Machiavelli opere il principe riassunto

 

 

 

Machiavelli opere il principe riassunto

 

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Machiavelli opere il principe riassunto

 

Nicolò Machiavelli

Il Principe è un’opera che cambierà le sorti della politica.
Machiavelli è molto studiato in tutto il mondo.

Lettera a Francesco Vettori (10.12.1513)

In questa lettera Machiavelli descrive la sua giornata-tipo.
Egli viene cacciato da Firenze a causa della congiura e nel 1513 è un uomo politicamente morto.
Machiavelli è uno scrittore asciutto, preciso e poco ridondante.
All’inizio vi è una citazione di Petrarca “la grazia di Dio non viene mai troppo tardi” che è detta in modo ironico per motivare la sua condizione; bisogna tener presente che Francesco Vettori è ambasciatore dei Medici a Roma dal papa Leone X che è anche lui uno dei Medici.
In questo inizio vi è un’amabilità colloquiale.
La Fortuna viene messa in contrapposizione alla virtù.
Machiavelli dice di catturare le tortore e questo è un segno della sua cattiva condizione economica poiché solitamente questa caccia era lasciata ai servi.
Egli, inoltre, conosce molto bene i classici e i meccanismi della politica del presente e del passato (ha girato tutta l’Europa come ambasciatore dei Medici).
Machiavelli discute con i taglialegna che cercano di ingannarlo per ricevere le cataste ad un prezzo migliore; ad es. Frosino di Panzano dichiara che quattro anni prima aveva sconfitto Machiavelli e che gli dovesse ancora 10 soldi oppure una catasta che doveva arrivare intera a Firenze è stata dimezzata durante il percorso.
Allietandosi egli cerca di ovviare alla malignità della sua sorte .
La sera, poi, si toglie i panni pieni di fango e si mette vestiti raffinati; il suo cibo sono i classici che gli trasmettono conoscenza, questo è un riferimento al Convivio di Dante, e dice d’essere nato per quel cibo.
Con questo cibo che lui trae dalle cose antiche, la conoscenza, compone un opuscolo sui principi e i principati (gli Stati e la loro politica) dove lui cerca di andare a fondo discutendo e ragionando su come siano i principati, come si conquistino, come si mantengano e perché si perdano. Il trattato è composto e lui lo sta ripulendo e elaborando.

Lo stile e la suddivisione in tre momenti della lettera

  • Introduzione

 

Nell’introduzione Machiavelli cerca l’ironia ma cita frasi celebri.
Un’ironia è l’aggettivo magnifico con il quale indica il Vettori facendo sembrare che lui lavori molto ma non è vero, per lui una sua semplice lettera è una grazia divina ed è dubbioso del perché lui non gli scriva.
In seguito afferma che chi rinuncia ai propri vantaggi per favorire gli altrui finisce con il perdere soltanto i suoi e i servizi resi non gli vengono riconosciuti ossia chi ha il potere deve tenerlo stretto.
Secondo lui la fortuna interviene nelle cose degli uomini ma non si deve interromperla ma lasciarla agire e stare tranquilli aspettando che permetta di far qualcosa agli uomini per agire nel momento opportuno e più propizio.

Riassunto: l’introduzione ha un’alta retorica con intonazione ironica, c’è una sorta di allocuzione iniziale allusiva ad uno scarso prestigio. Poi vi è una citazione che eleva il destinatario ad altezze divine e si fa distinzione fra perduto e smarrito e l’ironia si accentua. Infine vi sono due sentenze, massime, una sui comodi e una sulla fortuna.

  • La vita quotidiana

La vita quotidiana può essere divisa in tre momenti: vita nel bosco, l’osteria e il colloquio con gli antichi uomini.
In tutta questa seconda parte vi è la centralità dell’io narrante ovvero si sottolinea la personalità (soggetto che agisce, attivo).
Machiavelli accentua i passaggi usando dei costrutti con il participio passato.

  • Bosco
  • Il tono è colloquiale.
  • Machiavelli uccella a tordi che è un tipo di cacciagione dei servi perché i nobili cacciavano con il falco.
  • Scrive in modo ironico ma alza lo stile paragonandosi a Geta.
  • Lui ha bisogno di soldi ed è per questo motivo che vende la legna ad altri.  Egli fa notare come i boscaioli hanno sempre da litigare (sciagura di mano) e lui osserva le liti con grande attenzione ed addirittura potrebbe fare molti esempi (osserva e trae esperienza per parlare di cose più complesse). Ricava da queste persone un’esperienza di vita.
  • I boscaioli tentano di fregarlo.
  • Va alla fonte vicino alla quale c’è un bosco nel quale lui caccia e mentre rimane nascosto legge le storie d’amore.
  • Poi si trasferisce all’osteria dove parla e s’informa; non si alteggia da alto locato e non disprezza gli umili.
  • Mangia con la sua brigata (famiglia) accontentandosi del poco che ha.
  • Ritorna all’osteria dove c’è l’oste, un macellaio, un mugnaio e due panettieri.

 

  • Osteria
  • Si ingaglioffa con persone simili.
  • Gioca e dal gioco nascono mille contese.
  • Rianima il suo cervello e sfoga la malignità della sua sorte.
  • Immerso in queste cose volgari impedisce al suo cervello di ammuffire e secondo la sua triste sorte è contento che lo calpesti per vedere quale vergogna si prova; anche se è convinto che la sorte muta.
  • Colloquio con gli antichi
  • Si libera dell’ingoffagliamento per vestire le vesti delle corti raffinate.
  • Parla con gli antichi come parla all’osteria.

 

Anacoluto = frase che presenta un errore grammaticale (riga 82-83)

  • Legge cercando delle risposte.
  • Tra le sue preoccupazioni vi sono la morte e la povertà.
  • Dal passato ricava l’esperienza per capire il presente.
  • Scrive un libretto: il Principe che tratta dei nuovi principati, di che genere sono, come si acquistano, come si fa a non perderli o come si perde.

 

Ghiribizzo -> in realtà è un libro che cambia le sorti della cultura politica.

 

  • Parte finale

Nella parte finale si trovano molte parole legate al dubbio.
Machiavelli, inoltre, afferma di voler ritornare alla vita politica e rivendica il fatto di essere stato sempre fedele ai Medici chiedendo loro un impiego qualsiasi.
Il registro poetico è un‘invocazione dignitosa ed il tono è serio e grave [vocabolario del dubbio].

 

Dedica a Lorenzo de’ Medici

à Ritrova nella dedica a Lorenzo de’ Medici dei parallelisimi con la lettera a Francesco Vettori.
Acquistare grazia: in tutte e due i testi Machiavelli vuole acquistarsi la stima dell’interlocutore per poter tornare a Firenze.
Situazione economica: descrive la sua situazione economica precaria da una parte parlando della caccia a tordi e dei boscaioli e dall’altra affermando di non avere nulla di più prezioso da donare che il suo libello (“non ho trovato niente, intra le mie suppellettile”).
Descrizione del contenuto del Principe: nella lettera Machiavelli fa un riassunto del contenuto mentre nella dedica spiega come ha utilizzato il linguaggio.
Mala sorte/fortuna avversa: Machiavelli scrive in tutti e due i testi che l’interlocutore ha fortuna mentre lui no e dice che l’altro potrà conoscere le sue disgrazie e la sua mala sorte in un caso leggendo la descrizione della sua giornata e nell’altro leggendo il Principe.
Discorsi politici: egli afferma che prima di fare discorsi politici bisogna conoscere il popolo.
Ironia: in tutti e due i testi risalta il suo stile ironico.
Conoscenza dei testi antichi: Machiavelli ha una lunga esperienza delle cose moderne e riceve una continua lezione da quelle antiche (“quel cibo che solum me mio et che io nacqui per lui”).

La vita di Machiavelli

 L’aggettivo machiavellico significa comportamento politico, morale, astuto e infido che si ispira ai principi individuati da Machiavelli (ogni mezzo è lecito per raggiungere il fine).
à Non vi è più un agire morale ossia tendere verso il bene evitando il male.
à Il Principe viene diffuso e discusso in tutta Europa.
Machiavelli è il fondatore della politica moderna e colui che scopre che l’attività politica è un’attività umana autonoma.
Egli nasce a Firenze nel 1469; riceve una formazione umanistica anche se non conosce il greco e assiste alla crisi di Firenze.
à Nel 1494 i Medici vengono scacciati e nel 1498 Savonarola viene bruciato.
Dopo il 1498 Machiavelli inizia la sua attività entrando al servizio della Repubblica come segretario (Il Segretario), poi fa 10 anni di Balia, compie missioni diplomatiche, osserva attentamente gli eventi e gli vengono affidati incarichi di vario tipo (amministrativi e militari).
àLui sostiene che se vogliono un esercito forte per Firenze lo devono formare loro e non deve essere composto da mercenari (nei suoi scritti riporta sempre al fatto politico e consiglia a Firenze di munirsi di armi).
Il servizio pubblico dura 15 anni durante i quali rimane a contatto con molti personaggi di spicchi e con varie problematiche; egli prima di fare una conclusione conosce gli eventi.

In esilio

  • 1512 a Firenze rientrano i Medici e lui viene esiliato
  • 1513 viene accusato di congiura e si ritira in campagna durante la tregua concessa per festeggiare l’elezione del papa mediceo Leone X
  • 1521 può riprendere la sua attività e gli viene affidato il compito di scrivere l’Historie Fiorentine.

Durante l’esilio egli ha una vivace corrispondenza con Vettori e Guicciardini.
Stesura e elaborazione del Principe (v. pag 39): il nuovo principe agisce anche in maniera immorale pur di mantenere lo Stato.

Discorsi sulla prima deca di Tito Livio

  • L’elaborazione del testo dura anni.
  • Leggeva parti e interpretava la storia antica traendone lezioni politiche valide per il presente.
  • Viene pubblicato dopo la sua morte (1531).
  • In questo libro vi sono divagazioni, riflessioni e chiarimenti.
  • Il libro è a sua volta diviso in tre parti:
  • politica interna: importanza delle tensioni interne e della lotta politica interna per la vitalità di uno Stato
  • politica estera: ribadisce le sue idee sulla guerra
  • misto: trasformazione delle repubbliche.

 

Arte della guerra

1519-1520 è l’unica sua opera pubblicata quando era ancora vivo.

Mandragola

Vedi pagine 41-42.

Il Principe

Grazie alla lettera al Vettori del 10.12.1513 si può capire che il trattato è composto mentre con il capitolo 26 si intende che non può essere stato scritto dopo il 1514.
L’edizione critica del Principe risale al 1994 ed è a cura di Giorgio Inglese.
Dionisotti afferma che il Principe è stato scritto di getto mentre altri ritengono che il Principe è stato scritto in due parti prima I-XI e poi il resto.
à tradizione manoscritta: codice D (Monaco), codice G (Gotha) e codice Y (antica vulgata) sono alla base dell’edizione critica di Inglese
à 4.1.1532 prima edizione a stampa
Il testo nella prima versione è dedicato a Giuliano de’ Medici ma poi Machiavellli nel 1513 cambia la dedica e scrive quella a Lorenzo de’ Medici (nipote di Lorenzo il Magnifico).
Perché cambia la dedica?
Egli la cambia molto probabilmente perché cambia la prospettiva politica ossia Lorenzo nel 1516 diventa duca di Urbino.

Perché Machiavelli scrive l’opera?

Urgenza di trovare per Firenze un principe (motivazione intrinseca).
Il dibattito filosofico attorno al tipo di Stato era diffuso e c’era chi sosteneva un principato e chi la repubblica; Machiavelli sosteneva un principato civile ma autoritario.

 

Suddivisioni del Principe

Il discorso va distinto nei vari tipi di principati: sui modi nei quali si acquista, come si mantenga e come si perda.
Prima parte

I à distinzione dei vari tipi di pincipato
II-V à principe antico ossia colui che eredita il principato
VI-IX à principe nuovo
X-XI à principati ecclesiastici

Seconda parte

XII-XIV à ordinamento militare (critica verso i mercenari)
XV-XXIII à governi di un principe
XXIV-XXVI à rivoluzioni d’Italia

Nella dedica vi sono due presupposti fondamentali:

  • la lunga esperienza delle cose moderne
  • continua lezione delle cose antiche

Perché è un opera così fondamentale?
Perché il Principe presenta una sostanziale novità; per la prima volta la politica è considerata come una cosa a se senza essere collegata a istanze metafisiche, religiose di ordine morale. Si studia l’uomo e si studiano i fatti per porre delle regole alla storia, non si dice bisogna agire per il bene ma bisogna che questo sia utile al principe.
Ciò che Machiavelli propone è caratterizzato da due fattori:

  • prudenza ossia la visione lucida della realtà politica
  • armi ossia l’esercito che difende.

Per lui il potere politico corrisponde a realtà concrete e non ha nulla di divino.

Rapporto fra virtù e fortuna

Virtù: capacità che ogni essere umano possiede.
Fortuna: mutamento incontrollabile degli eventi.
Il campo di scontro fra questi due concetti è la politica; la virtù non è più in campo morale ma è agire e perseguire il proprio fine in circostanze propizie mentre la fortuna è il caso.

Dalla dedica

Cerca di imbonirsi il principe tramite regali à lui offre la consapevolezza e le sue conoscenze à dona il Principe.
Il Principe è la concentrazione in poche parole di tanti anni di studio.
L’immagine del cartografo indica che uno deve essere fuori dal principato per parlare di questo inoltre vi è una velata ironia poiché Machiavelli è consapevole che Lorenzo non ha molte doti politiche.
Nella dedica vi è la volontà di rimettersi sulla breccia.

 

I: Vari tipi di principato

Procedimento dilemmatico

Per ogni argomento Machiavelli propone due soluzioni distinte nettamente e ognuna si può ancora dividere (non c’è una via di mezzo) [stile asciutto]; ogni scelta politica è estrema.
Si tratta a livello scientifico lo studio della politica con uno stile conciso (dire con la minima superficie verbale il massimo contenuto).
Stato può significare o governo o dominio (città attorno a Firenze).
Il primo capitolo introduce alla materia e vengono subito messi in evidenza fortuna e virtù.
La virtù indica una capacità creativa, decisionale; la virtù è quella capacità che consente all’uomo di intervenire sulla realtà per realizzare i propri fini (virtuoso è chi è forte e scaltro). Il termine virtù non ha niente a che vedere con la virtù morale ossia con la rettitudine ma si riporta alla virtus latina ovvero alla forza, al valore militare e alla fierezza.
La fortuna indica l’insieme dei condizionamenti che la realtà impone all’individuo; è sempre imprevedibile e va al di la del calcolo razionale umano.
Per Machiavelli virtù e fortuna sono antagoniste.

Francesco Sforza: 1401-1466, ha ereditato dal padre una compagnia di ventura. Nel 1434 viene nominato Signore della Marca e nel 1450 diviene duca di Milano dopo aver sconfitto la repubblica Ambrosiana. Nel 1441 ha sposato l’unica figlia del Visconti. Egli viene citato come esempio di virtù poiché ha una grande abilità strategica. Questo personaggio è molto ammirato da Machiavelli e viene presentato come principe nuovo.
Re di Spagna: Ferdinando il Cattolico si allea con il re di Francia e poi sconfigge l’Aragonese, viene nominato re di Napoli nel 1504 (aggiunge un membro al regno).
Nel primo capitolo passa in rassegna i temi che poi verranno sviluppati.

