Codice Napoleonico riassunto
Codice Napoleonico riassunto
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Codice Napoleonico riassunto
La codificazione napoleonica
Capitolo I
Da Termidoro a Brumaio: verso il Code Napoléon
Il capitolo parte con una domanda sulla quale ancora oggi si discute: il “code civil” rappresenta l’opera di quattro anni o di quattro secoli? E’ l’opera di un solo uomo o il capolavoro complessivo di più eroi?
Certamente occorreva sciogliere i legami che univano il Code civil con la Rivoluzione: esso andava presentato, pertanto, come creazione esclusiva di Napoleone.
Un’altra cosa è altrettanto certa. Il testo del 1804 affonda le sue radici nel clima politico-culturale post termidoriano. Il Code civil, nonostante si sia cercato di tacere del lungo travaglio che conduce al testo del 1804, rappresenta davvero il frutto finale di un’opera collettiva realizzata nell’arco di un decennio.
Per voler essere più chiari: il codice del 1804 non può essere concepito, unicamente e riduttivamente, quale manifestazione della volontà di un solo uomo. Esso rappresenta invece, nel bene e nel male, il risultato del lavoro di molti “eroi”, colti e tecnici, che, come vedremo, hanno progettato quel codice che tuttora resta un mito della codificazione.
E’ il 10 Termidoro anno II. Occorre ritornare alla normalità dopo il Terrore: bisogna eliminare l’eredità del regime giacobino.
Occorre ricostruire la società stessa ed il primo luogo da riedificare è la famiglia. “Nessuno può essere un buon cittadino se non è un buon padre, un buon marito, un buon figlio”.
La famiglia rappresenta la stabilità, per cui si crea un attacco reazionario alla legislazione giacobina: sono presi di mira il divorzio, che si pensa ottenuto con troppa facilità, la figura del pater familias, che, ubbidito dai figli e dalla moglie, deve essere ricollocato al vertice del governo domestico, e infine la figura dei figli naturali, che devono essere distinti dai legittimi (alcuni pensano di reintrodurre il termine “bastardi” per loro).
E’ questo il clima psicologico, culturale e politico entro il quale Cambacérès e i suoi colleghi si apprestano ad elaborare il terzo progetto di codice civile, presentato in aula il 12 giugno 1796.
Questo nuovo testo, che si presenta subito più accurato e meno compendioso rispetto ai precedenti, conserva alcuni istituti già introdotti dalla legislazione rivoluzionaria: il divorzio, visto sempre come diritto di libertà dell’individuo; il divieto di esercizio dell’azione di riconoscimento della paternità; l’atteggiamento di sfavore nei confronti del testamento. Nello stesso tempo però, impone al solo marito la gestione della comunione familiare, e cosa ancora più reazionaria, ritorna a segnare un profondo solco tra figli legittimi e figli naturali. I primi hanno diritto, se riconosciuti dopo il matrimonio e in concorso coi legittimi, a metà della porzione ereditaria spettante a questi ultimi (basti pensare che prima l’eguaglianza tra di naturali e legittimi era stata salutata come un atto di giustizia !!). Anche l’adozione viene ridimensionata: possono adottare solo i coniugi senza figli. Il divorzio si può ottenere solo dopo quattro mesi ed infine nella disciplina delle successioni la facoltà di disporre viene ampliata in linea collaterale.
Il progetto dunque segna un “dichiarato ritorno all’antico”. Anche stavolta però mostra essere superato dagli eventi: i deputati appaiono desiderosi di affrontare solo le questioni in materia di divorzio e di filiazione naturale. Cambérès, deluso, getta la spugna.
Il suo progetto, però, sarà tenuto in molta considerazione negli anni a venire.
Abbiamo notato come nascono alcune radici teoriche di quello che sarà il code Napoleon: ostilità verso il divorzio e figli naturali, rinnovato favore per il testamento e riaffidamento della gestione familiare al solo marito. Sono gli anni che vanno dal 1794 al 1797.
Dal 1797 l’idea del codice civile viene abbandonata momentaneamente.
“Il progetto di codice generale non può dunque ragionevolmente fissare l’attenzione del Corpo legislativo” dice Portalis, il giurista che poi sarà scelto da Napoleone per portare a termine l’impresa codoficatoria, l’artefice del Discorso preliminare al codice napoleonico.
Spostiamoci ora nel campo del diritto penale.
Si sente l’assoluta necessità di riformare il codice penale del 1791. Il testo di Lepeletier è giudicato troppo lacunoso, mite e utopistico: occorre abolire il principio della temporaneità delle pene e potenziare gli aspetti intimidatori.
“E’solo attraverso l’idea di una morte cruenta e disonorevole che bisogna colpire il delinquente” dicono in molti: l’aspetto umanitario e garantistico del codice penale sembra oramai lontano.
E’ un conclamato ritorno all’ancien régime.
Anche il diritto processuale è preso di mira ed è soprattutto l’istituto della giuria ad essere posto sotto accusa: i giurati, minacciati non si presentano al processo o assolvono l’accusato.
L’allarme sociale è alto e i deputati si fanno carico dell’inquietudine dell’opinione pubblica.
Cerchiamo di capire le cause di questo riflusso conservatore.
Siamo di fonte a molti politici che hanno vissuto la terribile esperienza del Terrore, che li ha segnati nell’anima: il loro, pertanto, è un giudizio di dolore.
Il 1789 aveva costituito l’avvio della felicità, ma ben presto si è passati dall’illusione al disincanto.
Si ritorna a respirare il pensiero di Hobbes: “tutto è preda di tutti”.
L’esaltazione del “buon selvaggio” era stata pura fantasticheria. Un illusione riformare e rieducare l’uomo, attraverso le leggi, a riacquistare la propria natura; una pura follia credere di rigenerarlo con lo strumento della legislazione. Occorre invertire la rotta: l’uomo è “naturalmente” malvagio.
E’ il giudizio negativo sulla natura umana e sulla pura bontà dell’uomo, che non è solo dei giuristi. In questo periodo, infatti, gli Idéologues, stanno conducendo una violenta campagna contro Rousseau e contro il suo “contratto” (mentre elogiano Machiavelli). Per loro, l’uomo selvaggio non è per niente buono.
Il più illustre fra gli idéologues, Cabanis, studia la natura umana attraverso l’analisi (analyse).
Per Cabalis ogni fenomeno umano deve essere ricondotto alla fisiologia, alla corporeità.
La condotta dell’uomo, però, può variare in base al sesso, al clima e soprattutto in base all’abitudine. L’uomo, infatti, disposto all’imitazione, è generalmente portato ad imitare e a reiterare certi comportamenti. Pertanto, il maestro attraverso le pratiche pedagogiche ed il legislatore, attraverso la tecnica legislativa, possono educare e governare l’uomo condizionandone le abitudini. La figura del legislature quindi assume grande importanza perché può programmare la condotta dell’uomo: è lui il Grande Burattinaio, mentre l’uomo è la marionetta.
In questo periodo iniziano anche ad essere divulgate le idee del filosofo inglese Bentham.
Dice Bentham: “Il legislatore deve guidare la condotta dei cittadini sfruttandone gli automatismi psichici”. Per capire a cosa allude occorre fare l’esempio del padre che fa testamento.
Il padre può servirsi del testamento per ottenere rispetto e gratitudine dai figli, attraverso la logica del binomio pena/ricompensa. Poco importa se i sentimenti di devozione filiale siano indotti da un calcolo utilitaristico, ciò che conta è che la disponibile serva a dirigere le inclinazioni degli uomini e far loro acquisire nuove e buone abitudini.
