquisizione, resta l'immagine di Dante che entra in questa cattedrale che è il monte del purgatorio, e la dolcezza di un canto che gli invade l'animo commosso. E' una commozione diversa, però, da quella che lo aveva preso accanto a Casella (canto Il, versi 106 sgg.), la quale era divagazione tutta umana nell'ascolto di un canto, delle cui parole comprendeva esattamente il significato, mentre le espressioni qui non sempre giungono ugualmente chiare alla sua mente. Tuttavia quello che conta è il loro disporsi a formare un'armonia, che Dante tenta di rendere anche nel ritmo di quell'ultimo verso, dove i brevi vocaboli si susseguono ondeggiando, così come è importante che quel suono, dapprima aspro, si muti poi in onda sonora dì gradevole ascolto: la verità, di cui il Poeta dovrà partecipare, può nel suo primo ascolto apparire aspra e perfino sgradevole, ma poi si muta in dolcezza di interiore rigustamento per chi le si rivolga attento.

 

Purgatorio – Canto X

Dopo che fummo oltre il limitare della porta, che l'amore degli uomini indirizzato male (malo amor: usato per il male dei prossimo o per i falsi beni) fa aprire raramente, perché (tale amore) fa apparire come buona una via sbagliata,

mi accorsi dal suono che essa si richiudeva; e se io mi fossi voltato verso di lei, quale scusa sarebbe stata sufficiente per giustificare tale mio errore?

L'angelo infatti (canto IX, versi 131-132) aveva invitato perentoriamente Dante a non volgersi indietro.

Noi salivamo attraverso la roccia tagliata da un sentiero, che si protendeva ora a destra ora a sinistra, così come fa l'onda che ora fugge ed ora si avvicina alla riva.

Il mio accompagnatore cominciò a dire: «Qui è necessario usare un po' di accortezza, accostandoci ora da una parte, ora dall'altra alle rientranze del sentiero (al lato che si parte: per evitare le sporgenze)».

Questo procedere rese corti i nostri passi, tanto che il disco diminuito (scemo: perché sono già passati quattro giorni dal plenilunio) della luna era giunto nuovamente all'orizzonte per tramontare,

Secondo i calcoli astronomici la luna, che è ora prossima all'ultimo quarto, tramonta in purgatorio dopo più di quattro ore rispetto al sorgere del sole: sono perciò passate le dieci del mattino.
E' questa "un'altra solinga apertura di paesaggio: quello spicchio di luna che tramonta fra le strette pareti della roccia, quella visione tanto più ariosa del monte che - al di là della cruna - si raccoglie e si slancia verso il cielo, quel ripiano deserto su cui restano i due pellegrini. Il paesaggio s'intona tutto sulla nota iniziale della luna che tramonta; e questa getta su tutto il quadro un senso mattinale di freddo, di raccoglimento e di silenzio. Sulle tracce di questa nota ritorna quel senso di lontananza dalla terra che è uno dei temi più insistenti e più reconditi del Purgatorio... l'azione, Dante, i personaggi, il paesaggio, tutto parla, esplicitamente o implicitamente, di questa infinita distanza; e forse l'infinito che insiste in tutto il Purgatorio, senza l'appoggio di immagini o di misure, è sentimentalmente e poeticamente più forte che quello così spesso raffigurato o misurato nel Paradiso. Il Purgatorio è tutto immerso in un'aria di lontananza" (Momigliano).


prima che noi uscissimo fuori di quel sentiero (cruna: stretto come una cruna d'ago): ma quando ci fummo liberati di quelle difficoltà e ci trovammo in luogo aperto, in alto, dove il monte si restringe in dentro formando un ripiano,

essendo io stanco ed ambedue incerti sulla direzione da prendere, sostammo in un luogo piano privo di gente più che non sia una strada tracciata attraverso un deserto.

(Questo ripiano) dalla sponda esterna confinante con il vuoto, fino all'inizio dell'alta montagna che continua a salire, misurerebbe tre volte il corpo umano (cioè da cinque a sei metri);

e per quanto la mia vista poteva spaziare, sia a destra che a sinistra, la cornice mi sembrava sempre della stessa larghezza.

I nostri piedi ancora non si erano mossi lassù, quando io mi accorsi che quella fascia inferiore della parete che era meno ripida (dritto di salita aveva manco: affinché potesse essere vista anche dai superbi che camminano curvi),

era di marmo candido ed ornato di sculture così perfette, che non solo Policleto, ma anche la natura lì si vedrebbe superata.

Policleto, famoso scultore greco del V secolo a.C., fu conosciuto nel Medioevo attraverso le lodi che di lui fecero gli scrittori latini (Cicerone, Plinio, Quintiliano) e venne esaltato come l'artista che nel suo campo seppe realizzare l'ideale supremo di perfezione. In ogni girone del purgatorio le anime, oltre a sopportare una pena particolare dovuta al contrappasso, devono meditare intorno ad esempi che sono stati divisi da Dante in due gruppi. Quelli della virtù contraria al vizio di cui si sconta la pena in quel particolare girone, stanno all'inizio dell'episodio a dominare artisticamente, a fissare il tono poetico di quel canto e di quell'episodio, e quelli del vizio che, stando a chiusura, quasi sempre, dell'episodio, sono solitamente più fuggevoli man mano che si sale, e come sopraffatti dagli esempi delle virtù immediatamente seguenti. Tuttavia in questa prima occasione gli esempi della superbia sono tredici, quasi ad indicare quanto ancora gravi su Dante il peso del peccato del quale egli si dichiara particolarmente colpevole.
A Ioro volta ciascun gruppo di esempi si distribuisce con identica scelta, cioè viene indicato un personaggio della Bibbia, uno della classicità, uno dei tempi moderni, poiché Dante intende ricapitolare tutta quanta la storia dell'umanità, di quella che ha atteso il Cristo e di quella che si è attuata dopo la sua venuta, perché "ugualmente sacro è il valore delle due civiltà", in quanto "in Roma e nella civiltà pagana ordinata dalla Provvidenza a preparare il ritorno della giustizia e della pace, si adombra il travaglio della umanità che lungo il corso dei secoli muove alla riconquista della pienezza delle virtù morali" (Sacchetto).


L'arcangelo Gabriele che scese sulla terra per annunciare la decisione divina della pace da molti anni chiesta dagli uomini con infinite lagrime, decisione che aperse il cielo (all'umanità) dopo un così lungo divieto (da quando Adamo ed Eva erano stati cacciati dal paradiso terrestre),

Ma si sarebbe giurato che egli dicesse: « Ave! », perché lì era pure rappresentata Maria che aperse agli uomini l'amore divino;

Nel primo esempio di umiltà Dante presenta l'annunciazione alla Vergine (Luca I, 26-38), e di argomento mariano saranno sempre i primi esempi di virtù nei singoli gironi del purgatorio: "la Vergine si trova al vertice della scala: prima dopo Dio, più in alto di tutti gli uomini; ed è naturale e ragionevole che, nell'esemplificare, si segua l'ordine gerarchico: dall'alto al basso" (Mattalia).
"La figurazione plastica esprime con tanta intensità il sentimento, da suggerire anche le parole in cui questo si traduce. Il fenomeno, che Dante sottolinea fin d'ora servendosi di quelle formule di cui anche altrove si giova per attestare cose a prima vista incredibili, cresce da un esempio all'altro, fino al visibile parlare del terzo, dove addirittura è resa una successione di sentimenti e di corrispondenti parole, e cioè tutto lo svolgersi di un dialogo. Si passa così a poco a poco da un'asserzione metaforica, e come tale verisimile, ad un fatto propriamente e dichiaratamente miracoloso!” (Sapegno)


e c'erano realmente impresse (o perché veramente scritte, o perché sembrava, dal movimento delle labbra, che le stesse pronunciando) queste parole: «Ecco l'ancella del Signore », proprio come la figura del suggello si imprime nella cera.

"Il verso come figura in cera si suggella condensa tutta una serie di usanze artistiche e idee anagogiche del Medioevo, che sfuggono al lettore moderno. Nel Medioevo la parola figura, significa anche «detto», «parola», «frase»; si usava scrivere le lettere della cartella a destra in senso inverso, da leggere da destra a sinistra, cioè quasi sigillate in cera o viste in uno specchio, mentre la cartella di sinistra era normale. Ma se il contemplante leggeva tutte due le cartelle da destra a sinistra, veniva a leggere Eva invece di Ave; e questo significava... che il peccato di Eva era abolito per mezzo dell'Ave Maria, cioè dalla nascita del Redentore, idea che dirige la meditazione dell'umiltà verso la grande idea centrale dei Cristianesimo. (Gmelin)

« Non guardare e meditare solo una rappresentazione » disse il dolce maestro, che mi teneva dalla parte del cuore (cioè alla sinistra).