II: Principati ereditari

Sono facili da mantenere.
Machiavelli da due consigli:
- non trascurare gli ordinamenti dei propri antenati (i sudditi sono abituati)
- temporeggiare ossia riuscire ad adeguarsi alle situazioni e sapere indugiare.
Chi eredita questo tipo di potere deve usare meno forza ed è più probabile che sia ben voluto e amato.
Ogni mutamento crea un certo malcontento che è la base del prossimo mutamento.

III

L’ascesa ai principati misti è più complicata.
Lo scontro armato può causare un malcontento che porterà le persone offese ad una insurrezione nel futuro se il principe non si comporta virtuosamente.
Misto: una parte ereditata e l’altra di recente acquisizione.
Quale esempio porta Luigi XII che occupò nel 1499 il ducato di Milano. Dopo l’occupazione Ludovico Sforza si è rifugiato in Germania e pochi mesi più tardi riconquista la città perché i milanesi si ribellano.

à Gli uomini devono essere o beneficati o messi nella condizione di non nuocere (non c’è via di mezzo) cioè il principe dopo aver scelto fra le due possibilità non può più tornare indietro.
La gente è subito pronta a cambiare.

I consigli di Machiavelli

  • il dominatore dovrebbe conoscere bene la lingua dello Stato conquistato
  • deve estinguere la stirpe conquistata
  • deve rispettare le leggi e i dazi che sono in vigore
  • dovrebbe andarci ad abitare
  • non deve entrare nessun forestiero che è più forte di lui
  • costruire una sorte di colonia.

 

IV

Dario è il re di Persia che dopo la morte di Alessandro riesce a riconquistare i territori toltigli (attorno al 300 a.C.).
                                                           Governati
 


assolutisticamente                                                                             con i Baroni

 

difficili da conquistare ma                                                                facili da conquistare ma
facili da mantenere (Turchi)                                                  difficili da mantenere (Francia)

Se il re non mantiene unite le parti del regno è la morte dello Stato (frammentazione al posto di unione).

V: Come governare i territori conquistati

                                   Vi sono tre possibilità per mantenere il potere
 

 


ruinarli                                    andarvi ad abitare                      non modificare il loro                     
                                                                                                              assetto creando un
governo oligarchico
sconfiggerli militarmente e politicamente

I tiranni, precedenti a Machiavelli, non avevano uno schema da seguire ed è per questo che sbagliavano.
à Ci si avvia a poco a poco nel discorso sui principati nuovi per i quali Machiavelli fa l’esempio di Cesare Borgia [Montalban, O Cesare o nessuno, Storia della famiglia Borgia].
Machiavelli da dei consigli a chi vuole conquistare degli Stati già costituiti.

VI: Principati nuovi che si acquistano con le armi proprie o con la virtù

Machiavelli dice che i nuovi Stati si costituiscono o con la virtù o con la fortuna.
La virtù è la maniera più opportuna di agire seguendo le circostanze propizie ciò che è determinante è che l’uomo può agire sulla storia modificandola a proprio favore secondo occasioni propizie.
La fortuna è il mutamento casuale e incontrollato degli eventi; questa può avere effetti positivi o negativi.
à cfr. Dante inf. VII: l’uomo per Dante accetta il suo destino e agisce di conseguenza mentre Machiavelli afferma che nei momenti propizi l’uomo agisce e muta gli eventi
Non bisogna affidarsi alla sorte.
Generalmente uno Stato che si mantiene con la fortuna dura meno, oltre alla fortuna è determinante l’occasione.
Gli esempi di vie virtuose sono: Mosè, Ciro, Savonarola.

VII

Un principe (Cesare Borgia) che approfitta del potere politico acquistato dal padre che a sua volta aveva pagato i cardinali per diventare papa. Certamente non è un esempio di virtù morale cattolica ma diventa interessante per Machiavelli (si vede come virtù morale e la virtù di Machiavelli siano due cose diverse). Si studia un uomo risoluto che viene trattato come esempio.

Perché diventa interessante?

  • I principati acquisiti per fortuna sono difficili da mantenere perché uno rimarrà principe solo se saprà mantenere il suo Stato con la virtù politica.
  • Vi sono due esempi: Sforza e Borgia; Sforza fa molta fatica a diventare duca di Milano ma conserva il potere mentre Borgia si affida alla fortuna del padre e cade a causa di una straordinaria malignità di fortuna (muore Alessandro VI, suo padre). Machiavelli ammira la virtù del duca Valentino.
  • La politica di Alessandro VI per fare grande il duca Valentino ha successo grazie a una favorevole situazione interanzionale.
  • Vi sono due ostacoli: affidarsi a milizie infide e l’opposizione della Francia.
  • In Romagna vi erano molti Signori; la ripulisce grazie a Ramiro de Lorca che poi fa uccidere e lo espone in due pezzi sulla piazza.
  • Rimane il problema della Francia e di conseguenza aveva cercato di stringere nuove alleanze.
  • Il problema è come conservare lo Stato in futuro quando, morto il padre, vi sarebbe stato un papa avverso:
  • eliminare la discendenza ai quali ha tolto dominio
  • tirar dalla sua parte l’aristocrazia romana
  • avere massima influenza sul Collegio cardinalizio
  • acquistare tanto potere da riuscire a resistere a un impeto anche con le sue forze.

      Ma il padre muore e manda all’aria i suoi progetti.
8.   Machiavelli ricava le sue conclusioni e da norme da imitare: è il modello di principe
nuovo. La rovina totale di Borgia fu causata da un suo grave errore: permise l’elezione
di Giulio II della Rovere al soglio pontificio.

Testo

à Soltanto un uomo con la virtù politica può comandare.
à Bisogna riuscire ad avere una radice unitaria.
à In una lettera al Vettori del 1515 Machiavelli scrive che avrebbe imitato il suo operare se fosse stato un principe nuovo.
à Straordinaria e estrema malignità di fortuna.
à Giulio II aveva promesso, prima del Collegio, di rendere il duca Valentino gonfaloniere generale della Chiesa e di reintegrarlo nel dominio della Romagna.
à I verbi hanno delle oscillazioni poiché la lingua non è ancora codificata (12 anni dopo Pietro Bembo la codifica).

 

Analisi del libro

Lo Stato viene visto come un organismo vivente (metafora), qualcosa che muta; le radici devono essere solide per poter reggere tutto il peso.

Strage di Senigallia

Il duca Valentino ha convocato i capi delle terre che stava conquistando non per negoziare con loro ma per ucciderli.

Dieci regole per conquistare

  • Assicurarsi i nemici
  • Guadagnarsi amici
  • Vincere o per forza o per frode
  • Farsi amare e temere dal popolo
  • Farsi seguire e riverire dai soldati
  • Spegnere chi ti può offendere o deve farlo
  • Innovare gli ordini antichi
  • Essere severo e garto, magnanimo e liberale
  • Spegnere la milizia infedele e crearne una nuova
  •  Mantenere l’amicizia dei principi e dei re in modo che ti abbiano a beneficare con grazia o a offendere con rispetto

 

VIII: Di quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato

Si cita l’esempio di Agatoche Siciliano (tiranno di Siracusa) che riuscì a diventare tiranno con al violenza e a mantenere il suo potere contro i Cartaginesi; lui è un esempio di grande crudeltà, scelleratezza, ma nello stesso tempo virtuoso di come si evitano i pericoli e di come si superano le avversità.
Nell’ultima parte del capitolo egli dedica spazio ad Alessandro VI.
L’ottavo capitolo focalizza l’aspetto della crudeltà: come la si utilizza ai fini di raggiungere il potere.

IX: Al principato civile

 In un principato civile si diventa principe con l’aiuto del popolo e dei grandi.
[umori: fluidi corporei]
Si spiega un avvenimento politico con una metafora del corpo umano.
Due esempi di come sia difficile acquisire virtù e combattere la fortuna: Gracchi e Spartani.

X: In che modo si debbono misurare le forze di ogni principato

La forza di un principato si misura con l’esercito ma questo deve essere proprio. Bisogna fortificare la terra per prevenire un attacco o scoraggiarlo.
Machiavelli prende come esempi le città tedesche che potrebbero resistere per settimane tra le proprie mura e nessuno oserebbe mai conquistarle.

 

XI: Principati ecclesiastici

I principati ecclesiastici si mantengono senza fortuna o virtù visto che sono sostenuti da questi ordini antichi di natura religiosa. Si fa riferimento a tutte le guerre dello Stato pontificio con gli Stati confinanti.
à Quasi tutti questi capitoli parlano di principati mentre nella seconda parte del libro si sottolinea la figura del principe.

XII: Di quante ragioni sia la milizia e i soldati mercenari

Machiavelli critica l’uso di armate mercenarie, ausiliarie o miste.
Ad esempi cita gli Svizzeri.
I mercenari sono soldati guidati da un condottiero che stipula un accordo e che viene pagato mentre gli ausiliari sono soldati non preparati.
Gli Svizzeri secondo Machiavelli sono un esempio negativo però fanno la guerra fuori dal loro Stato e sono, dunque, liberi.
Machiavelli è contro perché: manca la disciplina, la morale (si vendono al miglior offerente) e non sono attaccati al territorio.

XIII: Distinzione dei tre ordini militari [mercenari, ausiliari e propri]

Machiavelli è favorevole agli  eserciti propri.
La sua conclusione è:
ogni principe deve coltivare l’arte della guerra e confidare esclusivamente sulle armi proprie.

XIV: Quello che s’appartenga ad un principe circa la milizia

Machiavelli afferma che un vero principe non deve avere altra preoccupazione che l’interesse per l’arte della guerre e gli raccomanda di leggere e imitare le storie degli uomini antichi eccellenti.

XV: I motivi di lode o di vituperio per i principi

Verità effettuale: parola chiave di questo capitolo.
Fonda la scienza politica moderna: vi è un modello di Stato che si immagina e poi ciò che si vede.

  • leggi politiche separate da quelle morali

Testo
à Calarsi nella realtà concreta su come un principe deve governare.
à Molti hanno immaginato un modello che non esiste.
à Se è necessario bisogna essere cattivi.

Analisi

Machiavelli inserisce nuove parole: effettuale (attribuito alla verità) con cui sottolinea l’oggetto della sua ricerca che è la realtà vera.
Fa un’analisi costruita sulla realtà e non sull’utopia: solo la realtà consente di analizzare la politica.
Contrasto fra essere e dover essere: il principe deve imparare a essere cattivo se è necessario.
Il principe deve possedere virtù e vizi per mantenere uno Stato. [virtù politica vuol dire agire per mantenere il potere, vizi sono difetti]
Machiavelli fa una diversa distinzione: un principe dovrebbe avere tutte le qualità positive ma visto che la realtà è un’altra bisogna che se per mantenere lo Stato deve essere crudele lo sia.
Vi sono tre categorie di vizi:

  • vizi che fanno perdere lo Stato
  • vizi indifferenti
  • vizi necessari alla conservazione dello Stato, questi sono da coltivare.

Certe virtù son rovina e certi vizi saranno il suo bene.
Il capitolo XV è il capitolo che segna una svolta.

Perché questo capitolo è considerato il più importante del principe?

Dopo aver trattato i vari tipi di principato qui si apre una nuova sezione dedicata al modo di comportarsi del principe con i propri sudditi. È centrale perché contiene la più lucida enunciazione del metodo che sta alla base dell’opera di Machiavelli.
Machiavelli si rende conto di avere un approccio diverso rispetto agli autori precedenti; egli si allontana dalla tradizione del pensiero politico precedente (il principe deve agire secondo la morale).
Egli vuol scrivere “cosa utile a chi la intenda”, vuole fornire un’opera “militante” che abbia immediata incidenza pratica, un’opera che possa essere d’aiuto al principe che vuole fondare lo Stato dove non esiste (Italia).
à Non vi è spazio per un’ideale, un’immaginazione, bisogna misurarsi con la realtà concreta.
Per costruire uno Stato ideale bisogna partire dal presupposto che l’uomo è buono e onesto cosa non vera. Le sue affermazioni sono rivoluzionarie perché il campo politico si distingue da quello morale, tutta la tradizione precedente aveva subordinato la politica alla morale ( si giudicava l’agire di un uomo di Stato in base alla morale).

Perché arriva a queste conclusioni?

Dice che se è bene moralmente può essere politicamente dannoso. Il politico deve essere pronto ad agire anche usando metodi riprovevoli come spegnere i nemici e mancare alla parola data (non morale ma politicamente efficace).
Da questo testo emerge una sorta di pessimismo sulla natura umana: vi è la convinzione che gli uomini siano malvagi, il vero essere non coincide con la realtà effettuale (questa è una constatazione di fatto immanente e laica).
L’affermazione segna una svolta di portata straordinaria per il pensiero moderno; di colpo si supera tutta la tradizione medievale e quattrocentesca. L’agire politico dell’uomo può essere valutato con principi propri ed è una condizione necessaria perché possa nascere uno studio scientifico dai fatti  politici.
Verità effettuale e immaginazione, qual è il metodo?

Vuole partire dall’esperienza, dalla realtà così com’è, secondo un metodo induttivo.
metodo induttivo à legge e applicazione
metodo deduttivo à partire da condizioni per arrivare a leggi
Machiavelli non procede con principi universali ma  parte da dati empirici e ne ricava le leggi generali.
L’immaginazione è il procedere da dati generali quindi applica una distinzione fra verità effettuale e immaginazione.
L’osservazione diretta della realtà è il fondamento del pensiero scientifico moderno.
Sulla base di questi temi Machiavelli indica tutta una serie di virtù e che il principe deve adottare.

 

XVII: Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto,
e più tosto temuto che amato

Cesare Borgia: è stato crudele e lo Stato politico è la rappacificazione della Romagna grazie alla crudeltà.
I fiorentini sono stati pietosi con i pistoiesi e hanno mandato in rovina la città (crudeltà e morte).
Ha una visione utilitaristica e non morale.
Il sedicesimo capitolo dice che il principe deve essere sia liberale che parsimonioso a seconda dell’occasione, afferma il vantaggio della parsimonia sulla liberalità.
Si serve di una citazione dotta per rafforzare la sua teoria.
Egli fa un esempio storico a tutti gli effetti che trae dalla continua lezione delle cose antiche.
L’amore degli uomini è solo fittizio; è meglio essere temuto che amato (si ribadisce il pessimismo sulla natura umana).

XVIII: Il principe e la lealtà

Un principe deve mantenere la parola data?

A volte questo non corrisponde alla realtà  effettuale [si vede dall’esperienza; è un dato empirico].
Usare, nel tempo opportuno, le qualità della bestia (forza, ferocia) e quando conviene quelle dell’uomo (razionalità).
Machiavelli fa l’esempio del Centauro, mezzo uomo e mezzo bestia, Chirone che è stato maestro di Achille.
Un principe deve sapere usare tutte e due le nature e una senza l’altra non funziona; deve essere leone e volpe. Se un principe è costretto deve ispirarsi alle qualità della volpe e alla natura del leone.
Il principe deve essere dinamico e deve agire di conseguenza.
Qui Machiavelli inserisce un altro esempio, quello di Alessandro VI che coglie l’occasione propizia e a dipendenza dell’occasione deve, a volte, andare contro a ciò che è bene; di conseguenza conta più l’apparire che l’essere (un altro esempio è Ferdinando il Cattolico che predica la pace e la lealtà ma è nemico).