Per chiarire meglio: il legislatore è chiamato ad orientare la condotta dell’ uomo sfruttandone le pulsioni, tenendo conto che il motore principale dell’agire individuale è l’interesse.
Per far questo, però, occorre che la legge sia formulata in maniera chiara e semplice e sia dotata del requisito di “completezza”, cioè che si presenti come unica forma di diritto.
Ritorniamo ai progetti di codice civile.
E’ il 1798 e il traguardo della codificazione civile sembra raggiungibile. Una nuova commissione, presieduta da Jean-Ignace Jacqueminot, viene costituita: essa lavorerà per gradi, approvando una legge per volta (allo stesso modo opererà il legislatore napoleonico).
Prima di parlare del lavoro di questa equipe, è opportuno prendere in considerazione i tentativi fatti, in questo periodo, a titolo personale da alcuni tecnici del diritto.
Il primo di siffatti progetti viene compilato da Guy-Jean Baptiste Target, colto e celebre avvocato già dai tempi dell’ancien régime, aperto alla cultura dei lumi.
In lui si nota il clima post-termidoriano: differenze tra figli legittimi e naturali; autorità genitoriale, col potere di far incarcerare i figli indocili; la donna incapace di agire; i figli minori di 25 anni devono avere l’autorizzazione dei genitori per sposarsi; adozione solo per i coniugi senza figli; il divorzio scoraggiato e disincentivato. Possiamo parlare dunque di un diritto di famiglia all’insegna della reazione.
La proprietà è sacra ed inviolabile, ma sorvegliata (è la tendenza che si consoliderà nel regime napoleonico).
E’ reintrodotto il carcere per i debiti.
Il legislatore deve servirsi delle pulsioni degli individui per orientare la condotta sociale. Deve entrare nel cuore degli uomini e le leggi devono rendere questi meno infelici e più utili alla società. Il legislatore deve attenersi, pertanto, solo al criterio dell’utilità.
Alla figura di Target si può affiancare quella di Jean Guillemot (personaggio già noto poiché ha fatto parte della commissione che ha redatto il terzo progetto di Cambacérès). Questi, rifacendosi a Bentham, afferma che se l’ordine regna nelle famiglie, sarà facile introdurlo anche nello Stato: occorre pertanto ristabilire la patria potestà e il testamento. L’uomo, per Giullemot, è dominato dall’egoismo, dalla ricerca del piacere, dalla violenza delle passioni e si muove solo per interesse personale. Il legislatore deve saper sfruttare questa cupidigia a favore dell’interesse pubblico.
Il testamento come mezzo ricattatore per ottenere rispetto e se ciò non basta la diseredazione: manovre squallide per il padre, ma utili.
E per finire occorre allargare il solco tra figli naturali e figli legittimi.
Ritorniamo a parlare del progetto Jacqueminot.
E’ il 21 dicembre 1799, un mese dopo il colpo di Stato del 18 Brumaio (9 novembre).
Jacqueminot presenta alla Commissione legislativa dei Cinquecento un parziale ma corposo progetto di codice civile, che rappresenta il lavoro della Commissione del 1798. Nove titoli e circa novecento articoli preceduti da un rapporto.
Nonostante sia un progetto incompleto (in quanto si sostanzia nella disciplina del diritto di famiglia, delle successioni e delle donazioni) e in più non sottoposto a discussione, esso può essere considerato il più rilevante contributo post-termidoriano alla codificazione civile, in quanto la maggior parte delle disposizioni in esso contenute saranno trasfuse, al limite con qualche ritocco, nel code civil.
Lo affermerà Portalis nel discorso preliminare al progetto napoleonico: “Gli utili lavori della Commissione Jacqueminot hanno indirizzato ed abbreviato i nostri”.
Occupiamoci ora del contenuto di questo progetto di codificazione.
Secondo Jacqueminot i tempi nuovi impongono la creazione di “abitudini virtuose”, richiedono l’adozione di misure legislative volte a rendere gli uomini “più facili da dirigere”.
La pace dello Stato è garantita dall’unione delle famiglie ed occorre pertanto mettere un termine allo scandalo dei continui divorzi: sono le parole usate nella presentazione del suo progetto.
Ritroviamo i canoni reazionari: restituzione della patria potestà, con possibilità di far incarcerare il figlio ribelle; il testamento per ottenere il rispetto dei figli, secondo la logica utilitaristica; la donna, in consonanza con l’atmosfera mentale e culturale del momento, posta in un soffocante stato di incapacità d’agire (non può stare in giudizio senza l’assistenza del marito, non può testare, non può donare, non può alienare o accettare senza il consenso del marito, deve seguirlo ovunque egli ritenga opportuno stabilirsi).
Per ciò che concerne il testamento, ora la quota disponibile è innalzata ad un quarto (con Cambacérès era solo un decimo).
Possiamo affermare, a questo punto, che è grazie a questo gruppo di giuristi ( Cambacérès, Target, Guillemot, Jacqueminot) se il “code Napoleon”si colloca ad un livello di assoluta eccellenza tecnica, superando per precisione, chiarezza e rigore i codici d’area germanica contemporanei.
In conclusione possiamo dire che a partire da Termidoro prendono via via corpo taluni programmi di politica di ispirazione tipicamente reazionaria rispetto alla legislazione giacobina. Uomini di legge profondamente segnati dal Terrore, che hanno maturato convinzioni irrimediabilmente pessimistiche: Hobbes, col suo “Leviathan” offre la più convincente risposta al loro disorientamento spirituale.
Come abbiamo potuto notare il code civil non nasce dunque da un progetto, ma dai progetti dei quattro giuristi prima citati.
La codificazione napoleonica, pertanto,comincia spiritualmente prima di quanto si sia in genere abituati a pensare: il suo fondale ideologico è Termidoro.
Capitolo II
Il code civil
Il 18 Brumaio anno VIII (9 novembre 1799) si consuma il colpo di Stato. Napoleone rappresenta l’uomo d’ordine che la Francia aspetta dal 1795. Reputato uno “strumento docile” dai sostenitori del colpo di Stato, il Generale invece si mostra subito per quello che è: dittatore, orgoglioso e senza scrupoli. Sa manipolare le speranze e le paure degli altri con le lusinghe, l’intimidazione o la forza. Un uomo che capisce subito l’importanza di legare a sé gli uomini.
Poiché ha compreso l’importanza di raccogliere attorno a sé gli uomini di legge, Napoleone sceglie con oculatezza i suoi fedelissimi. Sono stati professionisti della giustizia durante l’ancien régime ed hanno lo stesso “corredo cromosomico”: sono stati ad un passo dal patibolo durante il Terrore; sono contrari all’idea dell’uomo buono; ritengono essenziale il ripristino della sicurezza e dell’ordine.
Citiamo quattro famosi membri della commissione napoleonica: Jean-Etienne Marie Portalis, Jacques Maleville, Felix Bigot de Préameneu, François Tronchet. Napoleone, inoltre, mantiene nelle loro cariche presso il Tribunale di Cassazione anche alcuni famosi giuristi che si erano compromessi con la Rivoluzione: è il caso di Cambacérès, Merlin ed altri che ora di colpo esibiscono le vesti dei “reazionari” convinti.