Perciò io mossi gli occhi, e dietro a Maria vidi, dalla parte in cui si trovava Virgilio, colui che mi guidava,

un'altra storia intagliata nella roccia; per cui io passai oltre Virgilio, e mi avvicinai, affinché quella raffigurazione fosse tutta spiegata davanti ai miei occhi.

Lì, sempre nel marmo, era intagliato il carro con i buoi, che tiravano l'arca santa, quell'arca per cui si teme di fare qualcosa che non ci sia stata ordinata.

Durante il trasporto dell'arca, ordinato da Davide, da Baala a Get, avvenne che Oza, uno dei conducenti, vedendo l'arca sul punto di cadere, stese la mano per sorreggerla, e fu fulminato per avere compiuto un gesto permesso solo ai sacerdoti (11 Samuele VI, 1-7).

Davanti all'arca appariva della gente; e tutta quanta, divisa in sette schiere, (cantando) faceva dire ai miei due sensi (udito e vista), all'uno « No » (se si affidava al senso dell'udito), all'altro « Si, canta » (se si affidava a quello della vista).

Allo stesso modo gli occhi ed il naso si fecero discordi nel rispondere l'uno di si (gli occhi) e l'altro di no (il naso) rispetto al fumo dell'incenso che vi era rappresentato.

Nel bassorilievo Davide, umile salmista, stava davanti all'arca santa, con la veste rialzata mentre danzava, e in quel gesto era nello stesso tempo più e meno di un re.

Davide, compositore dei Salmi, con quell'umile comportamento intendeva abbassarsi davanti a Dio e appariva più... che re perché il suo umiliarsi lo innalzava a Dio più della sua stessa autorità, men che re essendo i suoi atti sconvenienti alla dignità regale.

In faccia a Davide (di contra: dall'altra parte della scultura), rappresentata ad una finestra di un gran palazzo, Micol (figlia di Saul e prima moglie di Davide) guardava stupefatta come fa di solito una donna sprezzante e insofferente.

Micol, per questo suo atteggiamento di fronte al gesto di Davide, fu punita con la sterilità. L'esempio di umiltà diventa anche esempio di superbia punita. Dante tuttavia unisce due episodi che si succedono in tempi diversi, poiché il secondo avvenne durante il trasporto dell'arca da Get a Gerusalemme (II Samuele VI, 12-23).

lo mi mossi dal luogo dove mi trovavo, per guardare da vicino un'altra storia, che al di là della figura di Micol mi attraeva con il suo bianco.

Vi era raffigurato il grande fatto glorioso del principe romano, il quale con la sua giustizia mosse papa Gregorio Magno alla sua grande vittoria (sulla morte e sull'inferno);

La leggenda dell'intervento di papa Gregorio Magno in favore di Traiano compare per la prima volta nel IX secolo, è ricordata poi da molti scrittori e confluisce in diverse raccolte medievali di novelle. Nel Novellino si narra: "Lo 'mperadore Traiano fu molto giustissimo signore. Andando un giorno con la sua grande cavalleria, contra suoi nemici, una femina vedova li si fece dinanzi, e presolo per la staffa e disse: - Messer, fammi diritto di quelli ch'a torto m'hanno morto il mio figliuolo! - E lo 'mperadore disse: - Io ti sodisfarò, quando io tornarò. - Ed ella disse: Se tu non torni? - Ed elli rispose: Sodisfaratti lo mio successore.
- E se 'l tuo successore mi vien meno, tu mi sei debitore. E, pogniamo che pure mi sodisfacesse, l'altrui giustizia non libera la tua colpa. Bene averràe al tuo successore, s'elli liberrà sé medesimo. - Allora lo 'mperadore smontò da cavallo e fece giustizia di coloro, ch'aveano morto il figliuolo di colei. E poi cavalcò e sconfisse i suoi nemici. E dopo non molto tempo, dopo la sua morte, venne il beato San Grigoro papa e, trovando la sua giustizia, andò alla statua sua, e con lagrime l'onorò di gran lode e fecelo diseppellire. Trovaro che tutto era tornato alla terra, salvo che l'ossa e la lingua. E ciò dimostrava, come era suto [stato] giustissimo uomo e giustamente avea parlato. E Santo Grigoro orò per lui, a Dio. E dicesi per evidente miracolo, che, per li preghi di questo santo Papa, l'anima di questo lmperadore fu liberata dalle pene dell'inferno e andonne in vita eterna. Ed era stato pagano" (LXIX).


parlo dell'imperatore Traiano; e vicino al freno del suo cavallo era raffigurata una povera vedova in atteggiamento di pianto e di dolore,

Lo spazio intorno a Traiano sembrava affollato e pieno di cavalieri, mentre le aquile nere in campo d'oro visibilmente si muovevano al vento sopra la gente accalcata.

In realtà le aquile delle insegne militari romane, essendo di metallo, non potevano muoversi; Dante ora le immagina com'erano ai suoi tempi, cioè raffigurate su bandiere.

La povera donna in mezzo a tanta e così importante gente sembrava dire: « Signore, fa giustizia per mio figlio che è stato ucciso, per la qual cosa sono così addolorata ».

E l'imperatore le rispondeva: « Ora aspetta finché io ritorni ». E la donna aggiungeva, come una persona nella quale il dolore incalza: « Mio signore,

e se tu non tornassi? » E l'imperatore: « Chi sarà al mio posto, porterà a termine la vendetta per te ». Ed ella: « Il bene compiuto dagli altri che vantaggio ti darà', se trascuri di compiere il tuo dovere?».

Per cui l'imperatore: « Confortati dunque; è giusto che io assolva il mio dovere prima di muovermi alla guerra: la giustizia vuole (che io mi comporti così ) e la pietà mi trattiene (dal partire prima di aver fatta giustizia)».

Dio per il quale nessuna cosa, è mai nuova (perché le contempla dall'eternìtà) fu l'autore di queste sculture che sembrano parlare, con un procedimento artistico che sembra agli uomini straordinario perché non si trova nelle opere umane.

"La scultura e la pittura ritraggono il momento, non la successione degli atti: Dante invece immagina, per virtù di miracolo, impressa la successione in un solo gruppo scultorio. Questo terzo esempio è dunque assai più straordinario degli altri due: e pare che Dante abbia voluto in certo modo rendere più agevole alla fantasia dei lettori questo miracolo avvicinando il più possibile i tempi del dialogo, come a tentar di comprimere in una sola scena gli atteggiamenti delle battute che s'incalzano: di qui la frase così pregnante esto visibile parlare." (Momigliano)

Mentre io godevo nel guardare le raffigurazioni di atti di così grande umiltà, che mi riuscivano care a vedersi perché erano opera diretta di Dio,

L'arte, secondo il concetto platonico, che però il Medioevo ha ricevuto nella rielaborazione alla quale Aristotile lo ha sottoposto, è imitazione, per quanto imperfetta, della natura, che a sua volta è copia imperfetta di Dio, mentre questi bassorilievi sono prodotti direttamente da Dio e quindi partecipano della perfezione dell'idea divina. Dante ha certamente presente, nell'immaginare queste sculture, l'arte del suo tempo: sulle facciate delle chiese, sui balaustri delle reggie sacre, le figure bibliche e cristiane, uscite dai cicli dell'epopea religiosa, narravano i propri dolori e le gioie alle pene e alle speranze del popolo, in composizioni ingenue, con forme senza ritmo di proporzioni, ma vive alla fantasia, ma benefiche al sentimento. Sugli architravi e sugli stipiti nelle porte delle cattedrali.. le rozze sculture, raffiguranti le opere e i giorni, insegnavano alle turbe dei villani i lavori campestri di ciascun mese per le diverse stagioni ... Per tal modo l'arte romanica s'era appressata alla vita, rivolgendo a intendimenti didattici specialmente le istorie bibliche ed evangeliche, scolpite nei sarcofaghi dei bassi tempi, incise negli avori, intassellate nei mosaici, ridenti dalle carte dei libri liturgici carolingi" (Campanini).
Ma non' si dimentichi anche che Dante era sollecitato dal rinascere della scultura ai suoi tempi, specialmente.con Andrea Pisano, e da quello della pittura con Cimabue e Giotto.


il poeta mormorava: «Ecco da sinistra, molte anime, che però procedono lentamente: esse ci indicheranno la strada per raggiungere gli alti gironi ».

I miei occhi che erano appagati nell'ammirare le sculture, s'affrettarono a volgersi verso Virgilio, per poter vedere ciò che di nuovo si presentava, di cui sono sempre desiderosi.

Non voglio però, lettore, che tu ti distolga da ogni tuo buon proponimento nell'udire come Dio ha voluto che si paghi il debito (contratto col peccato).