Introduzione

Machiavelli ha un realismo aspro e spregiudicato così rovescia il punto di partenza.
Il fine è sempre quello di mantenere lo Stato.

 

Commento

Vi sono due modi di combattere o con le leggi o con la forza, il principe deve sapere usare i due aspetti.
Egli non cerca di collegare la politica alle norme ma prende coscienza della vera forza della politica; c’è una necessità di azione che non può essere arbitraria.
Machiavelli compie un ragionamento in parte deduttivo e in parte induttivo.

 

 

 

XIX: In che modo si abbia a fuggire l’essere disprezzato e odiato

Si afferma che il principe debba evitare di essere odiato presso i sudditi e non deve essere un usurpatore rapace delle cose altrui. Deve cercare di non farsi odiare mantenendo i principi cardine del principe.
Machiavelli fa esempi di imperatori che non hanno saputo fuggire l’odio.

XX: Se le fortezze (…) sono utili o no

Il principe deve armare i suoi sudditi perché così diventano partigiani mentre se li disarma può causare odio.
Si afferma che nessuna milizia mercenaria può difendere dai principi potenti o dai sudditi sospetti e che bisogna avere un esercito proprio.
Egli dice che non serve nessuna fortezza se c’è l’odio dei sudditi ossia il peggior nemico.

XXI: Che si conviene a un principe perché sia stimato

Si fanno vari esempi sul perché un principe debba condurre grandi imprese e dare prova di magnificenza. Si dice che è utile che un principe si schieri apertamente in favore di un potentato rispetto a rimanere neutrale perché chi vince non vuole amici sospetti e chi perde non ti riceve per non aver voluto con le armi in mano correre la fortuna sua (la via neutrale è rovinosa).
Se un principe deve allearsi non si deve alleare con uno più potente di lui.
Il principe deve mostrare ai sudditi che incoraggia le loro attività.

XXII: Dei segretari che i principi hanno presso di loro

Machiavelli afferma che è impossibile scegliere le persone giuste e che un principe è giudicato per le persone che gli stanno attorno.
Tre gradi dell’ingegno: uno capisce da solo (eccellentissimo), uno capisce gli altri (eccellente) e uno non capisce ne sé ne gli altri (inutile).

XXIII: In che modo si abbiano a fuggire gli adulatori

Viene spiegato quali falsi consiglieri il principe debba cacciare.
Poi si afferma che un principe prudente sceglie uomini saggi, di fiducia poi ascolta il loro consiglio ma sceglie in completa autonomia.
Gli adulatori, invece, spingono il principe ad agire e a mutare di parere.

XXIV: Per quali ragioni i principi d’Italia hanno perso i loro Stati

C’è una critica ai principi italiani e alla precaria situazione politica italiana. È necessario avere: un solido ordinamento politico e costituzionale, un’adeguata forza militare, agire con azione magnanime che procurino onore, stima e ammirazione. Secondo Machiavelli i principi italiani hanno agito con ignavia, inefficienza e arriva alla conclusione che i mali d’Italia non nascono da una fortuna avversa ma dagli errori commessi dai principi (assenza di virtù).
I termini di virtù e fortuna vengono inseriti nella prospettiva di una precisa integrazione storica.

 

XXV: La fortuna

In Italia non vi è uno Stato unitario; è opportuno che il principe nuovo ristabilisca l’unità (l’ultimo capitolo esorta la liberazione dell’Italia dal barbaro dominio).
Virtù = capacità attiva e volitiva dell’uomo
Come si fa ad andare contro il destino avverso? (cfr. Dante VII, Dante afferma che bisogna accettare) Può l’uomo modificare il proprio destino?
Machiavelli aveva composto già in età giovanile una poesia sulla fortuna.

Testo

Non è sconosciuto che c’è una fatalità (tesi fatalistica).
â Il nostro libero arbitrio è ovviamente metà governato dalla fortuna e metà da noi.
La fortuna viene paragonata a un fiume rovinoso (evento non prevedibile) contro il quale l’uomo non può fare nulla ma quando questo è quieto può costruire argini per agire contro il destina avverso.
La fortuna sottomette dove non è presente la virtù.
à stilisticamente Machiavelli parte dal generale per poi andare nello specifico
â Come si spiega che un principe che non si occupa del suo comportamento ottiene per un po’ successo e per un po’ rovina? Questo accade perché appoggiando tutto sulla fortuna va in rovina quando questa cambia.

Teoria del riscontro

Ogni uomo si attiene a comportamenti legati alla sua inclinazione naturale ed è quasi impossibile che sappia modificare la sua natura a seconda delle necessità.
Chi è per natura impetuoso tenderà ad usare forza e violenza anche dove dovrebbe mediare e ciò vale anche per il cauto.

Il fattore che determina il successo è saper usare o l’una o l’altra ma usarla cercando di capire il tempo. Ha successo chi combatte in una situazione che richiede le doti di cui è fornito.
L’esempio portato è quello di Giulio II che voleva ampliare lo Stato vaticano ed ha agito con dinamismo e ha conseguito gli obbiettivi.
Un’altra metafora è quella della fortuna vista come donna: bisogna batterla per farla stare zitta.

Commento

Le circostanze storiche mutano ed è opportuno trovare l’occasione propizia anche se non è facile perché si sa che l’uomo non può deviare da ciò per il quale la natura lo inclina.
Se l’uomo sapesse adattarsi a ogni tempo la fortuna non muterebbe.
La fortuna varia mentre la natura degli uomini è immutabile e quindi è meglio essere impetuoso che rispettoso visto che la fortuna è come una donna e può essere tenuta con al violenza.

Elementi metaforici

L’immagine del fiume in piena sottolinea la forza distruttiva della fortuna; la fortuna è qualcosa di incontrollabile (l’uomo può limitare i suoi effetti devastanti?).
L’immagine della donna riprende una tradizione consolidata di misoginia (odio verso le donne) che vede nella donna un’irrazionalità istintiva, una volubilità capricciosa e bisogna picchiarla affinché stia zitta.
Si passa ad un’immagine meno tragica della prima ossia riporta a un aspetto di vita quotidiana. I connotati della fortuna sono meno tragici: l’incontenibile violenza della fortuna viene ridotta a una “piccola” violenza quotidiana.
Viene mostrata l’efficacia della virtù e le sue possibilità costruttive (da un lato costruire argini mentre dall’altro un giovane impetuoso è capace di ottenere la sottomissione della sua amante).

 

Fonte: http://www.myskarlet.altervista.org/Scuola/Machiavelli.doc

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Machiavelli opere il principe riassunto

 

Niccolò Machiavelli

 

La Vita

 

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469.

Dal 1498 al 1512 ricopre vari incarichi per la Repubblica fiorentina.

Nel 1512 i Medici tornano a Firenze ed egli deve abbandonare i suoi impegni pubblicie infatti sino al 1525 si dedicherà a scrivere le sue maggiori opere. Solo fra il 1525 e il 1527 i Medici gli affideranno di nuovo qualche incarico politico.

Nel 1527 viene instaurata la repubblica, Machiavelli morirà l’anno stesso.

Il capolavoro di Machiavelli è il principe, certamente uno dei libri più importanti della cultura moderna.

 

Machiavelli e lo scandalo del Principe: nasce la saggistica moderna

 

Si può tranquillamente affermare che la saggistica moderna è stata introdotta da Machiavelli, perché il suo stile di scrittura è crudo e reale: con il Principe si passa così dal trattato al saggio.

Il trattato è scritto con un lessico più difficile e specifico, mentre il saggio è scritto comunque in linguaggio specifico ma dinamico e rivolto ad una cerchia di persone più ampia.

Siccome l’opera è fondata su delle idee ben precise, si può anche definire un saggio argomentativo.

Le idee di base de il Principe sono argomentazioni che Machiavelli definisce “autorevoli”.

Proprio in questo sta la  novità del Principe: le argomentazioni raccolte non sono le classiche posizioni e i classici pensieri dell'epoca, ma bensì al vera filosofia di pensiero dell'autore.

 

Machiavelli fu anche un innovatore poiché scrisse nella sua opera che la la Chiesa e la politica dovessero essere due cose ben scisse perché la verità derivava principalmente da due cose: dalla conoscenza della natura umana secondo le proprie osservazioni e dallo studio della storia.

Attraverso queste analisi l'uomo può arrivare alla verità e non tramite i dogmi religiosi.

Queste riflessioni vengono contestualizzate in una Firenze (e in un'Italia) in decadenza, perciò scrive in modo fortemente realistico analizzando i fatti in modo crudo e aspro, come si può comprendere dai linguaggi che usa, che sono molto provocatori.

 

Con questo stile cominciano ad analizzare tutte le false verità dell'epoca, ponendo anche una soluzione spesso utopica.

L l'idea di fondo del Principe è che lo Stato debba mantenersi saldo; questa è la cosa più importante, e per mantenerla, il principe può venire anche meno alle necessità del popolo, viene chiamata “ragion di Stato”.

Il principe quindi deve in certi momenti essere duro e a volte sacrificare la popolazione, si hanno quindi dei momenti di positività e dei momenti molto duri, tutto però dev’essere rivolto al bene dello Stato.

 

 

Un manifesto politico: il Principe

 

Il Principe è un saggio scritto nel 1513 che rappresenta la situazione dell’epoca in Italia, dove l'autore subentra con la sua personale opinione.

 

Le parole chiave di questa opera attribuibili ad un un principe sono virtù e fortuna e ragion di Stato.

La virtù è la capacità di governare secondo la verità effettuale delle cose, governare con oggettività, realismo.

 

Con fortuna identifichiamo le situazioni che si pongono, nel percorso politico, al principe, e sono situazioni negative o positive.

Con la virtù si piega la fortuna.

I valori virtuosi sono ingegno, prudenza e audacia.

 

Introduce anche il valore della parsimonia, in contrapposizione alla liberalità.

Dice che se la religione può fare il bene dello Stato, allora va adottata.

Il filo conduttore del testo è liberare l’Italia dalla decadenza, un’esortazione verso i Medici a riprendere le redini d’Italia.

 

Lingua e Stile

 

C’è un linguaggio diretto e rigoroso.

Machiavelli usa un impasto linguistico, infatti troviamo il Fiorentino Volgare ma anche una lingua colta e persino delle citazioni latine.

 

Lo stile è legato ad un ideologia disgiuntiva, esempio: o questo, o quello.

Per l’appunto lo stile rispecchia la sua ideologia, ci sono sempre due soluzioni diametralmente opposte alla risoluzione di un problema.

 

Politicamente lui pone un’ideologia realista.

In quel periodo vige l’ideologia Repubblicana, in ogni caso, per porre fine alla crisi italiana e per risistemare le cose, ci vuole la figura di un principe che governi secondo i paradigmi fissati nell’opera.

Il principe può governare in modo corretto mantenendo i comportamenti prima citati, ma deve essere appoggiato da:

 

  • Stato Autoritario
  • Esercito di Stato
  • Potere minore all’aristocrazia
  • Apppoggio del Popolo

 

Struttura

 

Il titolo di quest'opera è in latino. È divisa in 26 capitoli ma comunque unitari perché tutte le argomentazioni sono collegate tra di loro.

 

Prima Parte cap: 1-11

 

E’ presente il motivo encomiastico e la dedica a Giuliano de Medici.

Vengono analizzati i diversi tipi di principato: il principato ereditario, che secondo Machiavelli è il più facile da governare, e il principato elettivo.

In seguito analizza i metodi di conquistare i nuovi principati, principalmente 2: con le propri armi e con le proprie virtù oppure con le armi altrui e con la fortuna.

I principati conquistati in quest’ultimo modo sono più difficili da governare.

Nell'ultimo caso fa riferimento a Cesare Borgia, che uccise alcune amici/nemici che avevano progettato contro di lui una congiura; la crudeltà i questo caso è un ottimo strumento di potere ma se usata senza parsimonia può rivoltarsi contro il principe.

 

Seconda Parte cap: 12-14

 

Machiavelli si esprime sull'ordinamento militare, dove fa distinzione tra milizie permanenti e mercenarie.

Lui sostiene che le armi proprie sono costose per i cittadini, ma sono più sicure perché combattono per la propria città senza rischio di passar dalla parte opposta, rischio invece delle milizie mercenarie.

La tesi finale è che comunque uno Stato senza milizie proprie, è più soggetto alla catttiva fortuna.

In questo campo un altra virtù e “prevedere l'imprevedibile”.

 

Terza Parte cap: 14-23

 

Machiavelli parla delle virtù del principe, non deve governare sempre seguendo uno schema ben preciso, ma adattandosi alla fortuna.

Parla anche di vizi e virtù che sono l'eccesso o la  mancanza di uno stesso comportamento.

La liberalità può essere un vizio se il principe ne concede poca, perché avrà contro il popolo.

Anche pietà e crudeltà posso essere inseriti nello stesso discorso, come anche la benevolenza e la parsimonia. L'inganno può essere usato per salvaguardare lo Stato.

Qui Machiavelli fa anche una riflessione: un uomo è mezzo uomo e mezza bestia: la parte umana gli permette di prendere decisioni più ponderate mentre senza mai trascurare però l'istinto della parte animale.

Scrive anche su come evitare la malevolenza del popolo.

 

Quarta Parte cap: 24-26

 

Machiavelli analizza l'Italia, e come potrebbe essere migliorata. L'ultimo capitolo parla infine del motivo per cui l'Italia è così debole e costantemente sotto scacco degli stranieri, esempi di gloriosi e potenti stati del passato e 15 consigli per il principe per governare meglio.

Alla fine un esortazione alla casa dei medici per governare secondo i fatti da lui scritti.

 

Fonte: http://newstone.altervista.org/cms/italiano/Machiavelli.doc

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Machiavelli opere il principe riassunto

NICCOLO' MACHIAVELLI, " IL PRINCIPE "

 

I PRINCIPATI NUOVI    ( cap. VI )

 

I principati nuovi che si conquistano con armi proprie e virtù.

 

Nessuno si meravigli se nel mio discorso sui principati, nuovi sia per dinastia sia per la struttura stessa dello stato, io proporrò grandissimi esempi; gli uomini seguono le vie percorse da altri e imitano le loro azioni, ma dato che non si possono imitare gli altri in tutto e per tutto, dato che non si possono eguagliare le eccezionali capacità di quelli che si imitano, un uomo prudente deve seguire sempre le vie percorse da grandi uomini e imitare quelli che sono stati  bravissimi, affinché se la sua virtù non li eguaglia almeno vi si avvicini: e fare come gli arcieri prudenti i quali pensando che il punto che intendono colpire sia troppo lontano, e conoscendo la potenza dell'arco, mirano assai più in alto del bersaglio, non per far arrivare la loro freccia così in alto, ma per poter con l'aiuto di questa alta mira colpire il bersaglio.