Tra Napoleone e i giuristi si crea un’autentica alleanza. Napoleone vuole istituzionalizzare il suo potere, i giuristi ambiscono al ritorno del loro ruolo sociale perso con la Rivoluzione.
I giuristi sollecitano il ripristino della tradizione: patria potestà, potestà maritale, testamento. Sollecitano, in definitiva, il ribaltamento della legislazione giacobina.
Le rispettive aspirazioni convergono nell’idea del code civil. Per Napoleone ciò è il mezzo per glorificare il suo trionfo, per i giuristi è il ritorno ad un monopolio di ceto. In più esso rappresenta stabilità sociale e salvataggio della tradizione giuridica. Occorre, sia per Napoleone che per i giuristi, sigillare nel code civil ciò che di positivo e di utile la Rivoluzione ha portato con sé: i postulati di libertà ed uguaglianza di fronte alla legge vi vengono proclamati.
Vediamo ora le tappe che porteranno alla promulgazione, il 21 marzo 1804, del code civil.
Il 12 agosto 1800 (24 Termidoro anno VIII) Napoleone, primo Console, incarica Tronchet, Bigot Premeneu, Portalis e Maleville di approntare “il più velocemente possibile” il codice civile. Hanno a disposizione quattro mesi, ma anche i progetti sino ad allora elaborati ed in particolare quello di Jacqueminot, che ripropongono con qualche minima variazione lessicale.
Nel mese di gennaio 1801 il progetto è pronto.
Solita tripartizione gaiana, 2400 articoli circa, con il diritto di famiglia all’insegna della reazione. Restaurata la patria potestà; la moglie sottomessa al marito; disparità fra figli legittimi e figli naturali. A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore virata conservatrice: l’adozione non è ammessa ed il divorzio concesso solo in pochissimi casi, previsti dalla legge. Il regime ipotecario è improntato sulla generalità e sulla segretezza.
Importantissima è la disposizione che affronta il problema del rapporto tra il codice e il diritto anteriore. Leggiamola:
“A partire dalla pubblicazione del presente codice il diritto romano, le ordinanze, le consuetudini generali o locali, gli statuti, i regolamenti cesseranno di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che costituiscono oggetto del presente codice, conformemente a quanto illustrato nel libro preliminare”.
L’iter legislativo previsto dalla Costituzione dell’anno VIII prevede che il progetto di legge sia discusso prima presso il Consiglio di Stato, sotto la direzione dei Consoli, poi presso il Tribunato, composto da 100 membri, che lo discute ed emette un parere. Infine passa al Corpo Legislativo, di 300 membri, che lo approva o lo respinge, senza discuterlo o modificarlo: dopo aver ascoltato le relazioni dei consiglieri di Stato e dei tribuni ciascuno si esprime con un si o con un no.
Importante è il ruolo dei consiglieri di Stato, che discutono e limano il progetto elaborato dal famoso quartetto.
Napoleone vi partecipa spesso. Dirà nel memoriale di Sant’Elena: “la mia vera gloria non è nelle battaglie vinte, bensì nel mio codice, che vivrà in eterno”.
L’iter formativo del code civil si rileva alquanto difficoltoso, poiché il Tribunato e il Corpo Legislativo respingono alcuni titoli del codice.
Bonaparte non si perde d’animo e procede all’epurazione dei deputati più riottosi. In questo modo il codice così può procedere sino alla sua approvazione del 21 marzo 1804.
Non si può parlare del code civil se non si parla e si analizza il celebre discorso preliminare al codice di Portalis.
Ha scritto il Beignier: “il discorso preliminare non espone come si crede abitualmente le idee contenute nel Codice, ma piuttosto quelle che il suo autore avrebbe voluto vedervi dentro”.
In tutti i modi soffermiamoci su quei passaggi del discorso che mettono in luce il desiderio del Portalis di ricucire le ferite provocate dalla Rivoluzione tentando di conciliare, mediare tra il vecchio e il nuovo.
Il nostro giurista, definito il filosofo della Commissione, conosce i classici e soprattutto apprezza Montesquieu, il pensiero del quale viene riadattato alle contingenze del momento.
Nelle parole del Portalis il codice rappresenta l’architrave della nuove società francese. Una società squassata dalla Rivoluzione, o meglio da quella parte della Rivoluzione che ad un certo punto ha perso di vista i diritti dell’uomo. In altre parole, durante al fase più radicale della rivoluzione il diritto privato è stato asservito alla ragion di Stato, concepito come diritto pubblico.
Dice Portalis: “Ora la Francia respira e Napoleone è il pacificatore”.
Napoleone ed il codice sono così saldati insieme: il primo ha portato la pace, il secondo la garantirà.
In che rapporto si pone il code civil rispetto alla realtà presente, passata e futura?
Qui Portalis compie una mediazione con le sue personali convizioni.
Sì al codice, ma ad una condizione. Non si può non approfittare dell’esperienza del passato e di questa tradizione di buon senso, di regole e di massime, che è arrivata sino ai nostri giorni e che costituisce lo spirito dei secoli.
Ciò che un tempo era nuovo oggi è antico. “L’importante è imprimere alle nuove istituzioni quel carattere di permanenza e di stabilità che possa loro garantire il diritto di divenire antiche”.
Una seconda condizione per redigere un codice: non avere l’ambizione di poter disciplinare e prevedere tutto. Poiché le lacune saranno inevitabili, solo in questo caso si potrà ricorrere al diritto naturale e alle consuetudini.
E il rapporto tra codice e giudice?
Partendo dal presupposto che il codice non possa provvedere a tutti i casi possibili, il giudice-interprete, “arbitro illuminato e imparziale” potrà decidere secondo equità.
Rassicurando gli interlocutori che non vogliono cancellare tutti i princìpi della Rivoluzione, Portalis evidenzia come sia indispensabile la figura dell’interprete per la società e per il funzionamento del codice stesso.
Quanto alla struttura del code Napoléon, esso si articola in 2281 disposizioni ripartite in un titolo preliminare e in tre libri. Nel primo viene regolata la materia dei diritti personali, del matrimonio, della filiazione, dell’adozione e della tutela; il secondo contiene la disciplina dei beni, della proprietà, dell’usufrutto, uso abitazione e delle servitù; il terzo raggruppa la normativa sulle successioni, sulle donazioni tra vivi e il testamento, i contratti e le obbligazioni, le garanzie reali delle obbligazioni, i delitti e i quasi delitti, i rapporti patrimoniali fra coniugi, i singoli contratti, l’espropriazione forzata e le cause di prelazione tra i creditori, la transazione.
Lo stile è asciutto e conciso (la sua concisione è stata elogiata persino dal celebre Stendhal).
Sul problema delle fonti i tecnici della codificazione civile cercano di realizzare una tendenziale unità fra esperienza giuridica dei paesi di droit écrit con quella delle regioni di droit coutumier.
“Un compromesso per non rompere l’unità del sistema e non urtare tutto lo spirito generale”, scrive Portalis.
A proposito del rapporto tra giudice e legge, l’art 4 del code civil dispone che “se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di denegata giustizia”. Il giudice quindi è obbligato a decidere.
Ma come deve comportarsi nel caso di una fattispecie nuova o di una lacuna realmente esistente?
Deve far ricorso all’equità, vista come ritorno al diritto naturale o agli usi accolti dalla legge positiva. Ma questo significa far ritorno all’arbitrio giudiziale dell’ancien régime: per scongiurare tale pericolo la Commissione ha predisposto adeguate contromisure al riguardo.