Tu non devi badare alla qualità della pena: devi invece pensare a ciò che seguirà (la succession: cioè la beatitudine dopo questo periodo di punizione); devi pensare che nella peggiore delle ipotesi, tale pena non può protrarsi oltre il giudizio universale.

In seguito al giudizio particolare, pronunciato dopo la morte, l'anima, se non viene condannata per sempre all'inferno o se non è ritenuta subito degna del paradiso, deve subire le pene del purgatorio, il quale però terminerà il giorno del Giudizio Universale; perciò a queste punizioni il penitente, nella peggiore delle ipotesi, dovrà soggiacere fino a quel momento.

Io cominciai a dire: « Maestro, quelli che io vedo muoversi verso di noi, non mi sembrano persone, e non so che cosa siano, tanto confusa è l'impressione che riceve la mia vista ».

E Virgilio mi rispose: « La grave condizione della loro pena li piega a terra come fossero rannicchiati, così che anche i miei occhi in un primo momento diedero luogo ad un contrastante giudizio (tencione: se cioè si trattasse veramente di uomini o no).

Ma guarda fissamente verso quel punto, e con la vista sforzati di distinguere ciò che cammina a fatica sotto quei massi: già puoi scorgere che ciascuno di loro (con le ginocchia) si percuote il petto.

O superbi cristiani, poveri infelici, che, privi della capacità di ben discernere, avete fiducia solo nei vostri passi che (invece di farvì avanzare) vi portano indietro,

non v'accorgete che noi uomini siamo come bruchi destinati a mutare! nell'angelica creatura (angelica farfalla: cioè l'anima, che partecipa della natura spirituale degli angeli), che deve volare fino alla giustizia divina senza alcuna possibilità di riparo (sanza schermi: senza il sostegno di nessun bene umano)?

Di che s'insuperbisce il vostro animo, dal momento che siete come insetti ancora imperfetti, così come bruchi in cui manchi la completa formazione?

Come talvolta si vede, a sostegno del soffitto o del tetto, una figura che ad uso di mensola congiunge le ginocchia al petto (piegata sotto quel grave carico),

la quale fa nascere in chi la vede un vero dolore per un fatto in sé non vero (del non ver, in quanto è solo rappresentato); così io, quando guardai meglio vidi quei penitenti così piegati.

Tuttavia essi erano più o meno piegati a seconda che avessero un peso più o meno grave addosso; e colui che nell'atteggiamento pareva più rassegnato,

sembrava dire tra le lagrime: "Non ne posso più".

 

Purgatorio – Canto XI

« Padre nostro, che stai nel cielo, non perché limitato da questo, ma per il maggiore amore che tu nutri per i cieli e gli angeli (primi effetti di là su: le prime opere create dà Dio),

il tuo nome e la tua potenza siano oggetto di lode da parte di tutte le creature, così come è giusto rendere grazie al tuo amoroso spirito.

Ci sia concessa la pace del tuo regno, perché noi con le nostre sole forze, per quanto ci adoperiamo, non possiamo pervenire ad essa, se non ci viene incontro.

Come i tuoi angeli sottomettono a te la loro volontà, acclamandoti, così siano pronti a fare gli uomini della loro.

Donaci oggi la grazia divina, senza la quale retrocede colui che più si sforza di procedere attraverso le difficoltà del mondo,

E come noi perdoniamo a ciascun nostro nemico il male che abbiamo ricevuto, anche tu perdona a noi con misericordia, senza guardare i nostri meriti insufficienti.

Non mettere alla prova la nostra forza che facilmente si abbatte, con le tentazioni del demonio, ma liberala da lui che con tanta insistenza la spìnge (al male).

L'ultima parte della preghiera, o dolce Signore, non è più fatta per noi, dal momento che essa per noi non è più necessaria, ma per coloro che abbiamo lasciato sulla terra.»

Coscienza dei limiti umani e vibrante ansia dei beni superiori, non più caduchi ma perfetti, sorreggono la parafrasi del « Pater Noster », la preghiera evangelica più alta, che è confessione di umiltà del singolo uomo di fronte a Dio e voce corale di tutta la cristianità. Un largo filone critico, a partire dal Tommaseo, denuncia la scarsa validità poetica di queste terzine, che si dispongono come dottrinale svolgimento della ieratica semplicità delle parole di Cristo (Matteo VI, 9-13; Luca XI, 2-4) e giustifica l'inizio del canto XI come il prodotto di un gusto particolare del Medioevo, che amava parafrasare, in un genere Il tra dottrinale e retorico" (Parodi), le più conosciute preghiere biblíche. Senza dubbio il commento delle parole sacre è in parte teologico - guidato dalla esatta terminologia della filosofia scolastica (circunscritto, primi effetti) - e in parte morale - come nel dolente accenno all'aspro diserto che l'umanità deve percorrere e ai suoi sforzi inutili (verso 15) senza l'aiuto divino - ma il rilievo in cui è posto il dramma della debolezza umana e il confidente abbandono in Dio (versi 7-9; versi 13, 18; versi 19-21), e la lentezza del ritmo con cui si snoda la preghiera, non canto esaltante, ma faticosa espressione che richiama il verso finale del canto precedente, piangendo parca dicer: "Più non posso", arricchiscono la parafrasi di un particolare tono di poesia.
Il Fallani nota che l'aver risolto la preghiera nel ritmo della terzina, con pause efficaci, con riprese e lievi varianti e amplificazioni, non ha sfigurato la purezza originale dell'oratio, mentre questo gruppo che espia il suo orgoglio di fama e di gloria terrena e che per la superbia era costretto, un tempo, ad un'azione egoistica e vana, ora con la preghiera per color che dietro noi restaro entra nel circolo vastissimo e corale di tutto il mondo ch'è allo stato di prova".
Di grande efficacia è l'aver fatto recitare direttamente la preghiera dai superbi, perché le pause di riflessione trovano così la loro giustificazione: il rapporto fra Dio e le creature che deve essere vissuto come rapporto fra padre e figlio, il rapporto fra gli uomini che vengono così trasformati in fratelli, il dovere dell'amore e il bisogno della preghiera reciproca sono realtà che i superbi intendono solo ora, con estrema chiarezza, mentre, curvati verso la terra, gemono sotto il peso del rnacigno che li doma. Per questo, pur nel legame che impone di per sé la preghiera dei Pater, "il Poeta ha saputo trovare una cadenza ritmica solenne, quasi di salmo gregoriano, che scaturisce dalla realtà vivente dei peccatori... riguadagnati alla Grazia nella rappresentazione del loro ultimo dramma, prima della visione beatifica" (Fallani).
L'espressione quest'ultima preghiera è riferita da molti commentatori alla terzina 19: i superbi chiedono al signor caro la grazia di assistere chi in terra è ancora esposto alla tentazione, "fatti teneri della tenerezza che il Padre ha mostrato loro, salvandoli dal pericolo estremo" (Marzot). Il Porena più giustamente ritiene che essa comprenda tutta l'ultima parte della preghiera (versi 13-21), in cui i riferimenti alla vita terrena sono continui e diretti.


Così quelle ombre innalzando una preghiera di buon augurio per sé e per gli uomini, procedevano sotto il peso dei massi, peso simile a quello che talvolta ci opprime nell'incubo di un sogno,

girando tutte intorno al monte lungo la prima cornice, travagliate in modo diverso (disparmente: secondo la gravità del peccato) e sfinite, purificandosi delle brutture del peccato.

Se nel purgatorio pregano sempre per noi, quali preghiere e quali opere si potrebbero fare nel mondo per le anime penitenti da parte di coloro la cui volontà di suffragio nasce da un cuore in grazia di Dio?

E' giusto aiutarle a cancellare le macchie di peccato che hanno portato dal mondo, in modo che, purificate e prive di peccato, possano salire al cielo.

« Possano la giustizia e la misericordia liberarvi presto dal peso, in modo che possiate iniziare il volo, che vi innalzi dove desiderate, (in nome di questo augurio)

indicateci da quale parte si giunge prima alla scala (che porta al secondo girone); e se esistono più passaggi, mostrateci quello che sale meno ripido,

perché questo che procede con me, a causa del peso del corpo di cui è rivestito, è lento nel salire, di contro al suo desiderio.»