Dico dunque che nei nuovi principati il nuovo principe trova più o meno difficoltà nel governarli a seconda che questo sia più o meno capace ed energico. E siccome per diventare, da privato, principe è necessaria virtù o fortuna, pare che una di queste due cose elimini in parte molte difficoltà, tuttavia colui che si è affidato meno alla fortuna è durato di più. E' positivo poi che il principe sia costretto ad abitare nello stato che governa, non avendone altri in suo potere. Ma per venire a quelli che sono diventati principi per propria virtù e non per fortuna, dico che i maggiori esempi sono: Mosè, Ciro, Romolo, Teseo e simili. E benché Mosè non si debba prendere come esempio, essendo stato un semplice esecutore delle cose che gli erano state ordinate da Dio, tuttavia dev'essere ammirato per quella grazia che lo rendeva degno di parlare con Dio. Ma consideriamo Ciro e gli altri che hanno acquistato o fondato regni: li troverete tutti da ammirare e se si considereranno le loro azioni e i loro modo di procedere sembreranno non diversi da quelli di Mosè che ebbe un così grande insegnante. Ed esaminando le loro azioni, ci si accorge che essi avevano ricevuto dalla fortuna solo l'occasione, la quale diede loro l'opportunità e il modo di creare quel modello di stato che essi vollero: senza quell'occasione la loro virtù non si sarebbe manifestata, ma senza la loro virtù l'occasione sarebbe stata vana. Era dunque necessario per Mosè trovare il popolo d'Israele, in Egitto, schiavo e oppresso dagli Egizi, affinché quelli, per essere liberi dalla schiavitù, fossero disposti a seguirlo. Occorreva che Romolo non avesse sufficiente spazio in Alba, che fosse abbandonato in fasce in modo che diventasse re di Roma e fondatore di quella patria. Era necessario che Ciro trovasse i Persiani scontenti del dominio dei Medi, ed i Medi deboli e vigliacchi a causa della lunga pace. Teseo non avrebbe potuto dimostrare le sue capacità se non avesse trovato gli Ateniesi dispersi. Queste occasioni, pertanto, fecero felici questi uomini, e questa occasione fece sì che la loro virtù si manifestasse, così la loro patria ne fu nobilitata e diventò ricca e potente. Tutti coloro che, come costoro, diventano principi superando molti ostacoli, acquistano il principato con difficoltà, ma lo tengono con facilità, e le difficoltà che essi trovano nell'acquistare il principato sono dovute in parte ai nuovi ordinamenti e ai metodi di governo che sono costretti a introdurre per dare solide basi allo stato e garantire la sicurezza. E si deve considerare come non ci sia compito più difficile da svolgere, né più incerto nell'esito, né più pericoloso da gestire, che farsi introduttore di nuovi ordinamenti. Perché l'innovatore ha per nemici tutti coloro che hanno vantaggio dalle vecchie leggi e ha difensori poco convinti tra coloro che trarrebbero vantaggio dalle nuove leggi. La loro poca convinzione deriva, sia dalla paura per gli avversari che hanno le leggi dalla loro parte, sia dallo scetticismo degli uomini, i quali non credono nelle cose nuove, se prima non vedono che se ne è fatta una sicura esperienza. Da ciò deriva che ogni volta che i nemici del nuovo principe hanno occasione di combattere lo fanno con furore e persuasione, mentre gli altri difendono incerti, così che uniti a loro si è in pericolo.  E' necessario, pertanto, volendo analizzare bene questo aspetto del problema capire se i fondatori di nuovi stati si reggono sulle proprie forze, o se dipendono da altri, cioè se per riuscire nel proprio intento è necessario che implorino l'aiuto degli altri o se possono imporre la loro volontà con la forza.  Nel primo caso non riescono mai ad ottenere alcun risultato;  ma quando dipendono dalla loro forza raramente corrono pericoli.  Da ciò si deduce che gli innovatori armati vinsero e i disarmati fallirono nei loro progetti. Perché, oltre a tutto ciò, il carattere del popolo è mutevole ed è facile convincerlo di qualcosa, ma è difficile tenerlo fermo su tale convinzione. E' necessario, pertanto, che gli innovatori introducano buoni ordinamenti in modo che quando il popolo non creda più, si possa far credere con la forza.  Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, non avrebbero potuto far osservare le leggi per un lungo periodo se fossero stati disarmati, come capitò a Frà Girolamo Savonarola il quale, non appena la gente incominciò a non credergli, rovinò insieme ai suoi ordinamenti e lui non ebbe modo di mantenere nella persuasione coloro che gli avevano creduto, né di far credere in lui coloro che non gli avevano mai creduto. Perciò i principi nuovi trovano difficoltà nella loro azione e i pericoli che intralciano il loro percorso devono essere superati con la virtù, ma dopo averli superati, quando incominciano ad essere rispettati e ammirati, avendo eliminato coloro che avevano invidia del loro potere, rimangono sicuri, potenti, onorati e felici.

Vorrei aggiungere a questi altri esempi, un altro minore ma che sarà tuttavia proporzionato a quelli precedenti e voglio che basti per tutti gli altri: è quello di Gerone I  di Siracusa. Costui, da semplice cittadino, diventò principe di Siracusa; lui non ebbe altro dalla fortuna che l'occasione, infatti i siracusani oppressi dai Mamertini lo nominarono comandante dell'esercito, per questo meritò di diventare loro principe. Egli anche da privato cittadino mostrò tanta virtù che chi ne scrive dice " ad essere principe non gli mancava che il regno".  Costui smobilitò il vecchio esercito, ne formò uno nuovo,

cambiò le vecchie alleanze con le nuove e, non appena ebbe un esercito e delle alleanze sue, poté, su tale fondamento, creare nuovi ordinamenti cosicché impiegò molta fatica nel creare il proprio regno e poca nel mantenerlo.

 

 FRANCESCO SFORZA E CESARE BORGIA   (cap. VII)

 

I principati nuovi che si acquistano con le armi altrui e con la  fortuna.

 

Coloro i quali da cittadini privati che erano diventano principi solo per fortuna, con poca fatica lo diventano, ma con grande fatica riescono a mantenere il principato e non incontrano difficoltà nella realizzazione della conquista, anzi procedono con rapidità, ma tutte le difficoltà nascono quando se ne sono impossessati. E situazioni di questo genere si verificano quando è concesso a qualcuno uno stato o in cambio di soldi o come segno di favore di chi lo concede, come accadde a molti in Grecia, nelle città della Ionia e dell'Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario alcuni suoi uomini di fiducia, affinchè governassero per la sua sicurezza e la sua gloria e come accadde a quegli imperatori romani che pervennero al potere con l'aiuto dei loro pretoriani. Questi possono contare esclusivamente sulla volontà e sulla fortuna di coloro che hanno favorito la loro ascesa, due cose volubili e instabili, e non sanno e non possono tenere quel ruolo di comando. Non sanno, perché, a meno che uno non sia uomo di grande virtù e ingegno, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto come privato cittadino sappia comandare, non possono perché non dispongono di milizie proprie sulle quali fare affidamento. Inoltre gli stati che sorgono improvvisamente come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono rapidamente, non possono avere radici, ramificazioni, cosicché il primo tempo avverso le distrugge a meno che quei tali di cui si è detto, che sono diventati improvvisamente principi, non abbiano tanta virtù che sappiano subito prepararsi a conservare ciò che la fortuna ha messo nelle loro mani, e gettino dopo quelle basi del potere che altri, divenuti principi per virtù, hanno gettato prima di diventare principi. Io voglio dell'uno e dell'altro modo di diventare principe, per virtù o per fortuna, fare due esempi verificatisi ai nostri tempi: questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia.  Francesco con l'astuzia e con la forza e con le sue grandi capacità, riuscì a diventare da privato cittadino, duca di Milano; ciò che con mille affanni aveva conquistato, con poca fatica riuscì a mantenere. Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato dal popolo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con la stessa lo perse, nonostante avesse fatto tutte le cose che dovevano essere fatte da parte di un politico che conosce bene quello che si deve fare per dare un solido fondamento alla sua potenza in quello stato che aveva ottenuto con le armi e la fortuna che gli altri gli avevano concesso. Perché, come si è detto, chi non costruisce prima le fondamenta potrebbe gettarle in seguito, ma solo con una virtù eccezionale e con grosse difficoltà per l'architetto e un grave pericolo di crollo per la costruzione. Se dunque si considererà la successione delle azioni compiute dal duca ci si accorgerà che aveva posto, per realizzare la sua futura potenza, solide fondamenta che non giudico superfluo esaminare, perché non saprei quali migliori consigli potrei dare ad un principe nuovo che l'esempio delle sue azioni. E se i suoi provvedimenti non ebbero per lui l'esito sperato, non fu colpa sua, perché fu vittima di una serie di eventi a lui estremamente sfavorevoli. Alessandro VI incontrava molti ostacoli, sia presenti che futuri, nel riuscire a far diventare potente il duca suo figlio. In primo luogo si rendeva conto che poteva farlo signore solo di uno stato nell'ambito del dominio della Chiesa, ma anche sottraendo una parte di esso, sapeva che il duca di Milano e i Veneziani non glielo avrebbero permesso perché alcune città dello stato della Chiesa (Faenza e Rimini) erano già sotto la protezione dei Veneziani. Oltre a questo si rendeva conto

 

 

che le principali compagnie di ventura italiane e soprattutto quelle di cui si sarebbe potuto servire, erano legate ai suoi nemici, gli Orsini, i Colonna, o i loro alleati, quindi non poteva fidarsi di loro.  Era dunque necessario che si modificasse radicalmente la situazione politica, che si abbattessero le signorie sopra menzionate per potersi impadronire di alcune di esse e diventarne il signore. Ciò gli riuscì facilmente perché era successo che i Veneziani, spinti da altre ragioni, si erano mossi per far scendere i Francesi per la seconda volta in Italia e ciò non solo non fu ostacolato, ma anzi fu agevolato da Alessandro VI con l'annullamento del precedente matrimonio di Luigi XII.  Dunque il re passò in Italia con l'aiuto dei Veneziani e con il consenso di Alessandro; e prima che giungesse a Milano il papa ottenne da lui le milizie per la conquista della Romagna, conquista che gli fu consentita dagli altri stati grazie al prestigio del re di Francia.  Conquistata dunque la Romagna e sbaragliati i Colonna, volendo conservare quella regione e proseguire nelle sue conquiste, il Duca incontrava due ostacoli: in primo luogo il proprio esercito a lui pareva non fosse fedele, poi la volontà del re di Francia; per meglio dire il Duca temeva che le truppe mercenarie legate agli Orsini delle quali si era servito, lo tradissero e che non solo lo ostacolassero nelle sue conquiste ma gli facessero perdere ciò che aveva già conquistato e temeva che anche il re di Francia facesse lo stesso. Dell'atteggiamento degli Orsini nei suoi confronti ebbe una prova quando dopo aver espugnato Faenza assaltò Bologna e constatò che le loro truppe non si impegnavano abbastanza nel combattimento: per quanto riguarda il re di Francia, capì le sue intenzioni, quando impossessatosi del ducato di Urbino invase la Toscana, ma il re lo