Il giudice pur ricorrendo al diritto naturale è vincolato alla norma. Non può pronunciarsi per via di disposizione generale: la sentenza ha efficacia solo fra le parti.
Il giudice deve cogliere il genuino significato della norma nella sua applicazione al caso concreto, ma (art 5) se la legge è chiara deve attenersi alla lettera senza pretese di penetrarne lo spirito. L’art 7 vieta al giudice di ammettere eccezioni che non siano espressamente previste dalla legge.
Tuttavia, le disposizioni che visualizzano il giudice come ministro di equità sono cassate. Portalis cerca di difendere le sue posizioni, ma deve fare marcia indietro cercando di chiarire che l’equità a cui fa riferimento si riduce, in sostanza, ad un’equità che si ricava dalla legge.
L’art. 4 viene ad assumere pertanto un aspetto squisitamente legalistico: circostanza che fa eclissare il diritto naturale e fa decollare il positivismo giuridico.
Così scrive Norberto Bobbio: “l’art 4 viene interpretato nel senso che si debba sempre ricavare dalla legge stessa la norma per risolvere qualsiasi controversia”.
Analizziamo ora il contenuto del codice guardando innanzitutto al diritto di famiglia e a quello successorio. La Rivoluzione, come ben sappiamo, si era scagliata contro la patria potestà ed il testamento. La patria potestà era stata vista come una limitazione della libertà dei figli, sottomessi al soffocante potere del padre, ed il testamento come strumento di ricatto effettuato dal padre per tenere a freno i figli indocili: il figlio indocile rappresentava “l’enfant” della Rivoluzione, mentre il padre il nemico di essa. La stessa Rivoluzione aveva abbattuto i privilegi dei figli maschi rispetto alle femmine, del primogenito rispetto ai cadetti, dei figli legittimi rispetto a quelli naturali. Crollato il potere maritale era nato il divorzio, reso possibile, oltre che per le sette cause riconosciute dalla legge, anche dal semplice consenso, o dalla incompatibilità d’umore o di carattere, o da una separazione superiore ai sei mesi.
Orbene, nel Codice del 1804 ritroviamo molte delle disposizioni rivoluzionarie (diritto civile, divorzio, uguaglianza successoria dei figli e diritto di costoro ad una quota legittima sull’eredità), ma Napoleone realizza una rigorosa restaurazione della patria potestà, la puissance paternelle, vista come tramite d’autorità fra società ed individuo. Dice il Portalis: “La patria potestà è una sorta di magistratura. Il padre riassume i poteri direttivi e correttivi sino alla facoltà di far incarcerare il figlio ribelle. Inoltre, occorre la necessaria autorizzazione dei genitori per il figlio minore dei venticinque anni che vuole contrarre matrimonio”.
Anche il testamento rinasce. Al padre è riconosciuta dal codice la facoltà di disporre di una parte del proprio patrimonio (variabile sondo i figli: ½ dell’asse ereditario se alla successione concorre un figlio solo, 1/3 se due figli, ¼ se più figli). Con siffatta quota disponibile il padre riacquista il potere di poter premiare il figlio virtuoso.
L’arretramento rispetto alla Rivoluzione si manifesta anche su altri fronti.
Per difendere la famiglia legittima si riapre la disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali. Questi ultimi sono fuori dalla società ed è scoraggiato il loro riconoscimento da parte del padre (alla società non interessa che siano riconosciuti i “bastardi”, affermerà Napoleone). Tuttavia, a loro è riconosciuta, se legalmente riconosciuti, solo 1/3 della quota spettante al figlio legittimo se concorrono con altri figli legittimi (in caso contrario la quota è più alta).
Il divorzio, visto come rimedio estremo, è ridimensionato. Esso è ammesso solo in pochi casi tassativamente previsti dalla legge. In particolare il codice ne ammette tre: l’adulterio (diverso se a commetterlo è l’uomo o la donna); condanna a pena affittiva o infamante; eccessi, sevizie o ingiuria grave. Il divorzio per mutuo consenso può essere chiesto solo dopo due anni di matrimonio ed escluso dopo vent’anni dall’istituzione del vincolo. Non possono chiederlo gli uomini minori di 25 anni e le donne minori di 21, o se la moglie ha raggiunto i 45 anni. Occorre il consenso dei genitori o degli ascendenti di entrambi gli sposi; il consenso deve essere manifestato quattro volte nell’anno ed infine i divorziati potranno risposarsi solo dopo tre anni, con l’obbligo di riservare ai figli la metà dei beni familiari. Come si nota, tutto questo scoraggia totalmente lo scioglimento coniugale.
Ed ora la potestà maritale: l’obbedienza della moglie al marito è un “omaggio reso al potere che la protegge”. La donna è incapace d’agire per la sua stessa costituzione. Le è impedito ogni atto giuridico di qualche importanza economico-sociale senza l’autorizzazione dl marito. Il domicilio è quello del capo, del marito. Il marito amministra tutto, i beni e i costumi della moglie. Essendo più “forte”deve proteggere il più debole. “La moglie si muove all’ombra del marito”.
Se la moglie commette adulterio, il marito invoca questa causa per il divorzio; se a tradire è l’uomo, la moglie può chiedere il divorzio solo se il marito introduce la concubina nella casa familiare. Il tradimento della donna, presupponendo che produca effetti più pericolosi, è punito con la reclusione in una casa di correzione da tre mesi a due anni.
La disciplina della proprietà rappresenta il fulcro dell’intero codice. Dice Portalis: “La proprietà è il diritto sul quale si fondano tutte le istituzioni. E’ l’anima di tutta la legislazione perché elemento costitutivo dello stesso essere umano”.
Ricordiamo che il famoso articolo 544, tanto esaltato dalla cultura liberal-borghese dell’ Ottocento definisce la proprietà il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta. La stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 la definiva “diritto sacro ed inviolabile”: definizione riecheggiata dai lavoratori del codice.
Occorre dire però che una più attenta lettura dei lavori preparatori del codice ci dice che i giuristi napoleonici non attribuiscono alla proprietà i caratteri di un primordiale diritto naturale che lo Stato deve riconoscere. Sottolinea Portalis: “Non è nel diritto naturale che deve si devono cercare le regole della proprietà. Essa nasce dal lavoro in seno alla società. Essa è sacra e inviolabile certo, ma non concepita senza una legge la generi. Lo Stato deve garantirla e sorvegliarla. Lo Stato deve inoltre regolarla e limitarla. Il privato può disporre e godere dei suoi beni nella maniera più assoluta, purché non ne faccia un uso proibito dalle leggi o dai regolamenti.
Il codice, ostentando il mitico carattere dell’assolutezza della proprietà, intende così escludere ogni possibilità di rinascita del tradizionale regime signorile di dominio sulla terra.
Coloro i quali hanno acquistato i beni nazionali, con la Rivoluzione, a prezzi “politico” sono rassicurati: sparisce ogni ombra di precarietà dal titolo di acquisto di questi piccoli “nuovi ricchi”.
Veniamo ora alla disciplina dei contratti e al diritto delle obbligazioni.
L’art 1134 recita: “Le convenzioni legalmente formate hanno forza di legge nei confronti di coloro i quali le hanno posto in essere”. L’articolo sembra voler dire che è la volontà dei privati, e non la legge, che dà forza vincolante al contratto ed è di per sé norma per le parti e regola applicabile dal giudice. Possiamo dunque dire: è il principio che i contratti, stipulati nei termini richiesti dalla legge dello Stato, obbligano le parti a rispettare gli impegni assunti.