Il centro drammatico del canto. più che negli incontri che ne occupano la seconda parte, si risolve nelle terzine 25-39, il cui motivo conduttore . la sofferenza delle anime, la loro serena rassegnazione e la commossa partecipazione di Dante - non solo si dispone lungo l'arco dei tre canti dedicati ai superbi, ma è momento ricorrente in ogni altra cornice, perché è da questo che nasce la poesia del Purgatorio. Essa infatti "si muove tra i limiti di un passato, che perdura per rendere possibile il rimorso salutifero, e, il futuro, di cui l'anima coglie qualche vivido presagio. E questi due aspetti si scontrano dentro l'anima del penitente. che non ha una storia intermedia, su cui posi col pensiero... L'umano delle anime penitenti si esprime o si esalta in due sospiri: uno di rimorso, uno di speranza , (Marzot). Per questo la nuova siuazione poetica si sdoppia tra lo spettacolo di quello che l'uomo fu in terra - animoso, prode, magnanimo - e il senso dì quiete laboriosa, nell'esercizio mite della penitenza, che rintuzza ogni aggressività di natura e pone un sorriso nella realtà della propria storia, sempre più lontanante. I motivi drammatici emergenti da questa disposizione interiore delle anime e dalla figurazione scenica si ripercuotono nell'animo, di Dante - la cui umanità appare tutta in due versi (35-36) - e preparano gli episodi seguenti.

Le parole, che risposero a quanto aveva detto la mia guida, non si capì da quale anima fossero pronunciate;

ma si dìsse: « Seguiteci a destra lungo la parete, e troverete il passaggio che può essere salito da un vivente.

E se io non fossi impedito dal masso che piega il mio capo superbo, per cui sono costretto a tenere il viso abbassato,

guarderei costui, che è ancora vivo e non ha detto il proprio nome, per vedere se lo conosco, e per ispirargli pietà di questo peso.

Io fui italiano e fui figlio di un grande toscano: mio padre fu Guglielmo Aldobrandesco; non so se il suo nome sia mai arrivato alle vostre orecchie.

L'anima che parla a nome dei suoi compagni di pena (le lor parole) è quella di Omberto Aldobrandeschi, figlio di Guglielmo, appartenente alla nobile famiglia ghibellina dei conti di Santaflora. Omberto fu signore di Campagnatico. nel Grossetano, e con l'aiuto dei Fiorentini continuò contro Siena le lotte iniziate dal padre. Mori nel 1259, e intorno alla sua morte esistono due versioni: secondo la prima fu ucciso da sicari inviati dai Senesi, secondo l'altra, più attendibile, morì eroicamente, difendendo il suo castello contro i Senesi. Il nome di Guglielmo, morto fra il 1253 e il 1256, riempì a lungo le cronache toscane, sia per il suo accanimento contro Siena. sia per la sua politica incerta fra Papato e Impero.

L'antichità della mia famiglia e le azioni illustri dei miei antenati mi resero così superbo, che, non pensando che unica è la madre di tutti, la terra,

disprezzai a tal punto il mio prossimo, che ciò fu causa della mia morte; e come essa avvenne, lo sanno i Senesi e a Campagnatico lo sa ogni essere parlante.

Se si accetta la versione dell'assassinio, bisogna intendere che solo i Senesi che ne furono causa e gli abitanti di Campagnatico che vi assistettero, conoscono come, cioè in quale misero modo, Omberto morì. Se si accetta la notizia della fine in battaglia, il come si riferirà al coraggio con cui eglì cadde.

Sono Omberto; e la superbia ha recato danno non solo a me, perché essa ha trascinato con sé nel male (in vita e dopo la morte) tutti i miei consanguinei (consorti: nel significato medievale di membri di famiglie provenienti dallo stesso ceppo).

Ed è necessario che io qui porti questo peso a causa della superbia, fin tanto che la giustizia divina abbia ricevuto soddisfazione, qui tra i morti, dal momento che non l'ho fatto mentre ero vivo ».

La caratterizzazione psicologica di Omberto Aldobrandeschi è raggiunta anzitutto attraverso il suo linguaggio aspro, difficile, continuamente spezzato dall'alzarsi improvviso della voce in un moto dell'antica superbia (s'io non fossi... guardere'io... io fui latino... io sono Omberto... io questo peso porti... poi ch'io nol fe') e dal suo piegarsi altrettanto improvviso in una voluta ricerca di umiltà (la cervice mia superba doma... per farlo pietoso a questa soma... non so se 'l nome suo già mai fu vosco). Non è ironia quella che muove questo discorso, come vorrebbe il Marzot, bensì Il sentimento drammatico di una non compiuta vittoria su se stesso, di un'oscillazione lenta a risolversi fra il guerriero di un tempo, abituato al comando, e il penitente, che sembra fare tutt'uno con la pietra che lo schiaccia contro la terra. Non c'è più il cuore di una volta, ma, nel breve cono d'ombra che la colpa proietta dentro di lui, si muove il superstite senso della terra, cioè perdura la condizione del carattere (l'orgoglio dell'antico sangue e delle opere leggiadre), essendo in lui ancora all'inizio quel processo di ascensione che invece già tanto ha eliminato del contingente presente in Oderisi e Provenzano Salvani.

Per ascoltare abbassai il viso; e una di quelle anime, non quella che parlava, si torse sotto il peso che le opprimeva,

e mi vide e mi riconobbe e mi chiamò per nome, tenendo faticosamente fissi gli occhi su di me che procedevo con loro tutto chinato.

« Oh! » gli dissi, « non sei Oderisi, il vanto di Gubbio e il vanto di quell'arte che a Parigi è chiamata illuminare (alluminar: miniare) ? »

Oderisi (o Oderigi) da Gubbio fu un celebre miniatore. vissuto intorno alla metà del '200. Alcuni documenti attestano la sua presenza a Bologna fra il 1268 e il 1271, e a Roma; pare abbia soggiornato anche a Firenze. Morì nel 1299. Dante, per quanto possiamo ricavare da questi versi, l'avrebbe conosciuto e stimato profondamente, quale principale esponente della miniatura bolognese, che in questo periodo subiva l'influenza di quella francese. Del resto la Francia dominava allora questo campo artistico, per cui accanto al termine italiano « miniare » esisteva anche la forma « illuminare », coniata sul francese enluminer, che a sua volta pare derivi dal latino alumen, « allume », un materiale particolare usato per accrescere la lucentezza dei colori adoperati dal miniatore.

« Fratello », mi rispose « sono più belle le opere che dipinge il bolognese Franco: la gloria ora è tutta sua, e a me ne resta solo una parte.

Franco fu un miniatore bolognese, più giovane di Oderisi di qualche anno; secondo il Vasari, che afferma di aver visto molte opere miniate da lui, sarebbe stato "miglior maestro" di Oderisi. Tuttavia tanto di Franco quanto di Oderisi non abbiamo alcuna opera che si possa loro attribuire con assoluta certezza.

Certamente, mentre ero in vita, (nell'ammettere la superiorità di un altro) non sarei stato così generoso, a causa del grande desiderio di eccellenza al quale il mio animo era tutto rivolto.

Qui si sconta la pena di questa superbia; e non mi troverei neppure qui (sarei ancora nell'antipurgatorio), se non fosse che mi pentii, mentre (essendo in vita) potevo ancora peccare.

Oderisi, che rappresenta la superbia nell'arte, dopo quella della stirpe di Omberto e prima della superbia politica di Provenzano, appare "in una condizione spirituale più monda di scorie psicologiche e terrestri che non Omberto Aldobrandeschi: egli è meglio riuscito a sconfiggere in sé i difficili e rissosi orgogli dell'artista, e all'amichevole enfasi con cui Dante l'aveva salutato onore della sua città e dell'arte della miniatura egli contrappone, con libero riconoscimento, il più luminoso sorriso delle pergamene miniate dal suo antagonista Franco bolognese. I ricordi delle accanite lotte per la conquista del primato nella propria arte, e la vicenda delle altre fame artistiche e letterarie, gli si sono ormai chiariti in una religiosa filosofia della vanità. Ma è una filosofia umanamente ancor patita, venata di malinconia, non tranquillamente serena: Oderisi disserta per persuadere, oltre Dante, anche se stesso, quanto in lui sopravvive, resistendo all'ultima e suprema liberazione spirituale, di umano e terrestre" (Mattalia).

Oh quanto è vana la gloria dell'umano valore! quanto poco tempo resta rigogliosa sulla cima del suo albero, se non è seguita da un periodo di decadenza!