fece desistere dall'impresa. Per questo il Duca decise che non sarebbe più dipeso dalle armi e dai voleri di altri. Per prima cosa indebolì le fazioni degli Orsini e dei Colonna a Roma, perché fece passare dalla sua parte i loro alleati nobili, guadagnandosi la loro fiducia e concedendo loro cospicui stipendi in denaro e onorandoli, secondo le loro qualità, di cariche militari o civili, in questo modo in pochi mesi nei loro animi l'attaccamento alla loro originaria fazione si spense e si rivolse tutto verso il Duca. Dopo aver fatto tutto questo egli aspettò l'occasione per eliminare proprio gli esponenti della famiglia Orsini: l'occasione gli capitò a puntino e lui la seppe sfruttare fino in fondo.  Rendendosi conto gli Orsini, che la potenza del Duca e della Chiesa era la loro rovina, si riunirono a Magione (un piccolo paese nei pressi di Perugia) e con loro si riunirono anche tanti altri signori che avevano ragione di temere le conquiste del Valentino. In seguito agli accordi presi in questa riunione, Urbino e Camerino si ribellarono al Duca, che però superò tutti i pericoli con l'aiuto dei Francesi.  Riacquistati prestigio e autorità, il Duca, non fidandosi della Francia, nè di altre forze esterne, per non essere costretto a mettere alla prova la fedeltà delle truppe di cui non si fidava più, ricorse agli inganni e seppe dissimulare tanto le sue vere intenzioni che gli Orsini stessi si riconciliarono con lui mediante il signor Paolo Orsini; con lui il Duca non risparmiò alcuna forma di cortesia per renderlo sicuro della rinnovata alleanza e gli fece dono di denaro, vesti, cavalli tanto che l'ingenuità degli Orsini li condusse a Senigallia nelle sue mani. Il Duca dunque uccisi questi capi e condotti alla sua parte i loro alleati aveva ormai gettato solide fondamenta alla sua potenza, avendo tutta la Romagna e il ducato di Urbino, e soprattutto pensando che i popoli di queste regioni avessero cominciato ad apprezzare la nuova condizione di tranquillità da lui garantita. E, ritenendo questa parte degna di essere citata e imitata da parte di altri, non voglio tralasciarla. Dopo essersi impossessato della Romagna il Duca, avendo constatato che era stata governata da signori incapaci di imporre l'ordine, i quali avevano derubato e mal governato i propri sudditi dando loro motivi di disunione e non di unione, tanto che quella regione era nota per i numerosi furti, contrasti e ogni altro motivo di offesa, ritenne fosse necessario per renderla pacifica e obbediente al suo potere sovrano, farla amministrare bene. A questo scopo affidò il governo della Romagna a Remirro de Lorqua, uomo crudele e risoluto, al quale il Duca dette pieni poteri. Costui in poco tempo rese la Romagna pacifica e unita, meritandosi una grande considerazione. Ma col passare del tempo il Duca  giudicò non necessario governare con rigore tanto eccessivo da suscitare odio; istituì così un tribunale civile, con a capo un degno presidente, e presso il quale ogni città avrebbe avuto il proprio rappresentante. Riconoscendo che la passata severità aveva generato nel popolo odio nei suoi confronti, volle per liberare da rancori e risentimenti i loro animi e guadagnarsi in tutto la loro fiducia, dimostrare che se in passato ci fosse stata crudeltà non era nata dal suo volere ma dal carattere crudele del ministro; colto un pretesto lo fece mettere una mattina in una piazza di Cesena, ucciso e seviziato, tagliato in due con a fianco un pezzo di legno e un coltello insanguinato. La ferocia di quello spettacolo fece rimanere il popolo allo stesso tempo soddisfatto e scosso. Ma riprendiamo il discorso iniziale. Il Duca trovandosi assai potente e in parte al sicuro dai pericoli che potevano danneggiarlo, essendosi ben armato ed avendo eliminato quelle vecchie truppe che avrebbero finito col nuocergli, per procedere nella sua conquista, doveva tenere conto del riguardo che doveva al re di Francia, perché sapeva come il re essendosi reso conto tardi del suo errore, non gli avrebbe concesso ulteriori ingrandimenti. E cominciò per questo a cercare nuove alleanze ed a distaccarsi sempre più dalla Francia, prendendo l'occasione della guerra tra francesi e spagnoli. La sua intenzione era di liberarsi dalla soggezione francese, il che gli sarebbe presto riuscito se fosse ancora vissuto Alessandro VI. E questi furono i suoi provvedimenti per risolvere i problemi presenti. Per quanto riguarda il futuro egli doveva temere che un nuovo papa gli fosse nemico e cercasse di togliergli quanto gli aveva dato il padre. Per questo egli pensò di prendere alcune precauzioni assicurandosi in quattro modi: per prima cosa eliminare tutti i parenti di quei signori ai quali aveva tolto i possedimenti, in modo da togliere a un futuro papa la possibilità di restituire i territori di cui egli si era impadronito; secondo, guadagnarsi l'appoggio di tutti i nobili di Roma in modo da condizionare e frenare l'azione del papa; terzo, acquistarsi il favore del Collegio dei Cardinali; quarto, acquistare tanto potere prima della morte del padre, da poter resistere contando solo sulle proprie forze a un primo assalto. Di questi quattro progetti, alla morte di Alessandro VI, ne aveva portato a compimento tre; il quarto l'aveva quasi concluso: perché dei signori derubati ne ammazzò quanti ne poté raggiungere e pochissimi si salvarono; perché si era guadagnato il favore dei nobili romani e anche del Collegio. Riguardo al rafforzamento del suo potere aveva progettato di diventare signore di Toscana in quanto possedeva già Perugia e Piombino e aveva imposto il suo protettorato a Pisa, e non appena avesse potuto svincolarsi completamente dalla Francia (che non doveva temere più di tanto visto che i francesi erano stati privati del regno di Napoli dagli spagnoli cosicché sia i francesi che gli spagnoli avevano tutto l'interesse ad allearsi con lui) avrebbe potuto annettersi Pisa. Dopo questo Lucca e Siena avrebbero ceduto subito, in parte per odio verso i fiorentini, in parte per  paura; i fiorentini non avrebbero avuto scampo. Se avesse raggiunto questo obiettivo ( e quasi quasi gli riusciva l'anno in cui morì Alessandro VI) egli avrebbe acquistato tanta forza e tanto prestigio da potersi reggere al potere da solo e non sarebbe più dipeso dalla fortuna e dalla forza degli altri, ma solo dalla sua potenza e dalla sua virtù. Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva iniziato le sue guerre di conquista. Il padre lo lasciò con il solo stato di Romagna già consolidato, con tutti gli altri in via di organizzazione tra due potentissimi eserciti nemici, quello spagnolo e quello francese, e lui stesso era ridotto in fin di vita. C'era nel Duca tanta determinazione e virtù, ed egli sapeva così bene come poter avvicinare o allontanare gli uomini e tali erano le fondamenta che in poco tempo aveva costruito che, se lui non avesse avuto addosso quegli eserciti nemici, o lui fosse stato sano, avrebbe superato ogni difficoltà. E che le fondamenta che lui aveva dato allo stato fossero buone si vide: perché la Romagna stette quieta più di un mese, e lui non corse nessun pericolo a Roma nonostante fosse gravemente malato; e benché i suoi nemici, i Baglioni, i Vitelli, gli Orsini, arrivassero a Roma, non trovarono appoggi contro di lui; se non poté far eleggere un papa a lui favorevole, poté però impedire che fosse eletto un suo nemico. Ma, se alla morte del padre Alessandro egli fosse stato sano, ogni cosa gli sarebbe riuscita facilmente. E lui il giorno in cui fu eletto Giulio II mi disse che aveva pensato a tutto ciò che sarebbe potuto succedere alla morte del padre, e a tutto aveva trovato rimedio, ma che non aveva previsto che mentre il padre moriva, anche lui avrebbe corso il rischio di morire. Dopo aver ricapitolato tutto ciò che il Duca ha fatto, non saprei criticarlo e anzi, penso sarebbe necessario proporlo come modello a tutti coloro che, grazie alla fortuna o grazie all'aiuto degli eserciti altrui, sono arrivati al potere.  Perché lui avendo grandi progetti e un obiettivo ambizioso, non poteva comportarsi in altro modo; gli unici impedimenti che si opposero ai suoi obiettivi furono la morte prematura di suo padre Alessandro e il fatto che lui stesso fosse malato. Chi dunque ritiene necessario nel nuovo principato mettersi al riparo dai nemici, guadagnarsi degli amici, vincere o con la propria forza o con l'inganno, farsi amare e temere dai sudditi, obbedire e rispettare dai soldati, uccidere quelle persone che possono o potrebbero trovarsi nella necessità di offenderlo, rinnovare le vecchie istituzioni, essere severo e grato, magnanimo e generoso, eliminare le milizie infedeli e formare un esercito nuovo, conservare l'alleanza dei re e dei principi in modo che questi debbano o favorirlo per gratitudine o attaccarlo solo dopo averci pensato, non potrà trovare esempi più recenti che nelle azioni del Duca. Lo si può solo accusare della cattiva scelta che effettuò nell'elezione del papa Giulio II; perché non potendo eleggere un papa a suo piacimento poteva almeno ottenere che non fosse eletto papa uno a lui sfavorevole e non avrebbe dovuto permettere l'elezione di quei cardinali che lui aveva offesi o che, una volta divenuti papa, avessero avuto motivo d'aver paura di lui. Questo perché gli uomini aggrediscono sia per paura che per odio.  Quelli che lui aveva offesi erano tra gli altri: Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli (Giulio II), Giovanni Colonna, Raffaello Riario, cardinale di San Giorgio, Ascanio Sforza; tutti gli altri, divenuti papi avrebbero avuto motivo di temerlo, tranne Giorgio d'Amboise e i cardinali spagnoli: questi per la comune origine e perché obbligati verso il padre, Giorgio d'Amboise perché era potente in quanto aveva l'appoggio del re di Francia, di cui era consigliere. Di conseguenza il Duca doveva prima di tutto far eleggere un papa spagnolo, e non potendo farlo doveva almeno favorire l'elezione di Giorgio d'Amboise e non di Giuliano della Rovere. E chi crede che nei grandi personaggi i nuovi favori facciano dimenticare le vecchie offese si sbaglia. Dunque il Duca sbagliò in questa elezione e l'errore fu la causa della sua rovina.

 

QUALITÀ DEL PRINCIPE  (cap. XV)

 

Cose per le quali gli uomini, e soprattutto i principi, vengono lodati oppure disprezzati.

 

Ora, restano da vedere quali devono essere i rapporti di un principe nei confronti dei suoi sudditi e dei suoi collaboratori.

Io so che molti prima di me hanno già trattato questo argomento, e temo, riprendendolo di essere giudicato presuntuoso, soprattutto perché mi allontano nel trattare questa materia dall’impostazione data dagli altri scrittori. Ma essendo mio proposito scrivere qualcosa di utile per coloro che sanno capire (cioè per coloro che fanno politica sul serio), mi è sembrato più opportuno mostrare le cose come sono nella realtà effettuale (effettiva), piuttosto che parlare di progetti astratti e fantastici. Molti hanno sognato repubbliche e principati che non si sono mai visti, né si è mai saputo che esistessero nella realtà ; dal momento che è tanto diverso il modo di vivere dal modo in cui si dovrebbe vivere, se uno abbandonasse il suo modo di fare per seguire gli insegnamenti di chi dice qual è il modo ideale di agire, andrebbe incontro piuttosto alla propria rovina che alla propria salvezza, perché un individuo che in ogni occasione vuole mostrarsi buono, inevitabilmente va incontro alla rovina, in mezzo a tanti che buoni non sono. Dunque, è necessario che un principe che voglia mantenere il proprio potere impari ad essere capace di non essere buono, usando o meno questa capacità a seconda delle necessità. Tralasciando dunque, tutto ciò che si è immaginato su di un principe e analizzando i fatti reali, dico che quando si parla di uomini, e in particolare di principi, per la loro posizione di preminenza, che attira su di loro l’attenzione di tutti, vengono attribuite loro alcune di queste qualità che procurano loro disprezzo o lode. Ciò significa che uno è giudicato generoso, un altro tirchio, uno è giudicato munifico l’altro avido ; uno crudele l’altro pietoso ; uno leale l’altro sleale ; uno debole e vile l’altro fiero e coraggioso ; uno cortese l’altro superbo ; uno lussurioso l’altro casto ; uno sincero l’altro infido, uno inflessibile l’altro accomodante ; uno deciso l’altro volubile ; uno religioso l’altro miscredente . E io sono convinto che ognuno ammetterà che sarebbe ammirevole se in un principe si trovassero fra tutte le qualità prima elencate, quelle ritenute buone. Ma non potendo possederle tutte, né seguire completamente e soltanto gli impulsi virtuosi per la natura umana che non lo consente, è necessario per un principe essere tanto prudente da evitare il biasimo di quei vizi pericolosi politicamente perché gli potrebbero far perdere lo Stato; e se possibile astenersi anche da quelli non pericolosi per lo stato ; ma se non può astenersi da questi ultimi può abbandonarsi ad essi con minor scrupolo e preoccupazione. Inoltre, non si preoccupi di avere una cattiva reputazione a causa di quei vizi senza i quali difficilmente potrebbe conservare lo stato ; perché, considerando bene la realtà, in certi casi se un principe vorrà essere virtuoso rischierà di andare incontro alla rovina, mentre se si comporterà in modo spregevole ricaverà sicurezza e benessere per lui.

 

LA VOLPE E IL LEONE  (Cap. XVIII)

 

In che misura  i principi debbano mantenere la parola data.

 

Tutti possono capire quanto sia lodevole per un principe rispettare la parola data, e agire con lealtà e non con l’inganno : tuttavia si può vedere, per quanto accade nei nostri tempi, che quei principi che non si sono preoccupati di mantenere la parola data, né di rispettare i patti ed hanno saputo astutamente ingannare gli uomini, alla fine hanno raggiunto grandi risultati ed hanno superato coloro che invece hanno sempre agito con lealtà.

Dovete dunque sapere che esistono due modi per combattere : uno secondo le regole, e l’altro con la forza : il primo è proprio degli uomini, il secondo degli animali : ma poiché il primo spesso è insufficiente, è necessario ricorrere al secondo. Pertanto un principe deve conoscere e utilizzare i metodi propri della bestia e dell’uomo. Questo aspetto è stato insegnato ai principi in modo simbolico dagli antichi scrittori ; i quali raccontano come Achille e altri antichi eroi furono affidati al centauro Chirone perché li educasse nelle arti che conosceva.

Avere come insegnante uno che sia per metà uomo e per metà animale, significa che un principe deve saper usare i due metodi di lotta per poter resistere nel tempo. Dovendo, dunque, sapere per necessità essere uomo e bestia nella lotta politica, tra gli animali deve scegliere come modello la volpe e il leone ; perché il leone ha la forza ma non sa difendersi dai tranelli dell’astuzia e la volpe è astuta ma non ha la forza per difendersi dai nemici. Bisogna dunque essere volpe per riconoscere le trappole e leone per sbaragliare e impaurire i nemici. Coloro che scelgono come metodo esclusivo di lotta quello della forza non si intendono di politica. Un principe prudente, pertanto non può e non deve rispettare la parola data, quando osservare i patti si traduca in un danno per lui, e quando siano venute meno le circostanze che avevano determinato la promessa. E se gli uomini fossero tutti buoni questo consiglio non servirebbe ; ma poiché sono malvagi e non manterrebbero la parola data nei tuoi confronti, anche tu non hai l’obbligo di mantenerla nei loro. Non mancarono mai ad un principe pretesti per far apparire legittima l’inosservanza dei patti. Di questo si potrebbero dare infiniti esempi tratti dai nostri tempi e mostrare quante paci, quante promesse sono state rese inefficaci e inutili a causa della slealtà dei principi : e quel principe che ha agito astutamente, come una volpe, ha avuto più successo. Ma è necessario nascondere questa natura sotto una diversa apparenza e saper simulare di essere ciò che non si è, e dissimulare quello che si è in realtà : gli uomini sono così ingenui e così legati alle necessità contingenti che chi vuole ingannarli troverà sempre chi sarà disposto a lasciarsi ingannare.

Tra tutti gli esempi recenti non voglio tralasciarne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare gli uomini, e trovò sempre le persone adatte per farlo. E non ci fu mai un uomo che sapesse dare le più ampie garanzie e che sapesse affermare con maggiore forza di convincimento una cosa, e che la rispettasse meno ; non di meno i suoi inganni gli riuscirono sempre secondo i suoi desideri, perché conosceva bene questo aspetto della natura umana. Ad un principe, dunque, non è necessario avere tutte le buone qualità di cui ho già parlato, bensì fingere di averle. Anzi, oserò dire che avere tutte le virtù ed essere sempre virtuosi è dannoso, mentre simulare di possederle è utile ; come sembrare pietoso, leale, umano, onesto, religioso ed è utile anche esserlo ; ma a patto di avere sempre l’animo disposto, qualora sia necessario non esserlo, a mutarti nel contrario. E si deve intendere questo : che un principe, e soprattutto un principe nuovo non può comportarsi sempre in modo corretto, essendo spesso costretto per salvare lo stato ad agire senza lealtà, senza carità, senza umanità e senza rispettare la religione. Per questo bisogna che il principe abbia un animo disposto ad agire secondo quanto comanda il variare della fortuna e delle circostanze, e come dissi sopra occorre che non si allontani da una condotta corretta se appena può, ma saper fare anche del male quando vi sia costretto. Un principe, dunque, deve fare attenzione affinché non dica mai niente che non sia rispettoso delle cinque qualità che ho elencato, e a vederlo e sentirlo, deve sembrare un uomo pietoso, leale, onesto, umano e religioso : E non c’è cosa più utile che sembrare di essere religioso. E gli uomini in generale giudicano più in base all’apparenza che alla concreta realtà, perché è concesso a tutti di vedere, ma a pochi di capire davvero la realtà. Ognuno vede quello che sembri, pochi comprendono veramente quello che sei, e quei pochi non osano opporsi all’opinione di una maggioranza che abbia dalla sua l’autorità dello Stato che la protegga : e nelle azioni di tutti gli uomini, ma in particolare in quelle del principe, per le quali non si può fare appello a nessun tribunale,  si guarda al risultato conseguito.

Un principe faccia dunque in modo di conquistare e conservare lo Stato : i mezzi che avrà usato saranno giudicati onesti e lodati da tutti ; perché il vulgo (il popolo ignorante) sarà sempre colpito dalle apparenze e dal successo dell’azione ; e nel mondo non c’è altro che questo tipo di gente, e gli altri che sono una minoranza non contano nulla se la massa si appoggia all’autorità dello Stato.

 Un principe dei giorni nostri, che è bene non nominare, non fa altro che predicare la pace e la lealtà ed è nemico acerrimo dell’una e dell’altra ; e in effetti se si fosse preoccupato di mantenere la pace o di essere leale avrebbe perso il prestigio e lo Stato.   

 

LA FORTUNA   (cap. XXV)

 

Quanto possa la fortuna nelle cose umane e in che modo si debba resisterle.