Il timore, però, che la labile volontà degli individui non possa garantire la sicurezza dei commerci e degli affari interni allo Stato porta il legislatore a munire i contratti della stessa forza costrittiva della legge. In poche parole: ai privati è concessa la libertà di contrarre, ma il loro impegno è reso obbligatorio dalla legge statuale. Questo è nell’intuizione dei redattori del codice, al contrario di quanto ha stipulato, l’art 1134.
L’art 1135, poi, dice che il contratto impegna i contraenti a rispettare “oltre” a ciò che essi hanno voluto, anche “tutti gli effetti che l’equità, gli usi o la legge riconnettono all’obbligazione secondo la natura di essa.
Dice il Portalis: “Il contratto può tutto, ma ci sono regole di giustizia che sono anteriori ai contratti stessi”. E’ questa la filosofia del codice: non abbandonare ai costumi e incanalare nelle leggi la volontà dei privati, perché “senza leggi, le ingiustizie non avrebbero limiti” e “il più forte detterebbe legge sul più debole”.
E’ opportuno soffermarsi su una disposizione nell’ambito della disciplina delle obbligazioni e dei contratti. E’ dettata dall’art 1138: la proprietà può essere trasferita per effetto del solo consenso manifestato dalle parti. E’il principio del consenso traslativo: il compratore acquista il diritto di proprietà dal venditore nel momento in cui si sia convenuto sul prezzo e su la cosa, quantunque non sia seguita la consegna, né sia stato pagato il prezzo (ricordiamo che in tempi lontani per trasferire la proprietà occorreva la consegna).
Durante l’ancien régime nei paesi di diritto scritto e in molti di diritto consuetudinario il passaggio di proprietà avveniva per effetto della “traditio ficta”, e cioè dando per avvenuta la consegna attraverso l’inserimento nel contratto di un’apposita clausola di spossessamento. In altre avveniva con la presa di possesso nell’antica forma dell’investitura signorile. La maggior parte della dottrina continuava a ritenere la consegna essenziale per la produzione dell’effetto reale.
Ora, invece, basta il semplice consenso. Il contratto è sufficiente a trasferire la proprietà.
Ora, cerchiamo di intuire le radici filosofiche del codice civile.
Ci si chiede come mai quasi tutti i giuristi si siano lasciati suggestionare da tali orientamenti?
I giuristi appaiono persuasi che il legislatore debba conoscere essenzialmente l’essere umano in ogni suo aspetto e dirigere le sue passioni egoistiche verso l’interesse generale. Egli deve far in modo che ogni cittadino ubbidisca alle leggi credendo di obbedire alla sua volontà. Proprio perché convinti di essere conoscitori dell’animo umano i giuristi sono persuasi di poter condizionare la condotta dei destinatari delle norme. A questo serve anche il testamento: pene e ricompense nelle mani del padre. L’interesse come il timore sono l’inizio della “saggezza”.
“E’questa l’atmosfera che si respira nel Consiglio di Stato, nel tribunato e nel Corpo legislativo. Non sono tendenze antropologiche spiritualiste”.
Sono le concezioni degli idéologues, insieme a quelle di Bentham, che fanno breccia nel pensiero dei giuristi. Ma a ben guardare l’idea che l’uomo è dominato dall’interesse e che il legislatore deve sfruttare ciò per il bene comune apparteneva anche al pensiero di Pascal e di Domat.
In conclusione, secondo il pensiero dei giuristi del Consolato e dell’Impero gli uomini sono egoisti: spetta alla legge intervenire e dirigerne al meglio il comportamento agendo su talune passioni come il “timore” e la “speranza”. Questo è il perno dei dibattiti.
Per finire ci si chiede come mai, anche se Napoleone, ad onta delle proteste di rispetto dell’autonomia contrattuale e della proprietà privata, ha perseguito una politica dirigistica di un sovrano assoluto, e il suo codice non nasce come “carta” dell’individualismo liberale, i giuristi dell’Ottocento hanno celebrato questo codice come un monumento?
Bisogna dire che il code civil, decennio dopo decennio, ha subito trasformazioni, caricandosi di sonorità liberali e umanistiche non previste dal suo autore, grazie alla sua straordinaria capacità di flessibilità. Il code civil si è effettivamente rifatto da sé, caricandosi dei contenuti culturali e dei valori sociali propri delle realtà economiche-politiche che via via gli sono divenute contemporanee.
Del resto lo aveva detto anche Napoleone a Sant’Elena: “I codici dei popoli si fanno col tempo”.
Capitolo III
Il seguito della codificazione napoleonica.
Vediamo ora il diritto penale, dal code criminel al codice del 1810.
Siamo nel 1801. I crimini dilagano e gli amministratori pubblici sono in allarme. Il Governo nomina una commissione di giuristi ed incarica loro di presentare entro agosto un progetto di codice criminale. Il testo, rifinito molte volte, vedrà la luce solo nel 1810 e sarà promulgato il 1 gennaio dell’anno dopo.
Ai giuristi il mite codice del 1791 appare oramai inutilizzabile: adesso occorre un codice che sia altamente difensivo della dilagante criminalità. Occorre intimidire e sono da reintrodurre: il taglio della mano prima che il boia li metta a morte per gli autori di efferati crimini; il marchio a fuoco; la confisca dei beni; le pene perpetue; la pena di morte per il furto aggravato.
Anche la cornice che deve accompagnare l’esecuzione dei giustiziati deve essere lugubre per terrificare chi assiste. I criminali, inoltre, saranno inumati il più vicino possibile al luogo in cui è stato commesso il crimine. Un cartello dispregiativo segnalerà la loro sepoltura.
Sparito l’umanitarismo di Beccaria, è il ritorno all’ancien régime ed il più ascoltato del momento è Bentham.
Questo il clima in cui prende il via il codice penale di Napoleone.
Target nella sua introduzione al codice dice: “La vera saggezza rispetta l’umanità, ma non le sacrifica la sicurezza pubblica”.
Le pene esemplari sono concepite quali irrinunciabili strumenti di controllo sociale.
L’uomo è egoista e d aggressivo: la legge deve o renderlo virtuoso o renderlo incapace di nuocere.
Tale progetto però viene messo da parte per quasi sette anni, sia perché Napoleone è impegnato militarmente, sia perché i giuristi sono divisi sul problema relativo alla giustizia penale.
Si riparte nel gennaio 1808. Le asprezze del vecchio progetto sono mitigate: la mutilazione solo nei confronti dei parricidi, il marchio solo in pochi casi, il corpo del giustiziato è reso alle famiglie. Vediamo ora il contenuto del codice.
Esso si struttura in quattro libri preceduti da cinque scarne disposizioni preliminari.
Nelle disposizioni preliminari troviamo sì il divieto di retroattività, espressione dell’irrinunciabile principio di legalità, ma Napoleone lo disattende. Il 3 marzo 1810, infatti, Napoleone istituisce delle nuove “Bastiglie” dove incarcerare i soggetti che si ritiene opportuno non portarli davanti ai tribunali, né lasciarli liberi. Sono arrestati non solo avversari politici, ma anche i pericolosi assolti per insufficienza di prove e tanta gente contigua alla delinquenza:prostitute, imbroglioni persone senza stato e non domiciliate.