Cimabue credette di essere senza rivali nella pittura, ed ora è di Giotto tutta la fama, cosicché la sua è oscurata:

Giovanni di Pepo, soprannominato Cimabue, nacque a Firenze nel 1240 e morì all'inizio del 1300. Iniziò l'opera di distacco della pittura italiana dalla tradizione bizantina, opera che fu continuata, con ancora maggiore decisione, dal suo allievo, Giotto. Un antico commentatore, l'Ottimo, ripreso poi dal Vasari, afferma che fu "pintore... molto nobile", ma particolarmente "arrogante e... sdegnoso".
Giotto di Bondone del Colle nacque a Vespignano (vicino a Firenze) intorno al 1266 e morì nel 1337 a Firenze, dopo un'intensa attività, della quale le principali testimonianze si trovano oggi ad Assisi, Padova e Firenze. Con la sua opera il rinnovamento della pittura italiana è ormai un fatto compiuto.
Dopo innumerevoli studi la maggior parte dei critici è d'accordo nell'ammettere fra Dante e Giotto rapporti di amicizia e di stima.


così Guido Cavalcanti ha strappato a Guido Guinizelli il primato nell'uso della lingua volgare; e forse è nato chi oscurerà la loro fama.

Guido Guinizelli, nato a Bologna fra il 1230 e il 1240 e morto nel 1276, fu iniziatore della scuola poetica del dolce stil novo (della quale Dante fu uno dei principali esponenti), sia per la concezione dell'amore sia per l'uso raffinato del volgare. Dante lo loda particoIarmente nel Convivio (IV, 20, 7) e nel De Vulgari Eloquentia (1, 9, 3; 15, 6; Il, 5, 4; 6, 6) ed esalterà la sua poesia nel canto XXVI del Purgatorio.
Guido Cavalcanti, figlio di quel Cavalcante dei Cavalcanti da Dante posto nell'inferno fra gli eresiarchi (canto X, versi 52-72), fu grande rappresentante del dolce stil novo, amico e maestro di Dante. Nato poco prima del 1260, morì nel 1300.
L'espressione e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido pare voglia alludere, secondo molti commentatori antichi e moderni, a colui che, se pittore, oscurerà la fama di Gíotto (l'uno), se poeta, la fama di Guido Cavalcanti (l'altro) : riferendo l'uno e l'altro ai due Guidi, c'è da superare la difficoltà del fatto che la gloria del Guinizelli non si può più oscurare, dal momento che essa è già stata distrutta dal Cavalcanti. Tuttavia è più esatto intendere, seguendo alcuni interpreti antichi, che qui Dante alluda a se stesso, che supererà in grandezza i due poeti precedenti. Questa affermazione non è superba esaltazione di sé, ma consapevolezza delle proprie capacità poetiche (cfr. anche il canto XXIV del Purgatorio, versi 52-54). Tuttavia questo giudizio si svolge nell'ambito di una profonda meditazione intorno alla caducità dei fatti e della gloria terrena, cosicché anche Dante riconosce di non potersi sottrarre alla legge del tempo: come Cimabue, il Guinizelli e il Cavalcanti sono già stati dimenticati, presto lo saranno anche Giotto e lui stesso.


La gloria umana non è altro che un soffio di vento, che ora spira da una parte ed ora spira dall'altra, e cambia nome ogni volta chi cambia direzione.

Quale fama più grande avrai, se muori vecchio, di quella che avresti se fossi morto prima.di abbandonare il linguaggio dei bimbi (il pappo e il dindì rappresentano la storpiatura infantile di « Pane » e « moneta »),

prima che siano trascorsi mille anni? perché (mille anni) rispetto all'eternità costituiscono un periodo di tempo più breve di un battito di ciglia rispetto al movimento del cielo che ruota più lentamente degli altri (al cerchio che più tardi in cielo è torto: il cielo delle stelle fisse che impiega 360 secoli a compiere la sua rivoluzione).

Colui che cammina a passi così brevi davanti a me, fece risuonare del suo nome tutta la Toscana; ed ora a malapena è ricordato a Siena,

della quale era signore quando venne distrutta la baldanza fiorentina, che a quel tempo fu superba così come ora è avvilita.

Colui che fu sire in Siena è Provenzano Salvani, che fu uno dei più autorevoli ghibellini della Toscana, ed ebbe nelle sue mani il governo di Siena dopo il 1260, Al concilio dì Empoli, dopo la vittoria ghibellina di Montaperti, fu tra coloro che sostennero la necessità di una distruzione totale della guelfa Firenze (cfr. Inferno canto X, versi 91-93). Nel 1269 a Colle di Valdelsa partecipò ad uno scontro fra Senesi e Fiorentini e "fu preso e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia" (Villani-Gronaca VII, 31).

La vostra fama è come il colore dell'erba, che appare e scompare, e viene seccata dal sole ad opera del quale esce dalla terra ancora immatura.»

La perorazione di Oderisi si inquadra perfettamente, nel concetto di «tempo» del mondo purgatoriale: se nell'inferno il passato immobilizzato nell'atto del peccato, si identifica col presente. che è la dannazione derivata da quel peccato, e che si distenderà all'infinito senza mutamenti, nel Purgatorio il ritmo del tempo è avvertito dalle anime perché è segnato dalla loro progressiva ascesa verso l'alto attraverso le varie cornici. La loro vita spirituale è in movimento continuo verso la perfezione, e il movimento presuppone una misura oggettiva delle ore entro cui svolgersi. Solo questo « tempo » ha valore, perché è in rapporto con l'eternità, mentre i mill'anni della terra rivelano tutti la loro caducità attraverso il rapido avvicendamento di luci e di ombre, che illuminano e coprono con rapidi trapassi (neppure una generazione intercorre fra Oderisi e Franco, Cimabue e Giotto, Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti) gli individui. Questa legge universale, che sembra dapprima affacciarsi con il vigore dell'invettiva (oh vana gloria del'umane posse!) si svolge poi entro il ritmo solenne di una contemplazione, che trasferisce ogni, significato ideale nelle immagini prese dalla vita della natura, là dove più visivamente si impone il trapassare del tempo: dalla suggestiva figura dell'albero con il suo breve e alterno verde, attraverso quella della mobilità del fiato di vento, per concludersi con una ripresa del motivo coloristico, la vostra nominanza è color d'erba. Dove però la visione si dispiega più commossa e fatta più certa nelle sue affermazioni, è nell'intervento dell'etterno e del cielo: sulla ,fama, grandeggia il tempo (pria che passin millanni) e sul tempo, l'eterno. Dagli esempi particolari di Omberto e di Oderisi, e dall'esperienza storica dì Cimabue, di Giotto, dei due Guidi, il Poeta giunge all'enunciazione di una legge universale, che trascende anche lui. "L'alta coscienza che Dante ha di sé e della sua opera resta nel fondo, inopprimibile elemento umano; però, se egli certo si sente tanto al di sopra dei due Guidi, non osa gridare alto il suo nome e affermare la sua gloria, perché subito il suo nome e la sua gloria sono sommersi dal valore universale della legge umana che egli, dopo lunga meditazione, sente ed esprime con così gravi parole" (Grabher).

Ed io gli dissi: « Le tue veraci parole mi infondono un sentimento di buona umiltà, e appianano il mio animo gonfio di grande superbia: ma chi è colui del quale ora stavi parlando? »

« Quello » disse « è Provenzano Salvani; e si trova qui perché ebbe la superba presunzione di impadronirsi di tutta Siena.

Così curvo ha camminato e cammina. senza riposo, dal momento in cui è morto: tale pena deve pagare chi nel mondo ha troppo presunto di sé.»

Ed io: « Se l'anima che aspetta, prima di pentirsi l'ultimo istante di vita, resta qui sotto (nell'antipurgatorio) e non può salire il monte

se non l'aiuta la preghiera di un cuore in grazia di Dio, prima che sia passato tanto tempo quanto visse, per quale motivo a Provenzano fu concesso di accedere (al purgatorio vero e proprio) ? »

« Quando era nel momento più glorioso della sua vita » disse, « messo da parte ogni sentimento di vergogna, di sua spontanea volontà si piantò sulla piazza del Campo di Siena (la più importante piazza della città);

e lì, per liberare un suo amico dalla pena che soffriva nelle prigioni di Carlo d'Angiò, si ridusse (a mendicare) tremando (per l'umiliazione) in ogni fibra. 

A Provenzano Salvani fu concesso di entrare subito nel purgatorio, senza so stare nell'antipurgatorio come avrebbe dovuto, essendosi pentito solo in fine di vita, grazie ad un grande atto di umiltà. Un suo amico, Bartolomeo Saracini secondo alcuni, Vinea o Mimo dei Mimi, secondo altri, fatto prigioniero da Carlo I d'Angiò nella battaglia di Tagliacozzo, doveva pagare, per aver salva la vita, una taglia di diecimila fiorini. Provenzano nel Campo di Siena cominciò a chiedere l'elemosina ai suoi concittadini, "non sforzando alcuno, ma umilmente domandando aiuto" (Ottimo), finché raggiunse la somma necessaria.per liberare l'amico.

Non ti dirò altre cose, e so che le mie parole sono oscure; ma passerà poco tempo, che i tuoi concittadini ti metteranno in condizione di poter in terpretare le mie parole. 