 

So bene che molti uomini hanno pensato e pensano tuttora che gli avvenimenti del mondo sono guidati dalla fortuna e da Dio, per cui gli uomini con la loro prudenza non li possono modificare, anzi non possono esercitare su di essi nessuna influenza ; e per questa ragione potrebbero concludere che è inutile impegnarsi a fondo nelle cose e che è meglio lasciarsi guidare dal destino.  Questa opinione è stata ritenuta valida soprattutto nei nostri tempi, a causa dei repentini mutamenti delle situazioni che si sono verificati e si verificano ogni giorno al di là di ogni umana previsione. Quindi meditando su questi fatti, qualche volta anche io mi sono trovato a condividere questa idea. Tuttavia perché il nostro libero arbitrio non sia del tutto negato ritengo verosimile che la fortuna decida metà delle nostre azioni, ma anche che ne lasci governare l’altra metà, o quasi, a noi. E paragono la fortuna a uno di quei fiumi rovinosi che, quando sono in piena

allagano i campi, sradicano gli alberi e distruggono gli edifici, asportano da questa parte del terreno e lo accumulano da un’altra parte :  ciascuno fugge dinanzi a questi fiumi, ognuno cede dinanzi al loro impeto senza poterli contrastare in alcun modo. E nonostante la natura di questi fiumi sia tale, tuttavia nulla impedisce che gli uomini, durante i periodi di quiete possano fare opere di prevenzione costruendo ripari e argini in modo che durante i periodi di piena le acque vengano convogliate in un canale ed il loro impeto non sarebbe così sfrenato e dannoso. Lo stesso accade per quanto riguarda la fortuna, la quale dimostra tutta la sua potenza quando la virtù non sia predisposta a resisterle ;  in questo caso essa agisce con tutta la sua forza dove sa che non sono stati costruiti argini e ripari per affrontarla. E se voi considerate l’Italia che è la sede questi sconvolgimenti politici e militari e il luogo che ne ha determinato l’avvio, vi accorgerete che è come una campagna senza argini e senza ripari : perché se fosse difesa da un’adeguata capacità politica e militare come la Germania, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatto i danni che ha provocato, oppure non si sarebbe verificata.

E penso basti dire questo sul modo di opporsi alla fortuna in generale. Ma considerando situazioni politiche più concrete faccio notare che oggi vediamo un principe prosperare e l’indomani lo vediamo cadere in rovina, senza che abbia modificato in nulla il suo carattere o il suo modo di agire. Questo secondo me succede in primo luogo per i motivi di cui ho parlato in precedenza, perché cioè quel principe si affida completamente alla fortuna e non appena quella cambia cade in rovina. Credo, inoltre, che possa prosperare colui che adegua la sua azione alla situazione specifica in cui si trova ad operare, e analogamente credo che cada in rovina colui che agisce in modo discorde ai tempi, che non adotta cioè un nuovo comportamento di fronte a nuove situazioni. Perché vediamo che gli uomini procedono in modo diverso nelle azioni che li conducono all’obiettivo che ciascuno si pone, cioè gloria e ricchezza., l’uno con cautela, l’altro con impeto, l’uno con la violenza, l’altro con astuzia, l’uno con pazienza, e l’altro al contrario con impazienza ed ognuno agendo in uno di questi modi può raggiungere l’obiettivo. Vediamo ancora come di due persone prudenti una pervenga al suo scopo e l’altra no e allo steso modo vediamo raggiungere il successo due persone che hanno seguito metodi diversi essendo l’una cauta e l’altra impulsiva : il che non deriva da altro, se non dalle situazioni che si conformano o meno al loro modo di agire. Da questo deriva quello che ho detto, che certe volte due persone comportandosi diversamente ottengono lo stesso risultato ; altre due persone, comportandosi allo stesso modo ottengono diversi risultati : uno raggiunge il suo obiettivo, l’altro no. Da questo dipende il variare di ciò che è opportuno fare, perché se un uomo agisce con prudenza e pazienza, e le circostanze si evolvono in modo concorde con le sue azioni, costui prospera nella buona sorte, ma se le circostanze discordano egli rovina perché non adatta a queste le proprie azioni. E non si trova un uomo tanto saggio che sappia adeguarsi a questi cambiamenti perché non si può deviare dalla propria inclinazione naturale e anche perché, quando si è sempre ottenuto il successo seguendo una determinata strada non ci si persuade facilmente di lasciarla perché l’uomo cauto, quando affronta una situazione che richiede impeto, non riesce a diventare impulsivo e quindi rovina, perché se l’uomo cambiasse la propria natura seguendo i tempi e le situazioni non avrebbe insuccessi. Papa Giulio II affrontò ogni situazione con impeto e trovò tanto i tempi quanto le situazioni adeguate a questo suo modo di agire che riuscì sempre ad avere successo. Considerate la sua prima impresa, l’occupazione di Bologna, quando ancora era in vita il signore della città : Giovanni Bentivoglio. I Veneziani erano contrari e così il re di Spagna Ferdinando il Cattolico che con la Francia era in trattative per ottenere aiuto in quell’impresa ; tuttavia con la sua energia e con il suo impeto, diresse personalmente quella spedizione. La mossa fece rimanere interdetti e incapaci di ostacolarlo il re di Spagna e i Veneziani, questi per paura, l’altro (Ferdinando il Cattolico)  perché voleva riconquistare tutto il regno di Napoli ; il re di Francia lo seguì nell’impresa perché avendo visto ormai che Giulio II era passato all’azione e desiderando farselo alleato contro i Veneziani, pensò di non potergli negare le sue truppe senza offenderlo palesemente. Realizzò dunque Giulio II con la sua impetuosa mossa quello che nessun altro pontefice con tutta l’umana prudenza avrebbe mai realizzato ; perché se egli avesse aspettato per allontanarsi da Roma, che gli accordi fossero già conclusi e tutti i patti ben stabiliti, come avrebbe fatto qualsiasi pontefice, mai sarebbe riuscito nella sua impresa, perché il re di Francia avrebbe accampato mille scuse per non intervenire e gli altri gli avrebbero messo mille paure. Voglio tralasciare tutte le altre sue imprese, tutte somigliano alla prima e tutte hanno avuto esito positivo. La brevità della sua vita non gli ha permesso di sperimentare l’insuccesso, infatti se si fossero presentate delle circostanze che avessero richiesto di agire con cautela ne sarebbe derivata la sua rovina : né mai Giulio II avrebbe agito in un modo diverso da quello a cui era portato per natura.

Devo quindi concludere che, variando le circostanze e perseverando gli uomini ad agire nel modo più consono alla loro natura sono felici finché il loro modo di procedere concorda con le circostanze e falliscono non appena i tempi e la loro indole discordano. Io sono convinto di questo : che sia meglio essere impulsivo che cauto, perché la fortuna è donna ed è necessario volendo tenerla sottomessa batterla e percuoterla. E vediamo infatti che si lascia sottomettere più facilmente da chi agisce in questo modo che da quelli che agiscono con lentezza e cautela, perché come la donna è sempre amica dei giovani, perché sono meno cauti e più decisi e con più audacia la comandano.   

 

Fonte: http://www.itcgmattei.it/files/Materialealunni/italiano/ILPRINCIPE.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Niccolò Machiavelli

 

Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513

 

Magnifico Ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine . Dico questo perché mi pareva di aver, non perduta, ma smarrita la grazia vostra, poiché siete stato molto tempo senza scrivermi, e io ero in dubbio da dove potesse nascere la causa. E di tutte quelle che mi venivano in mente tenevo poco conto, salvo quando mi veniva il dubbio che voi aveste smesso di scrivermi perché qualcuno vi avesse scritto che io non avevo fatto buon uso delle vostre lettere; ma io sapevo che nessuno, da parte mia, le aveva viste tranne Filippo e Pagolo . L'ho riavuta, la vostra grazia, con l'ultima vostra del 23 scorso, che mi ha reso contentissimo nel vedere con quanto ordine e quiete voi esercitate il vostro incarico pubblico , e io vi conforto a continuare così, perché chi lascia la propria convenienza per quella degli altri, perde la sua e da quegli altri non riceve nessuna gratitudine. E poiché la fortuna vuole fare ogni cosa, bisogna lasciarla fare, stare quieto e non darle fastidio, e aspettare il tempo in cui essa lasci fare qualcosa agli uomini e allora starà a voi affrontare una maggior fatica, vigilare di più sulle cose, e a me allontanarmi dalla campagna e dire eccomi. Non posso peraltro, volendovi rendere pari grazie, dirvi in questa lettera altro che quale sia la mia vita, e se voi giudicate che convenga barattarla con la vostra, io sarò contento di mutarla.

Io sto in campagna, e da quando accaddero quelle mie vicende , non sono stato, a sommarli tutti, venti giorni a Firenze. Fino a poco tempo fa ho cacciato i tordi con le mie mani; mi alzavo prima di giorno, mettevo le panie , me ne andavo con un fascio di gabbie addosso, che sembravo il Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione ; pigliavo almeno due tordi, nel caso migliore sei. E così sono stato tutto settembre; poi questo perditempo, anche se per me strano e fatto con animo acido , è finito con mio dispiacere; e qual è ora la mia vita, ve lo dirò. Io mi alzo al mattino insieme al sole e me ne vado in un mio bosco che sto facendo tagliare, e lì ci sto due ore per vedere il lavoro fatto il giorno prima e passo il tempo con i taglialegna, che hanno sempre alle mani qualche guaio o fra loro o con i vicini. Su questo bosco avrei da dirvi mille belle cose che mi sono successe, con Frosino da Panzano e con altri che volevano del legname. Frosino, specialmente, ha mandato a prendere delle cataste senza dirmi niente, e al momento di pagare voleva tirar giù dieci lire, che - dice lui - doveva avere da me quattro anni fa, perché me le vinse a cricca a casa di Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare il diavolo, volevo denunciare il carrettiere che era venuto per le cataste, come ladro, alla fine si intromise Giovanni Machiavelli e ci fece mettere d'accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando soffiava quella tramontana, ognuno me ne prese una catasta. Io ne promisi a tutti e ne mandai a Tommaso una, che quando giunse a Firenze era grande la metà, perché ad accatastarla c'era lui, la moglie, la serva, i figli , che pareva il Gaburra quando il giovedì ammazza il bue con i suoi garzoni. Di modo che, visto chi ci guadagnava, ho detto agli altri che non ho più legna; e tutti mi fanno una testa grande così, e specialmente Batista, che annovera questa tra le altre sciagure di Prato .

Partito dal bosco, me ne vado ad una fonte, e lì in un luogo dove sistemo le panie per uccellare; ho un libro sotto il braccio, o Dante o Petrarca o uno dei poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili : leggo quelle loro passioni amorose e quei loro amori; mi ricordo dei miei e godo un pezzo in questo pensiero. Poi mi trasferisco all'osteria, sulla strada, parlo con quelli che passano, domando le notizie dei loro paesi, ascolto varie cose, e noto la varietà dei gusti e delle fantasie degli uomini. Viene così l'ora di desinare, e allora mangio insieme a quelli di casa mia quei cibi che questo mio povero possedimento e il mio piccolo patrimonio permettono. Dopo mangiato, ritorno all'osteria: lì c'è l'oste e, di solito, un macellaio, un mugnaio e due fornaciai. Con questi mi ingaglioffo per tutto il giorno giocando a cricca o a trich-trach, e da qui nascono poi mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per un quattrino e siamo sentiti gridare almeno da San Casciano. Così avvolto tra questi pidocchi tiro fuori il cervello dalla muffa, e sfogo la malignità della mia sorte, e son contento che mi calpesti in questo modo, per vedere se non finisca per vergognarsi .

Venuta la sera, ritorno a casa, ed entro nel mio studio; e sull'uscio mi spoglio di quella veste da tutti i giorni, piena di fango e di sporcizia, e mi metto panni adatti alle regge e alle curie ; e rivestito come conviene entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi nutro di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno di parlare con loro, e domando loro le ragioni delle loro azioni, e quelli, per la loro umanità , mi rispondono; non sento per quattro ore alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi spaventa la morte: tutto mi trasferisco in loro. E poiché Dante dice che non fa scienza senza ritener l'avere inteso , io ho annotato ciò di cui ho fatto capitale tramite la conversazione con loro, e ho composto un opuscolo De principatibus, nel quale approfondisco per quanto posso le riflessioni su questo argomento, discutendo che cosa sono i principati, di quali specie sono, come si acquistano, come si mantengono, perché si perdono; e se vi piace talvolta qualche mio ghiribizzo, questo non dovrebbe dispiacervi; e a un principe, soprattutto a un principe che ha da poco raggiunto il potere, dovrebbe essere accolto. Perciò io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano . Filippo Casavecchia l'ha visto; vi potrà ragguagliare in parte sia del lavoro in sé, sia dei ragionamenti che ho avuto con lui, anche se continuo a ampliarlo e a sfrondarlo.

Voi vorreste, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò ad ogni modo, ma quello che mi trattiene ora, sono certe mie faccende che fra sei settimane avrò compiute. Quello che mi fa stare in dubbio è che lì da voi ci sono i Soderini, ai quali, se venissi lì, sarei costretto a fare visita e a parlare. Temo che, al mio ritorno, crederei di scendere da cavallo a casa mia, invece scenderei al Bargello , perché nonostante che questo stato (di Firenze) abbia solidissime fondamenta e grande sicurezza, tuttavia è nuovo , e per questo è sospettoso e non mancano degli zelanti che, per apparire come Pagolo Bertini, metterebbero un altro all'albergo, e lascerebbero il pensiero a me . Vi prego: liberatemi da questa paura, e poi verrò in ogni modo a trovarvi entro il tempo che ho detto.

Io ho discusso con Filippo di questo mio opuscolo, se era bene darlo (a Giuliano de' Medici) o non darlo; e posto che sia bene darlo, se era bene che io glielo portassi o che la mandassi. Se non glielo do, dubito che Giuliano lo leggerebbe, e magari Ardinghelli si farebbe onore con questa mia ultima fatica. Mi spinge a darlo la necessità che mi insegue, perché io mi sto logorando e non posso continuare così per molto tempo senza divenire spregevole a causa della povertà. Inoltre avrei desiderio che questi signori Medici cominciassero ad adoperarmi, anche se cominciassero col farmi rotolare un sasso; perché se io poi non riuscissi a guadagnarmi la loro fiducia, mi rincrescerebbe moltissimo, e quando qualcuno leggesse questa mia opera, vedrebbe che i quindici anni che ho speso occupandomi dell'arte dello stato, non li ho passati dormendo né giocando. E chiunque dovrebbe avere caro di avere al proprio servizio uno che si è fatto pieno di esperienze a spese di altri. E della mia fedeltà non si dovrebbe dubitare, perché avendo sempre osservato la fedeltà, certo non imparerò adesso a romperla; e chi è stato fedele e buono per quarantatré anni, quanti io ne ho, certo non può mutare natura; e poi della mia fedeltà e della mia bontà è testimone la mia povertà.

Desidererei dunque che anche voi mi scriveste quello che vi sembra su questa materia, e a voi mi raccomando. Sis felix.

 

Die 10 Decembris 1513

Niccolò Machiavegli in Firenze

 

 

 


Il Principe

 

capitolo VII

I principati nuovi che si conquistano con armi altrui e con la fortuna.

 

Coloro che solamente per fortuna diventano, da uomini privati, prìncipi, con poca fatica lo diventano, ma con molta fatica si mantengono tali; e non hanno alcuna difficoltà lungo la via, perché vi volano; ma tutte le difficoltà nascono quando essi si sono insediati come prìncipi.