Una disposizione si colloca perfettamente nella cornice autoritaria del codice: il tentativo è punito con la stessa pena del reato consumato.
Le sanzioni vengono distinte a seconda che il reato commesso sia un crimine, un delitto o una contravvenzione. Per i crimini sono previste pene afflittive e infamanti o solo infamanti (morte, lavori forzati, carcere , deportazione, degradazione …). Per i delitti, classificati come tali in quanto comportano una pena correzionale, le pene sono minori (prigione, sorveglianza, interdizione a tempo dei diritti civili o di famiglia…). Per le contravvenzioni sono previste la prigione (da uno a cinque giorni), l’ammenda e la confisca speciale.
“Gli uomini condannati ai lavori forzati saranno impiegati nei lavori più faticosi e trascineranno una palla al piede o saranno legati a due a due”, recita l’art 15.
Come si nota il principio della temporaneità delle pene del codice del 1791 viene abbandonato.
Il codice del 1810 , rispetto al vecchio codice, abolisce solo la cella di isolamento. Sono ridotti i casi di pena di morte ma, aumentano in modo vertiginoso quelli che prevedono i lavori forzati.
Sono abolite le pene fisse: il legislatore introduce un minimo ed un massimo edittale.
I complici di un crimine o di un delitto sono puniti con la stessa pena degli autori di questo crimine o delitto, salvi i casi in cui la legge dispone diversamente.
Passiamo ad analizzare la parte speciale.
Dalla lettura dei lavori preparatori si nota come i reati contro la “cosa pubblica” siano ritenuti i più gravi. “Tutti i delitti contro la sicurezza dello Stato sono puniti oltre che con la pena di morte anche con la confisca generale dei beni”. Inoltre, sono puniti come reati il vagabondaggio e l’accattonaggio, previsti come fatti sintomatici di pericolosità.
Difesi e tutelati la proprietà, il matrimonio civile e l’autorità del padre.
Il codice penale francese si differenzia da quello austriaco per il suo stile imperativo e per l’estrema concisione precettiva.
“Il codice penale è un patto di guerra, bisogna tremare leggendolo; bisogna che tutto sia terribile, fino allo stile impiegato per la sua redazione”.
Il problema della sicurezza sociale è allarmante: occorre riformare il codice penale, ma anche quello della procedura criminale. Dal 1802 il progetto viene lungamente rielaborato dalla sezione di legislazione del Consiglio di Stato: è promulgato il 16 dicembre 1808.
Il principale terreno di scontro concerne la giuria popolare.
Per i fautori dell’abolizione la giuria rappresenta un “elemento di disfunzione” del sistema repressivo. Anche se prima il giudizio era rimasto a lungo positivo, è col regime napoleonico che la situazione muta rapidamente. Napoleone stesso limita l’impiego della giuria, da un alto affidando la repressione dei crimini più efferati ai Tribunali speciali, sottraendoli al “jury”, dall’altro permettendo al Senato di sospendere per un periodo di cinque anni, nei dipartimenti ove ciò risulti necessario, l’attività dei giurati.
Dal 1803 la giuria è sottoposta ad aspre critiche: è l’artefice dell’impunità dei maggiori crimini. Non si possono affidare al suo giudizio le sorti dell’accusato, né tantomeno quelle della società.
Nonostante ciò, la giuria ha i suoi difensori, soprattutto fra quelli che hanno fatto parte delle assemblee rivoluzionarie. Essi replicano che i difetti della giuria sono ben compensati dai vantaggi e che l’istituto non ha potuto funzionare in condizioni di normalità. Nella giuria c’è la “certezza morale”, che pone un freno alle “intime convinzioni del giudice” entro un complesso di regole precostituite.
E’ la prima seduta: gli abolizionisti devono cedere.
L’esito di questo duro confronto si ha nel 1808. La soluzione inevitabile è quella compromissoria.
Il Consiglio di Stato dispone il mantenimento della sola giuria di giudizio, composta da cittadini estratti a sorte da una lista compilata dal prefetto, mentre le funzioni in precedenza svolte dalla giuria d’accusa vengono assunte da una Chambre de conseil (Camera di consiglio) istituita presso ciascuna corte d’appello e composta da tre magistrati togati.
Inoltre è resa stabile l’istituzione dei Tribunali speciali.
Il problema della sopravvivenza della giuria si chiude, dunque, con un accomodamento.
Ora vediamo la struttura complessiva del codice del 1808. Un codice in cui i due momenti fondamentali che scandiscono la procedura possono essere ricondotti a due modelli distinti, o addirittura contrapposti: un codice che possiamo definire “bifronte”. Una fase istruttoria ispirata ai canoni del processo inquisitorio e una fase dibattimentale caratterizzata dai requisiti propri della procedura accusatoria.
Nasce il cosiddetto “processo misto” che sarà destinato ad influenzare nell’800 e nel ‘900 larga parte degli ordinamenti processuali europei.
La fase istruttoria segna il ritorno ai modelli dell’ancien régime e più precisamente all’Ordonnance criminelle di Luigi XIV. Vediamola nel dettaglio:
- l’istruzione preparatoria è segreta e senza contraddittorio. Attivata dal pubblico ministero essa è condotta dal giudice istruttore. Questi ha facoltà di interrogare l’imputato, ma può nascondergli i fatti di cui è accusato. Interroga in segreto i testimoni senza comunicarlo all’indagato. L’indagato potrà avere copia dell’intera documentazione istruttoria solo alla prima udienza dibattimentale;
- la seconda fase è dominata dal “principio della scrittura”, nel senso che vengono verbalizzati gli interrogatori dei testimoni (la Chambre de conseil infatti delibera l’accusa in base alla sola lettura dei verbali istruttori);
- questa fase della procedura si caratterizza per l’assenza del difensore e ciò rende il testo napoleonico più severo dell’Ordonnance criminelle che, anche se in rari casi, permetteva la presenza dell’avvocato difensore.
Nella fase dibattimentale, invece, si ha la conferma delle garanzie introdotte dalla legislazione rivoluzionaria. Tornano, infatti, i caratteri del procedimento accusatorio a suo tempo delineato dalla Costituente. Il dibattimento è concepito coma la fase in cui sono tutelati i diritti dell’imputato:
- tutto si svolge all’insegna dell’oralità. Le udienze sono pubbliche a pena di nullità;
- si svolge la difesa tecnica ed il contraddittorio. Imputato e difensore introducono i testi a discolpa e possono controinterrogare quelli a carico. Replicano all’accusa e a loro è concesso il diritto all’ultima parola;
- dopo il riassunto delle questioni da parte del presidente, i 12 giurati decidono, su loro libero convincimento, inappellabilmente sul fatto, a maggioranza.
Occorre precisare però che la distinzione tra le due fasi è meno netta di quanto possa sembrare. C’è la possibilità nella fase dibattimentale di contestare ai testimoni eventuali difformità rispetto alle dichiarazioni offerte in fase istruttoria. Inoltre possono essere lette durante la fase dibattimentale le eventuali dichiarazioni rese nella fase istruttoria dagli assenti, che non sono pertanto suscettibili di verifica in contraddittorio. Tutto ciò determina un’inevitabile preponderanza della procedura scritta.
Non possiamo non parlare anche della severa disciplina della detenzione preventiva, pressoché obbligatoria per i presunti autori di crimini: è l’indebolimento delle garanzie processuali.
Fra tutti i codici napoleonici quello di procedura civile, redatto troppo in fretta, è quello meno discusso.