Questa azione gli evitò la sosta nel l'antipurgatorio (li tolse queí confini).» 

L'artista colorito, elegante nei modi, di gentile malinconia nel parlare della ricerca affannosa della fama, diventa pieno di eloquenza ammirativa nel presentare la figura di Provenzano Salvani, la sua fierezza partigiana, la volontà eroica che lo piegò liberamente a mendicare per l'amico: "C'era, dunque, in quel superbo, qualcosa oltre la superbia, qualcosa di così energico da sottomettere la superbia stessa: trionfo della bontà umana tra i più forti impedimenti, che sono quelli interiori, e perciò, in quanto drammatico, tanto più significante della forza incoercibile di essa" (Croce). Provenzano non parla, annientato quasi sotto il masso che lo costringe a prendere del cammin sì poco, antitesi amarissima con la sua vita di sire di un tempo: per questo più facilmente la sua apparizione si trasforma in autoritratto di Dante, o definizione autobiografica attraverso l'incontro con una creatura sorella, portando a compimento quel processo di identificazione con la sorte dei superbi da Dante iniziato procedendo tutto chin con loro. Nell'atto di Provenzano, quando "è la carne stessa che trema, la sua persona che s'impietra, tutto il suo essere che si capovolge nell'imperio audace, e finalmente vittorioso, sopra, di sé" (ApolIonio), è riassunta la storia dell'esilio di Dante, che Oderisi rivela con quel verbo « chiosare », che si conficca alla fine del verso con la stessa potenza del tremar per ogni vena.

 

Purgatorio – Canto XII

Io camminavo con Oderisi oppresso dal peso, curvo come lui, come procedono i buoi aggiogati, finché lo permise il mio dolce maestro;

ma quando disse: «Lascia i superbi e procedi oltre, perché nel purgatorio è necessario che ciascuno, quanto più può, con ogni mezzo porti avanti la sua barca (cioè il suo cammino)»,

mi raddrizzai nella persona così come si deve fare per camminare, sebbene i miei pensieri continuassero a restare umili e privi del turgore della superbia.

Io mi ero incamminato, e seguivo con gioia i passi della mia guida, ed entrambi già mostravamo (camminando spediti) quanto eravamo privi di ogni peso;

ed egli mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà utile, per distrarti dalla fatica del cammino, osservare il pavimento sul quale appoggi i piedi »,

La nota altamente umana e pensosamente soggettiva con la quale si era chiuso il canto precedente si dispiega lungo tutto l'arco di questi quindici versI, nei quali è in evidenza il personaggio lirico-drammatico di Dante. Ha fatto propria la sofferenza dei superbi fino ad accettare lo stesso modo di procedere (come buoi che vanno a giogo), la sua meditazione continua a svolgersi ansiosamente intorno alla necessità dell'umiltà (avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi), per approfondirsi ulteriormente in quel volgi li occhi in giù e, con un significativo moto progrediente dall'astrattezza di una dimensione interiore - i pensieri - alla concretezza di una proiezione esteriore - lo letto delle piante tue - che inserisce subito il lettore nella linea del canto, dove il tono morale non diviene sentenza o discussione retorica, ma si trasforma in evidenza di esempi. Dante dunque sarà costantemente « attore » in questo canto, nel quale ha volutamente eliminato ogni incontro con anime penitenti, affermando fin dall'inizio, lascia loro e varca; farà riaffiorare, nel silenzio profondo della cornice, le immagini di luoghi familiari, le chiese con le tombe terragne e le scalee per salire da Firenze a San Miniato; diventerà, "fattosi in margine e come sulla soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti... l'oratore che nei versi or superbite, e via col viso altero, fIglioli d'Eva assale veemente e con fiera ironia" (Marzot), ma soprattutto procederà da solo sopra quegli esempi di superbia punita, attirerà a sé, a proprio tormento e contrizione, quei quadri: non la schiera dei superbi, ma uno solo, Dante, di fronte allo spettacolo di un male che si distende nel tempo fIn dalle origini. Il canto, chiuso in un giudizio negativo da parte di molti critici a causa della parte centrale (versi 25-69), ha invece, come ogni altro, "una sua fisionomia ed una sua unità di tono morale e di modi espressivi, gli uni e gli altri informati ed incentrati sul valore dell'umiltà, sulla rinuncia ad ogni atto di passione scomposta, sulla celebrazione di un rito dinanzi alla prima ascesa. Cosa nuova è certo aver realizzato questo stato d'animo senza ricorso al colloquio. al modi gesticolati, all'usata abilità ritrattistica, ma se mai affrontando il più difficile compito di smuovere le cose e farle parlare... Ne viene fuori un canto altamente impegnato, gravemente mosso, dantesco e medievale in ogni sua parte" (Vallone).

Come le pietre sepolcrali a livello del suolo, per ricordare i morti, recano effigiato quello che il sepolto era prima di morire,

per cui lì si torna spesso a piangerlo per la fitta dolorosa del ricordo, il quale però fa soffrire (dà delle calcagne: come il cavaliere pungola il cavallo con il calcagno che porta lo sprone) solo gli animi pietosi,

allo stesso modo io potei lì osservare coperto di sculture, ma con un migliore risultato rispetto all'esecuzione artistica, tutto il piano che sporge dal monte per servire da strada.

Nei tre canti dedicati ai superbi, il Poeta ha dapprima descritto la loro pena, poi le immagini di umiltà che essi devono meditare (come stimolo a praticare questa virtù), in un terzo momento li ha uniti nella preghiera corale del «Pater Noster» (per riconoscere come unica gloria quella di Dio), infine riporta davanti a loro le immagini del male (come freno, nato dal timore, per non ricadere nel peccato). Ma Dante deve osservare gli esempi di superbia punita per tranquillar la via: non per godere del male lì raffigurato, ma per avvertire la distanza tra il suo spirito, ormai pronto e forte, e lo spettacolo del vizio superato, poiché, osserva il Marzot, dinanzi ai quadri della superbia punita torna la situazione del pellegrino nei cerchi infernali, con la differenza, però, che c'è tra la rappresentazione diretta della colpa, che fa guerra ai sentimenti e li turba, e la visione di essi, rifatta coi mezzi dell'arte, che dà alla materia, anche triste, una specie di superiore diletto. Senza dubbio l'aver trasferito il peccato dalla materia vivente della creatura umana al marmo del monte, anche se con visibile parlare, accentua il distacco e la superiorità morale da Dante raggiunta, ma è indubbiamente eccessivo quanto afferma il Croce, e, sulla sua linea, in parte il Marzot, riguardo a una potenza catartica del bello - del resto lontana dalla dottrina estetica del Medioevo - per cui risulterebbe, più che un insegnamento morale, un'ammirazione per l'arte trionfatrice che, sciogliendosi da ogni materialità e da ogni possibile riflessione, si fa linea, ombra, colore, odore, suono. Se il Poeta si compiace di un proposito d'arte raffinata (da lui stesso dichiarato nei versi 22-23 e 64-68), di una prova di bravura nella ricerca di simmetria e di richiami, l'ordito si viene svolgendo attraverso un commento morale e ricco di sentimento, e si risolve in una tecnica formalmente perfetta perché cosciente dei suo effetto didascalico.

Vedevo da una parte della via Lucifero, che fu creato più perfetto di ogni altra creatura, precipitare dal cielo come una folgore.

Il primo esempio di superbia punita rappresenta Lucifero che, dopo la sua ribellione, viene precipitato dal cielo, "come folgore" secondo la stessa espressione del vangelo di Luca (X, 18).

Vedevo dall'altra parte Briareo, trafitto dalla freccia divina, giacere, gravando sulla terra con il suo corpo senza vita.

Briareo è il gigante dalle cento braccia (Inferno XXXI, 98) che partecipò con i Titani al tentativo di rovesciare Giove dall'Olimpo e che, come gli altri, fu trafitto dalla saetta degli dei.

Vedevo Timbreo, vedevo Pallade e Marte, ancora con le armi in mano, guardare, stando intorno a Giove, i corpi dei giganti sparsi sul campo di battaglia.

Timbreo è il nome con cui veniva indicato Apollo, dalla città di Timbra (nella Troade), dove sorgeva un tempio a lui dedicato. Ora, insieme a Pallade Atena e Marte, osserva il campo di Flegra, dove è appena terminata la battaglia contro i Titani.

Vedevo Nembrot stare come smarrito ai piedi della grande torre, e osservare coloro che a Sennaar ebbero la sua stessa superbia.

Nembrot, da Dante già presentato nell'Inferno (canto XXXI, versi 58-81), è il biblico cacciatore responsabile dei tentativo di costruzione della torre di Babele nella pianura di Sennaar (Genesi X, 8-9; XI, 1-9).