A questa categoria di prìncipi appartengono coloro ai quali è concesso uno stato in cambio di denaro o per grazia di chi lo ha concesso. Questo successe molte volte in Grecia, nelle città della Ionia e dell'Ellesponto, dove Dario [imperatore persiano] creò dei prìncipi perché le governassero con sua sicurezza e suo onore; avvenne anche a quegli imperatori [romani] che da privati diventavano imperatori per la corruzione dei soldati. Questi fondano il loro potere semplicemente sulla volontà e sulla fortuna di chi lo ha loro concesso, entrambe cose volubilissime e instabili. Essi non sanno e non possono mantenere il grado raggiunto: non sanno perché, se uno non è uomo di grande ingegno e virtù, non è probabile che, essendo sempre vissuto da privato, sappia comandare; non possono perché non hanno forze amiche e fedeli. Inoltre, gli stati che si acquistano all'improvviso, come tutte le altre cose della natura che crescono in fretta, non possono avere radici e solida struttura; sicché la prima avversità le spegne; a meno che, come si è detto, quei tali che così rapidamente sono diventati prìncipi non siano di così grande virtù da saper subito prepararsi a conservare quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e quelle fondamenta del potere che gli altri hanno fatto prima di diventare prìncipi, le facciano dopo.

Io voglio addurre due esempi recenti dell'uno e dell'altro di questi modi, cioè del diventare principe per virtù o per fortuna: i due esempi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia.

Francesco, con gli opportuni mezzi e con grande virtù , da privato diventò duca di Milano; e ciò che con mille affanni aveva acquistato, lo mantenne con poca fatica.

Dall'altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal popolo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdette, nonostante che, per quanto stava in lui, avesse usato tutti quei mezzi e avesse fatto tutte quelle cose che un uomo prudente e virtuoso doveva fare per mettere le sue radici in quegli stati che le armi e la fortuna altrui gli aveva concessi. Perché, come si disse sopra, chi non getta le fondamenta prima, le potrebbe con grande virtù fare poi, sebbene in questo modo si facciano con disagio dell'architetto e pericolo dell'edificio. Se dunque si considereranno tutti i passi compiuti dal duca, si vedrà che lui aveva fatto grandi fondamenta alla futura potenza; e giudico non superfluo passarli in rassegna, perché io non saprei dare a un principe nuovo insegnamenti migliori dell'esempio delle sue azioni. Se poi le sue mosse tattiche non diedero buon risultato, non fu colpa sua, perché derivò da una straordinaria ed estrema malignità della fortuna.

Alessandro VI [Borgia, papa dal 1492 al 1503] aveva grandi difficoltà sia presenti che future da superare per dare un grande potere a suo figlio, il duca [Valentino]. Per prima cosa, non vedeva modo di farlo signore di alcun territorio che non appartenesse allo stato della Chiesa; ma se si orientava a prendere un pezzo dello stato della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e i veneziani non glielo avrebbero consentito, perché Faenza e Rimini erano già sotto la protezione dei veneziani. Inoltre vedeva che, in Italia, le armi, specie quelle di cui avrebbe potuto servirsi, erano nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa [cioè, della famiglia Borgia]; e perciò non poteva fidarsi, perché erano tutte in mano agli Orsini e ai Colonna [potentissime famiglie romane, avversarie dei Borgia] e ai loro alleati. Era dunque necessario scardinare quelle alleanze e mettere disordine nei loro territori, per poter stabilire con sicurezza la propria signoria in una parte di quelli. Questo fu facile, perché in quel momento i veneziani, mossi da altre ragioni, si stavano dando da fare per far tornare i francesi in Italia. Il papa non solamente non si oppose, ma rese più facile il disegno sciogliendo il primo matrimonio del re Luigi. Passò dunque il re in Italia con l'aiuto dei veneziani e col consenso di Alessandro; e prima ancora che arrivasse a Milano, il papa ebbe da lui truppe per l'operazione in Romagna, che non incontrò opposizioni proprio perché appoggiata dalla forza e dall'autorità del re.

Il duca, avendo dunque acquistata la Romagna e sconfitti i Colonna, volendo consolidare la sua conquista e procedere ancora oltre, si trovava davanti due impedimenti: primo, le sue armi, che non gli parevano fedeli; secondo, la volontà del re di Francia. Cioè, temeva che le armi degli Orsini, di cui si era valso, gli mancassero sotto i piedi, e non solo gli impedissero di allargarsi, ma gli togliessero quel che aveva acquistato; e che anche il re gli facesse lo stesso. Riguardo agli Orsini, ebbe una riprova [dei suoi timori] quando, dopo l'espugnazione di Faenza, attaccò Bologna, perché li vide andare freddi [= poco motivati] a quell'assalto. Quanto al re, capì la sua posizione quando, preso il ducato di Urbino, attaccò la Toscana, ma il re lo fece desistere. Perciò il duca decise di non dipendere più dalle armi e dalla fortuna di altri.

Per prima cosa indebolì le fazioni degli Orsini e dei Colonna a Roma: tutti i nobili aderenti a quelle famiglie li guadagnò a sé, facendoli uomini della sua sfera e dando loro grandi stipendi, e li onorò con incarichi militari e di governo, secondo il loro grado. In questo modo, in pochi mesi, l'amicizia che legava costoro ai partiti degli Orsini e dei Colonna si spense, e si volse tutta verso il duca.

Poi, aspettò l'occasione di spegnere i capi degli Orsini, dopo aver disperso quelli di casa Colonna. L'occasione gli venne bene, e lui la usò meglio. Essendosi accorti gli Orsini che la potenza del duca e della Chiesa [cioè della famiglia del papa] era la loro rovina, fecero una riunione alla Magione, nel Perugino; da essa nacque la ribellione di Urbino e i tumulti in Romagna e infiniti pericoli per il duca, ma tutti furono superati con l'aiuto dei francesi. E ritornatagli l'autorità, non fidandosi né del re di Francia né di altre forze esterne, per non doverle sperimentare a suo rischio, scelse la via dell'inganno, e seppe così bene dissimulare il suo animo che gli Orsini stessi, mediante il signor Paolo [Orsini], si riconciliarono con lui. A questo intermediario il duca non fece mancare nessun riguardo di cortesia per rassicurarlo, gli diede denaro, vestiti e cavalli; tanto che l'ingenuità degli Orsini li condusse a Senigallia nelle sue mani. Spenti dunque questi capi e ridotti i loro partigiani a suoi amici, il duca aveva gettato fondamenta assai buone al suo potere: possedeva infatti tutta la Romagna e il ducato di Urbino e, soprattutto, gli pareva di essersi guadagnato l'amicizia della Romagna e di tutti quei popoli, perché avevano cominciato a gustare il benessere dovuto al nuovo governo.

E poiché questa parte della vicenda è degna di essere nota e da essere imitata da altri, non la voglio tralasciare. Il duca, dopo aver preso la Romagna, la trovò comandata da signori impotenti, che avevano spogliato i loro sudditi ma non avevano imposto loro una disciplina ordinata, e avevano dato motivo di disunione e non di unione, tanto che quel territorio era tutto pieno di ruberie, di malavita e di ogni altra ragione di disordine; giudicò allora che fosse necessario dare un buon governo, se si voleva rendere quella regione pacifica e obbediente al potere sovrano. Perciò vi mise a capo messer Remirro de Orco, uomo crudele e sbrigativo, al quale diede pienissimi poteri. Costui in poco tempo la rese pacifica e unita, con grandissima autorità. In seguito il duca giudicò non essere necessaria una severità così eccessiva, perché dubitava che divenisse odiosa; e nel centro della provincia istituì un tribunale civile, presieduto da un uomo eccellente, mentre ogni città aveva il suo avvocato. E poiché sapeva che la durezza precedente gli aveva procurato qualche odio, per purgare gli animi di quei popoli da cattivi sentimenti e guadagnarseli del tutto, volle dimostrare che se era avvenuta qualche crudeltà, non era nata da lui, ma dalla natura brutale del suo ministro.  E trovata l'occasione, lo fece mettere sulla piazza, a Cesena, una mattina, diviso in due pezzi, con un ceppo di legno e un coltello insanguinato accanto. La ferocia di quello spettacolo fece rimanere quei popoli nello stesso tempo soddisfatti e sbalorditi.

Ma torniamo da dove siamo partiti. Dico che il duca si ritrovava assai potente e in parte al sicuro dai pericoli contingenti, perché si era creato una propria forza armata e aveva in buona parte spente quelle armi che, se gli fossero state vicine, avrebbero potuto danneggiarlo. Gli restava, volendo procedere con le conquiste, il problema del riguardo che doveva al re di Francia, perché capiva che quello, accortosi tardi del proprio errore, non avrebbe tollerato un ulteriore aumento della sua potenza. E cominciò così a cercare nuove amicizie e a tirarsi indietro dall'alleanza con la Francia, quando i francesi scesero verso il regno di Napoli contro gli spagnoli che assediavano Gaeta. La sua intenzione era di liberarsi degli impegni che aveva con loro, cosa che gli sarebbe riuscita presto, se Alessandro fosse rimasto in vita.

E questi furono i suoi provvedimenti quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, prima di tutto, era in dubbio riguardo al nuovo successore a capo della Chiesa: poteva non essergli amico e cercare di togliergli ciò che Alessandro gli aveva dato. Su questo, pensò di rendersi più sicuro in quattro modi: primo, di spegnere tutti i sangui [= eliminare tutti i discendenti] di quei signori che aveva spogliato, per togliere al [nuovo] papa questa occasione ; secondo, di guadagnare alla sua parte tutti i nobili di Roma, come si è detto, per potere con quelli esercitare un controllo sul papa; terzo, trarre dalla sua parte più che poteva il Collegio cardinalizio ; quarto, acquistare una potenza così forte prima che il papa morisse, in modo da poter resistere con le sue forze ad un eventuale scontro. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte a termine tre, la quarta quasi: dei signori spogliati ne ammazzò quanti poté raggiungere e pochissimi si salvarono; i nobili romani li aveva guadagnati, e aveva dalla sua una grandissima parte del Collegio; quanto all'allargamento del suo potere, aveva disegnato di diventare signore di Toscana, e possedeva già Perugia e Piombino, e aveva preso la protezione di Pisa. E appena non avesse più dovuto aver riguardi per la Francia (e non gliene doveva più avere, perché i francesi erano già stati spogliati del Regno [di Napoli] dagli spagnoli, di modo che ciascuno di loro aveva bisogno di comprare la sua amicizia), saltava dentro a Pisa. E dopo, Siena e Lucca cedevano subito, un po' per odio verso i fiorentini , un po' per paura; i fiorentini, a quel punto, non avevano scampo. Se questo gli fosse riuscito (e gli riusciva l'anno stesso che Alessandro morì) si acquistava tanta forza e autorità che si sarebbe sostenuto da solo, e non avrebbe più dovuto dipendere dalla fortuna e dalla forza di altri, ma dalla potenza e dalla virtù sua. Ma Alessandro morì dopo cinque anni da che aveva cominciato a trarre fuori la spada. Lo lasciò con solo lo stato di Romagna consolidato, con tutti gli altri per aria, tra due potentissimi eserciti nemici , e malato a morte. E c'era nel duca tanta forza e tanta virtù e sapeva così bene come si guadagnano e si perdono gli uomini, ed erano tanto validi i fondamenti che in così poco tempo aveva dato al suo potere, che se lui non avesse avuto addosso quei due eserciti o fosse stato sano, avrebbe retto ad ogni difficoltà. E che i fondamenti fossero buoni si vide: infatti la Romagna lo aspettò più di un mese ; a Roma, anche se mezzo vivo, rimase sicuro; e benché i Baglioni, i Vitelli e gli Orsini arrivassero a Roma, non trovarono seguito contro di lui; poté, se non fare papa chi voleva lui, almeno impedire che fosse chi non voleva. Se al momento della morte di Alessandro fosse stato sano, ogni cosa era facile. E lui mi disse, il giorno in cui fu creato papa Giulio II, che aveva pensato a ciò che poteva succedere alla morte del padre e a tutto aveva trovato rimedio, salvo che non aveva mai pensato di stare anche lui per morire.

Avendo dunque raccolte tutte le azioni del duca, non saprei biasimarlo; anzi mi pare, come ho fatto, di doverlo proporre all'imitazione di tutti coloro che per fortuna o con le armi d'altri sono saliti al potere. Perché lui, avendo un grande animo ed essendo alta la sua intenzione, non poteva comportarsi altrimenti; ai suoi disegni si oppose solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia.

 

 

capitolo XV

Di quelle cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o vituperati.

 

Resta ora da vedere quali debbano essere i modi e i comportamenti di un principe con i sudditi o con gli amici. E perché so che molti hanno scritto su questo argomento, dubito di essere considerato presuntuoso se ne scrivo anch'io, allontanandomi, soprattutto nel discutere questa materia, dalla via seguita dagli altri. Ma poiché il mio intento è scrivere cosa utile per chi l'ascolta, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettiva della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti esistere per davvero. Perché c'è tanta distanza tra come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la sua rovina che la sua conservazione: perché un uomo che voglia in ogni occasione manifestarsi buono, è necessario vada in rovina in mezzo a tanti che non sono buoni. Perciò è necessario a un principe, se vuole mantenersi nel suo stato, imparare a poter essere non buono, e usare e non usare questo potere secondo la necessità.

Lasciando dunque indietro le cose immaginate a proposito dei principi, e conducendo il discorso su quelle che sono vere, dico che quando si parla di qualsiasi uomo, e soprattutto dei principi perché sono posti più in alto, vengono loro attribuite alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o lode. E cioè qualcuno è ritenuto uno che spende volentieri, qualcuno misero (usando un termine toscano, perché avaro nella nostra lingua è ancora colui che desidera avere per rapina, mentre chiamiamo misero quello che si astiene troppo dall'usare i suoi beni); qualcuno è ritenuto largo nel donare, qualcuno rapace; qualcuno crudele, qualcuno pietoso; l'uno fedifrago, l'altro fedele; l'uno effemminato e pusillanime, l'altro aggressivo e coraggioso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, l'altro casto; l'uno integerrimo, l'altro astuto; l'uno duro, l'altro duttile; l'uno ponderato, l'altro leggero; l'uno religioso, l'altro incredulo, e simili.

E io so che ciascuno affermerà che sarebbe una lodevolissima cosa che in un principe si trovassero, tra tutte le qualità soprascritte, quelle che sono considerate buone: ma poiché non si possono avere né osservare interamente, a causa della condizione umana che non lo consente, è necessario che il principe sia tanto accorto da saper fuggire l'infamia di quei vizi che gli toglierebbero lo stato, e da quelli che non glielo tolgono guardarsi se gli è possibile; ma se non ci riesce vi si può lasciare andare con meno preoccupazione. E non si curi neanche di incorrere nell'infamia di quei vizi senza i quali egli difficilmente può salvare lo stato; perché se si considererà bene tutto, si troverà qualcosa che parrà virtù, ma a seguirla sarebbe una rovina, e qualcun altra che parrà vizio, e a seguirla ne risulta la sicurezza e il benessere del principe e dello stato.

 

 

capitolo XVIII

In che modo i principi debbano mantenere la parola data

 

Quanto sia lodevole in un principe mantenere la lealtà e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo capisce: nondimeno si vede per esperienza che, nei nostri tempi, hanno fatto grandi cose quei principi che hanno tenuto poco conto della lealtà, e hanno saputo con l'astuzia raggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla lealtà.