Nel 1790 il sistema era stato molto razionalizzato e snellito. I gradi di giurisdizione erano stati ridotti a due, era stato creato il giudice di pace ed era stato accolto l’arbitrato, visto come il mezzo più ragionevole per porre termine alle liti tra cittadini. Erano stati introdotti elementi di garanzia quali la pubblicità, la gratuità del processo e l’obbligo della motivazione della sentenza.
Nell’attesa del nuovo codice di procedura civile i Costituenti avevano deciso di mantenere in vigore l’Ordonnance civile del 1667 e i regolamenti successivi.
Il rinnovamento è sentito urgente nel 1793. Occorre necessariamente semplificare la giustizia civile: senza avvocati, il giudice che delibera in pubblico ad alta voce, termine del processo entro un mese. E’ un fallimento: è peggiore del male che vuole guarire. Il cammino verso la codificazione deve riprendere il suo cammino. Un nuovo progetto del codice è pronto nel 1797: è quello di Jean Guillemot, che però si arena.
Giungiamo così al momento napoleonico.
Nel 1800 nuovi provvedimenti reintroducono la figura dell’avvocato. Nel 1802 è istituita la commissione governativa incaricata di redigere il codice: sono quattro magistrati e un docente. Il docente, che è anche avvocato, è Pigeau.
Il lavoro della commissione viene discusso nel 1805 dal Consiglio di Stato che lo suddivide in sei leggi: il 1 gennaio 1807 il codice è promulgato.
Il codice si articola in due parti. La prima disciplina la procedura davanti ai tribunali (ripartita in cinque libri), l’altra regolamenta le procedure speciali (tre libri).
Il codice napoleonico prevede tre tipi di procedimento. Uno di fronte al giudice di pace, uno dinanzi ai giudici di primo grado e l’ultimo è quello che riguarda le procedure speciali.
Davanti al giudice di pace si svolge un processo sommario con contraddittorio delle orale delle parti. Per le materie che non sono di sua competenza, il giudice di pace funge da conciliatore tra le parti. Se non ci riesce invita le parti a farsi giudicare dagli arbitri, e se esse si rifiutano le rimette al tribunale civile.
Il processo di fronte ai tribunali inferiori ( che diventa eventualmente l’appello per le sentenza emesse dal giudice di pace) è improntato al principio della scrittura nel quale si inseriscono momenti di trattazione orale: scambio di memorie difensive scritte e arringa orale. Alla fine gli atti sono rimessi al giudice che decide (può deliberare anche senza prove). E’obbligatorio avere l’avvocato, anche se c’è la possibilità di difendersi da soli. Quest’ultima ipotesi è vietata se il tribunale si accorge che l’imputato è inesperto o poco chiaro nell’esposizione.
Le udienze sono pubbliche e le sentenze devono essere motivate.
Parliamo infine del Codice di commercio.
Occorre dire che nel momento della promulgazione del codice di commercio napoleonico, la Francia è l’unico Stato europeo che da più di un secolo ha conosciuto una vera legislazione commerciale. Basti ricordare le ordonnaces di Colbert (quella del commercio del 1673 e quella della marina del 1681) che avevano trasposto per la prima volta le consuetudini marittime e commerciali in un testo legislativo.
Occorre altresì accennare ad un tentativo di riforma dell’ordonnace du commerce avvenuto dieci anni prima della Rivoluzione, che, anche se non aveva prodotto un testo, fu preso in considerazione nella preparazione di quello del 1807.
Nel 1801 il primo progetto. Il diritto commerciale viene per la prima volta concepito in senso oggettivo: è il diritto degli atti del commercio e non il diritto dei commercianti.
Un secondo progetto è presentato nel 1803. Dopo un anno il Consiglio di Stato avvia il dibattimento che si conclude, dopo una lunga pausa, nel 1807.
Riguardo al fallimento le soluzioni legislative sono durissime nei confronti del fallito. Per lui è previsto l’arresto immediato, salva la possibilità di poter provare una sua condotta incolpevole.
Rapido invece è il dibattito sul diritto marino.
Concludendo occorre precisare che il ruolo svolto dal codice del commercio del 1807 è stato enorme, in Francia e in Europa , per almeno due terzi del XIX secolo. Non soltanto la Francia lo ha conservato dopo la caduta di Napoleone, ma anche molti Paesi che erano stati parte dell’impero francese lo hanno mantenuto dopo il 1815, come per esempio il Regno Lombardo-Veneto, la Toscana e Genova.
Sin qui il riassunto, ma consiglio vivamente una attenta lettura a ciò che segue.
Il progetto costituzionale della Repubblica napoletana del 1799
“Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male […]. Quando una costituzione non riesce, io do sempre torto al legislatore; come appunto, quando non calza bene una scarpa, do torto al calzolaio”.
Così Vincenzo Cuoco efficacemente sintetizzava il proprio giudizio sul progetto costituzionale discusso e approvato a Napoli a pochi mesi dalla proclamazione della Repubblica, il quale ricalcava in modo alquanto evidente il modello della Costituzione francese dell’anno III. La critica che il Cuoco muoveva al testo napoletano era in realtà rivolta al costituzionalismo rivoluzionario italiano nel suo complesso, i cui arteficiavevano introdotto degli ordinamenti identici a quelli sperimentati in Francia senza tenere in minimo conto le esigenze concrete delle loro popolazioni, commettendo pertanto l’errore di vedere nelle costituzioni null’altro che una sovrastruttura da imporre al popolo a proprio arbitrio, anziché concepirle quali il prodotto naturale e spontaneo della sua coscienza storica. Pertanto, pur non negando che il progetto costituzionale del Pagano fosse “migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina”, il Cuoco non poteva evitare di giudicarlo comunque “troppo francese e troppo poco napoletano”.
Tale giudizio influenzò notevolmente il modo in cui la storiografia italiana, per lungo tempo, si è accostata alle cosiddette costituzioni giacobine, a lungo considerate – senza eccezione alcuna – nulla di più che delle scolastiche imitazioni dell’originale francese e, pertanto, non meritevoli di alcun interesse specifico.
La vicenda della Repubblica napoletana, però, fu nel complesso assai dissimile da quella delle altre Repubbliche sorte nel triennio 1796-1799, soprattutto per l’attiva partecipazione dell’intellettualità locale e per il maggior grado di autonomia concesso dalle autorità politiche e militari francesi al governo. Tra i numerosi patrioti meridionali che, alla notizia della proclamazione della Repubblica napoletana, partirono immediatamente da Milano – ove avevano trovato asilo politico- alla volta della capitale meridionale, vi fu l’avvocato Francesco Mario Pagano, già docente di diritto penale all’Università di Napoli e celebrato autore di importanti saggi, il quale, giunto a Napoli il 1° febbraio del 1799,venne subito invitato dal governo provvisorio a far parte del Comitato di legislazione incaricato di redigere la Costituzione della Repubblica; compito, quest’ultimo, che di fatto sarà svolto in via esclusiva proprio dal Pagano.
Il 1° aprile 1799, Pagano diede alle stampe il progetto di Costituzione dopo aver lavorato nei due mesi precedenti a modificare le leggi borboniche. Ispirato da Filangieri e Campanella, Pagano aveva abolito i fedecommessi con i quali i patrimoni feudali passavano al primogenito senza che la proprietà possa essere divisa e diffusa in favore di tutta la società; abolì le servitù feudali, il testatico (una tassa demenziale imposta per il solo fatto di esistere attaccata da Campanella oltre due secoli prima); abolì la tortura e le carcerazioni segrete; abrogò tutte le tasse sugli alimenti popolari. Inoltre la sua riforma complessiva di tutto l’ordinamento giudiziario, previde che ogni cittadino fosse dotato di difesa legale anche non potendosi permettere un avvocato.