O Niobe, con quali occhi pieni di dolore io ti vedevo raffigurata sulla via, tra i tuoi quattordici figli morti!

Il quinto esempio di superbia punita è ispirato dalle Metamorfosí di Ovidio (VI, versi 146-312). Niobe, moglie di Anfione, re di Tebe, si vantò dei suoi quattordici figli (sette maschi e sette femmine) di fronte a Latona, madre di due soli figli, Apollo e Diana, i quali vendicarono la madre uccidendo i quattordici giovani, mentre Niobe venne trasformata in una statua.

O Saul, come qui apparivi morto, ucciso dalla tua stessa spada a Gelboè, che dopo questo fatto non ebbe più il dono della pioggia e della rugiada!

Saul, primo re d'Israele, a causa della sua superbia fu abbandonato da Dio e, sconfitto dai Filistei, si uccise gettandosi sulla sua spada sul monte Gelboè (I Samuele XXXI, 1-4). Contro il monte, Davide, piangendo la morte di Saul, scagliò la maledizione: "O monti di Gelboè, né rugiada, né pioggia non cada più su di voi, o monti fatali!" (Il Samuele I, 21).

O folle Aracne, così io ti vedevo gìà diventata ragno per metà, (giacere) angosciata sui resti della tela che era stata da te tessuta per il tuo male.

Ancora una volta Ovidio offre il tema della leggenda (Metamorfosi VI, versi 5-145), che Dante già ha ricordato nel canto XVII dell'Inferno (verso 18).
Aracne, una tessitrice della Lidia, orgogliosa per la sua abilità, osò sfidare Minerva, e, vinta, fu trasformata in ragno.


O Roboamo, davvero qui la tua figura non sembra più minacciare; ma un carro la trasporta piena di spavento, senza che alcuno la insegua.

Roboamo fu uno dei figli dì Salomone e suo successore; con la sua prepotenza e la sua severità provocò la rívolta del popolo, che lo costrinse ad abbandonare Gerusalemine (I Re XII)

Il pavimento di marmo mostrava ancora come Almeone fece sembrare pagata a caro prezzo (perché pagata con la morte) a sua madre la infausta collana.

Almeone uccise la madre Erifile per vendicare l'uccisione del padre Anfiarao. Quest'ultimo, avendo presagito, come indovino, la sua morte durante la guerra di Tebe, si era nascosto, ma Erifile, corrotta col dono di una preziosa collana, svelò il suo nascondiglio e Anfiarao, costretto a prendere parte alla guerra, vi trovò la morte. Il peccato di Erifile non è peccato di vanità, ma di superbia, poiché il monile di cui voleva impadronirsi era di origine divina, essendo stato fabbricato da Vulcano; però esso fu sventurato, perché chi lo possedette (Giocasta, Semele, Argia) incontrò sempre una fine infausta.

Mostrava come i figli si gettarono su Sennacherib all'interno del tempio, e come lo abbandonarono lì morto.

Sennacherib, re degli Assiri, mosse guerra agli Ebrei, oltraggiandone il re Ezechia; per punizione il suo esercito venne distrutto e Sennacherib, ritornato a Ninive, fu ucciso dai suoi figli durante una funzione religiosa (II Re XVIII, 13-37; XIX, 1-37; Isaia XXXVI; XXXVII, 1-38).

Mostrava la strage dell'esercito e il crudele scempio del cadavere di Ciro che fece Tamiri, quando gli disse: « Fosti assetato di sangue, ed io ti sazio di sangue ».

Tamiri, regina degli Sciti, dichiarò guerra a Ciro, re di Persia, poiché le aveva ucciso il figlio che aveva fatto prigioniero. Sconfitti i Persiani e impadronitasi del re, Tamiri lo fece decapitare e ne gettò la testa in un otre pieno di sangue umano (Orosio - Adversus Paganos Il, 7, 6).

Mostrava come gli Assiri fuggirono sconfitti, dopo la morte di Oloferne, e (mostrava) anche i resti dello scempio fatto (relíquie del martiro: cioè il cadavere decapitato di Oloferne).

Oloferne, a capo dell'esercito assiro, assediava Betulia, città della Giudea, allorché venne ucciso da una donna del luogo, Giuditta; dopo tale fatto il suo esercito si ritirò in fuga disordinata (Giuditta VII, 1-3; VIII-XV).

Vedevo Troia ridotta in cenere e in rovine: o rocca di Ilio, come ti presentava distrutta e degna di derisione la raffigurazione che lì si vedeva!

Come ultimo esempio di superbia punita, Dante ricorda la distruzione di Troia e del suoi orgogliosi cittadini, ripetendo un giudizio che era stato dato da Virgilio (Eneide III, 2-3).
Gli esempi di superbia punita sono tredici, uno per terzina, con un'alternanza quasi perfetta di esempi biblici e classici, poiché ogni momento della storia, senza distinzione fra mito e realtà, si offre come utile esempio. L'organizzazione dell'insieme è grandiosa e la corrispondenza dei particolari precisa, secondo un tipo di cultura e un gusto d'arte, resistenti al giudizio estetico moderno, ma caratteristici del Medioevo, per il quale la ricerca di struttura era espressione di una suprema chiarezza mentale e la poesia si qualificava come "invenzione elaborata secondo retorica e musica" (De Vulgari Eloquentia Il, VI, 2), cioè manifestazione di un gusto dello "ornato".
L'ordinamento strutturale e sintattico di questa parte divide le terzine in tre gruppi di quattro terzine ciascuno: quelle del primo gruppo iniziano con vedea, quelle del secondo con o seguita (tranne che nel terzo esempio) da un nome proprio, quelle del terzo con mostrava, finché la terzina 61-63 ripete le tre formule all'inizio dei suoi versi. Si forma in tal modo un'acrostico (gli acrostici sono comunissimi nella poesia medievale e ne avremo altri esempi nel Purgatorio e nel Paradiso) : VOM, cioè UOM (poiché la V corrisponde alla U secondo la grafia del tempo), essendo l'uomo in questo momento sigla e sintesi di folle superbia. A questi tre gruppi di terzine corrisponderebbero, secondo il Parodi, tre categorie di superbi: i colpevoli contro la divinità, i colpevoli contro se stessi, i colpevoli contro il prossimo; i primi puniti da Dio, i secondi dal loro rimorso, i terzi dai loro nemici, mentre la terzina finale dedicata a Troia riassumerebbe quelle tre classi di peccato. Secondo il Medin, il Barbi-Casini e il Porena, gli esempi sarebbero dodici (essendo unico quello di Briareo e dei giganti), sei biblici e sei mitici. Il Marzot ritiene invece che le immagini siano, allineate in due serie - una ebraica e una pagana - ai lati della via e abbinate secondo la linea orizzontale e verticale: così nei primi quattro specchi, a sinistra e a destra, ci sarebbero gli attentatori della sovranità divina (Lucifero e Nembrot, Briareo e i giganti); nei secondi i denigratori della legge civile e degli dei (Saul e Roboamo, Niobe e Aracne); nel terzo quelli che fecero violenza agli altri per cupidigia (Sennacherib e Oloferne, Erifile e Ciro). Per il Vallone i gruppi sono quattro: Lucifero, Nembrot e Saul sono i superbi contro la divinità; Roboamo, Sennacherib e Oloferne i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dalla Bibbia; Briareo con i giganti, Niobe e Aracne i superbi contro la divinità; Almeone, Tamiri e Troia i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dai miti.


Quale pittore o quale disegnatore ci fu mai che sapesse ritrarre l'aspetto e i contorni delle figure, che in quelle immagini desterebbero l'ammirazione anche dell'intenditore più raffinato?

I morti apparivano veramente morti e i vivi veramente vivi: colui che vide realmente quei fatti non vide meglio di me tutto quanto io calcai con i miei piedi, finché procedetti a capo chino.

L'acrostico costringe l'ispirazione del Poeta entro il breve spazio di una terzina, ma in ciascuna ricorre il motivo che la lega alle altre e all'impostazíone del canto: la realtà del bene che vince il male e della giustizia che si oppone alla violenza. "Quello che qui domina è la solitudine, la devastazione, il silenzio. I protagonisti sono dei vinti. Il loro potere è un segno del passato. Il loro presente è una rovina. Ma non urlano, non s'innalzano pieni d'ira e d'orgoglio. Giacciono umiliati, scoperti in ogni loro errore, tremendamente soli con il loro destino" (Vallone), ma sottoposti ad un diverso giudizio da parte di Dante, che flagella con forza epica i quadri della prima e della terza serie, perché la colpa dei protagonisti si è ripercossa, con tracce dolorose e fatali, sulla storia e sulla natura, mentre il suo sguardo si ferma più compassionevole, o almeno, meno ferocemente irridente, su quelli della serie mediana, dove la creatura umana è più sventurata che colpevole, traviata dalla debolezza e dall'ambizione, più che dalla deliberata coscienza di compiere il male.
Tutti i quadri, tuttavia, sono di una grandissima evidenza figurativa, perché vengono dalla fantasia del Poeta fissati nel momento culminante del dramma. Lucifero è visto folgoreggiando scender, i giganti con le membra sparte, Nembrot smarrito, Niobe con occhi dolenti, Saul su la propria spada, Aracne trista, Roboamo pien di spavento, Troia in cenere e in caverne.