Dovete dunque sapere come ci siano due modi di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza. Il primo è proprio dell'uomo, il secondo delle bestie: ma poiché il primo molte volte non basta, si deve ricorrere al secondo. Pertanto è necessario sapere usare bene la bestia e l'uomo. Questo aspetto è stato insegnato ai principi velatamente dagli antichi scrittori: i quali scrivono che Achille e molti altri principi antichi furono dati al centauro Chirone per essere allevati, perché li custodisse sotto la sua disciplina. Avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo non vuole dire altro se non che bisogna che un principe sappia usare l'una e l'altra natura: e l'una senza l'altra non dura.

Poiché dunque un principe è necessitato a saper usare bene la bestia, deve prendere la volpe e il leone: perché il leone non si difende dai lacci, la volpe non di difende dai lupi. Bisogna dunque essere volpe per conoscere i lacci, e leone per sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente dalla parte del leone non se ne intendono. Un signore avveduto pertanto non può né deve osservare la lealtà, quando tale osservanza gli torni contrario e se sono spente [cessate] le ragioni che gliela fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni questo precetto non sarebbe buono; ma poiché sono malvagi e non la osserverebbero a te, anche tu non la devi osservare a loro. Né mancarono mai a un principe ragioni legittime per dare un bel colore all'inosservanza. Di questo si potrebbero dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante paci, quante promesse sono state rese senza valore e annullate per l'infedeltà dei prìncipi: e quello che ha saputo meglio usare la volpe ha avuto i risultati migliori. Ma è necessario saper dare un bel colore a questa natura, ed essere un grande simulatore e dissimulatore: gli uomini sono tanto ingenui e obbediscono tanto alle necessità del momento, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.

Degli esempi recenti, uno non lo voglio tacere. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare gli uomini e sempre trovò materia per poterlo fare. E non ci fu mai uomo che avesse un'efficacia maggiore quando affermava una cosa, e lo facesse con i maggiori giuramenti, che poi la osservasse meno; nondimeno, gli inganni gli andarono sempre secondo il suo desiderio, perché conosceva bene questo aspetto del mondo.

A un principe dunque non è necessario avere effettivamente tutte le qualità scritte prima, ma è ben necessario parere di averle. Anzi, ardirò dire questo, che se uno le ha e le osserva sempre, sono dannose, mentre se uno sembra averle sono utili; così è utile parere pietoso, leale, umano, integerrimo, religioso, ed esserlo; ma stare disposto nell'animo in modo che, se bisogna non esserlo, tu possa e sappia trasformarti nel contrario. E si deve capire bene questo, che un principe, e soprattutto un principe appena giunto al potere, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono considerati buoni, perché spesso è costretto, per mantenere lo stato, ad agire contro la lealtà, contro la carità, contro la religione. Perciò bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo quanto gli comandano i venti della fortuna e le variazioni delle cose e, come dissi sopra, non si allontani dal bene, finché lo può, ma sappia entrare nel male, se è costretto.

Dunque un principe deve avere gran cura che non gli esca mai di bocca una parola che non sia piena delle cinque qualità prima dette, e sembri, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto lealtà, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non c'è cosa più necessaria da sembrare di avere che quest'ultima qualità. Gli uomini in generale giudicano più con gli occhi che con le mani [= più dalle apparenze che dai fatti concreti]; perché tutti hanno l'opportunità di vedere, pochi quella di sentire [=avere una diretta e reale percezione]. Tutti vedono quello che tu sembri, pochi sentono quello che tu sei; e quei pochi non ardiscono opporsi all'opinione dei molti che abbiano a loro difesa l'autorità dello stato: e nelle azioni di tutti gli uomini, e soprattutto dei principi, riguardo ai quali non ci si può appellare a una giustizia superiore, si guarda al risultato finale. Dunque un principe faccia in modo di vincere e di mantenere lo stato: i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e lodati da tutti; perché il volgo va sempre catturato con le apparenze e con l'esito finale della cosa, e nel mondo non c'è se non volgo; e i pochi non hanno spazio quando i molti sono tranquilli e compatti. Un certo principe dei nostri tempi, che non è bene nominare , non predica mai altro che pace e lealtà, e dell'una e dell'altra è nemicissimo; e l'una e l'altra, se le avesse osservate, gli avrebbero più volte tolto la reputazione o lo stato.

 

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio  I,9

 

Uno solo è atto a ordinare la repubblica, a molti sta mantenerla.

 

Sembrerà forse a qualcuno che io mi sia addentrato troppo in fretta nella storia romana, senza aver fatto ancora alcuna menzione di coloro che ordinarono quello stato né di quegli ordinamenti che riguardano la religione o l'esercito. E perciò, non volendo tenere più a lungo sospesi gli animi di coloro che volessero intendere qualcosa su questi aspetti, dico che probabilmente molti giudicheranno di cattivo esempio che il fondatore di una comunità di cittadini, quale fu Romolo, abbia prima ucciso suo fratello, poi acconsentito alla morte di Tito Tazio Sabino, scelto da lui come compagno nel regno: giudicando, per questi motivi, che i suoi cittadini, autorizzati dall'esempio del loro principe, e spinti da ambizione e desiderio di comandare,  si sentissero in potere di offendere chi si opponesse a loro. E questa opinione sarebbe viva, se non si considerasse quale fine avesse indotto Romolo a fare un tale omicidio.

Si deve prendere per regola generale questa: non accade mai o di rado che una repubblica o un regno sia ordinato bene sin da principio, o riformato completamente rispetto ai vecchi ordinamenti, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dà l'impostazione e dalla cui mente dipende ogni ordinamento. Perciò, un ordinatore prudente, e che abbia in animo di giovare non a sé ma al bene comune, non alla propria dinastia, ma alla patria comune, deve ingegnarsi di avere l'autorità (= il potere) da solo; e mai un uomo intelligente e saggio biasimerà qualcuno per qualche azione straordinaria, compiuta per ordinare un regno o costituire una repubblica. E' evidente che, mentre il fatto lo accusa, l'effetto lo scusa; e quando l'effetto sia buono come quello di Romolo, lo scuserà sempre: perché bisogna biasimare chi è violento per guastare, non chi è violento per rimettere in sesto. L'ordinatore di uno stato deve essere tanto prudente e virtuoso da non lasciare ereditare a un altro quel potere che ha preso; perché, essendo gli uomini più inclini al male che al bene, il suo successore potrebbe usare ambiziosamente ciò che lui ha usato virtuosamente. Inoltre, se è vero che un singolo uomo è adatto ad ordinare uno stato, è anche vero che ciò che ha ordinato non durerà molto se rimane sulle spalle di uno solo, ma invece sì quando rimane affidato alla cura di molti e sta a molti il mantenerlo. Infatti, come una moltitudine non è adatta a ordinare uno stato, perché non conosce qual è il bene dello stato, così, dopo averlo conosciuto, non si mette d'accordo per abbandonarlo. E che Romolo fosse di quelli che meritano scusa per la morte del fratello e del compagno, e che quello che fece lo abbia fatto per il bene comune e non per ambizione propria, lo dimostra l'aver subito costituito un Senato, per consigliarsi e prendere decisioni secondo la sua opinione. E chi considererà bene il potere che Romolo si riservò, vedrà che si era riservato solo quello di comandare l'esercito in caso di guerra e quello di riunire il Senato. In seguito, quando Roma divenne libera dopo la cacciata dei Tarquini, i romani non rinnovarono nessun ordinamento antico, se non che al posto di un re a vita misero due consoli annuali. Questo testimonia che i primi ordinamenti di quella città erano più conformi a una comunità di cittadini liberi che a un regime assoluto e tirannico. (...)

Considerate dunque tutte queste cose, concludo che per ordinare uno stato è necessario che ci sia un uomo solo; e che Romolo per la morte di Remo e di Tito Tazio merita scusa e non biasimo.

 


VERIFICA DI ITALIANO

classi quarte

15 novembre 1996

 

Da "Il Principe", cap. XVIII

 

 

            A uno principe adunque non è necessario avere in fatto le soprascritte qualità, ma bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole e osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l'animo che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi a intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.

            Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli difenda: e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda la fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati: perché il vulgo ne va sempre preso con quello che pare e con lo evento della cosa, e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi.

 

 

1.         Parafrasa in italiano moderno il testo da "E hassi..." a "...necessitato".

            Abbi cura che la parafrasi risulti corretta linguisticamente, aderente al pensiero di Machiavelli e chiara per il lettore moderno.

 

2.         Cosa intende Machiavelli con "principe nuovo"?

            Tale principe nuovo è l'oggetto privilegiato della trattazione del Principe. Sai indicare le ragioni storiche di questa scelta?

 

3.         Spiega con le tue parole la seguente espressione:

            «E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani».

            Questa frase può essere considerata caratteristica dello stile di Machiavelli, che abbonda di metafore concrete, corporee. Sai fare altri esempi di questa predilezione stilistica?

 

4.         Spiega con le tue parole l'espressione:

            «nel mondo non è se non vulgo».

 

5.         Componi un testo su uno dei due seguenti argomenti, a tua scelta.

 

a.         Il brano riportato, come in generale tutto il Principe, suscita inevitabilmente il problema del rapporto tra politica e morale nel pensiero di Machiavelli. Facendo riferimento anche ad altri testi da te studiati, esponi la posizione di Machiavelli su tale questione ed esprimi in merito la tua opinione, anche riconducendo il discorso, se lo ritieni opportuno, al nostro tempo.

 

b.         Il testo del Principe che hai letto è centrato sulla contrapposizione tra parere ed essere.

            Ritieni che l'analisi e le conclusioni di Machiavelli possano stimolare una riflessione anche sulla nostra attualità?

Verifica di recupero di italiano

Quarta S.M.

23.11.1996

 

 

dal Principe, cap. XXV

 

E' non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbano iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne' nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io qualche volta mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro.

Nondimanco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s'adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.

Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché s'ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grande che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali.

 

1.         Parafrasa in italiano moderno il testo da "E' non mi è incognito" a "inclinato nella opinione loro".

            Abbi cura che la parafrasi risulti corretta linguisticamente, aderente al pensiero di Machiavelli e chiara per il lettore moderno.

 

2.         Cosa significa libero arbitrio ?

 

3.         Cosa significa per Machiavelli la parola virtù ?

 

4.         Nel brano che hai letto, Machiavelli definisce l'Italia "sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto". A quali eventi si riferisce l'autore ?

 

5.         La prosa del Principe è ricca di metafore che danno concretezza visiva ai concetti trattati: nel brano che hai letto si vede questo procedimento nella similitudine del fiume in piena. Sai fare altri esempi di metafore di questo genere presenti nel Principe ? Ricordi, in particolare, un'altra similitudine dedicata alla fortuna, nello stesso cap. XXV ?

 

              E' un verso del Trionfo dell'eternità di Petrarca. La citazione è scherzosa, e si riferisce, come appare subito chiaro, al lungo tempo trascorso prima di ricevere l'ultima lettera dell'amico: la sua lettera giunge gradita, anche se si è fatta attendere.

              Il testo dice: non fussi buon massaio delle vostre lettere; cioè "le avessi fatte leggere ad altri".

              Filippo Casavecchia, amico sia del mittente che del destinatario, e Paolo Vettori, fratello di Francesco.

              Di ambasciatore a Roma.

              M. era stato accusato di aver fatto parte di una congiura contro i Medici e per questo arrestato e torturato; poi, riconosciuto innocente, lasciato libero.

              panie: trappole spalmate di una sostanza appiccicosa per prendere gli uccelli.

              il Geta ... Anfitrione: Geta e Birria era una novella popolare tratta dalla commedia Anfitrione di Plauto; in una scena comica Geta, schiavo di Anfitrione, trasporta un enorme carico di libri dal porto alla casa del padrone.

              perditempo... acido: nel testo originale: questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano.

              cricca: un gioco di carte.

            Nel testo originale c'è la congiunzione latina tandem.

            Pare di capire che tutta la famiglia di Tommaso del Bene si sia data molto da fare per accatastare stretto il mucchio di lagna, al fine di pagarlo meno: mezza catasta, invece di una intera.

            Gaburra: evidentemente si tratta di un macellaio di Firenze.

            Battista Guicciardini era podestà di Prato quando venne saccheggiata dagli spagnoli, nel 1512. Secondo questo conoscente di M. e di Vettori, la mancata consegna della catasta di legna è un'altra sciagura che si abbatte su Prato.

            Sono considerati poeti minori quelli che trattano argomenti leggeri, come l'amore. Tali sono appunto i due poeti latini Tibullo e Ovidio.

            Il soggetto di mi calpesti e di finisca per vergognarsi è sempre la sorte. La personificazione della fortuna, con la quale gli uomini intrattengono una specie di perenne "corpo-a-corpo", è frequente nella scrittura di M.

            curie: corti.

            umanità: è parola molto usata dagli scrittori del Quattrocento, e significa insieme grandezza d'animo, cortesia, condiscendenza.

            Non fa crescere il sapere, non serve a nulla, aver capito senza aver trattenuto nella memoria. Paradiso V, 41-42.

            Giuliano: figlio di Lorenzo il Magnifico, governò Firenze dopo il ritorno dei Medici nel 1512. Dopo la sua morte (1516) il Principe fu dedicato a Lorenzo de' Medici.

            Dubbio se sia opportuno raggiungere il Vettori a Roma.

            Bargello: la prigione di Firenze.

            nuovo: di recente formazione; i Medici erano tornati al potere da un anno quando M. scrive questa lettera.

            La frase non è del tutto chiara e non si sa chi fosse Pagolo Bertini. Sembra che sia da intendere: "non mancano degli zelanti che, per farsi belli, manderebbero uno (come me) all'albergo (= in prigione), lasciandomi poi a pensarci da solo a cavarmela".

            Ardinghelli: segretario del papa Leone X (Giovanni de' Medici), ostile a M.

            Virtù assume nel linguaggio di Machiavelli notevole varietà di significati e di sfumature: è di volta in volta la forza, la capacità insita in qualcosa a produrre effetti determinati (dynamis, potentia); oppure è l'attitudine a vivere dell'organismo umano, influendo concretamente sulla realtà; o è l'energia vitale come libero volere di fronte alla fortuna o alla "corruzione"; eccellenza, virilità, pienezza d'animo (areté, virtus).

            Il Valentino fece strangolare quattro capi del partito degli Orsini; mentre a Roma il papa faceva incarcerare altri membri della fazione rivale.

            Per evitare che i discendenti di chi era stato danneggiato da Cesare Borgia chiedessero al nuovo papa il ripristino dei loro antichi diritti familiari, fornendo così un pretesto ai nemici dei Borgia.

            E' l'organo ecclesiastico cui compete l'elezione del papa alla morte del precedente.

            Siena e Pisa erano sotto il dominio di Firenze, per odio al quale, secondo Machiavelli, avrebbero preferito passare sotto il Valentino.

            Lo spagnolo a Gaeta e il francese a Roma.

            Le città della Romagna si sottomisero a Giulio II, papa successore di Alessandro VI, solo quando seppero che il Valentino era nelle mani degli spagnoli.

            Machiavelli allude al re di Spagna, Ferdinando I

 

Fonte: http://quattrosecoli.files.wordpress.com/2012/09/niccolc3b2-machiavelli.doc

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