La Costituzione della Repubblica Partenopea doveva essere stesa da una commissione di cinque giuristi di cui fece parte anche il nostro Mario Pagano. Oggi sappiamo con certezza che il filosofo di Brienza (PZ) la scrisse interamente da solo. Il progetto costituzionale anche se ispirato al modello francese ha una propria impronta; si può dire che fosse più napoletana che francese.
La prima parte è dedicata ai diritti e doveri. A differenza della “Carta dei diritti” francese non include i soli diritti dell’uomo ma anche quelli del popolo, del cittadino e dei magistrati. I diritti sono elencati come norme legislative e non come indicazioni di tipo filosofico e morale, come in Francia. La carta dei doveri è del tutto nuova: si ispira al pensiero napoletano del Settecento (Genovesi e Gravina) e non a Robespierre il quale si rifiutò di inserire anche i doveri nella propria costituzione, per paura che potesse essere restaurata una sorta di autorità; i doveri saranno inseriti in Francia solo nel 1795. Pagano, ispirato dalla concezione del Genovesi e non da quella francese del ’95, sostiene che l’uomo in quanto portatore di istanze morali, se deve essere libero, deve farsi portatore di doveri. I doveri nascono dal principio di uguaglianza; poiché tutti gli uomini sono uguali e simili tra di loro, ciascuno deve comportarsi nei confronti dell’altro come si comporterebbe verso di sé: deve avere lo stesso senso di solidarietà e gli stessi affetti che ha verso se stesso. Sono presenti il dovere del rispetto verso l’altro, di soccorrere gli altri e nutrire i bisognosi. L’articolo 20 ci sembra quasi precursore del pensiero mazziniano: “E’ obbligato ogni uomo d’illuminare e d’istruire gli altri”. L’articolo 26 ci mostra invece il dovere dei Funzionari, dunque chi detiene il governo dello Stato: “Ogni pubblico Funzionario deve consecrare sé, i suoi talenti, la sua fortuna, e la sua vita per la conservazione e per lo vantaggio della Repubblica”. Il cittadino deve, con le proprie opere, collaborare al mantenimento dell’ordine sociale. Per questo ha obbligo di prestare servizio militare.
Sono interessanti due diritti fondamentali: quello dell’uomo a migliorarsi (art 2) e quello del cittadino ad essere premiato in proporzione ai suoi meriti (art 11).
Un altro aspetto intorno al quale è possibile ravvisare nel Progetto costituzionale napoletano il contributo originale del pensiero del Pagano è il tema dell’educazione pubblica. Difatti, mentre la Costituzione termidoriana si limitava ad occuparsi della sola “istruzione”, il titolo X del Progetto riguardava al tempo stesso la “educazione e la istruzione pubblica”. Il Pagano, pertanto, riteneva che la Repubblica dovesse dedicare tutte le sue cure al problema dell’educazione, mentre la Costituzione francese - così si legge nel Rapporto – pur non avendo negletta l’istruzione, aveva avuto riguardo più alla parte intellettuale di essa che a quella morale, cioè all’educazione vera e propria. E in altro passo il Pagano, dopo aver sostenuto l’influenza decisiva dell’educazione sulle stesse istituzioni politiche, rimproverava al Montesquieu di non aver saputo comprendere che l’educazione dovesse essere parte integrante della Costituzione. Nel Progetto, chiara è dunque la distinzione fra l’educazione pubblica - che comprendeva “esercizi ginnici e guerrieri”, lo studio del catechismo repubblicano, spettacoli teatrali volti a “promuovere lo spirito della libertà”; è peraltro da ricordare che il Pagano fu egli stesso autore di drammi patriottici), nonché delle “feste nazionali per eccitare le virtù repubblicane” - e l’istruzione che comprendeva invece lo studio di tipo nozionistico e che doveva essere impartita nelle scuole primarie e superiori. L’importanza attribuita dal Pagano all’educazione pubblica è infine testimoniata dall’avere egli indicato, nell’ambito dei doveri dell’uomo, il “dovere di istruire e gli illuminare gli altri”, ritenendo che tale dovesse essere il compito di ogni uomo colto.
Passiamo ora ad esaminare gli articoli relativi all’organizzazione dei poteri dello Stato. Nel Rapporto del Comitato di legislazione al governo provvisorio redatto dallo stesso Pagano con lo scopo d’illustrare i principi-cardine del suo progetto costituzionale, il giurista affermava che quella che la Repubblica napoletana si apprestava ad adottare era senz’altro “la costituzione della madre repubblica francese”, ma aggiungeva che il Comitato di legislazione “riflettendo che la diversità del carattere morale, le politiche circostanze e ben anche la fisica situazione delle nazioni richiedono necessariamente de’ cangiamenti nelle costituzioni […]”, aveva deciso di apportare talune modifiche alla Costituzione della “repubblica madre”, non soltanto riguardo al modo d’intendere la libertà e i diritti dei cittadini, ma anche relativamente all’organizzazione del potere.
Anche nell’organizzazione giudiziaria la Costituzione napoletana si discostava da quella francese, giacché per evitare spese e spostamenti, disponeva che gli appelli nei giudizi civili si presentassero non al tribunale di un altro dipartimento (come prevedeva il testo francese), ma a una diversa sezione dello stesso tribunale; variazione giustificata dal Pagano con l’osservazione che il sistema francese fosse “fuor di dubbio incomodo assai e dispendioso ancora ai litiganti, soprattutto ai poveri che si dovranno recare per ottenere giustizia nella centrale di un dipartimento per più giorni forse distante dal luogo della loro dimora”.
Alla preminenza data dal Pagano, come abbiamo avuto modo di osservare, all’educazione, si ricollega l’istituto della Censura, del tutto assente nella Costituzione del Direttorio.
La censura serve a prevenire gli attacchi alla democrazia e che i costumi sfarzosi non prevalgano sulla miseria e giungano ad offendere il cittadino.
L’esigenza di porre in essere degli efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione del potere, costituisce inoltre il fondamento ideologico di quella che, fra le numerose novità introdotte dal Pagano nel suo Progetto rispetto al modello francese, è forse la più politicamente rilevante: l’Eforato, organo che lo stesso Cuoco non poté fare a meno di definire “la parte più bella del Progetto del Pagano”. Tale istituto (il cui nome rievoca quello di una magistratura dell’antica Sparta) era disciplinato dal titolo XIII del Progetto al quale era stata data dal Pagano l’intitolazione di “custodia della Costituzione”
Gli efori invece devono vigilare sull’equilibrio ed il regolare funzionamento dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario; sono i garanti della Costituzione.
Al fine di svolgere equamente tale funzione di “bilancia dei poteri” è pertanto indispensabile che la carica di membro dell’Eforato sia incompatibile con qualsiasi altra funzione pubblica e che gli efori non possano in alcun modo, neanche per mezzo di delegati, esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
Fonte: http://www.studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/ITALIANO%202/Storia%20dir.%20Italiano%202%20-terza%20ed%20ultima%20parte-.doc
Autore del testo: Franco
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