Ora insuperbitevi, e continuate pure a camminare a testa alta, o figli d'Eva, e cercate di non meditare in modo da vedere la strada sbagliata che seguite!

Avevamo già percorso una parte del monte e avevamo speso una parte di tempo più grandi di quanto pensasse il mio animo intento (ad osservare i bassorilievi),

quando Virgilio che procedeva attento a guardare sempre davanti a sé, disse: « Solleva il capo; non bisogna più camminare così assorto.

Osserva da quella parte un angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che l'ora sesta se ne torna dopo aver prestato il suo servizio al giorno.

La mitologia classica personificava le ore, presentandole come ancelle al servizio del carro del sole (Ovidio - Metamorfosi Il, versi 118 sgg.). Dante con l'espressione dei versi 80-81 vuole indicare che è già trascorso il mezzogiorno e che si è fermato nella prima cornice circa due ore.

Prepara il tuo volto e il tuo atteggiamento a un sentimento di riverenza, in modo che all'angelo piaccia permetterci di salire; pensa che questo tempo non tornerà più! »

Io ero talmente abituato ai suoi continui ammonimenti intorno alla necessità di non perdere il tempo, che su questo argomento non mi poteva più parlare in modo oscuro.

Veniva verso di noi la bella creatura, vestita di bianco e (cosi splendente) nel volto come appare scintifiando la stella del mattino (Venere).

Aperse le braccia, e poi aperse le ali: disse: « Venite: qui vicino ci sono i gradini della scala, e ormai si può salire facilmente (dopo aver eliminato il peccato della superbia) ».

La voce pacata di Virgilio orienta l'animo di Dante, che pareva essersi fermato alla dura apostrofe contro i superbi del mondo, ad una nuova disposizione, psicologica e stilistica, che si conclude con un richiamo solenne all'importanza dell'ora: pensa che questo dì mai non raggiorna! L'apparizione dell'angelo nella pienezza del fulgore del giorno consacra l'istante più solenne del cammino di Dante nel purgatorio, perché viene liberato dal primo peccato, che è anche la fonte di tutti gli altri, e coincide con il momento più alato del canto, "ove il riso delle poche cose che formano l'angelo - un candore di veste, un moto di braccia a tempo con un moto d'ale; un volto che il Poeta non può descrivere, e rimanda al puro tremolio di stella mattutina - avvolge l'animo di Dante nel mistero gaudioso del Paradiso. Non c'è nulla di veramente descritto, poiché ogni tratto che passa per gli occhi è musicalmente fuso nell'idea di bellezza; e quel movimento modulato rivela, da una lontananza profonda, l'idea della bontà paterna che accoglie il cuore pentito" (Marzot).

Pochissime anime rispondono a questo invito: o uomini, creati per volare in alto, perché vi abbattete così anche davanti a poche tentazioni?

Ci condusse dove la roccia presentava un passaggio: qui batté con le ali la mia fronte; poi mi promise che il cammino sarebbe stato libero da impedimenti.

Con il suo gesto l'angelo cancella dalla fronte di Dante il primo dei sette P che gli erano stati impressi alla porta del purgatorio: scompare così il primo peccato, quello della superbia (base e fonte di tutti gli altri), e di ciò Dante si accorgerà durante la salita al secondo girone (versi 116 sgg.).

Come dalla parte destra, per salire al monte dove si trova la chiesa che domina Firenze (la ben guidata: detto in senso ironico) dalla parte del ponte di Rubaconte,

l'ardito slancio della salita viene interrotto per mezzo di una scalinata che si fece in un tempo in cui i registri pubblici e le pubbliche misure di capacità non venivano falsificati,

La ripidità della scala tagliata nella roccia ricorda a Dante quella della scalinata che da Firenze portava alla chiesa di San Miniato al Monte dalla parte del ponte di Rubaconte, chiamato poi ponte delle Grazie, il quale doveva il suo primo nome al fatto che la sua costruzione era stata iniziata nel 1237 sotto il podestà Rubaconte di Mondello. Riaffiora nel cuore di Dante un motivo polemico contro la sua città, alla quale ha già diretto l'espressione ironica la ben guidata, e contro la sua corruzione, di cui ricorda due episodi. Dei primo fu protagonista Nicola Acciaioli, priore nel bimestre 15 agosto~15 ottobre 1299, il quale fece scomparire in quel periodo alcuni atti o quaderni giudiziari dai documenti di un processo a carico del podestà Monfiorito da Padova (cfr. Compagni - Cronaca I, 19).
Nel secondo fatto, avvenuto nel 1283, un certo Donato dei Chiaramontesi, incaricato della vendita del sale alla cittadinanza, riceveva il sale secondo misure regolari di staio, e lo metteva in commercio dopo aver tolto per ogni staio una doga, facendo quindi diventare più piccola la misura, per rivendere la parte restante per conto proprio. Alla fine venne scoperto e condannato.


allo stesso modo diventa più agevole il pendio che qui scende ripidissimo dal girone superiore; ma (la scala è così stretta che) dall'una e dall'altra parte l'alta parete rocciosa sfiora (chi sale).

Mentre noi ci volgevamo verso quella scala, una voce cantò « Beati i poveri in spirito! » con tale dolcezza, che non si potrebbe esprirnerla con nessuna parola umana.

Le parole e il gesto dell'angelo, accompagnati dal dolente commento di Dante (versi 94-96), hanno compiuto uno dei tanti riti liturgici del Purgatorio, il rito dell'assoluzione, dopo l'impositio (imposizione) dell'angelo portiere e l'executio (esecuzione) espiatoria, ma la conclusione è in quella voce misteriosa che sorge improvvisa, e, all'epilogo della narrazione, si staglia vigorosamente nell'atmosfera trepidante delle anime e là rimane a lungo, oggetto di riflessione, iniziando il canto delle beatitudini che accompagnerà Dante verso il mondo delle anime sante. La prima delle beatitudini evangeliche (Matteo V, 3) deve essere intesa come esortazione all'umiltà e al disprezzo dei beni terreni. Poiché in tutti gli altri gironi sarà sempre un angelo a cantare le beatitudini, non c'è motivo per pensare che qui cantino i penitenti o più angeli: voci è solo "un plurale meramente stilistico" (D'Ovidio).

Ah quanto sono diverse queste entrate da quelle infernali! perché in queste si procede accompagnati da canti, e in quelle da gemiti di dolore e di ira.

Già noi stavamo salendo lungo i santi gradini, e mi pareva di essere molto più leggiero di quanto non mi sembrava (di esserlo) prima nella parte piana del girone.

Per questo dissi: « Maestro, spiegami, quale peso mi è stato tolto, che quasi non avverto alcuna fatica, mentre procedo?»

Rispose: « Quando i P che sono rimasti ancora sulla tua fronte, anche se quasi svaniti, saranno completamente cancellati come (lo è stato) il primo,

i tuoi piedi saranno così guidati dalla tua buona volontà, che non solo non sentiranno più fatica, ma sarà per loro una gioia essere spinti a salire »,

Allora mi comportai come coloro che camminano portando in testa qualcosa senza saperlo, finché i gesti degli altri li mettono in sospetto;

per cui la mano si sforza di accertarlo, e cerca e trova e compie la funzione che non si può esercitare con la vista;

e con le dita della mano destra allargate costatai che erano solo sei i segni che l'angelo portiere mi aveva inciso sulla fronte:

Chiude il canto un particolare realistico, un quadretto di sorridente mimica, nel quale si dissolve la tensione via via accumulatasi nella drammatica raffigurazione della superbia: non momento inutile, ma elemento strutturalmente importante, perché riporta il lettore, con un frammento umano e familiare, alla disposizione serena e pacata del Purgatorio. Ci piace osservare Dante che, ancora incredulo dell'azione della Grazia in lui, ne va cercando il segno visibile e Virgilio sorride di quest'ultima debolezza, e sorride anche il lettore nel trovare il Poeta pronto a mettere in rilievo la propria comica ingenuità.

Virgilio sorrise vedendo il mio gesto.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/vasciarellipc/sezione_scuola.htm

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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